Trattamento automatico del linguaggio e fantascienza

Trattamento automatico del linguaggio e fantascienza

Le macchine parlanti tra realtà e fantascienza: la conquista del pensiero e della parola

di MASSIMO ACCIAI

E’ un antico desiderio dell’uomo quello di far lavorare la macchina al suo posto; da qui la creazione, a partire da tempi remoti, di macchine a cui affidare compiti prima svolti manualmente. La fantascienza esprime bene questo desiderio. La fantascienza è essenzialmente immaginazione, ed è dall’immaginazione che nascono le nuove tecnologie e le nuove macchine: macchine sempre più simili all’uomo nella capacità di ragionamento. L’uomo cerca di costruire macchine in grado di “parlare” e quindi di “pensare” comprendendo le sottili meccaniche del linguaggio umano: la molto discussa A.I., “Artificial Intelligence”, ossia “Intelligenza artificiale”. La fantascienza rappresenta l’obiettivo a cui tende la “linguistica computazionale”, branca dell’A.I., e prefigura ciò che potrebbe essere domani: cinema e letteratura hanno spesso un forte valore profetico. Non è dunque un caso che il tema della “macchina pensante e parlante” sia così ricorrente nella narrativa e nel cinema fantascientifico, a partire dagli albori del genere (e si può dire quasi dagli albori del cinema): dai robot più o meno antropomorfi ai supercomputer, il tema si sviluppa attraverso tutto il secolo appena trascorso.

La conquista del pensiero e della parola da parte della macchina è ben esemplificata dal celebre HAL 9000 in 2001, Odissea nello spazio (romanzo e film sono entrambi del 1968). Il complesso computer superintelligente, con un alto concetto di sè, parla agli astronauti della missione verso Giove con una voce fluida e molto umana, anche se si avverte una certa affettazione, un’enfasi che la rende inevitabilmente artificiale. La macchina ragiona, comprende ciò che gli viene detto – non attraverso la tastiera o le schede perforate ma con comandi vocali – e risponde a tono. Ottimisticamente la “profezia” rimanda all’inizio del ventunesimo secolo, il 2001 appunto, la realizzazione di tale meraviglia cibernetica, obiettivo evidentemente ancora molto lontano; HAL riassume in modo efficace le speranze e gli obiettivi dei ricercatori sul trattamento automatico del linguaggio o TAL.

HAL ha avuto molti “discendenti” illustri nella fantascienza successiva, tutti dotati di parola; basti pensare all’inquietante “Mater” di Alien (1979) o a V’ger nel primo film tratto dalla saga di Star Trek, datato 1982.

Non possiamo dimenticare tuttavia gli androidi, robot dall’aspetto umano; ricordiamo il simpatico robot protocollare 3PO della saga di Guerre stellari (la saga è iniziata nel 1977), in grado di comprendere migliaia di lingue galattiche oltre ai suoni elettronici con cui si esprime la sua controparte C1-P8. 3PO parla con una voce meccanica ma estremamente umana, per certi aspetti più umana della voce di HAL. I celebri robot di Isaac Asimov, con i loro cervelli positronici, hanno fatto scuola in tal senso: è da notare che i robot hanno cominciato a “parlare” ben prima dei computer, ancora muti nella fantascienza degli anni ’50 e ’60, più o meno fino a 2001, Odissea nello spazio, anche se già nel 1951 Ray Bradbury, nelle sue Cronache Marziane, immaginava una vera e propria casa parlante, in cui un computer centrale riceve comandi vocali e dà informazioni a voce agli occupanti.

Se i computer parlanti e i robot intelligenti sono una realtà ormai acquisita e quotidiana nella fantascienza più recente, non meno lo sono i traduttori automatici simultanei, piccoli apparecchi portatili in grado di tradurre fedelmente un discorso da una lingua all’altra. Il traduttore automatico così descritto ricorre spesso nel cinema, soprattutto in una situazione propriamente fantascientifica quale l’incontro tra uomo e alieno. Potremo stilare una lunga lista, pensiamo almeno a Mars Attacks! (1996) e a Men In Black – MIB (1997). Si tratta di una branca specifica del più ampio argomento del trattamento automatico del linguaggio, area in cui sono stati fatti molti passi avanti negli ultimi anni, basti pensare a PeTra, un software in grado di tradurre automaticamente un documento nella sua unità, comprendendo la relazione semantica e grammaticale tra le parole che lo compongono. Si tratta di un’evoluzione che ci avvicina di più all’ideale fissato (ancora) dalla fantascienza rispetto ai traduttori gratuiti online quali Babelfish (il programma di traduzione integrato nel noto motore di ricerca americano Altavista); a questo proposito è interessante notare che il nome “Babelfish” non è casuale; gli ideatori si sono ispirati al noto romanzo fantascientifico di Douglas Adams, La guida galattica per gli autostoppisti (1979) in cui persone e alieni riescono a comunicare tra loro grazie a un pesce traduttore (babelfish) inserito nell’orecchio: una storia che certo colpisce la fantasia del lettore.

I recenti sviluppi del trattamento automatico del linguaggio e della linguistica computazionale fanno ben sperare che un giorno la realtà colmi il divario oggi esistente con la fantascienza e che potremo un giorno parlare col nostro computer come parliamo con un amico.


MASSIMO ACCIAI

massimoacciai@alice.it 

SAGGIO PUBBLICATO PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTORE. E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO SAGGIO  SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE

E’ nata la rivista FUCINANDO

Recentemente mi è stato gentilmente chiesto da Mauro Bianconiello, gestore dell’affascinante blog Fucina CHI, di far parte del collettivo e di collaborare con loro. Non mi sono affatto tirato indietro, principalmente per due motivi. Il primo è perché mi affascina questo mondo di riviste e collettivi letterari che nascono così tra pochi amici con l’intento di occuparsi di questioni strettamente letterarie e il secondo motivo è perché ho trovato questo sito molto ben costruito, organizzato e interessante.

La Fucina CHI, come si può leggere in una delle pagine del blog (http://fucinachi.blogspot.com/), si occupa di promuovere la cultura, pubblicando poesie di esordienti, racconti, recensioni di libri di esordienti o di grandi classici, affrontando anche campi come la moda, la fotografia e quant’altro. E’ un portale poliedrico che, proprio per la grande vastità dei temi e degli argomenti, può attrarre un gran numero di persone.

Ho proposto a Mauro Biancaniello, per altro molto gentile e disponibile ad accogliere critiche positive e negative, di fondare una rivista mensile che raccogliesse il meglio di quanto viene pubblicato mensilmente online. E’ nata in questo modo la rivista Fucinando che è possibile leggere online o scaricare in formato pdf. Il primo numero non è molto vasto quantitativamente ma ci auguriamo in nuove collaborazioni e richieste di pubblicazioni da parte di altre persone.

Clicca qui per leggere il primo numero della rivista Fucinando.

Invito pertanto a documentarsi e ad andare a vedere questa nuova realtà letteraria e, chi lo volesse, a collaborare con noi. Mi auguro, anche a nome del mio collega coordinatore Mauro Biancaniello, che ci veniate a visitare, commentare e a collaborare con noi.

Di seguito, tutti i contatti per conoscerci:

RIVISTA “FUCINANDO”

Mensile della Fucina CHI

Collettivo Artistico Libero e Indipendente

Sito: http://www.fucinachi.blogspot.com

E-mail di redazione: fucina.chi@gmail.com

E-mail Mauro Biancaniello (coordinatore): maurobiancaniello@bluewin.ch

E-mail Lorenzo Spurio (coordinatore): lorenzo.spurio@alice.it

Facebook: http://www.facebook.com/fucina.chi

Tel: ++41 (0)76 / 418 71 56


Lorenzo Spurio

08-08-2011

Educare, una sfida possibile di Rosalinda Lo Presti Gianguzzi

“EDUCARE, UNA SFIDA POSSIBILE” di Rosalinda Lo Presti Gianguzzi 
Nulla die Edizioni
Recensione a cura di Monica Fantaci

L’autrice, partendo dalle sue esperienze di madre, di insegnante, di pedagogista e quindi di educatrice, delinea le tappe che l’hanno spinta a proporre un modello pedagogico che mira a dare valore al bambino (persona dotata di potenzialità, di autonomia, di consapevolezza) e alla famiglia (che deve essere supportata dallo Stato e dalla scuola pubblica, attraverso l’efficiente organizzazione di strutture che rispondono alle sue esigenze).
Educare, nella società complessa in cui viviamo, è una sfida, ma è tale perché è necessario che ogni educatore, insegnante e/o genitore, moduli il suo comportamento in base alle esigenze momentanee dell’alunno/figlio.
Un cambiamento della scuola può avvenire se i ministri si facessero consigliare da studenti dell’educazione e sperimentassero prima di definire e rendere ufficiale la loro iniziativa politica.
Il libro evidenzia la realtà in maniera sorprendente, focalizzando l’attenzione sugli effetti devastanti e diseducativi della televisione, che abbindola i bambini, i ragazzi, cioè gli adulti del futuro, verso un atteggiamento volgare, violento e minaccioso nei confronti degli altri, impoverendo sempre più il bagaglio culturale e minimizzando l’importanza della scuola nello sviluppo integrale della persona. Proprio la scuola di ogni grado è la protagonista fondamentale del testo, un luogo che deve trasmettere conoscenze partendo dalle esperienze degli alunni, attraverso l’uso concreto di attrezzature, di strumenti che rendono piacevole, stimolante, curioso il lavoro scolastico.
E’ un grido verso la giustizia, verso i diritti e i doveri quasi negati da chi sta al potere, come l’astensione obbligatoria dopo il parto per le lavoratrici madri, previsto dalle leggi, di come bisogna organizzare la famiglia alla nascita di un figlio, perché non tutti possono permettersi una baby-sitter, inoltre le liste dei nidi sono interminabili. Così lo Stato visibilmente è assente, come risultano essere carenti tutte le sue strutture, infatti dovrebbe impegnarsi di più nell’analisi dei problemi dei cittadini e di tutto il Paese.
Si rammentano le lotte fatte dai precari della scuola, come lo sciopero della fame davanti Montecitorio, gli interventi ad incontri pubblici o le interviste rilasciate nelle trasmissioni televisive come Annozero, per difendere la scuola, per dare una valenza sempre più forte alle idee che servono per rendere la società migliore e più equa.
Gli insegnanti, nella realtà odierna, vengono soprannominati eroi e missionari, cioè persone che non si nascondono, che dicono ciò che pensano, che conoscono, perciò a loro vengono addossate le responsabilità delle scelte politiche legate alla scuola, chiamandoli fannulloni, comunisti; chi governa considera gli insegnanti del nord più bravi di quelli del sud d’Italia, non considerando che al nord insegna chi proviene dal sud.
Il modello che propone il libro è quello di una scuola sociale e di una politica solidale, al fine di evitare discriminazioni sociali offrendo pari opportunità, oltre ad avvicinarsi sempre più alle necessità di tutti i cittadini, favorendo così anche un’educazione sociale che mira ad investire su risorse e servizi che aiutano il futuro adulto a mettere le basi per diventare qualcuno.
Sarebbe opportuno, in età prescolare e in età scolare, la presenza e il buon funzionamento di strutture pubbliche, come nidi pubblici, baby sitting, scuole con stanze apposite per fare laboratori di musica, di immagine, di palestre, ma il tutto deve avere a disposizione, oltre agli insegnanti, persone altamente qualificate nello specifico settore e che si intendono di pedagogia, anche per soddisfare ampiamente e nello specifico la curiosità di ogni alunno e la preparazione intellettuale e pratica delle discipline, partendo dai loro interessi, dalle loro aspettative, dai loro vissuti. E’ un libro che rispecchia la realtà di ogni lettore: tutti siamo figli, tutti siamo alunni, tutti siamo educatori, tutti siamo cittadini.

Monica Fantaci



RECENSIONE PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE. E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE  SENZA IL PERMESSO DELL’AUTRICE

FUCINA CHI – Collettivo artistico libero ed indipendente

La Fucina CHI è un collettivo artistico che vuol dar spazio alla tua voce, quella profonda, quella che, a volte, non credi di poter usare perché strozzata dalla quotidianità. Questo è un invito per te, per darti l’occasione di esprimere la tua creatività con altri che vogliono far sentire la propria vera voce.

Il nostro è un collettivo composto da un insieme di individui che ha un unico scopo: dare sfogo alla propria creatività.

Ognuno ha un suo lato creativo, spesso nascosto, strozzato dalle tenaglie della quotidianità. 

Noi vogliamo vedere questo lato, lavorare in un gruppo per svilupparlo e farlo crescere, facendolo diventare vivo.

E, per fare questo, creiamo continuamente progetti a cui sono invitati tutti, professionisti e amatori.

Non ci sono quote d’iscrizioni, non si richiedono presenze costanti, solo una gran voglia di creare, di mostrare ad altri (e quindi a se stessi) una personale visione del mondo.

In diversi hanno già deciso aderito al nostro collettivo artistico,clicca qui per vedere tutti i membri della Fucina CHI.

Le nostre porte sono aperte a tutti

Se desideri contattarci:

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After the Sun, Intervista ad Angela Grillo

INTERVISTA AD ANGELA GRILLO
AUTRICE DI AFTER THE SUN
LAMPI DI STAMPA, MILANO, 2011
INTERVISTA A CURA DI LORENZO SPURIO

LS: Qual è stata l’idea dalla quale è nato il romanzo? Qual è stata la genesi?
AG: L’idea di questo libro nasce sulla scia del mio grande interesse per i libri sin da quando ero bambina, ricordo di aver letto il mio primo libro, Piccole Donne, in terza elementare. La passione per la scrittura è cominciata verso i 20 anni. Mio padre e mia madre mi hanno sempre incoraggiata a scrivere ma ho avuto altre priorità nelle diverse fasi della mia vita. Quando mio padre è mancato ho sentito che glielo dovevo e ho pensato di accontentarlo. Mi sono ritagliata degli spazi nella frenetica attività lavorativa e sono riuscita a portare a termine questo lavoro.

LS: Il titolo del romanzo, After the Sun, nel corso della narrazione non viene mai spiegato esplicitamente cosicché siamo noi lettori a dover interpretarlo come vogliamo. L’interpretazione più ovvia si rifà alle prime pagine del libro in cui la protagonista vede un ragazzo seduto sul treno di fronte a lei fotografare il sole e, guardandola, ne rimane affascinata. Il ‘dopo’ a cui il titolo fa riferimento dunque potrebbe essere a ciò che si sviluppa tra la protagonista e il ragazzo dopo quel momento d’incontro, quel pivotal moment? Potresti spiegare il titolo?
AG: Certo, il “dopo” a cui il titolo in inglese fa riferimento è un fil rouge che si ripresenta più volte durante il racconto, per esempio dopo aver visto l’alba la protagonista, Stella, incontra un ragazzo e s’innamora, oppure dopo essere stata ingaggiata dalla “Sun” (la sua casa discografica) incontra la persona che rivestirà un ruolo importantissimo per la sua carriera e per la sua vita. E poi… non sveliamo troppo sul resto della storia. Chi lo leggerà tutto fino in fondo… capirà!

LS: A molti lettori piacciono romanzi come il tuo, romantico, giovanile, mentre altri diciamo che aborrono narrazioni di questo tipo. Perché, secondo te, a molte persone non piacciono narrazioni di questo tipo? Quali sono i motivi? Secondo il tuo parere un romanzo di Moccia è da considerare inferiore a un romanzo ad esempio di Saviano?
AG: Non bisogna essere né prevenuti né presuntuosi. Bisogna leggere tutto, informarsi, anche sui generi che non ci appartengono. Solo dopo aver letto entrambi i generi si può dare una preferenza. Due opere possono essere diverse nel genere ma entrambe importanti per quello che comunicano, per le sensazioni che ci ha trasmesso l’autore e per mille altre ragioni. Io rispetto il lavoro di tutti, non considero inferiore il lavoro di nessuno e non giudico chi legge uno o l’altro tipo, ma preferisco, per quanto mi riguarda, il romanzo d’amore. Chi compra questo genere di libri è perché ha bisogno di storie romantiche, divertenti, frizzanti. Forse nel mondo in cui viviamo manca proprio l’amore. Le emozioni, in questa società iperattiva, sono passate in secondo piano. C’è carenza di semplicità, di sentimenti, di affetti. Bisogna rilassarsi e scegliere letture che parlano d’amore, storie che semplicemente emozionano e, perché no, che fanno sognare.

LS: Quanto di autobiografico c’è nel romanzo? La protagonista della storia ha qualcosa in comune con te?
AG: Questa è una domanda ricorrente! No, non è autobiografico. E’ una storia inventata. Io e Stella abbiamo in comune due cose, la prima è l’amore per il mondo della musica e la seconda è caratteriale, siamo entrambi tenaci, caparbie e abbiamo ogni giorno la forza per andare avanti anche se, a volte, troviamo degli ostacoli sulla nostra strada. Come Stella credo che bisogna avere il coraggio di sognare e lottare per i propri desideri, sempre. C’è una bellissima frase di Goethe che vorrei citare: “Qualunque cosa tu possa fare, qualunque cosa tu possa sognare, comincia.”

LS: Nel romanzo la proposta di lavoro che viene fatta a Stella le cambia completamente la vita. Passa da cameriera e da universitaria che ha abbandonato gli studi a cantante che incide canzoni. Il cambio è notevole e velocissimo, sembra quasi che lei accetti la nuova occupazione senza pensarci troppo, come se fosse una macchina facilmente suggestionabile. Come insegna la realtà la fama e le manie di grandezza sono sempre negative perché pur garantendo esibizionismo e successo dall’altra, in campo privato, si configura come un grande impedimento. La vita privata e la privacy per un personaggio pubblico è spesso difficile da proteggere e le due sfere, privato e pubblico, si mescolano provocando disagi. Cosa ne pensi di questo? Avevi in mente questa polarità quando scrivevi la storia? Che cosa ne pensi di questo tema nella realtà?
AG: Sì, durante la stesura del testo avevo previsto questa polarità, questo contrasto nella mente della protagonista dibattuta tra voglia di aver successo e paura. D’altronde quasi tutti nella realtà vivono la polarità. Quasi tutti conducono la propria vita ma vorrebbero viverne un’altra o trovarsi in altre situazioni. E visto che mi piace descrivere la realtà, scrutare le persone e i fatti che accadono ogni giorno, ho pensato di inserire anche questo fattore.

LS: Ad un certo punto Stella, la protagonista, chiarisce qual è la ragione per la quale ha abbandonato gli studi universitari. Non si tratta di poca voglia di studiare ma di un fatto destabilizzante ossia di un suo professore che ha cercato di violentarla e che l’ha minacciata di fargliela pagare. Dall’altra parte lei non va a denunciare il professore-pervertito e questo fatto corrisponde specularmente con quanto avviene nella realtà dove spesso il violato non è in grado di denunciare la violenza subita dal violatore. E’ pertanto un’immagine quanto mai realistica. Quanto consideri pericolosi e dannosi i ricatti di qualsiasi tipo nella nostra società?
AG: Nel romanzo ho cercato, appunto, di aprire una finestra, seppur piccola, su quanto accade nella nostra realtà. La violenza e i ricatti che ha subito Stella sono ormai all’ordine del giorno in tutti i settori. Ci sono persone che non hanno il coraggio di denunciare e altre che, per fortuna, lo fanno. Le molestie sessuali sono ricatti. Mai scendere a compromessi con chi ricatta. La violenza, in generale, non può trovare una giustificazione e va punita.

LS: L’episodio del ferimento di Stella durante un concerto, per altro narrato in maniera molto fugace e chiarito poi mediante lo stalking di un ammiratore fanatico, non ti sembra essere una forzatura in questo romanzo? Perché hai voluto inserirlo?
AG: Il libro è stato scritto per un pubblico attento ai fatti di tutti i giorni. Oltre ai sentimenti e alla voglia di farcela della protagonista, si parla di violenza, di morte e di stalking questo nuovo tipo di molestia di cui si è parlato molto e se ne parlerà ancora. Non volevo appesantire più di tanto la storia con questo reato. La protagonista partecipa ad un Festival musicale, si esibisce e… bang! Le sparano. Così come capitano le disgrazie nella vita vera.
LS: Verso il finale il lettore viene quasi destabilizzato quando si scopre chi è lo stalker che ha cercato di uccidere Stella. Si tratta di un personaggio che il lettore conosce già ma che, sicuramente, non pensava all’altezza di queste azioni. Come mai hai voluto inserire questa thriller story all’interno del romanzo?
AG: E’ un colpo di scena che ha spiazzato un po’, ma andava fatto. Ho scelto questo personaggio perché provavo per lui una forte antipatia e io, mettendomi nei panni del lettore, ho pensato che andava punito per quello che aveva fatto e gli ho procurato questa “particina” dello stalker. Chi leggerà il libro capirà il perché.

LS: Solo con l’attentato a Stella e la malattia tumorale di sua zia la protagonista decide di cambiar vita considerando il suo lavoro troppo pericoloso e spossante. Parallelamente si rende conto di quanto è stata stupida a lasciarsi trasportare dal successo e ad allontanarsi dai suoi amici e dalla zia. Credi che nella vita reale succeda qualcosa di analogo? E’ necessario che accada qualcosa di brutto e di destabilizzante per permettere all’uomo di riscoprire sentimenti e relazioni umane un tempo per lui importanti?
AG: No, non è necessario che accada qualcosa di brutto per farci aprire gli occhi sulla realtà, per riscoprire i veri sentimenti, i valori. A volte basta un esame di coscienza, un momento di riflessione per decidere di stravolgere la propria vita, sacrificarsi e aiutare chi ha bisogno, magari in India o in Africa o magari nel più vicino ricovero per senzatetto o anche solo per una persona cara, un familiare che ha bisogno.

LS: Stai scrivendo un nuovo libro? Hai progetti in cantiere? Se sì, potresti anticiparci qualcosa?
AG: Sì, ho due progetti che vorrei realizzare. Il primo è un romanzo storico al quale tengo molto, è la vera storia di due ragazzi nel Medioevo, due giovani innamorati che, seppur di un’epoca diversa dalla nostra, si ritrovano ad affrontare tanti e svariati problemi, proprio come i ragazzi di oggi. Il secondo progetto è… il seguito di After the Sun! Eh sì, me lo chiedono in tanti via mail (angelagrillomail@gmail.com) e sulla mia pagina Facebook (http://tinyurl.com/3llzucg ). Penso proprio che dovrò inventarmi ancora qualche avventura per Stella. Questo è molto bello! Vuol dire che Stella, con il suo carisma, la voglia di vivere ma anche con tutti i suoi problemi e i suoi difetti, ha conquistato i lettori che si sono immedesimati in lei e si sono emozionati con questa bella storia che è divertente e fa riflettere dalla prima all’ultima pagina!
Ringrazio Angela Grillo per avermi concesso questa intervista.

 

 
LORENZO SPURIO
17 Luglio 2011


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Rosa d’inverno, Intervista a Jasmine Manari

INTERVISTA A JASMINE MANARI

Autrice di Rosa d’inverno

Book sprint edizioni, 2011

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

LS: Qual è stata la genesi di questa silloge poetica? Da dove è partita l’idea di collezionare una serie di liriche sotto un unico testo?

JM: Rosa d’inverno è una silloge iniziata nel giugno 2009 e conclusa definitivamente nell’aprile 2011, anno in cui è stata stampata. L’origine della raccolta è stata un voto d’Amore e il titolo, infatti, è il nome della mia prima poesia, la stessa con cui si apre la silloge, dedicata alla persona grazie a cui ho imparato a guardarmi dentro, la persona per cui ho fatto tutto ciò che ho scritto e scrivere, oggi, è tutto ciò che mi è rimasto: la fine, dunque, è il principio nel mio caso.

LS: Nella tua silloge ci sono molte citazioni in epigrafe di autori classici e in maniera particolare mi ha colpito un frammento di Saffo e un sonetto di Shakespeare. Quanto sono importanti secondo te questi due scrittori? Perché?

JM: Ritengo ambedue i poeti mie fondamentali fonti d’ispirazione: essi non parlano degli artificiosi atteggiamenti dell’Amore ma di quell’Amore che sconvolge una vita, più repentino d’un battito d’ali e più profondo dell’oblio. In primo luogo, tengo a dissolvere l’idea di Saffo come emblema dell’Amore omosessuale poiché quando si tratta d’Amore, come afferma Benigni, tutto diventa grande, finisce la mediocrità e il solo fatto di classificarlo non può che svilirne l’importanza agli occhi del mondo sebbene la sua essenza rimanga intatta. E quando parlo d’essenza intendo le radici inconfondibili che germogliano in ogni individuo, sia esso uomo o donna: questo non conta poiché nessuno può fare a meno di nominare Amore, sia pure soltanto per denigrarlo. Lo stesso William Shakespeare, il sommo scrittore decantato come indiscusso poeta dell’Amore, scrisse una silloge di ben 154 sonetti, dedicando i primi 126 ad un giovane di cui si conoscono le iniziali (Sir W. H), il suo fair youth e soltanto i restanti 28 li compose per la più citata dark lady, una donna di cui il poeta evidenziava spesso gli aspetti negativi (si ricordi, a tal proposito, il sonetto 130 “My Mistress’ eyes are nothing like the Sun”) mentre, per il suo primo destinatario, compose il celebre sonetto 18 con cui consacrava eternamente il giovane in virtù del suo Amore infinito e indefinibile: “Devo paragonarti a una giornata d’estate?”. Dunque, per rispondere alla domanda, l’importanza dei due poeti risiede nel modo limpido e atavico con cui entrambi parlano del proprio sentimento che coincide con l’esistenza ed è immortale. E, comprendendo questo, chi potrebbe avere la presunzione di definire omosessuale il poeta dell’Amore?

LS: Il titolo della silloge, Rosa d’inverno, è in realtà il titolo di una delle tante poesie contenute nella raccolta. Perché hai scelto proprio questa come titolo dell’intero libro?

JM:  Come dicevo prima, la fine è il mio principio. Appena ho concluso la mia prima poesia dal titolo “Rosa d’inverno”, non ho più smesso di scrivere. Pasolini riteneva che la scrittura avesse un valore esistenzialistico e io condivido questa sua opinione: il bisogno di esprimersi, la tendenza a esporre il proprio pensiero equivale, per uno scrittore, a riconoscere la propria esistenza trovandole un senso nell’assoluto non senso della vita. Si può dire, pertanto, che Rosa d’inverno sia il nome di battesimo del mio essere scrittrice, il nome proprio che io attribuisco alla scrittura.

LS: C’è una poesia alla quale sei legata in maniera particolare? Perché?

JM: Premettendo che ogni componimento contenuto in Rosa d’inverno non è soltanto un esperimento semantico, un abile gioco con le parole come pure è stato definito, ma una realtà che ha toccato le corde più intime della mia sensibilità, posso dire che una delle tante poesie che ancora oggi rileggo, nonostante le ricordi tutte per il mio modo, (ammetto maniacale) di ricercare la scorrevolezza e la fluidità del verso nella  musicalità delle parole, è “I passeggiatori di cani”. Il tema ivi contenuto è quello dello scontro generazionale giovani – adulti: ho cercato di trasmettere quel senso di assoluto che domina nel ragazzo sin da “cucciolo”, quando è ancora ben tenuto al guinzaglio. Egli odia quella catena poiché rappresenta il compromesso dell’età adulta a cui è costretto e, dunque, si trova fra due antipodi: combattere fino in fondo per ciò in cui crede senza lasciarsi guidare verso la strada della ragionevolezza che è soltanto una scorciatoia per le future e mondane convenzioni, oppure cedervi imparando a vedere “il boccale mezzo pieno e mezzo vuoto” e, accogliendo ipocrisie e buona creanza, divenire l’adulto che prima tanto criticava e disprezzava. Per rimanere giovani, dunque, spezzando questa catena di accordi, bisogna considerare il modo in cui ci si approccia alle idee: con coerenza, senza negare che esistono le famose sfumature, ma ricordando sempre che la decisione è comunque una e può essere o bianca o nera. Il giovane questa logica dell’assoluto l’impara, ed è il momento in cui è più ostile al mondo degli adulti, e poi la disimpara proprio perché è costretto ad accedere a quel mondo, dolorosamente o meno, dipende dalla sensibilità di ognuno (perchè di certo c’è chi la considera, con pacata accettazione, solo un’utilità).

LS: Nella raccolta sono riscontrabili facilmente alcuni temi dominanti che tu proponi e riproponi sotto varie vesti e cornici, senza finire per essere banale né ripetitiva. Uno di questi è il tema dell’infanzia. Come mai molte delle tue liriche più che proiettarsi in un futuro prossimo o inconoscibile guardano invece, quasi in maniera conservatrice e nostalgica, verso il passato?

JM:  L’infanzia è la stagione dell’incoscienza: il passato, come ho scritto in una delle mie poesie, si muove. Molti s’impongono di non guardarsi più indietro, addirittura di provare indifferenza per ciò che è stato ma non è più, io invece ritengo che il passato ci accompagni e noi, per andare avanti, fingiamo di non vederlo ma non ci è indifferente: lo consideriamo inesistente o, per lo più, un fantasma insonne che non trova pace e, dunque, gli dobbiamo indifferenza perché non dia fastidio. Dell’infanzia, il passato più remoto a cui posso rivolgermi data la mia giovane età, rimpiango la schiettezza e la spontaneità e, come ho detto prima, l’incoscienza: il bambino, quando qualcosa lo infastidisce, si ribella apertamente, non fa “finta di niente”. Per quanto concerne il futuro, invece, lo considero come l’alter ego del presente: abbiamo un’infinità di alternative frutto di un continuo decidere e non dobbiamo, a mio avviso, chiederci come andrà domani; mentre scrivevo Rosa d’inverno dicevo che sarebbe stata pubblicata ma questo non lo consideravo parte del futuro: era una meta raggiunta ogni giorno nel continuo scorrere del mio presente.

LS: Quanto di autobiografico c’è in queste poesie?

JM: Ogni componimento è autobiografico, anche quello socialmente impegnato. Tutto ciò che è stato scritto è accaduto: questo è stato il mio modo di non dimenticare e, in un certo senso, come afferma Audrey Hepburn, di guarire dalla medicina.

LS: A conclusione della raccolta c’è un consistente brano in cui abbandoni il metro poetico per meglio adattare i tuoi pensieri che vertono principalmente sul difficile raggiungimento della felicità umana. In quest’affascinante percorso esistenzialista connetti spesso la felicità alla pace come ad affermare che se manca una delle due, viene a mancare necessariamente anche l’altra. E’ così? Potresti spiegare meglio questo tuo pensiero?

JM: Ne “La felicità in un palazzo di cristallo” ho parlato della ricerca continua dell’uomo dello stadio più alto del proprio essere, ossia la felicità e, allo stesso tempo, il suo perenne bisogno di pace; tuttavia, riconoscendo la felicità quale ossessione umana per eccellenza, ho messo in evidenza quanto sia vero che l’uomo non possa trovare pace nel suo perenne cercare: infatti, ho scritto «(…) la pace non è per l’uomo che non è destinato né all’eternità né al riposo: tutto ciò che gli spetta è una tregua di tanto in tanto, ma la pace non lo riguarda affatto poiché l’uomo vive tormentato ed è proprio la felicità la sua ossessione». Finchè l’uomo non trova pace, è convinto di non aver trovato neppure la felicità; io, invece, ritengo che la felicità consista nel raggiungere il nostro punto più alto, accettando anche di doverlo abbandonare: è un continuo movimento che riguarda il nostro modo di vivere la vita come un’infinita ricerca, invece “la pace” che spetta all’uomo consiste in una tregua fugace nel momento stesso in cui arriva allo stadio più alto per cui ha lottato. Ricominciando a cercare, quindi, prosegue il percorso che la felicità ha tracciato. «(…) è possibile? Perdere e realizzare di esserne stati fieri? Dipende dagli occhi di chi guarda. Per questo la felicità è per chi di noi sa trovarla, per chi trova il punto in cui guardare, non necessariamente il punto per eccellenza. Un qualche punto: il nostro».

LS: La tua poesia fa ampio utilizzo di immagini ossimoriche, antipodali, contrastanti, che si basano su di una serie di opposti: chiaro-scuro, memoria-oblio, solo per citarne alcuni. Come mai quando parli di un elemento spesso ti senti quasi “in obbligo” di chiamare in causa anche il suo esatto contrario?

JM: La risposta di fondo è che l’Amore, di per sé, è neutrale. È un essere androgino: non semplicemente un punto d’arrivo fra gli opposti, ma entrambi gli opposti condensati in uno soltanto. L’esistenza di un elemento, secondo la legge dei contrari, determina l’esistenza del suo opposto ed è da ciò che nasce l’armonia. Amore è armonia e coincide con l’individuo che, da sé, è una contraddizione vivente. Fondamentale, riguardo l’esistenza degli opposti, è che fra loro sono interscambiabili e, dunque, nessuno al mondo può dire di essere una cosa soltanto, sebbene tutto il suo essere si riassuma in un solo corpo. Lo stesso Shakespeare, inoltre, definisce Amore attraverso gli ossimori “lucido fumo”, “gelido fuoco”, “insonne dormire”, “pesante leggerezza” e molti altri; così, considerando che per ogni elemento esiste il suo contrario, s’impara a mio avviso anche ad accettare la diversità.

LS: Quali autori della letteratura classica e contemporanea (sia poeti che romanzieri) ti affascinano di più? Perché?

JM: Per quanto concerne la letteratura classica, Saffo e Catullo sono i poeti che mi affascinano maggiormente, sono quelli che ho avuto modo di studiare quest’anno e, in particolare Saffo, rimane l’autrice con cui mi identifico di più: in primo luogo poiché si tratta di una poetessa dall’animo forte e dirompente e in secondo luogo perché la sua travolgente espressività riesce a dar voce al proprio dissidio interiore, a discernere ogni emozione e sensazione provata nel momento dell’incontro con la persona amata: infatti, “A me pare uguale agli dei”, è un componimento in grado di spogliare il lettore dalla scialba veste del pudore per metterlo di fronte a se stesso, come se potesse osservarsi nel momento in cui guarda la persona che Ama, dovendo ammettere che quelli che prova sono i sintomi di un morbo che, in altra sede, Saffo definisce “dolce amara invincibile belva”.  Altri due poeti a cui sono legata appartengono all’età definita “Maledettismo” in Italia che, in sostanza, coincide con il secolo del Romanticismo: si tratta di Charles Baudelaire e, primo fra tutti, Arthur Rimbaud; di quest’ultimo venero la ribellione contro tutto il prestabilito e la volontà di gridare al mondo la propria esistenza marcando l’impronta. Ciò che mi colpisce è che la sua straordinaria produzione poetica abbraccia l’età dell’assoluto: l’adolescenza ed egli non se ne separa mai, continua a vivere al massimo grado ogni esperienza attraverso il suo “lungo, immenso e ragionato “sregolamento” di tutti i sensi”. La poesia, come è evidente, conquista il mio interesse ma ciò non sminuisce l’attenzione che rivolgo al romanzo o al racconto: difatti, apprezzo la letteratura ottocentesca, quella di Goethe e Hugo, e m’innamoro delle opere di Oscar Wilde, catturata soprattutto dalle sue vicende personali. In sintesi, posso affermare che degli scrittori sopra citati mi appassionano l’abilità semantica e quella di fare in modo che il lettore assapori la dolcezza della parola regalandogli immagini coronate dal filtro dell’emozione, altresì mi affascina la loro esperienza di vita poiché scrivere non è mai soltanto un gioco di parole.

LS: Attualmente stai continuando a scrivere delle liriche e hai qualche altro progetto in mente per il futuro? Se sì, puoi anticipare qualcosa?

JM: La mia intenzione è quella di scrivere un racconto trattando de “Il gioco del fuoco”  partendo da un aforisma di Oscar Wilde. Considero diversamente l’argomento dimostrando, attraverso la narrazione, che non c’è modo di evitare questo gioco, che, in un certo senso, si è costretti a giocare. Voglio parlare di un ragazzo, capace di far “rimbalzare” i sentimenti su se stesso, contemporaneamente, per non accorgersi di uno più di un altro e, dunque, continuare il suo gioco. Si parla sempre del disadattato sociale e, per lo più, con commiserazione o pietà. Io voglio parlare del ragazzo che da disadattato diviene adattato, anzi del troppo adattato che, tuttavia, prende tale scelta consapevole del motivo profondo che lo spinge a tutto questo e che lo lega inevitabilmente al disadattato sociale che tanto biasima: la necessità di sfuggire al dolore, il desiderio di felicità che, così fragile, si affida alla contentezza.

 

Ringrazio Jasmine Manari che mi ha concesso questa intervista.

Lorenzo Spurio

13 Luglio 2011


E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO-INTERVISTA SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE

La corrida è cultura?

Che tori, corride e encierros appartengano alla cultura spagnola è un dato di fatto. Nelle guide turistiche la corrida è, assieme al flamenco, uno dei topos tradizionali della cultura spagnola. Allo stesso modo i quotidiani spagnoli dedicano un’intera pagina a questo aspetto culturale sotto la dicitura di “Toros” che è un ulteriore suddivisione della rubrica “Cultura”. Che le corride siano espressione di cultura è dunque una realtà, una verità inopinabile. Ovviamente esistono posizione diverse e contrastanti sul modo d’intendere la corrida. Per qualcuno è un tratto distintivo del ser castellanos che va protetto e tramandato per altri non è altro che un atto di barbarie attraverso il quale l’uomo usa violenza contro il toro. Così la notizia di pochi giorni fa trasmessa dai giornali spagnoli di fatto non spiazza, non meraviglia affatto. Si tratta dell’ennesima prova che tori e Spagna sono un tutt’uno e guai a parlar male di corride!

Nello stesso giorno in cui il premier Zapatero annuncia le elezioni anticipate, il Ministero della Cultura ha annunciato che assumerà le competenze in materia taurina. Così aspetterà al governo centrale di Madrid piuttosto che alle singole comunità autonome di occuparsi degli asuntos taurinos, ossia i complessi festivi, celebrativi e i rituali che prevedono l’utilizzo della lidia, lucha y muerte del toro.

C’è qualcosa però che sembra non quadrare in questa equazione tori=cultura. Se per tutti i tori sono espressione di cultura, allora le Canarie e recentemente la Catalogna li avrebbero aboliti privandosi così di un importante espressione del loro essere? Così il riconoscimento del Ministero della Cultura del toro come emblema culturale finisce per avere poca rilevanza e finisce per essere impiegato come mezzo per alimentare nuove controversie. Finché l’Unesco non riconoscerà la pratica della tauromachia come Patrimonio Culturale in Spagna, Portogallo, Francia e nei paesi sudamericani (probabilmente non lo farà MAI), la questione del riconoscimento di cultura in questo complesso festivo non potrà dirsi completa ed effettiva.

LORENZO SPURIO

3 Agosto 2011

Rosa d’inverno di Jasmine Manari – Prefazione a cura di Lorenzo Spurio

Rosa d’inverno di Jasmine Manari

Book Sprint Edizioni, 2011

Prefazione a cura di Lorenzo Spurio

Ho accolto con piacere la richiesta di Jasmine Manari, giovanissima poetessa abruzzese che esordisce il suo percorso letterario con un’ampia e interessante silloge poetica. Mi sono molto interpellato sul titolo, Rosa d’inverno, su quale potesse essere il significato che la Manari volesse abbracciare per le sue liriche. Mi è sembrato a prima vista enigmatico, ma questo non ha offuscato neppure minimamente la mia attenzione nei confronti di questa raccolta di poesie. L’ho interpretato, inizialmente, mediante una figura retorica, quella dell’ossimoro: una rosa, espressione di colore e della vita e l’inverno, espressione di toni grigi della malattia e della morte. Ho concluso così che le liriche avrebbero trattato principalmente di storie d’Amore e storie di morte, temi che spesso nella poesia sono speculari o che finiscono per costituire un tutt’uno.

La Manari ha utilizzato una variegata scelta di citazioni colte che esplicitano il suo Amore nei confronti della letteratura, di una letteratura che potremmo definire classica, fatta dai grandi.  Ci sono varie citazioni in epigrafe tra cui una curiosa definizione del veggente/poeta maledetto Arthur Rimbaud, estratti di conversazioni di Ungaretti e Oscar Wilde e un frammento di Saffo. Questi riferimenti intertestuali iniziali non sono ridondanti e, anzi, incanalano il lettore verso l’oggetto di questa raccolta: l’Amore e le sue varie sfaccettature, i diversi modi di amare, il dolore e la sofferenza che dall’Amore scaturiscono.

E’ sufficiente la prima poesia della silloge per comprendere quale sia il senso che la Manari vuole trasmettere attraverso il suo titolo: la rosa, con le sue varie fasi di crescita (lo sbocciare, il crescere), non è altro che metafora di un Amore che, ugualmente, nasce e si sviluppa. Ma la rosa bianca della Manari non appassisce, non conosce fine e così dobbiamo interpretare che l’Amore, alla stessa maniera, non deperisce né si consuma ma rimane eterno.

La raccolta di poesie verte principalmente su alcuni temi dominanti: l’Amore, la felicità, la vita e la morte, il senso di abbandono e il ricordo di un’età ormai passata, l’infanzia. Nelle liriche della Manari si fa infatti spesso riferimento a un tempo passato che si evoca a volta con nostalgia come in “Bambina” mentre altre volte ci si domanda quali siano i limiti tra ricordo ed oblio. E’ un percorso difficile, questo che la poetessa affronta con un linguaggio semplice ma allo stesso tempo altamente simbolico. L’infanzia è celebrata un po’ ovunque nella raccolta e in “Ci chiamiamo grandi” la poetessa osserva che gli adulti, in fondo, non sono altro che bambini che non fanno più cose spontanee come quelle di un bambino. La vita, dunque, sembra suggerire che è un’infanzia perenne. E in quel presente liquido e spesso difficile la poetessa ricava ricordi positivi di un passato andato ma che in un certo senso è ancora presente perché ricavato da frammenti di ricordi che si impongono nel “qui ed ora”, nella vita di tutti i giorni: «Somigli tanto a una bambina che conoscevo» in “Quale è il tuo nome”. La silloge celebra così i tempi passati, un’infanzia felice e spensierata che viene ricordata con nostalgia e alla quale, paradossalmente, si vorrebbe ritornare, annullando il normale corso del tempo.

La protagonista delle liriche, che intuitivamente mi viene da immaginare abbia un riferimento autobiografico nella stessa Manari, è una donna che sa soffrire ma che sa anche ribellarsi per non lasciarsi soggiogare, come nella brevissima lirica “Rivoluzionaria” che si chiude proprio con la volontà di fare della propria vita una battaglia. E’ una donna forte e decisa, che non manca di evocare idee discutibili e che la Chiesa definirebbe immorali, come il suicidio in “Osceno paradiso d’indolenza” per «chi, egoista con se stesso, non vuole più sperare». Parlare della vita significa innegabilmente trattare anche quegli aspetti meno belli che però fanno parte di essa: la vecchiaia, la malattia e la morte. Il ritratto complessivo che la Manari trasmette con questa opera è complesso ed articolato e non manca di trattare questi temi languidi, tristi e crepuscolari come nella brevissima poesia “Alzheimer” che va letta tutta d’un fiato e che condensa una serie di tragedie: la malattia, la sofferenza per un congiunto malato e incurabile e la decisione di porre fine a quelle sofferenze per liberarsi da entrambi i mali. La Manari non parla di eutanasia ma di matricidio. E’ questo a trasmettere una cupissima presenza su tutta la lirica, lasciando drammaticamente sorpresi per la vivezza e allo stesso tempo per il laconismo con il quale fotografa una realtà difficile e disperata. Il linguaggio è semplice e spesso usa immagini forti, come volesse suscitare un qualche effetto nel lettore. La poesia “Non appartengo a voi indecisi, sono un poeta maledetto” ha tutte le caratteristiche della poetica del bohemien, che si riallaccia alla citazione iniziale di Rimbaud. C’è in un certo senso anche un riferimento, consapevole o no non saprei dirlo, a Palazzeschi e alla sua poesia “E lasciatemi divertire” dove il poeta abbatteva i canoni poetici tradizionali riconoscendo una poetica tutta nuova, bizzarra e strampalata ma che almeno, lo lasciasse divertire. La Manari si auto considera un poeta maledetto, di quelli che non le mandano a dire e che non hanno paura di parlare di niente: « Se sono un verme che si dimena appeso a un amo, certo di durare meno e poco più».

Spesso prevalgono i toni grigi e cupi e un’amara analisi della vita come quando in “Il consigliere” scrive: «No figliuolo, le persone non vogliono la verità, loro non sanno che farsene: la odiano. È troppo pericolosa, meglio la menzogna… si può fare molto di più con la menzogna». Non si tratta però di un pessimismo fine a se stesso ma ricalca, in maniera quanto mai fedele, la società nella quale viviamo. Verso la conclusione della raccolta è presente un brano che abbandona il metro poetico per adattare i pensieri, quasi in maniera plastica, impiegando la prosa. In “La felicità in un palazzo di cristallo” la poetessa affronta temi difficili, le canoniche questioni dell’essere: cos’è la felicità e, se esiste, come si raggiunge? E la pace? Lo fa in maniera lucida e schietta ma è difficile non riconoscere un certo tono cupo ed esistenzialista che, per certi aspetti, richiama addirittura il poeta recanatese, Leopardi: «l’uomo vive tormentato ed è proprio la felicità la sua ossessione: egli non la possiede, eppure può renderla sua. Per questo la felicità non è nella morte e nemmeno nella pace». Ma la conclusione che la Manari trae non è altrettanto negativa, c’è possibilità di speranza: la felicità è intorno a noi, dobbiamo saper riconoscerla, è dietro l’angolo, dobbiamo saperla individuare: «Dipende dagli occhi di chi guarda: per questo la felicità è per chi di noi sa trovarla, per chi trova il punto dove guardare, non necessariamente il punto per eccellenza».

Una raccolta di liriche affascinante che va letta in profondità e che è arricchita nel suo ampio contenuto già altamente ricco simbolicamente da un sonetto di Shakespeare il quale, proprio come ha fatto la Manari, nelle sue poesie ha sempre parlato anche degli aspetti meno felici dell’Amore e della transitorietà del genere umano. Non avevo sbagliato di molto nella mia iniziale interpretazione del testo a riconoscere già nel titolo la presenza di un ossimoro di cui, in effetti, la silloge è strapiena: vita-morte, felicità-sofferenza, ricordo-oblio, miracolo-condanna, presente-passato, alba-tramonto e addirittura il titolo di una poesia, “Il buio bianco”. Non è un caso che la Manari citi Shakespeare, poeta neoplatonico che nelle sue liriche utilizzò spesso l’allegoria del chiaroscuro, che la poetessa nella sua opera sintetizza in maniera mirabolante in questo modo: «il sole c’è ma non si vede».

LORENZO SPURIO

05-07-2011                                                                            


E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE  SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

Bambina e la fatina computerina, intervista a Virginia Defendi

INTERVISTA A VIRGINIA DEFENTI

Autrice di Bambina e la fatina computerina

Onirica Edizioni, Milano, 2010

Intervista a cura di Lorenzo Spurio


LS: Qual è stata la genesi del romanzo? Com’è nata l’idea di scrivere questo libro?

VD: Ho iniziato a scrivere Bambina e la fatina computerina, appena uscita dal mio percorso universitario. Riflettendoci ora, posso dire che, non avrebbe potuto essere altrimenti…

LS: Perché hai deciso di esordire nel panorama della scrittura con un libro per l’infanzia?

VD:Non ho “deciso”. È successo. Ho sempre amato leggere di tutto. Non avrei mai pensato a me nel ruolo di scrittrice….

LS: Quali autori italiani e stranieri, poeti o romanzieri, ti affascinano di più? Perché?

VD: Italo Calvino con: Il visconte dimezzato, Il cavaliere inesistente e Il barone rampante.  Stefano Benni e Margherita Dolcevita. Carlo Lorenzini. Tre autori che mi hanno fatto “viaggiare” in bilico, tra realtà e mondi assolutamente fantasiosi….Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos che con: Le relazioni pericolose, mi ha fatto…. dare una sbirciatina alla posta di personaggi fantastici…

LS: Ho letto dalla tua biografia che uno dei testi in assoluto che ti  piace di più è Le avventure di Pinocchio di Collodi. E’ un testo molto bello e, contrariamente a ciò che si pensa, non è solamente un libro per bambini. Lo stesso vale per Alice nel paese delle Meraviglie e il suo seguito Attraverso lo specchio di Lewis Carroll. Perché secondo te quando in una narrazione ci sono elementi fantastici, irrazionali, magici, come nei libri citati, subito il libro viene etichettato come libro per l’infanzia, o facente parte a quella che in Inghilterra si definisce children literature mentre il testo è ricco di messaggi impliciti, di metafore, di analogie più profonde?

VD: Ho amato, fin dalla più tenera età, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino. Mi è sempre stato accanto.  Per un dolce gioco del Destino, al momento di scegliere l’argomento della tesi di Laurea, per Letteratura per l’infanzia, Pinocchio è riapparso nella mia vita….:-).  Per rispondere alla tua domanda, forse, un adulto che prende in mano un testo “per bambini”, tende a leggerlo in modo “leggero”.  Non soffermandovisi. L’ho fatto anch’io, per anni. Grazie alla rilettura “adulta” di Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, ho compreso, però, che i libri per l’infanzia, “dicono  molto” ai “grandi”….Ed ecco che, ancora circondata dalle vicende di Pinocchio, mi sono ritrovata a ideare il mio piccolo racconto….:)

LS: E’ curioso nel tuo romanzo l’utilizzo che fai dei colori. Le favole e i racconti per l’infanzia fanno spesso riferimento ai colori o ai materiali come l’oro, l’argento e così via.. si pensi ad alcune fiabe dei fratelli Grimm o anche del danese Andersen. Ti sei rifatta a qualche autore, a qualche testo, o a qualcosa in particolare per quanto concerne il mondo cromatico presente nel tuo romanzo?

VD: Ho sempre ritenuto il mondo dell’infanzia, un luogo colorato e musicale. Quindi, mi è venuto spontaneo riportare questo mio pensiero anche in Bambina e la fatina computerina.

LS: C’è un po’ di confusione quando parli di maghi e di fate. Si tratta di due protagonisti per antonomasia delle narrazioni fantastiche e per l’infanzia che però non appartengono alla medesima cultura e tradizione. I maghi sono realmente esistiti nella misura di precursori e iniziatori della scienza medica, anche se spesso erano dei sedicenti veggenti mentre il popolo delle fate, dei folletti e degli elfi a cui tu fai riferimento trae origine dal folklore celtico e inglese. C’è dunque una certa discrepanza tra i due tipi di personaggi. Come mai hai deciso di fare del mago, marito della fata, una sorta di ebete che ripete a pappagallo quello che dice?

VD: La “confusione” di cui parli, è voluta. Ho sempre apprezzato il concetto “diversità”, in ogni forma esso si presenti. Quindi, perché non creare, ed unire in una sorta di “armonia particolare”, due personaggi differenti tra loro?  Il personaggio del mago? È vero, sembra proprio un ebete:) Ma… “sembrare”, non vuol dire…. essere….

LS: Questo romanzo ci presenta una favola rivista in termini contemporanei.. l’elemento più esplicito di questa riscrittura postmoderna della favola tipo è il personaggio della fatina computerina. Come hai ideato questo personaggio?

VD:Beh, ho preso spunto dalla mia esperienza personale….. Utilizzo spessissimo il computer per comunicare, mi aiuta parecchio… E’ stato naturale quindi, ideare una fatina un po’ speciale….

LS: Come in ogni favola che si rispetti, anche nella tua storia il lieto fine è garantito. Come mai hai utilizzato un happy ending? Non sarebbe stato più curioso inserire ad esempio un elemento destabilizzante come ad esempio un potentissimo virus che avrebbe permesso una svolta decisiva alla storia?

VD: AHAHAH….Buona idea! Seriamente, quando ho iniziato a scrivere Bambina e la fatina computerina, a tutto pensavo tranne che…. avrei trovato il coraggio di inviarlo per farlo pubblicare…. Era un racconto solo mio…. Tutto ciò che è accaduto dopo averlo scritto, è stato  qualcosa di meravigliosamente inaspettato. Beh, ho sempre creduto nel “lieto fine” delle favole….e sempre ci crederò:)

LS: Una storia così ben articolata e con un buon sistema di personaggi si presterebbe a uno sviluppo seriale della storia o, almeno, ad episodi. Che cosa ne pensi?

VD: :)…. come si dice: “Nella vita tutto è possibile….”:)))

LS: Hai altri progetti in cantiere? Stai scrivendo un nuovo libro? Puoi anticiparci qualcosa?

VD: Sì,sto ultimando un romanzo autobiografico,  intitolato:Vita, Storie E Pensieri Di Un’Aliena. Mi auguro possa essere ironico (al punto giusto), come è  nelle mie intenzioni….

Ringrazio Virginia Defendi per avermi concesso questa intervista.

LORENZO SPURIO

15 Luglio 2011


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