INTERVISTA A JASMINE MANARI
Autrice di Rosa d’inverno
Book sprint edizioni, 2011
Intervista a cura di Lorenzo Spurio
LS: Qual è stata la genesi di questa silloge poetica? Da dove è partita l’idea di collezionare una serie di liriche sotto un unico testo?
JM: Rosa d’inverno è una silloge iniziata nel giugno 2009 e conclusa definitivamente nell’aprile 2011, anno in cui è stata stampata. L’origine della raccolta è stata un voto d’Amore e il titolo, infatti, è il nome della mia prima poesia, la stessa con cui si apre la silloge, dedicata alla persona grazie a cui ho imparato a guardarmi dentro, la persona per cui ho fatto tutto ciò che ho scritto e scrivere, oggi, è tutto ciò che mi è rimasto: la fine, dunque, è il principio nel mio caso.
LS: Nella tua silloge ci sono molte citazioni in epigrafe di autori classici e in maniera particolare mi ha colpito un frammento di Saffo e un sonetto di Shakespeare. Quanto sono importanti secondo te questi due scrittori? Perché?
JM: Ritengo ambedue i poeti mie fondamentali fonti d’ispirazione: essi non parlano degli artificiosi atteggiamenti dell’Amore ma di quell’Amore che sconvolge una vita, più repentino d’un battito d’ali e più profondo dell’oblio. In primo luogo, tengo a dissolvere l’idea di Saffo come emblema dell’Amore omosessuale poiché quando si tratta d’Amore, come afferma Benigni, tutto diventa grande, finisce la mediocrità e il solo fatto di classificarlo non può che svilirne l’importanza agli occhi del mondo sebbene la sua essenza rimanga intatta. E quando parlo d’essenza intendo le radici inconfondibili che germogliano in ogni individuo, sia esso uomo o donna: questo non conta poiché nessuno può fare a meno di nominare Amore, sia pure soltanto per denigrarlo. Lo stesso William Shakespeare, il sommo scrittore decantato come indiscusso poeta dell’Amore, scrisse una silloge di ben 154 sonetti, dedicando i primi 126 ad un giovane di cui si conoscono le iniziali (Sir W. H), il suo fair youth e soltanto i restanti 28 li compose per la più citata dark lady, una donna di cui il poeta evidenziava spesso gli aspetti negativi (si ricordi, a tal proposito, il sonetto 130 “My Mistress’ eyes are nothing like the Sun”) mentre, per il suo primo destinatario, compose il celebre sonetto 18 con cui consacrava eternamente il giovane in virtù del suo Amore infinito e indefinibile: “Devo paragonarti a una giornata d’estate?”. Dunque, per rispondere alla domanda, l’importanza dei due poeti risiede nel modo limpido e atavico con cui entrambi parlano del proprio sentimento che coincide con l’esistenza ed è immortale. E, comprendendo questo, chi potrebbe avere la presunzione di definire omosessuale il poeta dell’Amore?
LS: Il titolo della silloge, Rosa d’inverno, è in realtà il titolo di una delle tante poesie contenute nella raccolta. Perché hai scelto proprio questa come titolo dell’intero libro?
JM: Come dicevo prima, la fine è il mio principio. Appena ho concluso la mia prima poesia dal titolo “Rosa d’inverno”, non ho più smesso di scrivere. Pasolini riteneva che la scrittura avesse un valore esistenzialistico e io condivido questa sua opinione: il bisogno di esprimersi, la tendenza a esporre il proprio pensiero equivale, per uno scrittore, a riconoscere la propria esistenza trovandole un senso nell’assoluto non senso della vita. Si può dire, pertanto, che Rosa d’inverno sia il nome di battesimo del mio essere scrittrice, il nome proprio che io attribuisco alla scrittura.
LS: C’è una poesia alla quale sei legata in maniera particolare? Perché?
JM: Premettendo che ogni componimento contenuto in Rosa d’inverno non è soltanto un esperimento semantico, un abile gioco con le parole come pure è stato definito, ma una realtà che ha toccato le corde più intime della mia sensibilità, posso dire che una delle tante poesie che ancora oggi rileggo, nonostante le ricordi tutte per il mio modo, (ammetto maniacale) di ricercare la scorrevolezza e la fluidità del verso nella musicalità delle parole, è “I passeggiatori di cani”. Il tema ivi contenuto è quello dello scontro generazionale giovani – adulti: ho cercato di trasmettere quel senso di assoluto che domina nel ragazzo sin da “cucciolo”, quando è ancora ben tenuto al guinzaglio. Egli odia quella catena poiché rappresenta il compromesso dell’età adulta a cui è costretto e, dunque, si trova fra due antipodi: combattere fino in fondo per ciò in cui crede senza lasciarsi guidare verso la strada della ragionevolezza che è soltanto una scorciatoia per le future e mondane convenzioni, oppure cedervi imparando a vedere “il boccale mezzo pieno e mezzo vuoto” e, accogliendo ipocrisie e buona creanza, divenire l’adulto che prima tanto criticava e disprezzava. Per rimanere giovani, dunque, spezzando questa catena di accordi, bisogna considerare il modo in cui ci si approccia alle idee: con coerenza, senza negare che esistono le famose sfumature, ma ricordando sempre che la decisione è comunque una e può essere o bianca o nera. Il giovane questa logica dell’assoluto l’impara, ed è il momento in cui è più ostile al mondo degli adulti, e poi la disimpara proprio perché è costretto ad accedere a quel mondo, dolorosamente o meno, dipende dalla sensibilità di ognuno (perchè di certo c’è chi la considera, con pacata accettazione, solo un’utilità).
LS: Nella raccolta sono riscontrabili facilmente alcuni temi dominanti che tu proponi e riproponi sotto varie vesti e cornici, senza finire per essere banale né ripetitiva. Uno di questi è il tema dell’infanzia. Come mai molte delle tue liriche più che proiettarsi in un futuro prossimo o inconoscibile guardano invece, quasi in maniera conservatrice e nostalgica, verso il passato?
JM: L’infanzia è la stagione dell’incoscienza: il passato, come ho scritto in una delle mie poesie, si muove. Molti s’impongono di non guardarsi più indietro, addirittura di provare indifferenza per ciò che è stato ma non è più, io invece ritengo che il passato ci accompagni e noi, per andare avanti, fingiamo di non vederlo ma non ci è indifferente: lo consideriamo inesistente o, per lo più, un fantasma insonne che non trova pace e, dunque, gli dobbiamo indifferenza perché non dia fastidio. Dell’infanzia, il passato più remoto a cui posso rivolgermi data la mia giovane età, rimpiango la schiettezza e la spontaneità e, come ho detto prima, l’incoscienza: il bambino, quando qualcosa lo infastidisce, si ribella apertamente, non fa “finta di niente”. Per quanto concerne il futuro, invece, lo considero come l’alter ego del presente: abbiamo un’infinità di alternative frutto di un continuo decidere e non dobbiamo, a mio avviso, chiederci come andrà domani; mentre scrivevo Rosa d’inverno dicevo che sarebbe stata pubblicata ma questo non lo consideravo parte del futuro: era una meta raggiunta ogni giorno nel continuo scorrere del mio presente.
LS: Quanto di autobiografico c’è in queste poesie?
JM: Ogni componimento è autobiografico, anche quello socialmente impegnato. Tutto ciò che è stato scritto è accaduto: questo è stato il mio modo di non dimenticare e, in un certo senso, come afferma Audrey Hepburn, di guarire dalla medicina.
LS: A conclusione della raccolta c’è un consistente brano in cui abbandoni il metro poetico per meglio adattare i tuoi pensieri che vertono principalmente sul difficile raggiungimento della felicità umana. In quest’affascinante percorso esistenzialista connetti spesso la felicità alla pace come ad affermare che se manca una delle due, viene a mancare necessariamente anche l’altra. E’ così? Potresti spiegare meglio questo tuo pensiero?
JM: Ne “La felicità in un palazzo di cristallo” ho parlato della ricerca continua dell’uomo dello stadio più alto del proprio essere, ossia la felicità e, allo stesso tempo, il suo perenne bisogno di pace; tuttavia, riconoscendo la felicità quale ossessione umana per eccellenza, ho messo in evidenza quanto sia vero che l’uomo non possa trovare pace nel suo perenne cercare: infatti, ho scritto «(…) la pace non è per l’uomo che non è destinato né all’eternità né al riposo: tutto ciò che gli spetta è una tregua di tanto in tanto, ma la pace non lo riguarda affatto poiché l’uomo vive tormentato ed è proprio la felicità la sua ossessione». Finchè l’uomo non trova pace, è convinto di non aver trovato neppure la felicità; io, invece, ritengo che la felicità consista nel raggiungere il nostro punto più alto, accettando anche di doverlo abbandonare: è un continuo movimento che riguarda il nostro modo di vivere la vita come un’infinita ricerca, invece “la pace” che spetta all’uomo consiste in una tregua fugace nel momento stesso in cui arriva allo stadio più alto per cui ha lottato. Ricominciando a cercare, quindi, prosegue il percorso che la felicità ha tracciato. «(…) è possibile? Perdere e realizzare di esserne stati fieri? Dipende dagli occhi di chi guarda. Per questo la felicità è per chi di noi sa trovarla, per chi trova il punto in cui guardare, non necessariamente il punto per eccellenza. Un qualche punto: il nostro».
LS: La tua poesia fa ampio utilizzo di immagini ossimoriche, antipodali, contrastanti, che si basano su di una serie di opposti: chiaro-scuro, memoria-oblio, solo per citarne alcuni. Come mai quando parli di un elemento spesso ti senti quasi “in obbligo” di chiamare in causa anche il suo esatto contrario?
JM: La risposta di fondo è che l’Amore, di per sé, è neutrale. È un essere androgino: non semplicemente un punto d’arrivo fra gli opposti, ma entrambi gli opposti condensati in uno soltanto. L’esistenza di un elemento, secondo la legge dei contrari, determina l’esistenza del suo opposto ed è da ciò che nasce l’armonia. Amore è armonia e coincide con l’individuo che, da sé, è una contraddizione vivente. Fondamentale, riguardo l’esistenza degli opposti, è che fra loro sono interscambiabili e, dunque, nessuno al mondo può dire di essere una cosa soltanto, sebbene tutto il suo essere si riassuma in un solo corpo. Lo stesso Shakespeare, inoltre, definisce Amore attraverso gli ossimori “lucido fumo”, “gelido fuoco”, “insonne dormire”, “pesante leggerezza” e molti altri; così, considerando che per ogni elemento esiste il suo contrario, s’impara a mio avviso anche ad accettare la diversità.
LS: Quali autori della letteratura classica e contemporanea (sia poeti che romanzieri) ti affascinano di più? Perché?
JM: Per quanto concerne la letteratura classica, Saffo e Catullo sono i poeti che mi affascinano maggiormente, sono quelli che ho avuto modo di studiare quest’anno e, in particolare Saffo, rimane l’autrice con cui mi identifico di più: in primo luogo poiché si tratta di una poetessa dall’animo forte e dirompente e in secondo luogo perché la sua travolgente espressività riesce a dar voce al proprio dissidio interiore, a discernere ogni emozione e sensazione provata nel momento dell’incontro con la persona amata: infatti, “A me pare uguale agli dei”, è un componimento in grado di spogliare il lettore dalla scialba veste del pudore per metterlo di fronte a se stesso, come se potesse osservarsi nel momento in cui guarda la persona che Ama, dovendo ammettere che quelli che prova sono i sintomi di un morbo che, in altra sede, Saffo definisce “dolce amara invincibile belva”. Altri due poeti a cui sono legata appartengono all’età definita “Maledettismo” in Italia che, in sostanza, coincide con il secolo del Romanticismo: si tratta di Charles Baudelaire e, primo fra tutti, Arthur Rimbaud; di quest’ultimo venero la ribellione contro tutto il prestabilito e la volontà di gridare al mondo la propria esistenza marcando l’impronta. Ciò che mi colpisce è che la sua straordinaria produzione poetica abbraccia l’età dell’assoluto: l’adolescenza ed egli non se ne separa mai, continua a vivere al massimo grado ogni esperienza attraverso il suo “lungo, immenso e ragionato “sregolamento” di tutti i sensi”. La poesia, come è evidente, conquista il mio interesse ma ciò non sminuisce l’attenzione che rivolgo al romanzo o al racconto: difatti, apprezzo la letteratura ottocentesca, quella di Goethe e Hugo, e m’innamoro delle opere di Oscar Wilde, catturata soprattutto dalle sue vicende personali. In sintesi, posso affermare che degli scrittori sopra citati mi appassionano l’abilità semantica e quella di fare in modo che il lettore assapori la dolcezza della parola regalandogli immagini coronate dal filtro dell’emozione, altresì mi affascina la loro esperienza di vita poiché scrivere non è mai soltanto un gioco di parole.
LS: Attualmente stai continuando a scrivere delle liriche e hai qualche altro progetto in mente per il futuro? Se sì, puoi anticipare qualcosa?
JM: La mia intenzione è quella di scrivere un racconto trattando de “Il gioco del fuoco” partendo da un aforisma di Oscar Wilde. Considero diversamente l’argomento dimostrando, attraverso la narrazione, che non c’è modo di evitare questo gioco, che, in un certo senso, si è costretti a giocare. Voglio parlare di un ragazzo, capace di far “rimbalzare” i sentimenti su se stesso, contemporaneamente, per non accorgersi di uno più di un altro e, dunque, continuare il suo gioco. Si parla sempre del disadattato sociale e, per lo più, con commiserazione o pietà. Io voglio parlare del ragazzo che da disadattato diviene adattato, anzi del troppo adattato che, tuttavia, prende tale scelta consapevole del motivo profondo che lo spinge a tutto questo e che lo lega inevitabilmente al disadattato sociale che tanto biasima: la necessità di sfuggire al dolore, il desiderio di felicità che, così fragile, si affida alla contentezza.
Ringrazio Jasmine Manari che mi ha concesso questa intervista.
Lorenzo Spurio
13 Luglio 2011
E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO-INTERVISTA SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE
ho letto con molto interesse l’intervista e desidero rivolgerti un pensiero pieno di ammirazione e di tenerezza per la splendida ragazza che sei. un bacione e tanti sinceri complimenti.
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Potrà fare, forse, piacere a Jasmine Manari questa mia recensione, che in forma più concisa ho inviato alla redazione de ilmiolibro.it. Un saluto cordiale.
Paolo Gentili
Ancora vive nei ricordi/ e così in eterno/ quel che di un bacio fu purezza/ vivida rosa d’inverno…la prima poesia dà il titolo alla lunga raccolta, la cui raffinata complessità stupisce in un’adolescente quale è Jasmine Munari, e la rende meritevole, a mio avviso, dell’esame attento di critici ben più penetranti ed esperti del sottoscritto. La sopra citata chiusa è uno splendido esempio di un linguaggio artistico fatto di cortocircuiti verbali la cui logica non è quella del principio di non contraddizione, ma al contrario quella dell’inconscio, dove A=B=A. Il linguaggio (la via all’essere di Heidegger) coltissimo e fortemente creativo della poetessa, mi ha fatto a momenti pensare, nella sua follia (che è la matrice vera della poesia) alla lingua allucinata e stravolta di una grande poetessa italiana ( con ottima conoscenza della lingua inglese, come tale pare essere anche Jasmine, che propone alcune delle sue intensissime liriche anche in versione inglese). Parlo di Amelia Rosselli scomparsa suicida allo scorcio del secolo passato. Ebbene nella Munari ritrovo una simile violenza creativa del linguaggio, una simile distorsione folgorante della frase corrente, un simile scarto dell’amplissimo (da cletica a puttana) registro lessicale rispetto alla norma, una simile ricchezza della metafora, quasi sempre originalissima e di sorprendente forza rappresentativa, un simile uso personale e quanto mai efficace della sintassi, per esempio nell’abolizione dell’articolo quando lo richiede uno scatto creativo di senso. Un esempio semplice: prendiamo in “Bambina” (pag.23) l’espressione sopisce la pace : la si direbbe una tautologia, ma tale, con l’uso intransitivo del verbo sopire, non è, e consegue invece un misterioso supplemento di significato che è poesia. La logica illogica della scrittura di Jasmine Munari è, dunque, trasgressione poetica che rompe le convenzioni e i riti stantii del linguaggio “adulto-borghese”: è lo strumento di lotta di una creatura umana che vuole mantenere indenne, e continuamente creare proteggere la propria identità “bambina” contro la sclerosi sclerotizzante di un mondo –quello degli adulti ed aspiranti tali- fatto di statue d’indifferenza, di passeggiatori di cani , di maestri che spiazzano guardando/ sparvieri/ uno che sbaglia e continua a sbagliare… , di benpensanti cioè che non capiscono come una rosa e un girasole possano crescere insieme. Si tratta di gente che ha perduto la forza vitale del bimbo non ancora piegato e addomesticato dalle regolette-camicia di forza di una società insopportabile, che insopportabilmente ci dice quel che è bene e quel che è male anche nell’amicizia, nell’arte, nell’amore e nella morte (peno al trattato del ribelle di Ernest Jüngher). Ebbene a tutto questo Jasmine si ribella: e lei è Rivoluzionaria (è il titolo di una poesia) in modo solitario e nobilmente anarchico: la sua fede nella vita e nell’Amore (scritto sempre con la maiuscola) non conosce regole, né leggi: è libertà assoluta, che non è arbitrio, ma assoluta forza morale. J. ama con tutta l’anima una donna (da L’indifferente, pag.97: Eppure è così evidente ciò che vi ripugna/, atei o credenti fa lo stesso: che io ami una donna.): e nella proclamazione del suo non facile amore il disincanto è solo apparente: in realtà è lotta strenua per difendere il proprio incanto rispetto alla vita, alla costruzione morale di sé, alla libertà del proprio modo di amare . Cito ancora da Indifferente: Ma sola, infelice o come vogliate/ credermi, ho imparato/ che appoggiarsi agli altri è/ il primo passo per colare a picco e non/ con una ciurma di guerrieri che spronano le vele/e si scaglianoi controvento sulla marea alta/ ma come uno stormo di piccioni, grigiastri e neri, pronti a beccare/lì per caso, per errore/o vanto di pietà. Tra essere e credere…c’è un ponte distrutto/ e l’onesto, in fondo, non è altro che/un pover’uomo che si china più d’un altro. Quanto forte è la capacità di J. di decostruire i falsi valori di un mondo che vorrebbe soffocare lei e gli spiriti liberi come lei; quanto lucida è la coscienza di come quel mondo rischia di ridurla (Se sono un verme che si dimena appeso ad un amo…), tanto è netta la sua scelta morale in difesa della propria autenticità. E Jasmine scrive in Subconscio, pag.85 : Non è questione di educazione,/ né di morale, solo/ d’identità. Senza identità, educazione e morale non sono valori ma una banale convenzione e tutti fanno a gara per vedere/chi sarà il primo ad infrangere le regole. Un diritto che dovrebbe essere garantito ad ogni essere umano quello della ricerca della propria autenticità. Ma troppi e troppo forti sono i Poteri che vogliono il contrario. Ostile purtroppo non è solo la società: per certi aspetti lo è la stessa esistenza (vedi la tragica e breve Alzheimer, pag.93). Questo è il dramma non privato ma universalmente umano che Jasmine Munari rappresenta e denuncia nella sua “Rosa d’inverno” con risultati, secondo me, di assoluta rilevanza poetica.
Paolo Gentili
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credo che le farà sicuramente piacere e, comunque, sono a rigirargliela per mezzo posta.
Grazie per l’attenzione e per la lettura del blog
Lorenzo Spurio
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