Giorno: 10 Giu 2014
Lorenzo Spurio intervista il poeta Dante Maffia
LS: Ogni poeta ha un particolare legame con l’atto di scrittura, con le fonti della sua inspirazione e la “poeticizzazione” delle esperienze da lui vissute direttamente, perché in fondo la poesia è il genere più intimo e quello più appropriato per descrivere i propri drammi, le proprie debolezze o disagi o, al contrario, le proprie inclinazioni, passioni e sensazioni. Per Lei che cosa rappresenta la poesia, sia nell’accezione generale del termine che nel suo caso specifico di poeta ampiamente riconosciuto? Secondo Lei, quale è la funzione principale per cui essa tra passato, presente e futuro, continuerà ad appassionare e a “far confessare” gli animi sensibili?
DM: Per me la poesia rappresenta la fede e anche un atto dovuto all’eventuale lettore. Non so comunque se si tratta di “far confessare gli animi sensibili”, vedo il poeta piuttosto come un uomo capace di comprendere anche le contraddizioni e comprendere le voci del mistero. In questo senso, come diceva Nelo Risi, “il poeta è un supremo realista”.
LS: Sebbene Lei viva da molti anni a Roma, la sua terra d’origine, la Calabria, è vivissima in Lei sia per mezzo di un particolareggiato studio della letteratura calabrese e la produzione di un’ampia attività poetica in vernacolo, sia per mezzo di sue frequenti partecipazioni a conferenze e giornate culturali organizzate nella sua regione. La sua opera Papaciòmme, ad esempio, rivela questa volontà dell’io lirico di “calabresizzarsi” sia per ricordare momenti e ambienti cari alla sua esperienza con quella terra, sia per “dar voce” alle persone del piccolo centro dello Jonio e con la rappresentazione di farli vivere per donargli una sorta di immortalità. Sono in questo senso dei validissimi affreschi della varietà locale che danno spazio alla componente popolare e subalterna di quelle genti. Quanto è importante secondo Lei la letteratura dialettale e quali sono le principali ragioni per le quali viene oggigiorno considerata, in via generale, una letteratura di serie B?
DM: Negli anni ‘70 e ‘80 si è discusso moltissimo di poesia in dialetto, sottolineando in dialetto rispetto a poesia vernacolare e poesia dialettale. Aveva cominciato Mario Sansone e hanno poi proseguito Titta Rosa, Ravegnani e Giacinto Spagnoletti. Questioni sottili, perfino arzigogolate, perché in genere chi adoperava il dialetto lo faceva per scolpire quadretti, descrivere scene di paese, dare voce ai grumi sociologici e antropologici delle comunità rurali o dei quartieri periferici delle città. E questa era senza dubbio versificazione e neppure poesia di serie B. Personalmente credo che non sarà mai il codice utilizzato a produrre poesia, tanto è vero che Sgruttendio, Basile, Porta, Padula, Belli, Di Giacomo, Giotti, per fare alcuni nomi, pur esprimendosi in napoletano, in milanese, in veneto, in romanesco e in calabrese hanno realizzato grande poesia. Non volevo assolutamente “dar voce alle persone del piccolo centro dello Jonio”, ero stanco un po’ del codice della lingua italiana e avevo bisogno di mutare registro e poiché conosco meglio la lingua del mio paese, più del greco, del latino e dell’inglese, me ne sono servito. Tutto qui. Ma con le intenzioni (alcuni dicono che ci sono riuscito, come Tullio De Mauro, Angelo Stella, Claudio Magris) di scrivere poesia senza aggettivazioni e connotazioni limitate.
LS: Ho notato nella Sua poetica un continuo riferirsi alla natura, sia animale che vegetale, quasi che è difficile trovare una lirica dove non ci sia un animale, un fiore, un verso, il vento che lambisce le foglie. Ho pensato che l’attenzione e la varietà con cui intesse le sue poesie di questo sentimento panico abbia a che fare con il suo profondo legame con la terra natia, una zona certamente florida sotto questo punto di vista e ricca di varietà di ecosistemi. In maniera particolare ho notato la presenza di due specie che ritornano spesso: per la specie animale è il geco, mentre per la specie vegetale è la ginestra. Potrebbe dirci il perché e spiegarci il significato che attribuisce a queste due forme vitali?
DM: I gechi mi hanno fatto compagnia fin da quando ero bambino. C’erano alcuni muri ciechi, al mio paese, che certe sere erano tappezzati di questi animali. E si faceva addirittura (i bambini sono feroci) il tirassegno con le fionde. Dunque erano presenze quotidiane alle quali si attribuivano molte dicerie, perfino leggende. Di conseguenza fanno parte di un armamentario consueto, della mia immaginazione. Le ginestre, con il loro scoppio giallo, ravvivavano il paesaggio brullo e portavano la primavera. La festa del colore mi esaltava. Quando ho utilizzato (spesso, come lei ha notato) il geco e la ginestra non mi ero proposto nessuna particolare metafora, erano presenze interiorizzate. Poi Leopardi mi illuminò.
LS: Nel corso degli anni ha avuto l’occasione di conoscere grandi esponenti della letteratura italiana e internazionale e di collaborare a vario titolo con loro. Tra i vari nomi noto ad esempio Calvino, Moravia, Alda Merini e tanti altri. I suoi esordi furono inaugurati da una silloge di poesia dal titolo Il leone non mangia l’erba che venne prefata da Aldo Palazzeschi definito da Enrico Ghidetti “il patriarca delle avanguardie novecentesche”[1] e di certo si ravvisa un chiaro “palazzeschismo” in molte delle sue liriche più camaleontiche ed elettriche come pure in quelle che cercano di definire la figura del poeta nella società: lei scrive, infatti, “E non continuate a domandarmi chi sono”[2] che tanto riecheggia i versi iniziali[3] della poesia “Chi sono?” del famoso poeta futurista. Può condividere con noi qualcosa sulla conoscenza, il rapporto professionale e amicale con Palazzeschi e ricordarci quali furono le principali ragioni del suo “avallo letterario”?
DM: Non so se io sia palazzeschiano o gozzaniano (ho notato, negli anni, che i critici in genere attribuiscono qualità simili (pascoliano, montaliano, petrarchesco, eccetera) a seconda delle loro letture personali e quasi mai su dati obiettivi, su indagini verificate a tutto tondo. Io eviterei quelle che Tommaso Campanella chiamava i madornali abbagli dei filologi che si fermano a discutere su una parola, un’espressione, un aggettivo. Tutti i poeti, di tutti i tempi e di tutti i paesi del mondo, si sono continuamente fatti la domanda “Chi sono?”. E’ importante la risposta che si sono dati. Quanto alle ragioni dell’avallo di Palazzeschi ho poco da dire poco. Gli portai un mannello di versi che avevo intenzione di pubblicare e gli chiesi di scriverne. Mi disse che l’avrebbe fatto solo se si fosse convinto del loro valore. La prefazione c’è. Tutto qui.
LS: La poetessa americana Sylvia Plath (1932-1963), considerata assieme ad Anne Sexton (1928-1974) e Robert Lowell (1917-1977), un’esponente di spicco della cosiddetta “poesia confessionale” diffusasi nella prima metà del ‘900, rappresentò di certo una grande penna che, però, per il suo tempo fu probabilmente incompresa e addirittura snobbata. Lo sviluppo della psicanalisi prima e dei vari studi di settore poi, negli anni diedero modo alle persone depresse –considerate fino ad allora affette da un male invisibile, dunque inesistente- di intraprendere un percorso terapeutico di analisi volto al rafforzamento del proprio sé cosciente. Le poesie della Plath ancora oggi vengono assunte come preghiere strozzate formate da versi dove si susseguono parole apparentemente astruse e scollegate, delle implicite richieste d’aiuto e come manifestazione concreta di quel mal di vivere fatto di apatia, desolazione e depressione, di cui il secolo scorso fu concausa. Di seguito Le propongo la poesia “Paralitico”[4] di Sylvia Plath, sulla quale sono a chiederLe un suo commento personale.
Succede. Continuerà? — Il mio cervello una pietra, senza dita per afferrare, senza lingua, il mio dio il polmone d’acciaio che mi ama, pompa i miei due sacchetti di polvere dentro e fuori, non mi consente ricadute mentre fuori il giorno scorre via come nastro perforato. La notte porta violette, arazzi d’occhi, lui, le anonime voci sommesse: “Tutto bene?”. L’inaccessibile seno inamidato. Uovo morto, giaccio Intero Su un intero mondo che non posso toccare, al bianco, teso tamburo del mio giaciglio mi vengono a trovare le fotografie —- mia moglie, morta e piatta, in pellicce anni ’20, la bocca piena di perle, due ragazze, piatte come lei, che bisbigliano: “Siamo le tue figlie”. Le acque ferme mi avvolgono le lebbra, gli occhi, il naso, le orecchie cellophane trasparente che non posso spezzare. Disteso sulla schiena nuda sorriso, un buddha, tutti i bisogni, i desideri mi cadono di dosso come anelli stretti alle loro luci. L’artiglio della magnolia, ebbra dei suoi profumi, non chiede nulla alla vita.
DM: Evito sempre di commentare una singola poesia, a meno che non debba fare una lezione di carattere tecnico. I poeti mi interessano nella loro globalità, non in particole, e dunque non mi sento di azzardare un discorso per sineddoche. Sarebbe come descrivere una donna di cui si è magari innamorati soffermandosi soltanto sulle sue braccia o sui suoi capelli. Mi dispiace, io le donne le guardo nel loro insieme, nel portamento, nel loro atteggiamento e poi scendo ai dettagli. Non credo che in una breve intervista ci sia lo spazio per un’analisi vasta e particolareggiata. La Plath è una grande poetessa e non va sciupata misurando la sua metrica, il suo stile, il suo contenuto riferiti a un solo testo. Le farei un torto e lo farei a chi mi legge, anche perché la lirica è in traduzione. Dico soltanto che si tratta di una bella lirica, sofferta e coinvolgente, specchio di una condizione umana vissuta con dolore e visionarietà.
LS: L’idea di questa intervista è quella di poter diffondere le varie interpretazioni sulla Poesia e in questo percorso ho ritenuto interessante proporre a ciascun poeta il commento di due liriche di cui la prima è di un poeta contemporaneo vivente e ampiamente riconosciuto dalla comunità letteraria e un’altra di un poeta contemporaneo, esordiente o con vari lavori già pubblicati, per consentire l’articolazione anche di una sorta di dibattito tra poeti diversi, per esperienza, età, provenienza geografica, etc. e di creare una polifonia di voci e di interpretazioni su alcune poesie appositamente scelte. La prima che Le propongo è della sua corregionale Fausta Genziana Le Piane[5]. La poetessa si è occupata attivamente anche di letteratura francese, narrativa breve, critica d’arte e giornalismo e di letteratura calabrese come testimonia la sua opera Artisti calabresi a confronto (Carta e Penna, 2009). La poesia che Le propongo in lettura per un commento è intitolata “Resta, poeta”[6]:
Rimani parola scritta ed essenza divina. Resta senza voce né sguardo senza fine né limite. Poeta cavalca con me sul dorso del falco smeriglio, imprimi la silenziosa notte di versi vagabondi che, emersi dalla nebbia, hanno aspetto di isole su un mare lattiginoso. Poeta visita con me antiche brughiere, per scoprire nuovi sentieri e creare nuovi paesi.
DM: Conosco molto bene la poesia di Fausta Genziana Le Piane, poetessa che stimo molto per la sua serietà, per il suo impegno, per la passione che mette in ogni sua azione, per la generosità che, fuori da egoismi, si prodiga per far conoscere e valorizzare gli altri. Un raro esempio di altruismo in un mondo sempre più chiuso e ferocemente attaccato al proprio io. Ho una raccolta di oltre seicento testi di poeti sulla poesia, sul poeta, sulla parola e questo di Fausta è tra questi perché ha saputo definire il poeta con molta originalità andando a scavare nel profondo dell’anima, soprattutto attuando una vera e propria preghiera in versi che invita chi scrive a uscire dai soliti confini e d’affacciarsi sul mondo “per scoprire nuovi sentieri / e creare nuovi paesi”. Ecco, il poeta deve portare verso il futuro e Fausta ha saputo dirlo con estrema dolcezza e con semplice ma determinata forza.
LS: Di seguito, invece, Le propongo una poesia del poeta fiorentino Massimo Acciai[7] intitolata “L’onda anomala”[8] sulla quale sono a chiederLe un commento:
Da bambino la sognai la desiderai la contemplai simile alle onde innocenti ma smisurata capace di spazzar via in un istante questa noia infinita.