“Breve inventario di un’assenza” del poeta toscano Michele Paoletti, recensione di Lorenzo Spurio

Buonanotte […]

alla voce che cercava di dirmi

addio mentre gli occhi

ripetevano rimani, premi le dita

sulla pelle ancora.

Ricevo con particolare piacere Breve inventario di un’assenza (Samuele Editore, 2017), il nuovo lavoro poetico di Michele Paoletti, autore che considero uno dei poeti più validi e interessanti del nostro panorama poetico odierno. Lo dico con onestà intellettuale e con cognizione di causa avendo seguito sino a oggi il suo percorso letterario snodatosi attraverso varie pubblicazioni che ho avuto modo di leggere e commentare e premi di prestigio (come “L’Astrolabio” di Pisa) che gli sono stati attribuiti. Parimenti non vi sono intenti di subdola piaggeria o di viziato compiacimento non avendo ancora mai avuto l’occasione di conoscere di persona l’autore e volendo il mio discorso riferirsi alla sua sola opera poetica, alla sua grande capacità immedesimativa che riesce a far figurare nelle menti di chi si appropria della sua opera.

Vorrei ricordare, allora, in questo breve ma – credo – utile excursus il percorso poetico dell’autore piombinese che ha esordito con l’opera, dal titolo di per sé istrionico e non ben decodificabile a una prima vista, Come fosse giovedì (puntoacapo, 2015) della quale avevo commentato rilevando la “meticolosa tecnica sintetica [atta a] provvede[re] a una disanima curiosa e singolare del mondo di fuori”. Il prefatore al testo, l’insigne Mauro Ferrari, aveva giustamente notato l’importanza del mondo teatrale, con le sue luci e ombre; la poesia di Paoletti ha – sempre e comunque – una pacata nota di drammaturgia: di vita in quanto tale ma anche quale trasposizione scenica, rappresentazione, mistificazione di un vissuto in quanto l’atto scrittorio non è mai in grado di uguagliare l’esistenza (per leggere la mia recensione a questo volume è possibile cliccare qui). A pochi mesi di distanza da Come fosse giovedì l’autore ha pubblicato La luce dell’inganno (puntoacapo, 2015) opera facente parte di un progetto visivo elaborato e molto apprezzato per mezzo dell’accostamento alle sue poesie di fotografie di Andrea Cesarini, così efficaci nel cogliere gli “attimi” impressi nei versi. La nota critica d’apertura, questa volta affidata alla sagace penna di una poetessa d’alto calibro, la pesarese Lella De Marchi (autrice di Stati d’amnesia, 2013 e Paesaggio con ossa, 2017), ci informa in merito alla ‘linearità’ da lei scovata nella poesia di Paoletti parlando anche di “una possibile liberazione-redenzione” che iscrive a piè pari la poesia del Nostro all’interno di un filone – se questo effettivamente esiste o può essere identificato – personale, intimo, sottaciuto, della sfera emotiva che fa i conti con le proprie riflessioni, di un sentimento ripiegato e analizzato, col quale colloquia nelle vaste stanze dell’interiorità. Una poesia personale, che raramente travalica intendimenti di carattere etico-civili intenti a condannare realtà fastidiose, a denunciare la propria appartenenza ideologica, difendere minoranze e metter fine a qualsiasi tipo di minoranza ed emarginazione. Una poesia intima eppure condivisa, plurale, aperta alle intricate potenzialità del sentimento che è di tutti e dunque non meno condivisibile, propria e universale imperniata sui toni del dolore, del tormento, dello struggimento ma anche del sano utilizzo della coscienza che spesso duella con i fantasmi del passato riuscendo a giungere a tregue, più o meno stabili.

paoletti2.jpg

Michele Paoletti

Se in Come fosse giovedì l’autore aveva parlato del “mio ottuso male” e della solitudine nei termini di un “freddo di ceramica sbeccata/ ramo conficcato controvento”, in La luce dell’inganno – nel cui titolo si percepisce un amalgama di rimorso e amara scoperta – non aveva eluso, ancora, di riferirsi a un’angoscia di fondo ben delineata nel verso “la muffa del mio male”. La muffa, per sua natura, è la produzione di materiale in forma di spore, polvere e filamenti, su un materiale organico, alimentare o meno, che si è rovinato a causa della sua non buona conservazione o per il fatto che, nelle circostanze ambientali nelle quali viene a trovarsi, si degrada fermentando. Sostenere che il male abbia la muffa significa poter avere la volontà di alludere a un tormento che continua, degenera, si sviluppa nel tempo causando il decadimento, la denutrizione, il marciume dello stesso sino a decretarne lo stato di morte. Nella recensione a La luce dell’inganno (che si può leggere per intero cliccando qui) ho avuto modo di scrivere: “In questo percorso tra elementi che marciscono, presenze vacue e pensieri grevi, la convivenza con uno stato di desolazione interiore finisce per mostrarsi assai accentuata e le poche immagini lievi e pregne di colore qua e là nel corso dell’opera non sembrano capaci del tutto a risollevare l’amarezza di fondo”.

Arrivo al fine alla nuova opera poetica dopo queste brevi note critiche anticipatorie che non hanno da essere intese come preambolo annunciatorio che pronostica già, nei temi e nelle forme, ciò che sarà sviluppato nel terzo volume. Piuttosto può esser utile per avvicinarsi in maniera più fedele e illuminata alla sua opera poetica permettendo al lettore di trarre da sé – laddove sia possibile e nel caso i pochi elementi forniti lo consentano – le increspature più caratterizzanti che rendono la poetica di Paoletti tale per com’è e la conosciamo.

paoletti.jpgIl Breve inventario di un’assenza (Samuele Editore, 2018) che poi così breve non è (sessantasei pagine di lunghezza che, per una silloge poetica, sono senz’altro buone e rispettabilissime!) è breve nella forma (sono liriche che, tranne pochissimi casi, non superano i dodici versi) e in quel dire doloroso che ha la forma di un commiato che si è compiuto nell’intensità di un istante breve. L’autore ha scritto queste liriche in memoria della figura paterna recentemente scomparsa che, oltre a lasciare una debordante assenza, ha reso edotto il figlio del carico emotivo degli oggetti. Così la camicia lasciata appesa, le scarpe, la manica scucita di una giacca, sono i segni evidenti di una vita che s’è compiuta e che, pur circondata dall’opprimente aria che non ha forma, è ancora lì presente, circolante negli angoli della casa, così come è onnipresente nella mente e nel cuore di chi la porta con sé. L’assenza, dunque, è catalogata (inventariata, per l’appunto) mediante i tratti del mondo fisico, gli utensili, gli oggetti d’accompagnamento che definivano l’attore dell’assenza che, fuggendo per sempre, li ha però lasciati lì nel suo luogo ancestrale. La prefatrice Gabriela Fantato, in riferimento a questa operazione di raccolta e repertazione degli oggetti operata da Paoletti, parla di “alfabeto della perdita”. In effetti pare di comprendere che l’amplificazione dolorosa si crea nell’io lirico dinanzi all’evidenza di quel mondo fisso e ormai insignificante, dominato da quegli emblemi, simboli e feticci che ormai hanno perso rapporti di appartenenza e usi pratici per divenire mere entità residuali.

Alcuni brevi versi della poetessa romana Amelia Rosselli fanno da puntuale apripista al percorso poetico che Paoletti ci propone di fare seguendo le varie composizioni che compongono il volume. La Rosselli, una delle maggiori voci poetiche del Secolo scorso, parla di “Un dolore nella stanza/ [che] è superato in parte: ma vince il peso/ degli oggetti, il loro significare/ peso e perdita”. Ritorna la correlazione di difficile sperimentazione e impossibile fuga tra oggetti e assenza dove quest’ultima è immagine e sinonimo di dolore. In termini aritmetici potremmo allora dire che la somma dei pesi dei vari oggetti lasciati che abbiano una qualche traccia di ricordo o di legame affettivo equivale al peso dell’assenza. L’assenza è chiaramente una lontananza, ma anche uno stato apparentemente irreale di sospensione, di progressiva ampiezza di un varco la cui attraversata è patentemente impossibile.

Nella casa-santuario dove gli oggetti-icone divengono emblemi di ricordo irrinunciabili, strumenti di connessione con un’entità altra e blando motivo di persuasione che sì, i bei momenti ci sono stati eccome!, il pensiero s’erge dal canto desolato di un uomo che di colpo nel mare più ampio ha perso la sua ancora al desiderio di un ritorno, pure se non materiale: “Tornerà il vento a scompigliare/ le cicale”; “Torneranno le giornate lunghe”: il sollievo può forse derivare non dalla pervasiva e dolente tribolazione nella venerazione degli oggetti, piuttosto in un tentativo ideale di fuga da quello spazio che ha addosso i segni del tempo. L’anelito al ritorno, infatti, non è tanto espresso nei termini di un ritorno del corpo del padre, vicenda impossibile nella realtà della cui impossibilità l’autore è ben conscio, quanto delle condizioni esogene (il tempo, la ritualità delle stagioni, le abitudini) ed endogene (il ritrovamento di una pace e una felicità interiori) nell’uomo. Pur flebili vi sono squarci d’apertura all’asfissia delle giornate improntate alla considerazione della desolante situazione d’assenza come il pensiero che è in grado di evocare la possibilità di una primavera esistenziale, dettata da necessità di andare avanti e resilienza: “Domani il rumore quotidiano/ spingerà la vita un po’ più avanti”.

Oggetti-simulacro quelli che “ci stanno intorno”, in sé addirittura malevoli, perché duplici nella loro forma: appartenenti a un’età felice e rassicurante quando l’unità era ingrediente delle giornate e ora, entità prive del suo possessore, in balia di se stessi, innocui e addirittura inutili ma capaci di incutere soggezione e dolore in chi, rimasto, non può non concepirli disgiunti da chi ne faceva uso e ne caratterizzava le giornate. Oggetti che, in quanto tali, non hanno un’anima e non avrebbero nulla di buono o di non buono ma che, rivestiti dei significati personali e intimi di chi li ha sperimentati, fungono da imprecisati avanzi ma anche da resti memoriali. Difatti per il Nostro essi risultano nulli per la loro funzionalità (la camicia da indossare, etc.) e divengono emblema di una traccia di passato: “ascolto gli oggetti respirare da lontano/ l’aria che muovono i ricordi/ quando si staccano da noi”.

download.jpg

Quell’inventario che è difficile da eseguire e che mai, forse, verrà veramente portato a compimento non essendo possibile catalogare le emozioni, situarle in cartelline, organizzarle in faldoni e tenerle lì belle precise, è esso stesso ragione e motivo di quel “nodo sottile di dolore” che annebbia la ragione, inquieta l’animo e non fa altro che produrre il caotico “sbilancio dei giorni/ che spesso si confondono”.

C’è poi la sezione del libro intitolata “Muri”, quelle pareti divisorie delle stanze della casa-culla che “hanno la pazienza/ grigia delle cose,/ raccolgono la nostra polvere/ che si disperde in fretta”. Muri che, come silenti protagonisti delle nostre case, assistono alle vicende in esse sviluppatesi, ai dialoghi, ai momenti di gioia, depressione e dolore, quali custodi autentici di un vissuto intimo che nella casa si esplicita e lì rimane. Sostegni averbali, curiosi protettori di intere esistenze che ha visto nascere, crescere, maturare per poi sfiorire e perdere la vita. Presenze continue e rassicuranti, sodali nel pianto e nella lotta con noi stessi, eppure così riservati e taciturni da non aiutare a risolvere i drammi, ma neppure a ostacolare il felice svolgimento dei giorni gaudiosi. Essi, nell’età in cui Paoletti ce li descrive, sono sintomo di passato, di un’età che tutto ha visto passare serbandone il ricordo sulla quale sembra calare una cortina di dubbio, di polverosa reticenza: “I muri/ gettano un’ombra sulle cose/ rendendole più dure”. Muri che sembrano stringersi su se stessi, ridurre spaventosamente la superficie calpestabile delle stanze, come se l’io lirico si sentisse progressivamente privato d’aria da respirare, quasi strozzato, ammorbato, rinchiuso e impossibilitato a muoversi, finanche a far utilizzo della ragione. Muri che ingabbiano i ricordi, polvere che ammanta gli oggetti, aria che si fa pesante, dolore che si fa estremo e cronico in quegli spazi una volta animati e vissuti da esistenze ora non più qui: “I muri affondano radici di cemento,/ si abbarbicano al resto delle cose”.

Tutto ciò accade mentre il pensiero sull’assenza del padre s’irrobustisce nella mente del Nostro da diventare un dilemma insondabile, un rovello che fiacca e fa star male tanto da condurlo a divagazioni atipiche e in sé surreali come quando dice “perdo/ tempo a indovinare la forma/ delle stelle”; altre volte la cappa di stordimento è meno accentuata e allora è in tali frangenti che, savio del tempo che gli è dato di vivere, riflette sul ciclo rituale di vita e morte: “il mondo vive/ nelle foglie mute, nel ricordo/ della terra intatta”. I muri, prima vetusti e freddi, stringenti e quasi fastidiosi, capaci solo di ottenebrare la mente e ostacolare la calma riflessione, divengono – nel ricordo mai domo della cara figura paterna – una sorta di propaggine tesa per trasmettere forza e amore: “lascio che il calore del muro/ si imprima sulla schiena/ prima di allacciare/ l’ultimo bottone del colletto”.

Lorenzo Spurio

Jesi, 14-02-2018

 

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.  

“Un figlio dimenticato: Giuseppe Gerini”, articolo di Stefano Bardi

Monte San Vito è un piccolo paese dell’entroterra marchigiano con appena 6.887 abitanti. La sua economia si basa principalmente sulla produzione dell’olio e del vino. Uno dei suoi figli più illustri, sebbene sia per lo più dimenticato, è il poeta Giuseppe Gerini, qui nato nel 1895. Non si conosce il luogo e la data della sua morte; per poter avere maggiori note biografiche è necessario riferirsi alla storica Sandra Cappelletti[1] che riferisce che il poeta fu sempre legato al suo paese natale dove spesso ritornava durante i periodi estivi, per poter godere della calda affettuosità della gente ritrovandovi la sua interiore spiritualità.

Per mezzo delle ricerche condotte dalla Cappelletti emerge il “Gerini ardito” far part, nel Primo conflitto mondiale, al Reparto d’Assalto delle leggendarie “Fiamme Nere” e in seguito aderire al nascente Partito Fascista di cui – pare – condivideva le finalità. Di certo della sua vicenda umana si ricorda del suo insegnamento presso la scuola media di Fiume dove poi, da giornalista, fonderà, nel 1935, la rivista Termini. Presidente dell’Istituto di Cultura Fascista della Provincia del Carnaro, allo scoppio della Seconda guerra mondiale lo si vedrà lasciare l’incarico per arruolarsi, di nuovo, nel Reparto d’Assalto delle “Fiamme Nere”.

download.jpg

Un’opera di Giuseppe Gerini

Come poeta Gerini ha lasciato numerose opere: Bonae manus (1928), Alanda (1929), In ascolto (1932), Nel mio eterno (1940), Armonie velate (1943), Motivi e canti (1944), Dentro celeste sponda (1949), Alba migliore (1952), Tre pietre (1956), Canti di Boccadasse (1959), e l’opera omnia Poesie 1928-1962 (1963).[2]

Poeta che può essere definito come vate lontano dalle canoniche ombrose tematiche della poesia italiana; le sue liriche siano colme di dolcezza, musicalità e trasparenza. I suoi sono versi dove traspaiono ansiose problematiche e interrogazioni al mistero che trasformano la sua lirica in una poesia atavica e immanente.

La sua produzione poetica ha origine dagli affetti familiari, in particolar modo esaltati ricordando con riferimento alla madre; nella poesia “Il pulcino” la figura materna viene concepita come una donna buona, generosa, spiritualmente straziata per la morte dei suoi quattro figli.[3] Madre, vista dal poeta di Monte San Vito, con gli occhi di un bambino, anzi di un pulcino, nel quale egli si riconosce e s’immedesima. La perdita materna, assieme a quella della figlia Magda[4], è ricordata nell’opera omnia Poesie 1928-1962, nell’ultima sezione dal titolo Elegie per Magda.

Accanto ai temi familiari, anche il tema della terra natia è presente nella poesia geriniana. Se ne ha conferma attraverso la poesia “Terra marchigiana”, dove la terra natale è vista dal poeta come un luogo magico in cui nascono fantastiche storie, che volano fino al firmamento celeste trasformandosi in nuvole, dalle forme familiari.[5] È nella poesia “Ridiscendo la costa” che il poeta, attraverso il potere magico della pioggia, rivede i suoi luoghi natali (campagne e campi di grano), come i luoghi dell’infanzia[6], nei quali egli stesso si sente protagonista sotto la forma di nuvola creata dal dolce suono di zufolo[7].

Famiglia, terra natia, natura, tutto questo si riscopre attraverso le poesie: “L’albero, il fiore”, “All’usignolo”, e “Il sole prigioniero”, quest’ultima dai toni futuristici come poi vedremo nel susseguo dell’analisi. Nella prima lirica questi due elementi naturali, sono concepiti dal poeta come delle creature con un’anima che, al pari degli Uomini, sono sottomesse all’amore che è gioia, bontà, fratellanza, ma anche lacrime, strazi, dipartite e, come gli Uomini, anche questi figli di Madre Natura, si godono attimi di quiete e consumano esistenze senza lacrime.[8] Nella seconda lirica c’è un forte rimando alla poesia “Il passero solitario” di Leopardi. In entrambi i poeti il meraviglioso canto degli uccelli viene messo in risalto poiché il loro canto, da sempre, conserva la sua trasparente, dolce musicalità. Niente di questo, però, è paragonabile al maestoso canto della natura costituito dal silenzio, che neanche il canto umano osa spezzare[9]. La terza e ultima lirica può essere considerata come una poesia futurista poiché, al pari della poetica marinettiana, la natura geriniana è una natura meccanica e bellica, dove i suoi uccelli d’acciaio, portatori di morte, sono dotati di un’oscura anima capaci di esaltare violenza, strazio, innocenti pianti.

Monte San Vito.jpg

Uno scorcio di Monte San Vito, piccolo centro dell’Anconetano dove il poeta nacque.

Altri due temi sono trattati dal nostro poeta, ossia quello di Dio e quello sulla morte. Per quanto riguarda il primo, dobbiamo riferirci alle poesie “E, se ritorni” e “Siamo la tue messe”. Nel primo testo Dio è concepito dal poeta marchigiano come l’unico e vero “padrone” di tutti noi poiché, solo Egli, può comandare ogni nostra intenzione e solo Lui è capace di fermare ogni nostra mala azione.[10] Più precisamente un padre, che ci farà risorgere dopo la nostra dipartita, per vivere assieme a Lui un’eterna esistenza.[11] Nella seconda poesia, invece, gli Uomini sono paragonati a dei chicchi di grano in mano a Dio che saranno da Lui seminati per poi crescere in nuove Terre, senza che nessun vento oscuro li possa scalfire[12]. Per quanto riguarda il tema della morte o dell’eterno sonno dobbiamo prendere in considerazione la poesia “Cimiteri”. Luoghi, questi, dove l’unico linguaggio usato dal poeta è quel silenzio che a volte all’improvviso spezzato dal demoniaco canto del merlo, fa di conseguenza sanguinare il firmamento, accompagnando le anime che camminano sugli andini sacri dei cimiteri.[13]

STEFANO BARDI

 

Bibliografia di Riferimento:

Antognini Carlo, Scrittori marchigiani del Novecento, Ancona, Bagaloni Editore, 1971, 2 vol., Tomo II – Poeti.

Calcaterra Carlo, Scrittori dell’Ottocento e del primo Novecento, Torino, Società Editrice Internazionale, 1936.

Cappelletti Sandra, Monte San Vito: castello terra comune, Monte San Vito, Comune di Monte San Vito, 1999.

De Robertis Giuseppe, Scrittori del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1958.

Gerini Giuseppe, Poesie 1928-1962, Parma, Guanda, 1963.

Spurio Lorenzo, Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana, Sesto Fiorentino, PoetiKanten, 2016, 2 vol., Tomo I-Poesia in lingua italiana

 

                       

[1] Sandra Cappelletti, Monte San Vito: castello terra comune, Monte San Vito, Comune di Monte San Vito, 1999, p. 312.

[2] Lorenzo Spurio, Convivio in versi Mappatura democratica della poesia marchigiana, Sesto Fiorentino, PoetiKanten, 2016, 2 vol., Tomo I-Poesia in lingua italiana, p. 435; C. Antognini, Scrittori marchigiani del Novecento, Ancona, Bagaloni Editore, 1971, 2 vol., Tomo II – Poeti, p.120.  

[3] Giuseppe Gerini, Poesie 1928-1962, Parma, Guanda, 1963, p. 25 (“[…] or che degli otto folletti / quattro ti dormono in fila nei letti / del cimitero […].”)  

[4] Ivi, pp. 155-175.

[5] Ivi, p. 13 (“[…] La seta dei miei versi, / perché tessa nell’aria / care forme.”)

[6] Ivi, pp. 8-11 (“[…] Ridiscendo la costa, / anni belli, / zufolo / a quella stria di nuvole leggere.”)

[7] Zufolo = strumento a fiato tipico della Sardegna costruito in legno, che emette il suono di un fischietto.

[8] Giuseppe Gerini, Poesie 1928-1962, Parma, Guanda, 1963, p. 37 (“Creature, senza parole / schiavi d’amore e morte / anch’essi, / colgono l’ora serena, / l’attimo senza pena, […].”) 

[9] Ivi, p. 67 (“[…] lo spirito notturno delle valli / non la gola dell’uomo ti risponde.”)

[10] Ivi, p. 111 (“[…] a Lui che tiene  il mondo, tiene tutto, / regola il ritmo delle vene ai polsi: / regola e ferma […].”)

[11] Ibidem (“[…] Sarà per sempre tuo penso, / quanto ne avrai: e ciò che è tutto. / Si, tutto. Veramente.”)

[12] Ivi, p. 112 (“[….] E quali, lo sai tu che ci raccogli / e ci riposi. Siamo la tua messe, / Signore. E di noi / forse seminerai tutt’altri campi / al d là degli spazii oltre il tempo / per fioriture nuove e senza morte.”)

[13] Ivi, p. 147 (“[…] Segui le nere spole / che suonando improvvise / rigano l’aria e si occultano / nelle verdi dimore. / Odi il canto del merlo / lungo i mesti viali. / Adàgiati, se puoi / ad ascoltare come stanno i morti.”)

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

“L’azzurro e l’obliquo” di Maria Luisa Colosimo, recensione di Lorenzo Spurio

L'azzurro e l'obliquo - Colosimo.pngTitolo di per sé ambiguo e che apre alle possibilità, a una fertile evocazione, questo dell’opera poetica di Maria Luisa Colosimo, L’azzurro e l’obliquo (Lebeg, Roma, 2017). Il volume, che si apre con una perspicace ed esaustiva nota critica firmata da Giovanni Perrino, si mostra formato da due comparti in sé ben definiti: un poemetto iniziale che copre svariate pagine, una sorta di dialogo con sé stessa, e poi una serie di liriche dalla fattura per lo più affine, numerate in senso progressivo da numeri romani, delle quali si apprezza, invece, la brevità dei contenuti espressi.

Perrino allude a una possibilità di “tonalità corale” nell’opera della Colosimo della fattispecie delle alte opere della classicità greca dove una sorta di rimando echeggiante, di feedback uditivo vien dato di percepire da una danza indefinita di voci e toni che in qualche modo accerchiano i protagonisti principali. C’è senz’altro, nel piglio letterario della Nostra, un dire che è dotato di una pluri-evocatività vale a dire che si realizza – o potrebbe realizzarsi – su piani linguistici e concettuali diversi. Nell’opera si rintracciano varie isotopie, ovvero immagini che, radicate nei versi, vengono reiterate, riproposte e utilizzate più e più volte, anche in contesti versificatori differenti, a intendere una centralità tematica. Non sono, però, come semplicisticamente si potrebbe essere portati a credere, delle vere e proprie unità tematiche, piuttosto delle sfumature di senso, delle aggettivazioni arcane e pertanto insondabili, delle metonimie che la sola autrice ha definito in quanto tali perché rilevanti nel suo percorso di acquisizione della realtà e di trasposizione nel testo. Mi riferisco all’universo, diremmo al grumo, dell’azzurro che, oltre a far capolino nel titolo, come pure nella tonalità dell’iride della donna raffigurata nella copertina, ritorna e accompagna il lettore in questo percorso poetico, scevro da logicismi, definizioni temporali o dettati che abbiano in qualche modo la volontà, pur velleitaria, di ricostruire un passato, una memoria e un presente in forma standardizzata, comune: “Ti parlo dell’erba/ e della memoria/ turchina/ che tutto lega/ come un filo di lana” (10-11).

È evidente il percorso compiuto di conoscenza del dolore e il tentativo d’interfacciarsi ad esso, sia esso dovuto da cause insondabili che la poesia non svela, sia esso più chiaro laddove, ad esempio, ci narra di distanze e difficoltà con la figlia femmina, in un percorso altalenante nel quale non è difficile scorgere il tormento, se non il vero avvilimento della donna poeta (“Nessuno si è mai messo/ in una situazione così/ moglie precaria/ e una figlia/ che non è/ una figlia”, 60; “Non voglio più/ vedere/ mia figlia./ […]/ Tre giorni ancora/ e la pazzia/ mi prenderà”, 66). Si tratta pur sempre di un “dolore/ nel silenzio/ e nell’azzurro invidiato” (12) ossia sospeso in uno spazio che sembra illusorio in quanto dominato dall’assenza e che, invece, è talmente preponderante e assiduo da riuscire finanche a macchiare quell’azzurro incontaminato che domina nel pensiero.

Il ragionamento ermeneutico non deve, però, tralasciare l’altro lemma che figura nel titolo, al quale la Colosimo ha senz’altro voluto attribuire un significato che va ben oltre a quello comunemente inteso. Con ‘obliquo’, infatti, intendiamo una posizione non regolare, non uniformata alla geometria retta, che tende verso un punto distante percepibile, appunto, secondo una direzione a diagonale, piuttosto che rettilinea. Obliqua può essere una direzione, una visuale (“La mia anima/ in fondo/ come occhi/ azzurri/ che guardano obliqui”, 16), la disposizione di un oggetto, la conformazione di un muro ma anche emblema di una stortura, di un’imperfezione che siamo in grado di cogliere. Può riguardare, qui nella materia poematica, un qualcosa che non ha riferimento diretto all’universo fisico e oggettuale piuttosto intimo, personale, dell’animo. Una predisposizione a vedere che ha in sé un vizio, un sentimento di rivolta interiore, un non soddisfacimento completo, un continuo e rivoltante pensiero che zirla nella mente e fastidia.

Ogni verso ha espressione, oltre che nei termini linguistici che lo costituiscono, in forme e tonalità di colori, sfumature, cromatismi spesso esplicitati, altre volte allusi o intuibili ma sempre e comunque assai vividi e presenti. Il colore (“È tardi per dipingere/ in rosso”, 23) è una dominante nell’opera della Colosimo che l’avvicina ancor più a un poeta visivo e tellurico come Federico García Lorca a cui pure Perrino si riferisce, indirettamente, senza citarlo, quando avvicina l’opera in oggetto ad una forma di composizione poetica tipicamente orientale, il divan. Celebre è infatti il Diván del Tamarit, una delle opere lorchiane meno studiate ma senz’altro efficaci per le forme adoperate, erede di un fascino incontaminato verso il gitanismo e, ancor più, la cultura del mondo arabo.

L’autrice riflette sui limiti umani in merito alla sua capacità di serbare fulgenti e concreti i ricordi che appartengono a un’età non più presente (“Vieni più vicina/ nel centro/ della memoria”, 25) come pure non manca di far riferimento a un male assai diffuso che ammorba l’animo degrandandolo, quello della solitudine. Solitudine che non viene dato di comprendere in maniera così asettica e invalicabile se sia in parte una sorta di scelta di distanziarsi dal mondo o se, invece, fa seguito a dati accadimenti che hanno preteso appunto la fine di una storia, la rottura di un legame, la fine delle relazioni sociali prima determinanti. Pare di poter propendere per tale seconda possibilità se consideriamo che mai nessuna persona anela consciamente a una completa solitudine che immancabilmente comporta un doloroso isolamento e separazione coatto dall’ambiente circostante. Oltretutto, nella poesia indicata come “VIII” (le liriche, infatti, non hanno titolo) leggiamo: “Troppo stentata/ la mia vita/ troppo bisognosa/ di riparazione/ troppo bisognosa/ di misericordia” (48). Sono presenti in tali versi due concetti molto importanti per il cristiano: la nemesi, vale a dire il riconoscimento di una problematica che è risolta con un atto di compensazione (s’intende ovviamente non in termini meramente materiali!), quale appunto “riparazione” come la stessa dice e, al contempo, la misericordia che è quel sentimento di autentica e disinteressata vocazione e ascolto verso l’altro. La ricerca di una misericordia e di una riparazione, vale a dire l’esigenza di porre pace con sé prima che con gli altri, possono allora configurarsi come motivi trainanti che potrebbero consentire di rompere la solitudine e di lenire il tormento.

Nelle Diciannove poesie, che è la seconda sezione dell’opera, molte attenzioni vengono riposte nei confronti del rapporto con la figlia, ora distante, ora incompresa dalla madre, ora cercata e riavvicinata. Monologhi che si aprono, dunque, a un’alterità a lei così intima che finiscono per diventare dialoghi sussurrati, talora addirittura moniti per un riavvicinamento e una sana alleanza tra le due. Latente e palpabile quel sentimento di tormento e di pesantezza dal quale la poetessa non sembra capace o volitiva dal distanziarsi, evidenziato così bene in quegli “occhi/ che/ mangiano/ la vita/ poco/ a/ poco” (69), segno di un’erosione continua che non sembra possibile arrestare. Eppure l’occhio che da obliquo ha descritto la realtà circostante e il microcosmo devastato dalla sofferenza, sa anche alzarsi e gettare il suo sguardo rettilineo: “Non è troppo caldo/ non è troppo freddo/ per guardare/ le foglie e l’asfalto” (14).

Lorenzo Spurio

Jesi, 14-02-2018

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.  

Donne e critica letteraria in Italia oggi. Il 3 marzo incontro a Sasso Marconi (BO) con Renata Morresi e Alessandra Trevisan

Le Voci della Luna sono fiere (e liete) di invitarvi all’evento dedicato alla giornata internazionale della donna, inscritto all’interno del programma della città di Sasso Marconi. ​Durante l’evento sarà presentato il numero 70 della rivista de Le Voci della Luna dedicato al tema dell’8 marzo. ​
 
Donne e critica letteraria in Italia oggi 
Un punto sulla critica letteraria di poesia prodotta da donne o su opere di donne in Italia oggi.
 
Dialogheranno con noi:
Liana Borghi, Giusi Montale, Renata Morresi, Alessandra Trevisan
 
Letture e riflessioni sulla poesia delle donne, anche a partire dagli interventi del pubblico.
 
L’incontro si svolgerà sabato 3 marzo alle ore 16.00 presso la Sala Giorgi in via del mercato 13 aSasso Marconi.
 
Locandina Carte da Slegare.png
 
 

Non si dovrebbe ricorrere a questi espedienti, se ci fosse parità e intesa cristallina tra i sessi, se gli esseri umani non vivessero anche di scontri, conflitti e soprusi legati proprio a quella differenza, se il potere non avesse preso e prendesse quasi sempre dimora presso una delle due parti. Ma così è, e allora eccoci a un altro 8 marzo, a un altro numero della nostra rivista dedicato esclusivamente alle donne: quelle che si occupano di poesia, scrivendola; quelle che la studiano dal punto di vista critico; quelle che sperimentano la scrittura a trecentosessanta gradi; quelle che, con uguale passione, fanno arte.

“Poeti e prosatori alla corte dell’Es”: presentazione a Milano martedì 27 febbraio

La nota poetessa e scrittrice milanese ha organizzato un evento che si terrà a Milano presso l’Unione Lettori Italiani al Grechetto  (Biblioteca Sormani) martedi 27 febbraio alle ore 17,30. In tale circostanza avrà luogo la presentazione del volume Poeti e prosatori alla corte dell’Es (Anima Mundi Edizioni). Si tratta di un libro e di un tema particolarmente interessante: il rapporto fra inconscio e letteratura, un argomento affascinante intorno al quale si articolano le interviste/saggio realizzate dallo psichiatra e  poeta Giancarlo Stoccoro, che ha coinvolto alcuni dei maggiori nomi  della nostra poesia, da Franco Loi a Milo De Angelis,  in un dialogo sull’argomento a partire dalla loro personale esperienza. Diversi poeti e narratori che hanno contribuito al volume ne discuteranno con lui durante questo incontro alla Sormani.

unnamed

Il sogno di «Atelier» non ha confini: la nuova versione in lingua inglese

Il sogno di «Atelier», la nota rivista letteraria fondata da Giuliano Ladolfi nel 1996, non ha confini: dopo ventidue anni di vita cartacea, tre anni di «Atelier online», sul sito wwwatelierpoesia.it è disponibile il primo supplemento in inglese, a cura di Francesca Benocci, direttrice dei supplementi internazionali. Non si tratta di rincorrere mode esterofile, settore in cui l’Italia costituisce un modello pressoché irraggiungibile nel mondo, ma di diffondere anche all’estero un originale progetto di poesia e di ampliare il dibattito in altre zone del Pianeta al fine di arricchire le patrie lettere con contributi provenienti da ogni parte del globo e di arricchire il globo con le patrie lettere.

«Atelier» è e resterà un luogo di incontro tra coloro che credono nel valore umano della scrittura in versi. La redazione è composta da giovani studiosi che vivono in diverse parti del pianeta: Michele Bologna, Riccardo Canaletti, Anna Gadd Colombi, Angelo Nestore, Julian Peters, Matteo Pupillo, Meredith Paterson, Nicola Verderame.

Il primo numero si apre con un indice interattivo sui contenuti sullo sfondo di un mappamondo sul quale sono indicati i luoghi di lavoro degli autori. Segue l’editoriale del direttore Giuliano Ladolfi che indica gli obiettivi della nuova iniziativa («Atelier»: people-oriented poetry), quindi la presentazione del numero da parte di Francesca Benocci e una parte di un lungo saggio dello stesso Ladolfi di carattere estetico.

Angelo Nestore, in uno studio in spagnolo e inglese, parla dei festival della poesia in Spagna. Interviene quindi Julian Peters che presenta il resoconto, corredato da immagini, del suo viaggio in India. Segue la selezione di poesie di Mario De Santis, presentate da Giuliano Ladolfi e tradotte dalla direttrice editoriale. Chiude un saggio di Maredith Paterson dal titolo “Translating Sopuns: The OralitY of Ya-Wen Ho’s Poetry”: i tre poemi dello scrittore cinese sono corredati di simboli distintivi e della scritta “clic for audio” che consente di sentire l’audio di ciascun poema.

La parte grafica è curata da Francesca Benocci e da Francesco Teruggi.

Con il consenso del sig. Giuliano Ladolfi diamo pubblicazione per intero, nella parte che segue, all’editoriale da lui firmato per il prossimo numero dal titolo “«Atelier»: una poesia a misura d’uomo”, proponendolo prima in lingua originale e poi nella sua versione in lingua inglese.

 

Son l’aratro per solcare


Clemente Rebora, Frammento LXXII

 

La rivista «Atelier», trimestrale di poesia, critica e letteratura è nata nel 1996 su un preciso proposito estetico-filosofico.

«In tempi di solitudine e soffocante vaniloquio, di disaffezione e convulse trasformazioni, la nascita di una rivista di letteratura è insieme epilogo ed assunto, coinvolgimento nell’agonia di un ormai spento orizzonte poetico, ovvero di una determinata apertura di linguaggio sul magma dell’esistenza, e progetto (necessità, scommessa, urgenza) di una nuova, cioè rinnovata, modalità di chiedere sensatezza al mondo per il tramite della parola. È una risposta negativa, ma sofferta alla presunta morte della poesia, nella convinzione che muore una precisa pratica poetica, per lasciar spazio ad una differente coscienza creativa, tale da permettere la traduzione in forme inedite delle istanze che muovono da sempre una tradizione.

Il nostro appello è progetto di un luogo di ricerca e cernita, contro lo spreco verbale; un luogo di ascolto e sintesi nella deriva dei linguaggi. Niente di astratto: cerchiamo qui, in questo tempo disumano, voci di umanità, parole che siano schegge penetranti, testimonianze di un passaggio memorabile. C’è una fame repressa e incompresa di poesia, mossa da una fame immane di umanità: chi affonda lo sguardo nella miseria occultata dal delirio; chi sa attraversare compatente i luoghi in cui si mercanteggia la parola e la poesia s’impaluda e tradisce – premi, riviste, case editrici, giornali… –, non può non sentirla. Nessuna fuga verso un’apollinea terra promessa, dunque, perché uno stile, il particolare angolo di incidenza sul mondo dato alla parola, è sempre un’ipotesi di civiltà. E anche l’ironia e la finzione sono accessi “altri” al dramma della storia. Non crediamo nei facili profeti, nelle palingenesi millenaristiche, nei manifesti reboanti, ma nell’ascolto paziente, nella passione trasparente, nello scavo dell’acqua che smuove il terreno.

ATELIER 84 Cope tipografia-page-001.jpg

Un precedente numero della rivista “Atelier”

Non abbiamo la supponenza di crederci originali; sappiamo che l’originalità è fedeltà al destino di una tradizione. Sentiamo semplicemente la necessità di iniziare un lavoro, perché “chi non sceglie una tradizione si limita a subirla” (Fortini) e il destino non è un fatto personale (poesia come espressione di sé, chiusa concupiscenza), ma un orizzonte di significanza che si apre nel linguaggio (poesia come insorgenza di senso ed accesso all’essere, cioè particolare forma di comunicazione). Questo, dunque, il nostro intento: contribuire al progetto della nuova poesia, con umiltà e discrezione, con la povertà dei nostri mezzi, per offrire nudo, e perciò costruttivamente criticabile, l’entusiasmo delle idee. Pro-gettiamo: buttiamo oltre il guado le proposte lasciando al di qua i personalismi e i pregiudizi. Siamo cioè spregiudicati e allo stesso tempo disillusi, poiché un assunto non può che essere germinale e appassionato. Siamo pronti a svolte, ripensamenti, crisi, fallimenti e successi; potremo prendere abbagli, correggerci lungo il percorso: il nostro è un fare tentativo, sperimentale. Siamo fedeli al futuro.

Non cerchiamo, perciò, uno spazio “tra” le altre riviste per coltivare il nostro orticello di vanità. Vorremmo creare gruppi aperti, costruire camminamenti che uniscano ciò che a molti pare separato e incomunicabile, iniziare un viaggio “attraverso”, “dentro” tutti gli spazi già consolidatisi e nascenti, per rubare in ognuno di essi un germe, un’intuizione, un appello, per rintracciare ovunque i riverberi di quel destino che ci unisce, con la speranza, anzi, di percorrere il tratto “con” molti altri.

Un luogo di incontro e lavoro, ecco la nostra rivista: incontro fra cultura ufficiale e cultura reale, fra teoria e pratica, fra critica e poesia, fra tradizione e nuove proposte. Un luogo in cui la militanza (il futuro non si aspetta, si suscita) sposa la ricerca scientifica, poiché uno sguardo progettuale deve per sua natura coniugarsi con uno sguardo retrospettivo audace – ed urge, oggi, una rivisitazione globale del Novecento, manifestatosi ormai nella sua compiutezza. Non solo poesia perciò, dal momento che ogni pratica di scrittura va ripensata nel rapporto dialettico con le altre.

Ecco perché abbiamo scelto di chiamarci “Atelier”: siamo artigiani della parola, letterati che non temono di sporcarsi le mani per tracciare qualche sentiero. Siamo attenti alla pratica della poesia, alla concrezione di lingua e vita nella scrittura, attenti soprattutto al testo, ma senza affettazioni accademiche e sterili intellettualismi, perché solo qui si invera e misura una poetica. Atelier: un luogo accessibile, di incontro, di progettazione, non il laboratorio occulto dell’esteta, non una stanza di astrusi alambicchi. L’autenticità del nostro movente è indicata dalla fragilità di chi si pone senza maschere, forse persino dall’ingenuità che accompagna la genuinità di queste pagine dimesse, sempre provvisorie, sempre consapevolmente inadeguate alle intenzioni – sempre in tensione. (Qui, sia chiaro, parliamo impudicamente di quel fronte minore che si affaccia sulla letteratura, dolorosamente consapevoli che “la minima buona azione – come ricordava Jahier – vale la più bella poesia”).

Per tutte queste ragioni abbiamo bisogno di lettori forti, animati dalla nostra stessa fame di opere sapide di umanità, capaci anche di migliorarci con critiche e consigli, perchè sinceramente impegnati, con noi, nell’amorevole ricerca di un avamposto dove tentare, con gesti gravidi di poesia, di svegliare l’aurora » (Marco Merlin, Editoriale del n. 1, aprile 1996).

Durante quasi tutto il Novecento, infatti, la poesia si è limitata a dire «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (E. Montale) come prova che la cultura occidentale, secondo la profezia di Heidegger, è giunta al termine. Nell’ultima parte del ventesimo secolo alcuni segnali hanno indicato che il vertice della parabola discendente è stato raggiunto e che lentamente si stavano tracciando nuove vie. In quella fase storica e culturale la poesia era diventata “rivelazione” di quel doloroso transito e “testimonianza” della rinascita di un nuovo umanesimo.

«Atelier» in quel momento si era posta in ascolto dei segni “minimi” in un àmbito che, superando il puro fatto letterario, cercava di estendersi alla comprensione dell’intero periodo storico. In tale prospettiva aveva assunto significato particolare la duplice operazione di rileggere criticamente il passato e di dar voce a nuovi autori.

hqdefault.jpg

«Distruggi con attrezzi nunziali» consigliava René Char e «Atelier» si era proposta alla fine del secolo una rilettura della poesia italiana del Novecento secondo una visione critica che, superando un’analisi strutturalista e formalista incapace di comprendere la letteratura nelle sue molteplici valenze, considerava i testi come prodotto di un uomo colto nella concretezza storica, sociale e psichica, senza limitarsi a trattare di stili e di contenuti, ma affrontando anche in modo “audace” il problema della valutazione secondo una concezione estetica rivoluzionaria (cfr. Filologia, critica e antropologia letteraria, «Atelier», n. 5, marzo 1997).

Alla luce di una simile impostazione si è lavorato poi anche sulla recente poesia italiana mediante uno studio critico sistematico e mediante la presentazione di nuovi autori, nella convinzione che fosse necessario riscoprire il valore della “parola” perché tornasse a dire “ciò che siamo e ciò che vogliamo”. Si trattava però di una parola profondamente diversa da quella del poeta-vate, guida dei popoli, diversa dalla parola illuminatrice dei Decadenti, si trattava di una parola umile, che affannosamente cercava una piccola e provvisoria verità, un brandello di certezza destinato a essere superato da altre ricerche, una parola “umile”, che da questa umiltà traeva la sua consapevolezza e la sua missione etica.

La nostra prospettiva critica non poteva non suscitare dibattito all’interno della cultura italiana, pertanto, in conformità agli obiettivi originari, la rivista si era presentata come un vero e proprio “laboratorio” di idee, aperto a tutti coloro che sapessero presentare opere o riflessioni di valore. Lontani da ogni intento di consorterie o di interessi estranei alla letteratura, «Atelier» aprì un vero e proprio dibattito sulla condizione della poesia con tutti coloro che amavano la scrittura in versi.

E proprio nella prospettiva di una strenua attenzione all’attualità assunse significato l’obiettivo di valorizzare i giovani, la parte della società più sensibile ai cambiamenti. Non è un caso che uno dei due direttori, Marco Merlin, abbia iniziato con il sottoscritto questa avventura all’età di 23 anni e che abbiamo offerto spazio alla nuova generazione. E testimonianza dell’enorme interesse dedicato ai giovani è l’antologia L’opera comune. Poeti nati negli Anni Settanta (1999) e La generazione entrante Poeti nati negli Anni Ottanta (2011), quest’ultima a cura di Matteo Fantuzzi.

Non è mancato uno sguardo alle letterature straniere, soprattutto dal 2014, quando è cambiata la direzione editoriale della pubblicazione cartacea, passata da Marco Merlin a Guido Mattia Gallerani, e quando Fabiano Alborghetti ha iniziato l’avventura di «Atelier online» (www.atelierpoesia.it), che presenta in rete testi di autori di tutto il mondo.

Con questa nuova iniziativa ci accingiamo ad affrontare una terza avventura: sotto la direzione di Francesca Benocci, la nostra rivista si apre in modo più determinato all’intero pianeta con il duplice obiettivo di diffondere anche all’estero il nostro progetto di poesia e di ampliare il dibattito in altre zone del pianeta al fine di arricchirci e di arricchire. La globalizzazione economica non sempre corrisponde a una globalizzazione culturale e troppo spesso persegue obiettivi finanziari, estranei agli intenti genuinamente letterari.

Per tali motivi vorremmo che «Atelier International» diventasse un luogo di “incontro” e di “confronto” mondiale, con il seguente programma:

  1. Fondazione di un’estetica a misura d’uomo, capace di distinguere la filologia dalla critica letteraria;
  2. Proposta di una poesia “a misura d’uomo”;
  3. Studio della poesia contemporanea;
  4. Motivate valutazioni di testi contemporanei senza sudditanza psicologica, audaci al punto di suscitare critiche con ricadute salutari;
  5. Valorizzazione dei giovani e di autori di valore lasciati al margine dalla critica ufficiale;
  6. Dibattiti su questioni “fondanti”;
  7. Organizzazione di convegni, incontri, in ogni parte del pianeta;
  8. Pubblicazione di testi di valore.

Oggi più che mai si avverte l’improrogabile bisogno di aprirsi a una dimensione mondiale e lo si avverte proprio perché la cultura occidentale è giunta al “suicidio” nella concezione nichilista dell’esistenza. La grande tradizione classica, cristiana, illuminista e romantica ha ceduto il passo al vuoto culturale, testimoniato dal Decadentismo e dal Novecento, per cui soltanto un innesto con altre tradizioni può costituire il farmaco in grado di rivitalizzare la cultura del nostro continente. E, se consideriamo che la nostra mentalità sta occupando l’intero pianeta, non può sfuggire come questa operazione presenti caratteri di urgenza.

Si tratta soltanto di un sogno? Nessuno pretende sconvolgere il mondo, vogliamo soltanto offrire il nostro contributo di pensiero e di lavoro secondo i versi di Clemente Rebora: «Son l’aratro per solcare
 / altri cosparga i semi, / altri èduchi gli steli,
/ altri vagheggi i fiori,
 / altri assapori i frutti».

 

Di seguito l’editoriale in lingua inglese:

 

«Atelier»: people-oriented poetry

Giuliano Ladolfi

Translated by Francesca Benocci

 

Son l’aratro per solcare

(I am the plough to dig)


Clemente Rebora, Fragment LXXII

«Atelier» magazine, a poetry, literature, and literary criticism quarterly, was born in 1996 from a precise aesthetic-philosophical resolution.

«In times of solitude and choking nonsense, of disaffection and convulsive transformations, the birth of a literary magazine is both an epilogue and an assumption, an involvement in the agony of an already dull poetic horizon, in other words of a determined openness of language on the magma of existence, and project (need, bet, urgence) of a new, that is renewed, modality of asking the world for sensibility through words. It is a negative, but pained, answer to the alleged death of poetry, in the conviction that a specific poetic practice is dying, to make space for a different creative consciousness, such to allow the translation of those instances that have forever moved a tradition into an unprecedented form.

Our project of a place of research and sorting, sifting verbal waste; a place of listening and synthesis in the drift of languages. Nothing abstract: we seek herein, in this inhuman time, voices of humanity, words that are penetrating slivers, testament to a memorable passage.  There is a repressed and misunderstood hunger for poetry that arises from an enormous hunger for humanity: those who dip their sight in the misery effaced by delirium; who know how to commiseratingly cross those places in which words are bartered and poetry gets stuck in the mud and betrays – prizes, journals, magazines, publishing firms, newspapers -, cannot ignore it. No escape towards a Dionysian promised land, then, because a style, that peculiar angle of incidence on the world given to words, is always a hypothesis of civility. And even irony and fiction are “other” accesses to the story’s drama. We do not believe in easy prophets, in millenarian palingenesis, in rambling manifestos, but in the patient listening, in the transparent passion, in the digging of water that moves soil.

We do not have the hubris of believing ourselves unique; we know that uniqueness is fidelity to the destiny of a tradition. We simply feel the need of starting something, because “who does not choose a tradition can only endure it” (Fortini) and destiny is no personal matter (poetry as the expression of self, closed concupiscence), but a horizon of significance that opens into language (poetry as insurgence of sense and access to existence, that is a particular form of communication). This is, then, our intent: to contribute to the new poetry project, with humility and discretion, with the poverty of our means, to offer – naked, so potentially the object of constructive critique – the enthusiasm of ideas. We ‘project’: we throw our proposals across the ford, leaving on this side personalisms and prejudice. We are then both unbiased and disillusioned, since an assumption can only be germinal and passionate. We are ready for turning points, rethinking, crises, failures and successes; we might blunder, and correct ourselves along the way: our ‘doing’ is tentative, experimental. We are loyal to the the future.

download

Giuliano Ladolfi

We are thus not looking for a space “between” the other magazines to nurture our little garden of vanity. We would like to create open groups, builds paths that unite what many see as separate and incommunicable, begin a journey “through”, “inside” all those already consolidated or newborn spaces, to steal in each one of them a seed, an intuition, a plea, to track everywhere the reverberations of that destiny that unites us, with the hope, actually, of walking this stretch “with” many others.

Our magazine is space of encounter and work between official and real culture, theory and practice, critique and poetry, tradition and new proposals. A space in which activism (you cannot wait for the future, you have to cause it) joins scientific research, because a projectual gaze has to naturally conjugate with a daring retrospective one – and it is pressing, today, a global revisitation of the 20th century, that by now has manifested itself in its entirety. Not only poetry, then, since every writing practice has to be rethought in its dialectic relation with the others.

And that is why we decided to call ourselves “Atelier”: we are artisans of the word, literati that are not scared of getting their hands dirty to trace some paths. We are mindful of the practice of poetry, of the concept of language and life in writing, above all we are mindful of the text, but with no academic pretence and sterile intellectualism, because only here the poetic is made true and measured. Atelier: an accessible space, of encounter, of planning, not the occult laboratory of the aesthete, not a room of abstruse alembics. The authenticity of our motivations is suggested by the frailty of those who pose unmasked, maybe even by the naivety that accompanies the sincerity of these demure pages, always temporary, always consciously inadequate to the intentions – always in tension. (Here, to be clear, we shamelessly talk of that minor front that opens on literature, painfully conscious that “the smallest good deed – as Jahier reminds us – is worth the best poem”).

For all these reasons we need strong readers, animated by our same hunger for works tasty of humanness, also able to give critique and advice, because sincerely engaged, with us, in the loving search for an outpost from which to attempt, with gestures pregnant with poetry, to awaken dawn» (Marco Merlin, Editorial of n. 1, April 1996).

During almost all of the 20th century, as a matter of fact, poetry has limited itself to saying «what we are not, what we want not» (E. Montale) as proof that the Western culture, as predicted by Heidegger, has come to its end. In the last part of the century some signs indicated that the vertex of the descending parabola had been reached and that new ways were slowly being drawn. In that historical and cultural phase poetry had become “revelation” of that painful shifting and “testimony” of the rebirth of a new Humanism.

«Atelier» at the time tuned itself into listening to the “minimal” signs of an environment that, superseding the pure literary fact, was striving to extend to the comprehension of the historical moment in its entirety. In that perspective, the double operation of critically re-reading the past and giving voice to new authors was of paramount importance.

ATELIER 85 Cope-page-001.jpg

Un precedente numero della rivista “Atelier”

«Destroy with nuptial tools» René Char advised, and «Atelier» proposed itself, at the end of the century, a re-reading of ‘900’s Italian poetry according to a critical vision that, overcoming a structuralist and formalist analysis unable to encompass literature in its multifaceted significances, considered texts as the product of an educated man in historical, social, and psychic concreteness, without the limitation of having to deal with style and content, but also “boldly” facing the problem of the evaluation according to a revolutionary aesthetic conception (see Filologia, critica e antropologia letteraria, «Atelier», n. 5, March 1997).

In light of a similar configuration we have also worked on recent Italian poetry by mean of a systematic critical study and the launch of new authors, with the belief that a rediscovery of the worth of the “word” was necessary, for it to go back to saying “what we are and what we want”. It was, though, a very different word from that of the poet-prophet, guide of the people, different from the illuminating word of the Decadents; it was a humble word, that was frantically seeking a small, temporary truth, a shred of certainty destined to be superseded by further research, a “humble” word, that from this humility drew its awareness and its ethical mission.

Our critical perspective could not fail to raise a debate in Italian culture, therefore, in conformity with the original objectives, the magazine presented itself as a true and proper “workshop” of ideas, open to all those who had valuable work or reflections to offer. Far from any aim at a clique or at interests other than literature, «Atelier» opened a real debate on the condition of poetry with all the lovers of verse writing.

And precisely in this perspective of a strenuous attention to modernity, the objective of promoting the young – that part of society more sensitive to change – acquired its meaning. It is not accidental that one of the two directors, Marco Merlin, started this adventure with yours truly at the age of 23, and that we granted space to the new generation. And testimony to the huge interest in the young is the anthology L’opera comune. Poeti nati negli Anni Settanta (1999) and La generazione entrante Poeti nati negli Anni Ottanta (2011), this last edited by Matteo Fantuzzi.

Foreign literature has not been neglected, either, especially since 2014, when the editorial direction of our paper issue shifted from Marco Merlin to Guido Mattia Gallerani, and when Fabiano Alborghetti started the «Atelier online» adventure (www.atelierpoesia.it), which represents texts by authors worldwide, in Italian translation.

With this new initiative we are preparing ourselves for a third adventure: under Francesca Benocci’s direction, our magazine opens in a much more determined way to the whole planet with the aim of enriching us and everybody else. Economic globalisation does not always correspond to a globalisation of culture and too often it pursues a monetary aim, alien to genuinely literary intentions.

For these reasons we would like «Atelier International» to become a space of global “encounter” and “exchange”, with the following programme:

  1. a) Establishment of a people-oriented aesthetic, able to distinguish philology from literary criticism;
  2. b) Proposal of a “people-oriented” poetry;
  3. c) Study of contemporary poetry;
  4. d) Motivated evaluations of contemporary texts without any psychological subjection, daring to the point of becoming criticism with healthy repercussions;
  5. e) Promotion of the young and of valuable authors left on the sidelines by official critique;
  6. f) Debate on “core” matters;
  7. g) Organisation of conferences, meetings, all over the world;
  8. h) Publication of valuable texts.

 

Today more than ever one feels the undelayable need of opening up to a global dimension and it is perceived precisely because Western culture has come to its “suicide” in the nihilistic conception of existence. The great Classic, Christian, Illuminist, and Romantic tradition has given way to cultural void, testified by Decadentism and 1900, therefore only a graft with other traditions can constitute the medicine able to revitalise our continent’s culture. And, if we consider that our mentality is occupying the whole planet, it cannot be missed how this operations presents a characteristic urgency.

Is it just a dream? Nobody wants to turn the world upside down, we only want to offer our contribution of thought and work, along the lines of Clemente Rebora’s verse: «Son l’aratro per solcare
 / altri cosparga i semi, / 
altri èduchi gli steli,
 / altri vagheggi i fiori,
 / altri assapori i frutti». («I am the plough to dig / others scatter the seeds, / others bring up the stems,/ others admire the blooms, others savour the fruits»).

 

Giuliano Ladolfi Editore s.r.l.

Amministratore Delegato

Fondatore e Direttore Rivista Atelier

Corso Roma 168 – 28021 Borgomanero (NO)

Tel. 032-2835681

Mai: ladolfi.editore@gmail.com

Sito casa editrice: www.ladolfieditore.it

Sito rivista: www.atelierpoesia.it

 

Si pubblica su questo spazio online l’editoriale del prossimo numero di “Atelier” firmato da Giuliano Ladolfi dietro sua richiesta e concessione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. Parimenti, con le medesime condizioni, si riporta il testo integrale dell’editoriale in lingua inglese tradotto da Francesca Benocci.

Sabato 24 febbraio il primo incontro del ciclo di eventi letterari “Cattivi dentro”, attorno al saggio di L. Spurio vincitore del Premio Casentino 2017

Sabato 24 febbraio alle ore 17:30 presso la Biblioteca La Fornace di Moie di Maiolati Spontini (AN) con il Patrocinio del Comune di Jesi e della Provincia di Ancona si terrà il primo appuntamento del ciclo di eventi letterari attorno al recente saggio Cattivi dentro. Dominazione, violenza e deviazione in alcune opere della letteratura straniera […]

via “Bambini cattivi: disadattamento e incomprensione” sabato 24 febbraio il primo incontro tematico su “Cattivi dentro” di Lorenzo Spurio — Associazione Culturale Euterpe

Reading poetico “La goccia non è sinonimo di maltempo, ma la lacrima del mio malcontento” a Palermo il 23 febbraio

Venerdì 23 febbraio a partire dalle 17 presso la Sala Novecento dell’Hotel Joli a Palermo (Via Michele Amari 11) si terrà il reading poetico “La goccia non è sinonimo di maltempo, ma la lacrima del mio malcontento” a cura del poeta e scrittore Luigi Pio Carmina, redattore della rivista di letteratura “Euterpe”. L’evento, organizzato con la collaborazione di Libreria Spazio Cultura e del Liceo Musicale “Regina Margherita” di Palermo, sarà presentato assieme alla poetessa Miriana Di Paola e vedrà anche la proiezione di opere dell’artista Edoardo Dispenza. Seguiranno interventi musicali di Gabriele Antinoro (violino) e Marco Di Giuseppe (chitarra) del Liceo Musicale “Regina Margherita”.

Info: luigicarmina@gmail.com 

28233231_1709823232393967_1548552937_n.jpg

“Il morso” di Simona Lo Iacono, recensione di Gabriella Maggio

il-morso.jpgPalermo, barocca e misera, potente e asservita ha storie da raccontare, di gente nota, i Ramacca, gli Agliata e di tanti di cui affiorano solo scarse testimonianze, come Lucia Salvo. La quotidianità che scorre monotona non ha fascino per chi compone un racconto, perciò la scrittrice ricerca quello che va al di là dell’apparenza, che sfiora il mistero del non detto e dell’inconsapevolezza, come il fatto che segna la vita di Lucia o la mutilazione che rende il castrato signorino Angelo, forse. Ma controvoglia. Sono due creature che contro il buon senso del tempo non reputano una fortuna essere spettatori delle ricchezze e degli eccessi dei nobili, ma le considerano semplicemente una dannazione e una complicazione dell’anima. Questa convinzione porta Lucia a respingere l’assalto amoroso del Conte figlio con un morso da furetto. Da qui il titolo del romanzo e la citazione in epigrafe da Giorno dopo giorno di S. Quasimodo in cui ricorre la parola morso. Nel romanzo Lucia morde per difesa, nella poesia il morso è inferto dal dolore, dalla violenza, dalla guerra. Ma identica è la separazione netta tra chi opprime e chi è oppresso, tra chi è nato per servire e chi deve essere servito. A servire è destinata Lucia Salvo, ma il fatto la rende intimamente libera, è la creatura più libera che io conosca, dice il conte figlio. La storia si svolge alla vigilia della rivoluzione siciliana del 1848 a Palermo, un’epoca che stava cambiando e che nessuno prendeva sul serio… Non la nobiltà, rammollita dalle decime e senza occhio analitico. Non la borghesia nascente, figlia povera della nobiltà stessa e già incline a imitarne tutti i vizi. Il popolo sì che, invece, fremeva. Di fame, di peste, di pidocchi e ansie. Nel groviglio dei fatti personali e politici che s’intrecciano e sfociano nella rivoluzione del 12 gennaio 1848 a Palermo viene inconsapevolmente coinvolta Lucia, che vi scoprirà per brevi istanti l’amore per lo sconosciuto prigioniero dagli occhi verdi, che la spinge a un generoso gesto di coraggio. Ma l’amore è un breve lampo e il suo destino di babba, pazza, non può che compiersi. A metà dell’Ottocento in Sicilia le donne di qualunque condizione sociale non riescono a sfuggire al loro destino di succube del mondo maschile. Neanche la giovane Assunta degli Agliata vi riesce.

1494782607008.jpg--_il_morso___il_nuovo_romanzo_di_simona_lo_iacono_ispirato___a_siracusana_.jpg

L’autrice Simona Lo Iacono

Inquieta e desiderosa di scegliere il proprio destino per sfuggire alla condizione nella quale si trova la madre, inebetita dai numerosi parti, compie tentativi confusi e contraddittori. La sua vaga aspirazione alla libertà è alimentata dai discorsi delle monache e dalle letture che le precludono un vero contatto con la vita: La vita, la vita vera-sospira-le pare a un tratto romantica come i libri di quel Cervantes…  Alla fine sposa un vecchio e ricco nobile, che la obbliga a figliare a dispetto del disgusto. Con stile sobrio e coinvolgente, venato a tratti d’ironia, Simona Lo Iacono il “Il morso” (Neri Pozza, 2018) affronta ancora una volta storie di donne contestualizzandole nel tempo e nello spazio del romanzo con il suo abituale impegno civile, nella rappresentazione-denuncia di un mondo ignorante e arido volto solo ai piaceri e al dominio.

L’autrice

Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970, è magistrato e presta servizio presso il tribunale di Catania. Nel 2016 ha pubblicato il romanzo “Le streghe” di Lenzavacche (Edizioni E/O), selezionato tra i dodici finalisti del Premio Strega.

GABRIELLA MAGGIO

L’autrice della presente recensione dichiara, sotto la sua unica responsabilità, di essere la naturale e unica proprietaria dei diritti sul testo. La pubblicazione del testo è consentita su questo spazio dietro autorizzazione dell’autore senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

E’ uscito il volume “Il tratto dell’estensione” della poetessa toscana Adua Biagioli Spadi

Il tratto dell’estensione di Adua Biagioli Spadi, La Vita Felice Edizioni, Milano, 2018.

 

il-tratto-dellestensione-cover definitiva

Sinossi:

Il passaggio evolutivo e sequenziale di tre maglie di un unico percorso: uno sguardo acceso sulla recezione emozionale e umana delle vicende della vita, tra incanto e disincanto, gènesi-mondo e gènesi-io. Quindi siamo di fronte alla germinazione naturale del crescendo emozionale, un percorso che fluttua intorno alla realtà ricercando una possibile rinascita nel luogo interiore. La parola poetica si fa linea e traccia della verità, segno e constatazione, fino al candore e all’autenticità della visione. La voce poetante fa il suo ingresso nel destino in cui annoda ricordi, cammini e l’abisso segreto dell’amore. 

 

Poesia (dalla quarta di copertina)

Cosa ne faranno le lune

di questo cuore in disuso dimmi,

dei tuoi occhi di foresta che il tempo mi concesse

colpe divise a schiera quasi fossero

biglie per gioco, ferite inferte, veleno per piante.

Ho chiesto alla rosa il senso del fragile,

il precoce spezzarsi della ghianda:

il silenzio trova sempre un posto per inserirsi,

scava sempre il niente e il tutto per estensione.

 

L’autrice

10525964_785269558226041_2363481307785967929_n (1).jpgAdua Biagioli Spadi, pittrice, Maestra d’arte e Operatrice Culturale opera a Pistoia. È presente in numerose pubblicazioni antologiche di premi letterari nazionali e internazionali, tra cui Ambrosia, presentata a EXPO’ 2015 – Milano e Novecento e non più. Verso il Realismo Terminale presentata alla Fiera di Roma 2016, in Agende Poetiche. Socia di diverse accademie letterarie, a Giugno 2015 ha pubblicato la sua opera prima: L’Alba dei papaveri” – Poesie d’amore e identità, vincitrice del 2° Premio Letterario Giovane Holden 2016 per la sezione poesia edita. Interessanti recensioni sul libro si trovano su riviste letterarie “La Nuova Tribuna Letteraria” e “Qui Libri”. A Maggio 2017 ha pubblicato il libro Farfalle, un piccolo libro d’Arte a tiratura contenuta di pezzi unici contenenti unica poesia e disegni dell’autrice. Da Luglio 2017 lo stralcio di una poesia tratta da “L’Alba dei papaveri” viene scolpito su stele in pietra serena e ubicato in località San Pellegrino di Sambuca Pistoiese per la valorizzazione della cultura e della montagna (Progetto culturale Parole di Pietra). Il suo sito internet è  www.aduabiagioli.it.

Sabato 17 febbraio alla Casa della Poesia di San Benedetto del Tronto la presentazione dell’antologia “Adriatico”

Nuova tappa del progetto umanitario della Ass. Euterpe di Jesi 

Presso la Sala della Poesia di Palazzo Bice Piacentini di San Benedetto del Tronto (Via del Consolato 14) sabato 17 febbraio si terrà la presentazione della antologia “Adriatico: emozioni tra parole d’onde e sentimenti” curata da Stefano Vignaroli, Lorenzo Spurio e Bogdana Trivak e promossa dalla Associazione Culturale Euterpe di Jesi (AN) con la finalità di sostenere l’Istituto Oncologico Marchigiano.

Nel volume trovano posto circa duecento testi di autori italiani e stranieri che hanno deciso di aderire all’iniziativa tutta imperniata sul tema cardine del mar Adriatico, mare che fa da sponda tra le due coste, quella Italiana e quella Balcanica. Significativa la presenza di opere di intellettuali stranieri tra cui Borce Panov (Macedonia), Bozidar Stanisic (Bosnia), Irma Kurti (Albania), Sotirios Pastakas (Grecia) e numerosi altri.  Nel libro anche i preziosi contributi di Davide Argnani (poeta, scrittore e direttore della rivista “L’Ortica” di Forlì), Valtero Curzi (poeta e filosofo di Senigallia) e Mardena Kelmendi (poetessa albanese da anni attiva nel sociale a Trieste).

Dopo le due presentazioni che hanno avuto luogo nel mese di dicembre a Jesi e Senigallia e che hanno consentito alla Associazione organizzatrice di provvedere a una prima donazione all’ente benefico pari a 1.000€ continuano le iniziative promosse per la divulgazione e la promozione di quest’opera che vanta il patrocinio morale di numerosi comuni, province italiane ed estere nonché dell’Ambasciata della Repubblica di Albania in Italia.

L’Istituto Oncologico Marchigiano – a cui sono diretti i ricavi derivanti dalle donazioni di questo progetto – è nato nel 1996 con lo scopo di assistere gratuitamente a domicilio i pazienti oncologici e le loro famiglie in un momento di ampia difficoltà, soprattutto a livello psicologico. Grazie a un équipe specializzata fornisce assistenza 24 ore su 24. A completamento dell’assistenza prettamente medica offre un appoggio umano di gruppo per mezzo di volontari che vengono formati e istruiti per tale scopo.

download.jpg

La Casa della Poesia di Palazzo Bice Piacentini a San Benedetto del Tronto – Città Alta (AP)

La Associazione Culturale Euterpe, dopo la precedente raccolta antologica “L’amore al tempo dell’integrazione” (2016) sempre a sostegno dello IOM ha deciso di seguire la stessa strada anche per questa nuova antologia riconoscendo l’ampio e capillare lavoro medico-sociale che lo IOM Jesi e Vallesina (Presidente: dott.ssa Maria Luisa Quaglieri) fa brillantemente e con alta coscienza da anni.

Nel volume vari i poeti e scrittori marchigiani inseriti tra cui Elvio Angeletti (Senigallia), Loretta Emiri (Fermo), Marco Squarcia (Amandola), Oscar Sartarelli (Jesi), Sabrina Galli (San Benedetto), Elvio Grilli (Fano), Leila Falà (Ancona), Gabriele Andreani (Pesaro), Daniela Gregorini (Fano), Gianni Palazzesi (Appignano), Jessica Vesprini (Civitanova M.), Luciana Salvucci (Colmurano), Marcello Signorini (Senigallia), Michele Veschi (Senigallia), Michela Tombi (Pesaro), Piero Talevi (Colli al Metauro), Cristiano Dellabella (Cupramontana), Marinella Cimarelli (Jesi) e tanti altri.

Il nuovo evento, a San Benedetto del Tronto, vedrà l’apertura con i saluti e i ringraziamenti da parte di Lorenzo Spurio (Presidente Ass. Euterpe) e seguirà con gli interventi di Stefano Vignaroli (uno dei curatori) nonché le letture delle opere degli autori presenti che saranno effettuati dalla lettrice Patrizia Giardini e Marcello Moscoloni. Ad impreziosire l’evento culturale sarà un’overture poetica della poetessa sambenedettese Enrica Loggi che, in apertura, delizierà il pubblico con alcune sue composizioni sul mare.

 

Info:

www.associazioneeuterpe.com

ass.culturale.euterpe@gmail.com

Tel. 327-5914963

 

manifesto Adriatico-San Benedetto 17-02-2018-page-001.jpg

“L’impudicizia dell’anima” di Letizia Tomasino, recensione di Francesca Luzzio

downloadAforismi, poesie in un continuum emotivo-razionale che mette a nudo, senza pudicizia, l’anima di Letizia Tomasino. Il titolo della raccolta, L’impudicizia dell’anima (2017), stupisce e incuriosisce il lettore, inducendolo a congetturare contenuti scandalosi, osceni, ma di fatto, se il lettore si accosta all’opera con tale curiosità, alla fine resta profondamente deluso perché di fatto l’impudicizia a cui allude la poetessa-scrittrice è soltanto l’apertura totale del cuore e della mente, la schiettezza  con cui si pone di fronte a se stessa e alla realtà, ai problemi dei nostri tempi, ora esponendo  il suo sentire, quale, ad esempio, l’amore per il suo uomo (“Quannu mi chiami “Amuri” io mi sentu ricca,/nu  tantu di ricchizzi dila terra/quantu di sentimenti e cosi duci”; in “Beddi paroli”, p. 24) o l’amarezza del suo abbandono (“Fino a ieri ero la tua stella, il tuo sole, il tuo tutto/e adesso mi butti via come si buttano delle ciabatte” in “Bugiardo amore”, p. 8), ora, facendo le sue riflessioni su tematiche etico-morali, quali la carità, la misericordia che dovrebbero caratterizzare i nostri comportamenti, a prescindere dalle religioni praticate e dall’epoca in cui si vive, perché espressione di civiltà e umanità. Così di fronte ad alcuni eventi tipici dei nostri tempi, ma anche ricorrenti nella storia dell’umanità, quale, ad esempio, l’emigrazione, la poetessa Tomasino si rivolge all’immigrante con questi versi: “inutilmente cavalchi l’onda,/la  stessa che ti ricopre/Fuggi dalla tua terra/e sei merce in mano/a gente senza scrupoli/…smarriamo memoria di avi, migranti anche loro, come voi/…” in “Migranti”, p. 34).

Non stupisca neppure la connessione degli attributi “emotivo” e “razionale” perché l’autrice compone esprimendo i suoi sentimenti e le sue emozioni, ma anche proponendo il suo punto di vista razionale, in una miscela in cui i due elementi si equilibrano, considerato che il razionale è condizionato dai principi etico-morali che costituiscono il presupposto della nostra essenza, insomma, come in un particolare e personale processo dialettico di stampo hegeliano (tesi: ragione; antitesi: emozione, sentimento), l’autrice perviene a una sorta di sintesi superiore che si chiama  “Poesia”.                                                                                                                     

Questa liberamente si espande nei versi che progressivamente propongono  tematiche esistenziali, connesse, come già si è rilevato, al suo presente o ai propri personali ricordi (“Avresti potuto amarmi per come meritavo/avresti potuto darmi il bene che cercavo/Scusami tanto papà Se non mi hai capito, te lo dirò nell’altra vita oppure all’infinito” in “Papà”, p.87), ma pure a tematiche relative all’uomo in quanto tale (“Non esiste prigione peggiore per l’uomo/ che l’essere schiavo del suo corpo e del tempo,/ma anche delle malattie che angosciano/la mente” in “Prigione”, p. 29),  con un percorso che, in modo spontaneo e semplice, scivola nel sociale, al nostro ieri e ai nostri amari tempi. (“Una valigia è di cartone se il suo contenuto/sa di rassegnazione ed emigrazione./L’emigrante…/Torna, ogni tanto, a visitare il paesello/vedendolo sempre come un gioiello” in “La valigia”, p. 54).

I versi poi diventano aforismi, quando Letizia Tomasino con saggezza ci detta massime, fa osservazioni che sanno di sapienza di vita, fondata sulla conoscenza della grandezza e della miseria umana e, proprio per questo, sa anche farci sorridere quando corona le sue riflessioni con le conclusioni a effetto, con l’ironia, talvolta amara: “Credo che molte persone invece di parlare di tutto senza saperne nulla, potrebbero limitarsi a parlare del nulla di cui sanno tutto!” (in “Parole vuote”, p. 59). Molti aforismi, oltreché per il loro contenuto, si caratterizzano anche per il lirismo che li pervade e, pertanto, li rende associabili alle poesie che ad essi si alternano.                   

Il lessico semplice, ma semanticamente pregnante sia nelle liriche in italiano, sia in quelle in dialetto siciliano, la versificazione libera, pur nella presenza di rime (“ ….difetto/ …/ …petto” in “Cuore mio”, p. 23),  assonanze (“…sguardo/ …/ …passo”, idem), consonanze (“… sera / …amore”, in “Notte stellate”, p. 31), come anche le figure retoriche, quali anafore (“se ti cerco…/ se mi vieni…\ se percorro…” in “Nostalgia”, p.30), metafore (“Mi bevo a piccoli sorsi il tuo sorriso” in “Bevanda amara”, p. 39) etc…, avvalorano ulteriormente “l’impudicizia dell’anima” di  Letizia Tomasino.

FRANCESCA LUZZIO

 

L’autrice della presente recensione dichiara, sotto la sua unica responsabilità, di essere la naturale e unica proprietaria dei diritti sul testo. La pubblicazione del testo è consentita su questo spazio dietro autorizzazione dell’autore senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.