N.E. 01/2023 – “La concezione di arte nell’Età Globalizzata”. Saggio di Giuliano Ladolfi

Ripercorrendo la nostra tradizione mi sembra che a tre si possano ridurre le definizioni di arte: l’arte concepita come un fare, come un conoscere, come un esprimere. Senza dubbio tali posizioni vanno poste in relazione per il fatto che l’esclusione di una sola di esse condurrebbe inevitabilmente al fallimento. Una conoscenza senza espressione e senza produzione è vana; una produzione senza conoscenza è vuota; un’espressione senza conoscenza sarebbe amorfa. Si tratta, dunque, di cogliere la relazione in senso gerarchico o paritetico. Nell’antichità prevalse la tûcnh: il poeta trae il suo nome dal verbo poiûw (faccio) all’interno — è bene rilevarlo — di una distinzione tra arti liberali e arti servili. Il Romanticismo decretò il prevalere dell’espressione mediante l’identificazione dell’arte con sentimento. Il Decadentismo, soprattutto nella prima fase, sancì il trionfò di un’arte quale conoscenza. Il “novecento”1 propose una quarta concezione, non del tutto nuova del resto, e cioè quella di un’arte fine a se stessa, che culminò nel gioco, nella bizzarria, nel divorzio tra significante e significato, autoreferenziale ed autosufficiente, posizione che non va inclusa nella categoria del “fare”, perché affrancata da ogni metodologia strumentale.

Quale potrebbe, dunque, essere la funzione, il compito o, semplicemente, la posizione dell’arte nell’età “globalizzata”?

In primo luogo, occorre ribadire la sua autonomia e non più sotto il profilo teorico, quanto piuttosto dal lato etico,

non solo nel senso che il riferimento ad un determinato pubblico o ai suoi rappresentanti porta fuori strada, ma addirittura nel senso che il concetto di fruitore “ideale” è dannoso per ogni dibattito sulla teoria dell’arte, che è tenuto a presupporre semplicemente l’essenza e l’esistenza dell’uomo in generale2.

E oggi il fruitore altro non è che il mercato. La cultura è assoggettata alle sue direttive e si basa sulla soddisfazione del cliente, sull’incremento di bisogni fittizi, sugli spot, sui i cartelloni, sulla spettacolarizzazione di alcuni fenomeni mediatici. L’arte, infatti, è negata non solo quando diventa raziocinio o puro gioco tecnico, è negata anche quando si prostituisce a ogni tipo di potere sia politico sia economico sia ideologico sia mediatico, quando viene utilizzata come mezzo e non come fine.

Il primo passo, pertanto, consiste nel restituirle l’intrinseca dignità e questo si attua nel momento in cui l’artista produce un’opera nella quale, esprimendo la propria originale concezione dell’esistenza, sintetizza la Weltanschauung del momento storico-culturale in cui si trova a vivere. Del resto, l’uomo possiede in sé due caratteristiche contraddittorie: l’universalità e l’individualità, cioè egli appartiene a una medesima specie umana e nello stesso tempo è unico ed irripetibile. E proprio nell’opera d’arte si realizza nel modo più completo e più perfetto il suo modo originale di vivere l’identica natura umana.

Senza dubbio questo paradigma rivaluta la portata conoscitiva dell’arte, che permette di uscire dal circolo vizioso di un’estetica relativista autogiustificatrice e di aprire la strada ad una produzione che “rivela” una situazione o storica o epocale o intellettuale o, soprattutto, esistenziale. Per raggiungere tale scopo, l’estetica deve agganciarsi a un pensiero capace di superare l’agnosia relativista:

Com’è caduto il vecchio pregiudizio che bastasse «versificare» un sistema filosofico per tradurre il pensiero in poesia, così deve cadere l’idea che la filosofia distrugge l’arte se non è risolta in immagine o in azione, ch’è un pregiudizio altrettanto insulso quanto il primo. La filosofia può esser presente come tale in un’opera letteraria, e contribuire con questa sua esplicita presenza al valore artistico di essa. Naturalmente c’è poi una presenza implicita, non meno efficace e profonda, ed è quella per cui nell’opera tutto, anche la menoma inflessione stilistica, è significante, e rivela la spiritualità dell’autore, e quindi anche il suo modo di pensare, la sua Weltanschauung, la sua filosofia3.

Luigi Pareyson, pertanto, non solo indica come esigenza intrinseca dell’arte il supporto di un pensiero capace di rivelare un nuovo modo di concepire il reale, ma anche in grado di attingere alla “verità”. E la verità, quella con la “v” minuscola, non è una definizione, non implica un’affermazione; oggi la verità è un progetto di lavoro, di ricerca, di dialogo. Nessuno può indicare allo scrittore la via per lavorare, perché verità non è affatto sinonimo di cronaca, di descrizione, di relazione, di reportage. L’arte esige che la contemporaneità sia percorsa, sondata, sia presentata, interpretata, rappresentata in tutte le sue dimensioni, nelle sue contraddizioni, nelle sue espressioni.

La verità, ad ogni modo, richiede doti creative, si trova al fondo del crivello del ricercatore che ha setacciato quintali di sabbia e alla fine individua il luccichio della pepita. La parola, la scena, la forma, quando agganciano il mondo, imprigionano lo sconvolgente divenire e la multiformità dell’accadere per mezzo di strumenti che ogni momento della civiltà si forgia e che l’artista stesso contribuisce a forgiare, accogliendo il lavoro precedente e consegnandolo ai posteri.

Ma il nostro non è più tempo di gloria, non è più tempo di memoria. Oggi è il kair’$ del fare, dell’operare, del pro-gettare. Il mondo è cambiato, la letteratura è cambiata. Non basta, però, una mano di bianco sul muro per gridare alla novità. Il romanzo, il teatro, il racconto, la lirica, tutti generi che nell’Ottocento e nel Novecento hanno mutato aspetto, ora sono sottoposti a un’azione devastante: non sono più in grado di ripercorrere il perimetro di fenomeni complessi come la multiculturalità, come la globalizzazione, come la necessità di una governance mondiale capace di imbrigliare i poteri dell’economia e della finanza.

E che si ricominci a parlare di verità lo testimoniano diversi orientamenti contemporanei, tra i quali quello del “realismo interno” americano, il quale intende opporsi sia al tradizionale realismo metafisico, che postula l’esistenza di una realtà esterna conosciuta dalla mente umana, proprio dell’aristotelismo e del Positivismo, sia al relativismo gnoseologicamente scettico. Secondo Hilary Putnam, in accordo con il senso comune.

Quindi la mente umana può giungere a un primo e fondamentale risultato: esiste un mondo con il quale ci correliamo in modo diverso a seconda del contesto storico e della prospettiva scientifica assunta. Anzi, secondo Francesco Tomatis interprete del personalismo cristiano, l’essere umano nel suo rapporto con il mondo si presenta non come modello ontologico, ma come strumento “irrelativo” e ciò permette sia di non ricadere nelle metafisiche classiche o moderne sia di non limitarsi alla frammentarietà postmoderna delle singole posizioni finite. Il rapporto con una realtà è condizione ineludibile per ogni essere umano sotto ogni profilo, genetico, biologico, psichico, linguistico, sociale, economico, esistenziale e, pertanto, anche gnoseologico e, come tale, anche artistico.

Alla luce di tale prospettiva, approfondiamo il problema della portata conoscitiva dell’arte.

Oggi non è più il tempo di creare arte solo con il fine di rappresentare la bellezza e di procurare un piacere estetico, oggi ci si deve proporre il fine di produrre un tipo di conoscenza “olocrematica” (÷loj «che forma un tutto intero» e cr≈ma «cosa che si usa, utensile»), onnistrumentale (non “onnicomprensiva” ossia che deve comprendere tutto) nel senso che adopera la totalità degli strumenti gnoseologici umani. Di conseguenza, è la conoscenza (la scoperta di una nuova apertura sul reale) che produce il piacere estetico, non il piacere estetico che produce la conoscenza. Nulla vieta di considerare l’armonia artistica come strumento di intelligibilità del complesso, del molteplice e del caotico, sempre restando nell’ambito di un’impostazione gnoseologica. Ho parlato di arte “olocrematica” perché nei suoi risultati più convincenti è presente il segno dell’intero essere umano, del suo trovarsi nel presente, del suo essere storia, individuo, cultura e civiltà, della sua attitudine a progettare il futuro e soprattutto della sua necessità di interrogarsi sui quesiti esistenziali, della relazione con se stesso, con gli altri e con il mondo. Questa forma suprema di conoscenza si invera non per mezzo di concetti, ma in un “oggetto” che può essere il marmo, la parola, il colore, il suono, la fotografia, la ripresa cinematografica ecc. La filosofia, come la scienza, servendosi della razionalità, “de-finisce” la realtà, le dà forma, la pone in ordine, la cataloga, la anatomizza, la viviseziona; l’arte, invece, è conoscenza di realtà in-formale, in-definita, non caotica però, molteplice, complessa, multiforme, contraddittoria, in divenire.

L’artista, pertanto, non è un filosofo, che organizza il suo pensiero secondo i princìpi di non contraddizione, di coerenza e di consequenzialità e neppure produce in modo in-effabile quasi fosse ispirato da una divinità, come pensavano gli antichi. Il processo di conoscenza artistica presenta tali e tante interconnessioni che è veramente arduo solo pensare di descrivere precise procedure, perché è il risultato della partecipazione dell’intero essere umano in tutte le sue componenti: fisiche (il poieén), mentali, percettive, emotive, sentimentali, consce, inconsce, progettuali, memoriali, individuali, relazionali e collettive (l’uomo è storia), per cui ogni de-finizione esclude parti consistenti di questo processo.

Ogni conoscenza è arte? L’arte rappresenta una, la più qualificante, modalità di conoscenza e la validità di un’opera sarà proporzionale all’ampiezza e alla profondità della sua portata conoscitiva. L’arte del “novecento”, immersa nella crisi di un pensiero che, scisso il significante dal significato, non poteva comunicare se non la negazione di ogni possibilità gnoseologica, si è prevalentemente concentrata su se stessa a descrivere gli strumenti (parola, segno, colore, forma, suono ecc.) fino alla propria negazione. Ma può essere considerata arte la negazione di se stessa? Può essere considerato cibo la negazione di ogni elemento commestibile?

Alla luce di tale aporia va affrontato anche il problema del rapporto tra stile e contenuto.  Lo stile è il dasein, l’“esserci” dell’opera, della cosa, di una scultura, di un libro, di un quadro, di una sinfonia. Non confondiamo, però, il progetto con l’attuazione, perché esiste sempre uno scarto tra intenti e risultati. «Lo scultore pensa in marmo», sostiene Oscar Wilde. E la diversità di risultati non consiste nell’armonia, nella precisione, nella bellezza o nell’ingegno, ma nella resa, nell’effetto, nella potenza di una rappresentazione che nel veicolo stilistico riesce a fissare per mezzo della Weltanschauung individuale quella di un’epoca.

Ma l’arte non è solo conoscenza. Se, come afferma giustamente Dewey, l’arte è sempre più che arte, con Pareyson concludiamo che l’arte è sempre più che conoscenza:

Per la molteplicità degli atti e intenti e scopi dell’uomo, essa è sempre insieme professione di pensiero, atto di fede, aspirazione politica, atto pratico, offerta di utilità sia spirituale che materiale. Nel far arte, l’artista non solo non rinuncia alla propria concezione del mondo, alle proprie convinzioni morali, ai propri intenti utilitari, ma anzi li introduce, implicitamente o esplicitamente, nella propria opera, nella quale essi vengono assunti senza essere negati, e, se l’opera è riuscita, la loro stessa presenza si converte in contributo attivo e intenzionale al suo valore artistico, e la stessa valutazione dell’opera esige che se ne tenga conto. Anzi, l’arte non riesce ad essere tale senza la confluenza di altri valori in essa, senza il loro contributo e il loro sostegno, sì che da essa s’emani una molteplicità di significati spirituali e s’annunzi una varietà di funzioni umane. La realizzazione del valore artistico non è possibile se non attraverso un atto umano, che vi condensa quella pienezza di significati con cui l’opera agisce nel mondo e suscita risonanze nei più diversi campi e nelle più varie attività, e per cui l’interesse destato dall’arte non è soltanto una questione di gusto, ma un appagamento completo delle più diverse esigenze umane4.

Il filosofo, quindi, affida agli artisti non solo di dire “come” è il mondo nel modo più completo, autentico e umano possibile, ma anche di “pro-gettare” il mondo, perché l’arte è arte non malgrado la filosofia, la teologia, la sociologia, la morale, la retorica, la scienza, la linguistica, la tradizione, i generi letterari, la storia, la biologia, la fisica, l’astronomia ecc., ma perché le diverse discipline proprio nella loro “sostanzialità” particolare sono dal genio “trans-formate” in arte. Come la “datità” umana non può essere scomposta nelle sue componenti (fisiche, chimiche, storiche, psichiche, sociali, culturali ecc.), così l’arte fa convergere in sé l’intera vita, l’intera realtà dell’artista, soggetto unico ed irripetibile e contemporaneamente uguale all’intera specie umana.

All’arte, quindi, si spalanca una fondamentale dimensione morale: «Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri: in primo luogo i nostri genitori e poi quelli che ci stanno accanto; la letteratura apre all’infinito questa possibilità di interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente» (Tzvetan Todorov), che si traduce in questo momento storico in un gigantesco compito, quello di procedere ad un’opera di “re-incanto” dei valori culturali a cominciare dalla restituzione del senso del reale:

L’animo postmoderno sembra condannare ogni cosa e non proporre nulla. La demolizione è l’unica occupazione per la quale l’animo postmoderno sembra adatto. La distruzione è l’unica costruzione che esso riconosce. La demolizione di costrizioni coercitive e di resistenze mentali è per esso il fine ultime e lo scopo dello sforzo d’emancipazione; verità e bontà, afferma Rorty, si prenderanno cura di se stesse non appena ci saremo presa la dovuta cura della libertà5.

Esaurito il kair’$ destruens, il poeta si inserisce nel kair’$ construens:

Mentre [l’animo postmoderno] rifiuta semplicemente ciò che passa per verità, smantellandone le presunte, solidificate versioni passate, presenti e future, esso scopre la verità nella sua forma originaria che le pretese moderne avevano mutilato e distorto al di là della pubblica ammissione. Anche di più: la demolizione scopre la verità della verità, la verità in quanto risedente in se stessa e non negli atti violenti commessi su di essa; la verità che è stata mascherata sotto il dominio della ragione legislativa. La verità, quella reale, è già lì, prima che abbia avuto inizio la sua laboriosa costruzione; essa ripostula proprio nel terreno su cui si sono erette le artificiose invenzioni: apparentemente per mostrarla, in effetti per nasconderla e soffocarla6.

Note

1 Nella categoria “novecento” si intende includere i fenomeni culturali denominati anche “Secondo Decadentismo”, i quali traggono origine dal divorzio tra significante e significato.

2 Walter Benjamin, Charles Baudelaire, Tableaux parisiens, Frankfurt, Suhrkamp 1991, vol. IV-1, p. 9.

3 Luigi Pareyson, I problemi attuali dell’estetica, in Momenti e problemi di Storia dell’Estetica, Milano, Marzorati 1987, vol. IV, pp.1833-1834-1835.

4 Ibidem, p. 1832.

5 Zygmunt Bauman, Il re-incantamento del mondo (Re-Enchantement), o come si può raccontare la postmodernità, in Zigmunt Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, Roma, Armando 2005, p. 219.

6 Ibidem.

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N.E. 01/2023 – “Il “libro” teatrale della Grecia Antica”. Saggio di Amedeo Di Sora

Il teatro (dal greco antico theàomai: “guardo, sono spettatore”) affonda le sue radici primigenie nella sfera del sacro. Nella Grecia antica l’attore era, nell’ambito dei tìasi (associazioni di fedeli nel culto di Dioniso), un adepto sacrale, un individuo che assumeva una “parte” ricercando l’identificazione mistica con il dio. Ai fini della comprensione delle origini della tragedia, l’esistenza delle “sacre associazioni” risulta decisiva: ciascuna si identificava con il proprio emblema; e poiché l’animale totemico possedeva un’attiva virtù di partecipazione e di trasfigurazione, si verificava una identificazione di gruppo con l’animale stesso, salvo riacquistare forma e dimensione umana dopo aver abitato il recinto sacro: spazio destinato a conservare un profondo significato e valore, anche quando si tramuterà in luogo teatrale. L’attore sacrale del tiaso, a séguito di successive modificazioni, diverrà l’attore non più sacrale ma detentore di una enèrgeia straordinaria che è solo possibile intuire tra Eschilo ed Euripide in un arco temporale che, con l’affermazione della profanità, registra l’acquisizione di una sempre maggiore concretezza scenica: dall’ adepto del tiaso eschileo al capace demiurgo di Euripide, in possesso di una stupenda perizia gestuale, musicale e verbale. L’attore greco antico si muoveva seguendo itinerari che erano dettati da una parola sentita come rara, divinatrice e persuasoria, e nel caso dell’attore comico, la parola si sostanziava di una corporeità quasi felina, e aveva qualcosa di confidenziale, in grado di stabilire un contatto più diretto con gli spettatori, di emanare una carica di simpatia. La danza del coro dell’orchestra elaborava percorsi secondo la parola cantata, evocatrice di movimenti e di visioni. Non esisteva separazione tra gesto e parola, né i codici espressivi conoscevano rapporti di subordinazione e di incomunicabilità.

A distanza di tanti secoli, nella nostra società contrassegnata dalla separazione e dall’ alienazione, il mito delle origini sacrali del teatro antico ha esercitato e in parte, ancora, esercita un forte potere attrattivo per larga parte del cosiddetto “teatro di ricerca” che, a partire dalle grandi avventure teorico-pratiche dei maestri del primo ‘900 ha creduto di affidare all’esperienza scenica il compito di ristabilire, pur nell’ambito di un microcosmo “privilegiato”, un autentico e vitale rapporto di comunicazione tra l’individuo-attore e l’individuo-spettatore. Conseguentemente, l’avventura del teatro ha spesso assunto il valore di un “mondo” in cui è possibile tentare di affermare una diversa e alternativa qualità di relazioni interpersonali e di gruppo.

 Il teatro è sempre stato e resta tutt’ora una costruzione collettiva, che non è in nessun modo riducibile alla semplice pagina scritta.  Ciò che a noi manca dell’ esperienza straordinaria del mondo teatrale della Grecia antica è l’operazione collettiva e sinergica di drammaturghi, attori, registi, tecnici, scenografi, musicisti e del particolare e irripetibile rapporto con i cittadini della polis che assistevano in massa agli spettacoli, nel numero finanche di 20.000 persone, e che, a partire dall’epoca di Pericle, erano ammessi gratuitamente all’evento scenico poiché era la tesoreria dello stato a pagare i posti, in quanto il teatro rientrava nella sfera degli interessi della comunità e faceva parte dell’educazione pubblica. Il teatro era una grande occasione civica e religiosa per la comunità nel suo insieme; un evento centrale dell’anno che nemmeno le preoccupazioni della guerra e la disfatta potevano interrompere.

 Enorme è la distanza che ci separa dal teatro della Grecia antica, sia dal punto di vista della dimensione artistico-culturale sia da quello relativo al contesto storico-civile, eppure il ricorso ai valori della classicità teatrale va oggi collocato sul duplice versante dell’identità e della differenza, ovvero come invito alla tolleranza e alla reciproca comprensione tra le culture: un atteggiamento che risulta oggi più che mai auspicabile. Mantenere viva la memoria culturale, con i suoi ideali e i suoi valori universali, è un’esigenza che va coniugata con la realtà viva dei nostri tempi e della nostra attuale società globalizzata. Il teatro, a partire dalla Grecia antica, ha avuto spesso una funzione educativa e civile e può e deve ancora costituire un’attività di profonda e non virtuale comunicazione-contatto tra esseri viventi, in particolare in ambito scolastico, ovviamente in forme e modi da recuperare e da re-inventare.

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N.E. 01/2023 – “Tommaso Landolfi, l’odioso pronome e lo specchio opaco dell’autobiografismo”. Saggio di Giusi Manuela De Rosa

Dopo fiere lotte (avevo cominciato a scrivere Io, e mi son vergognato e ho corretto in Dopo: ancora e sempre, imperterrito benché furioso con me stesso, e come il mondo e l’anima mia fossero immobili, io seguito a piantare i miei Io in testa al drappello delle parole, quasi portabandiera!), dopo fiere lotte mi son rassegnato, ho detto, alla paternità sulla fede di Dostoevskij.[1]

Inizia così una pagina di Rien va, forse il diario landolfiano più conosciuto, e di fronte ad esso, come di fronte a tutta l’opera dello scrittore di Pico, ci si chiede quanto ci sia di maschera e quanto di reale, quanto la confessione nuda, schietta, spietata sia rimandata: l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un io che teme di far trapelare troppo, di andare troppo in fondo, di raggiungere il punto di non ritorno del rimosso; eppure la scrittura di Tommaso Landolfi cerca tale profondità indagativa, in un percorso tutto interiore che mira ad arrivare alle proprie ferite, perché, come scrive nella sua prima raccolta di poesie Viola di morte «dovunque la penna arriva, / si ritira il suicidio. / Così, dicesi, il cane / guarisce ogni sua piaga / se soltanto la arriva con la lingua».[2] Da qui il rapporto del tutto peculiare dello scrittore con il genere dell’autobiografia, evaso ma contemporaneamente onnipresente[3] nei suoi racconti: Landolfi non come maestro della dissimulazione, ma come autore radicalmente sincero a chi trova la giusta chiave di lettura, a chi sa strappare via la «maschera di ferro»[4].

L’io landolfiano, infatti, ritorna costantemente, ma è un ospite inatteso e non voluto, un’entità egoista, che piega ai suoi bisogni la prosa: un «portabandiera» delle parole, un io-soldato pieno di sé che, ignorando le fluttuazioni del mondo e della propria stessa anima, rende impossibile una confessione più diretta, una narrazione più efficace. Vi è in Rien va un secondo riferimento in tal senso:

Prendiamo la più semplice delle frasi, «Io sono», e gridiamola o diciamola appena, ma cercando di prenderne interamente coscienza: che avvilimento, che vergogna. Qui peraltro c’è un po’ di malafede: la più semplice delle frasi è anche la più compromettente. Altra più anodina allora, se però c’è una frase anodina. «Io ho»? – peggio! «Io mangio»? – che schifo! Le frasi che contengono l’odioso pronome non possono essere anodine, dice.[5]

Lo scrittore Tommaso Landolfi

Il pezzo citato parte da una riflessione dell’autore sulla falsità delle frasi una volta pronunciate, sul tradimento dell’espressione e della voce stessa nei confronti del loro punto di partenza: Landolfi, infatti, lamenta più volte l’impossibilità di risalire a una parola primigenia, non sfruttata, che esprima tutto ciò che serve sapere e che non invecchi mai pronunciandola (si legga, a questo proposito, la riflessione sul canto dell’assiuolo in Night must fall[6], ultimo racconto del Dialogo dei massimi sistemi). In particolare, le frasi che contengono il pronome io sono compromettenti e mai blande o neutre; portano con sé una sorta di colpa, e il soffermarvisi è motivo di vergogna. Sotteso alle allusioni landolfiane è il celebre passo della Cognizione del dolore dell’amico Carlo Emilio Gadda, in cui Gonzalo, protagonista e alter-ego gaddiano, scaglia una feroce invettiva contro la prima persona singolare, idolo per la cui affermazione si arriva alle piaghe dell’egoismo e del narcisismo, anticamere di atti distruttivi:

Il figlio dubitò, col volto: «la mamma non ne vorrà sapere, la conosco: non c’è nulla da fare con lei… […] bel modo di curarsi! …a dire: io non ho nulla. Io non ho mai avuto bisogno di nessuno! …io, più i dottori stanno alla larga, e meglio mi sento… Io mi riguardo da me, che son sicura di non sbagliare… io, io, io! […] Ah! il mondo delle idee! che bel mondo! …ah! l’io, io… tra i mandorli in fiore…poi tra le pere, e le Battistine, e il José! ….l’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!…»[7].

L’io è un pronome «lurido», uno dei «pidocchi del pensiero»[8], una debolezza ricorrente dell’uomo, che non riesce a far altro che focalizzarsi su se stesso, rischiando di perdere il quadro complessivo delle cose.

Ricordiamo un altro stralcio landolfiano che accenna al tema, tratto da Prefigurazioni: Prato, rara prosa di aperta, forte e sincera confessione autobiografica su un periodo dell’infanzia passato in collegio: «Io (ma quante volte ho scritto questo dannato pronome?), io ero un bambino che a un anno e mezzo avevano portato davanti a sua madre morta, colla vana speranza che i lineamenti di lei gli rimanessero impressi nella memoria; e che aveva detto: lasciamola stare, dorme»[9]. L’io, «questo dannato pronome», incontra la dimensione dolorosa e oscura della morte, le irrisolte ombre che aleggiano sulla scrittura di Landolfi, che rendono unico il suo fantastico svuotato; si legge qui il motivo più profondo della reticenza dell’autore verso l’io e allo stesso tempo il bisogno di non ignorarlo, l’imperativo di seguirlo, in un’indagine letteraria che fu definita da Giacomo Debenetti «illuminismo delle tenebre».

È allora possibile definire il libro landolfiano uno specchio dell’io, ma uno specchio opaco, che fatica a riportare un’immagine limpida, completa del sé; eppure capace di riflettere l’essenziale e di illuminare il lettore con improvvise rivelazioni, a volte apparentemente lontane dal percorso intrapreso, a volte riportate in superficie grazie al personaggio dell’inetto o del fool di memoria amletica; rivelazioni radicali, nude, da proteggere con una lingua-pelle[10], ricercata e preziosa, e con il magistero dell’arte[11]. Bisogna, perciò, essere capaci di leggere lavori come Cancroregina in quest’ottica, notando come la fantasiosa trama dell’astronauta, bloccato dentro una navicella-mostro che sembra aver assunto una propria coscienza e costretto a orbitare all’infinito intorno alla Terra, senza poter tornare a casa né allontanarsi, è funzionale a una disanima interiore autentica e sconvolgente, che confessa il cuore del sé e allontana solo il contingente: che non è, poi, sempre stato accessorio?

Bibliografia

T. Landolfi, Opere, a cura di I. Landolfi, con prefazione di Carlo Bo, vol I, Milano, Rizzoli, 1991.

T. Landolfi, Opere, a cura di I. Landolfi, vol. II, Milano, Rizzoli, 1991.

T. Landolfi, Viola di morte, Milano, Adelphi, 2011.

C.E. Gadda, La cognizione del dolore, a cura di P. Italia, G. Pinotti e C. Vela, Milano, Adelphi, 2017.

Gli ‘altrove’ di Tommaso Landolfi, Atti del convegno di studi, Firenze, 4-5 dicembre 2001, a cura di I. Landolfi e E. Pellegrini, Roma, Bulzoni, 2004.

La «liquida vertigine». Atti delle giornate di studio su Tommaso Landolfi (Prato, Convitto Nazionale Cicognini, 5-6 febbraio 1999), a cura di I. Landolfi, Olschki, Firenze, 2002.

G. Debenedetti, Il “rouge et noir” di Landolfi, in Id., Saggi, progetto editoriale e saggio introduttivo di A. Berardinelli, Milano, Mondadori, 1999.

P. Zublena, La lingua-pelle di Tommaso Landolfi, Firenze, Le Lettere, 2013.


[1] T. Landolfi, Rien va, in Id., Opere, a cura di I. Landolfi, vol. II, Milano, Rizzoli, 1991, p. 256.

[2] T. Landolfi, Viola di morte, Milano, Adelphi, 2011, p. 178.

[3] Vedi I. Landolfi, Nota introduttiva, in T. Landolfi, Opere II, cit., p.VIII.

[4] Scrive Landolfi sempre in Viola di morte, cit., p. 154: «La maschera è una forza / finché si dia qualcuno / che brami di strappartela; altrimenti / tu ci muori dentro / come la Maschera di Ferro».

[5] T. Landolfi, Rien va, cit., p. 298.

[6] T. Landolfi, Night must fall, in Id., Dialogo dei massimi sistemi, in Id., Opere, a cura di I. Landolfi, con prefazione di Carlo Bo, vol I, Milano, Rizzoli, 1991.

[7] C. E. Gadda, La cognizione del dolore, a cura di P. Italia, G. Pinotti e C. Vela, Milano, Adelphi, 2017, p.85.

[8] Ivi, p.86.

[9] T. Landolfi, Prefigurazioni: Prato, in Id., Opere II, cit., p. 743.

[10] P. Zublena, La lingua-pelle di Tommaso Landolfi, Firenze, Le lettere, 2013.

[11] Si legge ne LA BIERE DU PECHEUR, in T. Landolfi, Opere I, cit., p.575: «fatalmente la mia penna, cioè la mia matita, piega verso un magistero d’arte, intendo verso un modo di stesura e composizione che alla fine fa ai pugni con la libera redazione propostami, e di’ pure colla mia volontà di scansar la fatica. Non potrò dunque mai scrivere veramente a caso e senza disegno, sì da almeno sbirciare, traverso il subbuglio e il disordine, il fondo di me?»

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N.E. 01/2023 – “Lo sguardo nudo. Le novelle di Luigi Pirandello come specchio della vita”. Saggio di Cinzia Baldazzi

A Claudio e Adriano, pirandelliani come me

Non vorrei essere intesa in termini realistici se consiglio (un invito che formulo dall’adolescenza) di utilizzare le pirandelliane duecentoquarantasei Novelle per un anno da specchio della vita quotidiana, giorno per giorno, con il suo intricato contesto moltiplicato in un macrocosmo di fatto infinito, perché coinciderebbe con il ricordare quanto l’esistenza sia un travaglio, un’avventura faticosissima, una lotta ininterrotta. Tuttavia questa raccolta, tra i risultati più eminenti della narrativa, se percepita come proiezione metaforico-letteraria della dimensione reale, immanente, appare in grado di mostrare lo sconforto ma, al tempo stesso, le vie di uscita operative (non alludo, in tal senso, alla “follia”) alla realtà di per sé contraddittoria: comprensiva com’è di una famiglia succube di incombenze e responsabilità schiaccianti, hic et nunc preferito di finzioni, norme sociali, impegni di lavoro alienati, ciclici, deprimenti, poco apprezzati, mal retribuiti.

In un ambito del genere è corretto anche valutare l’input implicito nella catena della violenza, espressa in svariate manifestazioni: ad esempio in Cinci[1] (1932) – composta nella maturità, provvista di un impianto veristico – dove lo splendore della disperata vicenda conduce alla certezza ricavata dalla scoperta dell’Inconscio offerta dalla psicoanalisi (lo sappiamo bene: Luigi Pirandello la conosceva) nonché della sua aura onirica: ciò a cui assistiamo – non solo nel racconto – è vero o falso? È opera del Conscio o dell’oscurità dell’Inconscio inaccessibile? Una simile domanda, circa cento anni dopo, pur nelle diverse ipotesi create dalla scuola freudiana e dalla psicologia analitica junghiana, attende ancora risposta.

Proprio all’interno delle sue soluzioni aperte, dunque, scaturisce la proposta di percorrere un iter dell’οὐ-τόπος (utòpos) che consista nell’accogliere le metafore dell’angoscia esistenziale – tanto centrale in questi racconti – nella loro matrice cognitiva, liberatoria, all’altezza di smascherare in chiave maieutica la strategia fatale del teatro delle Maschere nude, le medesime da indossare in ogni luogo o nei confronti di chiunque sia. Come riuscire nell’intento? Svelando, in compagnia del Maestro, i messaggi principali – pericolosi, magari cruenti, attivi e ingombranti – nella dicotomia che separa la nostra concreta entità del Super-Io dalla relativa immagine impressa nello specchio della vita collettiva, pubblica e privata, sentimentale e razionale.

L’iterazione dei criteri regolativi, il ripetersi della norma a cui siamo abituati viene sconfitto dall’arte pirandelliana in quanto, spiega l’autore, «la singolarità vera e nuova, l’originalità, non è cosa che si procacci di fuori; si ha dentro o non si ha; e chi l’ha veramente non sa neppure di averla e la manifesta con la maggiore semplicità, ed è nuovo sempre»[2]. Di un analogo sguardo inedito, all’altezza di infrangere il confine tra la morte e la vita, rimane testimonianza esemplare il Colloquio con la madre (1915), inserito nella cornice dei Colloquii coi personaggi. Il brano è inaugurato e scandito da una sorta di “anafora in prosa”, dalla ripetizione della domanda «Ma come, Mamma? Tu qui?», quasi all’improvviso il figlio, con un’interiorità esclusiva, la scorgesse come in effetti non l’avesse mai veduta: «È seduta, piccola, sul seggiolone, non di qui, non di questa mia stanza, ma ancora su quello della casa lontana, ove pure gli altri ora non la vedono più seduta e donde neppur lei ora, qui, si vede attorno le cose che ha lasciato per sempre, la luce d’un sole caldo, luce sonora e fragrante di mare […] è voluta venire per dirmi quello che non poté per la mia lontananza, prima di staccarsi dalla vita». [3]

Se introduciamo lo specchio in un discorso – non solo critico, piuttosto associativo – sulla poetica pirandelliana, allora immediato appare il sistema referenziale del romanzo Uno, nessuno e centomila. Il main character Vitangelo Moscarda, rilevando un’insospettata autonomia della sua immagine riflessa, a parere dello studioso Francesco Baccega diventa campione modellare della suddivisione proposta dallo psicologo sociale Hugh Christopher Longuet-Higgins il quale parlava di una tripartizione interiore: il sé attuale (ciò che io penso di me stesso), il sé ideale (ciò che voglio essere in futuro), il sé imperativo (ciò che gli altri vogliono io sia e come mi rappresentano).

In aree semantiche analoghe, Pirandello espande con il romanzo l’intelaiatura logico-intuitiva della suddivisione del Sé (Es, Io o Semi-conscio, Super-Io): le loro discrepanze causano depressione e ansia sociale, ma si presentano unite a un’articolata metodica per oltrepassarle. Il protagonista, infatti, osservandosi continuamente allo specchio alla ricerca di difetti prima ignoti, cerca di distruggere le immagini che la gente ha di lui; sviluppa così un’altissima consapevolezza capace di persuaderlo a combattere l’austero relativismo presente in se stesso e negli altri: allontana la moglie Dida, vende la propria banca a dispetto degli avidi soci Firbo e Quantorzo, investe il denaro per fondare il suo “nuovo mondo” costruendo un «ospizio di mendicità» dove si ritira a vivere. Insomma, spiega Baccega: «Per combattere l’ansia sociale che scaturisce da questa pluralità di rappresentazioni di Vitangelo, il Moscarda decide di contraddire le stesse visioni di sé negli altri»[4]. Appagato infine in uno status spirituale di carità e rinascita, in un progress assiduo il protagonista dichiara: «Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo».[5]

Poiché Pirandello amava l’esoterismo, ricordiamo che tra i simboli di uno stato di cose assoluto è compreso l’albero della vita e dell’immortalità, all’orizzonte supremo: «Il centro è la zona del sacro per eccellenza, quella della realtà assoluta», spiega lo studioso rumeno Mircea Eliade: «Ugualmente, tutti gli altri simboli della realtà assoluta si trovano anch’essi in un centro. La via che conduce al centro è una “via difficile” (in sanscrito, dūrohaṇa) e questo si verifica a tutti i livelli del reale: […] smarrimenti nel labirinto, difficoltà di chi cerca il cammino verso il sé, verso il “centro” del suo essere, ecc».[6] Il bancario pirandelliano non sembra, di conseguenza, un fallito simile a tanti altri o un benestante irretito dalla noia al punto di smarrire di colpo la ragione convenzionale. Anche per lui, in analogia ai modelli delle società arcaiche studiate da Eliade nei loro riscontri attuali, sembra necessario un «rito di passaggio» capace di condurlo «dall’effimero e dall’illusorio alla realtà e all’eternità». Per l’anti-eroe di Pirandello la trasformazione radicale equivale (utilizzo ancora le parole di Eliade) «a una consacrazione, a un’iniziazione; a un’esistenza ieri profana e illusoria, succede ora una nuova esistenza, durevole ed efficace».[7]

E poiché, in questo sdoppiamento dell’arte rispetto alla vita nella poetica di Luigi Pirandello, ho fatto riferimento a un romanzo, ricordo che il plot di Uno, nessuno e centomila aveva avuto origine dalla novella Stefano Giogli, uno e due[8] (1909) presente nell’Appendice al secondo volume delle novelle. In un articolo uscito sul periodico “Le Grazie di Catania” nel 1897, Pirandello delineava con grande lucidità alcune funzioni tipiche dei diversi generi narrativi, spiegando come la novella sia vòlta a raffigurare il “grado zero”, cui la narrazione giunge nel suo sforzo designatorio di oggetti, personaggi e situazioni; ed essa si realizza solo quando tutti questi elementi non sono suscettibili di ulteriore sviluppo narrativo e devono essere mostrati in un Essere che sta diventando un Esserci. A differenza del romanzo, la novella non enfatizza le origini, gli stadi emotivi e le passioni, cioè «le relazioni di quelle con i molti oggetti che circondano l’uomo […], ma solo gli ultimi passi, l’eccesso insomma».[9] Lo scrittore organizzava la struttura semiologico-semiotica delle proprie short stories per proiettare all’estremo il significato dell’esserci.

Sono sempre stata convinta della misura in cui Pirandello stesso usufruisse per primo del principio di moltiplicazione conoscitiva e sentimentale della sua novellistica in termini, in senso lato, di intervalli quasi quotidiani, poiché ne scrisse poco meno di trecento nell’arco di mezzo secolo: dall’esordio adolescenziale con Capannetta (1884), pubblicata su “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, sino all’età matura con Effetti d’un sogno interrotto (1936), apparsa sul “Corriere della Sera” il giorno precedente alla morte.

Giovanni Macchia rimarcava come il nostro novelliere non disdegnasse in alcuni punti di collocare, accanto alla narrazione in sé, digressioni speculative, ragionamenti di ordine filosofico, ad esempio la riscrittura della gnoseologia bergsoniana rappresentata dalla figura di Socrate, il servitore di Leone Gala ne Il giuoco delle parti (1918): commedia tratta anch’essa, al pari di gran parte della produzione teatrale, da una novella, in particolare Quando s’è capito il giuoco[10] (1913). L’approccio speculativo non comportava però assiomi astratti, né teorici, bensì carichi di una ποιητική τέχνη (poietiké tècne) esplicita in atto. Macchia descrive «acquazzoni filosofici o pensieri polemici, temi insistenti e “concetti” che rimbalzano come palle elastiche da un’opera all’altra, a volte con le stesse parole e non sempre personali. Frasi di Binet, di Séailles, di Blondel vengono scaricate senza molti complimenti in pagine di romanzo, in battute di commedie, anche famose». [11]

All’interno di questa indubbia disinvoltura nel gestire al meglio dentro la propria Weltanschauung il pensiero e il volere artistico altrui, è lecito presupporre un’affinità dell’atmosfera esistenziale pirandelliana con la citata psicologia analitica di Carl Gustav Jung: «La vostra visione», scriveva il medico svizzero, «diventerà chiara solo quando guarderete nel vostro cuore. Chi guarda all’esterno, sogna. Chi guarda all’interno, apre gli occhi». Dunque, la τύχη (tiùche), la sorte benigna, parente stretta dal χάος (càos) dove le ceneri di Pirandello sono state disperse, potrebbe avvisare – con quella novella pubblicata il giorno prima della scomparsa – quanto la morte dello scrittore abbia coinciso con il perpetuare una imperitura visione terrena delle cose, sebbene proiettata e immersa nell’interminabile sviluppo della civiltà, nel continuo flusso della memoria.

In un tale campo referenziale, torniamo alle ricerche di Mircea Eliade, il quale evidenziava «l’impotenza della memoria collettiva a conservare gli avvenimenti e le individualità storiche, se non nella misura in cui essa le trasforma in archetipi».[12] La morte conclude la storia dell’individuo, ma il ricordo post mortem di questa “storia” è limitato: le passioni, gli avvenimenti, l’individualità propriamente detta, vengono a dissolversi insieme all’esistenza terrena. Quindi, spiega Eliade, «soltanto la possibilità e la memoria legata alla durata e alla storia possono essere chiamate una sopravvivenza».[13] Nel macrocosmo di Pirandello la θάνατος (thànatos) svolge un ruolo fondamentale nella funzione di verifica utopica dell’esistenza, di replay perenne, riproduzione continua: ma essa trattiene le “categorie” e disperde gli “avvenimenti”, tramanda gli “archetipi” e non i “personaggi”.

Tra le svariate novelle attinenti lo sdoppiamento consentito dal messaggio artistico alla vita attraverso l’alternativa metaforica della morte, rammento La vita nuda[14] (1907), posta all’inizio dell’omonima raccolta del 1910 e oggetto della mia tesi di laurea in Storia della Critica Letteraria dal titolo Organicità e dialettica nella poetica pirandelliana.[15] Lo sguardo esegetico contenuto nel titolo pirandelliano La vita nuda, nonché la vicenda raccontata, rievocano il Gorgia (Γοργίας-Gòrghias) di Platone, niente affatto ignoto a uno studioso del mondo classico come il Maestro: «Al tempo di Crono, e ancora nei primi anni del regno di Zeus, viventi giudicavano altri viventi ed emanavano la sentenza nel giorno stesso in cui ciascuno doveva morire. […]. Disse però Zeus: “Non giusti sono i giudizi e questo per il fatto che al momento del giudizio chi viene giudicato è vestito, essendo giudicati mentre sono ancora vivi. Molti, che posseggono un’anima malvagia, sono rivestiti di bei corpi, di nobiltà, di ricchezza […] Avviene che giudici si lascino impressionare da questo apparato; non solo, ma essi stessi si giudicano essendo vestiti, avendo l’anima velata dagli occhi, dagli orecchi, da tutto l’insieme del corpo”». Come superare l’ostacolo? La soluzione del Gorgia accomuna il filosofo greco allo scrittore siciliano: donne e uomini «dovranno essere giudicati da morti, cioè spogli da tutti questi ostacoli, e nudo, cioè morto, dovrà essere anche il giudice». [16]

Lascio la conclusione alle parole dello svizzero-francese Georges Piroué: «Come i maestri che si è dato, Pirandello ha lo sguardo nudo. Il mondo che gli si offriva, egli si è rifiutato di scoprirlo quale gli altri lo avevano modellato col potere dei loro discorsi. Appartenere a quegli uomini di cultura che per secoli hanno riposto nel guardaroba dell’eloquenza [N.d.R., titolo di una novella del 1909] di che abbigliare le loro sensazioni, gli ripugnò sempre. “Dove non c’è la cosa, ma le parole che la dicono; dove vogliamo esser noi per come le diciamo, c’è, non la creazione, ma la letteratura”».[17]

Un ringraziamento, che è anche un ricordo, ai professori della Facoltà di Lettere de “La Sapienza” che mi hanno seguito nella tesi di laurea: Mario Costanzo Beccaria, ordinario di Storia della Critica Letteraria, e Adriano Magli, ordinario di Storia del Teatro e dello Spettacolo.

Un pensiero affettuoso alla famiglia Devenuto-Mariti per l’immagine di copertina della mia tesi.


[1] Cinci, in “La lettura”, Milano, giugno 1932, ora in Novelle per un anno, vol. II, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, VI ed, 1966, pp. 807-812.

[2] “La camminante”, in “Gazzetta del Popolo”, Torino, 17 gennaio 1909, ora in Saggi, poesie, scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio-Musti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, IV ed. 1977, p. 992.

[3] Colloquio con la madre, in “Giornale di Sicilia”, Palermo, 11-12 settembre 1915, ora in Colloquii coi personaggi, II, in Novelle per un anno, vol. II, cit., pp. 1190-1191.

[4] Francesco Baccega, Guardarsi allo specchio e vedersi centomila può portare alla depressione o all’ansia sociale, 13 dicembre 2019, https://www.ilsuperuovo.it/guardarsi-allo-specchio-e-vedersi-centomila-puo-portare-alla-depressione-o-allansia-sociale/

[5] Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, in Tutti i romanzi, a cura di Corrado Alvaro, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, I ed., 1957, p. 1416.

[6] Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno. Archetipi e ripetizioni, trad. Giovanni Cantoni, Torino, Lindau, 2018, p. 31.

[7] Il mito dell’eterno ritorno, cit., p. 32.

[8] Stefano Giogli, uno e due, in “Il Marzocco”, Firenze, 18 aprile 1909, ora in Novelle per un anno, vol. II, cit., pp. 1166-1173

[9] Romanzo. Racconto. Novella, in “Le Grazie”, Catania, 6 novembre 1897.

[10] Quando s’è capito il giuoco, in “Corriere della sera”, 10 aprile 1913, ora in Novelle per un anno, vol. II, cit., pp. 839-846.

[11] Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1981, p. 27.

[12] Il mito dell’eterno ritorno, cit., p. 62.

[13] Il mito dell’eterno ritorno, cit., p. 63.

[14] La vita nuda, in “Novissima. Albo d’arti e lettere”, albo 1907, Roma, ora in Novelle per un anno, vol. I, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, VI ed. 1966, pp. 247-260.

[15] Cinzia Baldazzi, Organicità e dialettica nella poetica pirandelliana, relatore Mario Costanzo Beccaria, correlatore Adriano Magli, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, anno accademico 1977-1978.

[16] Platone, Gorgia, trad. Francesco Adorno, in Opere complete, vol. V, Bari, Laterza, 1975, pp. 249-250.

[17] Georges Piroué, Pirandello, trad. Alfonso Zaccaria, introduzione di Leonardo Sciascia, Palermo, Sellerio, 1975, p. 23.

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N.E. 01/2023 – “Follia e poesia”. Saggio di Dante Maffia

Mi sono sempre domandato, e continuo a farlo insistentemente, da dove arriva la poesia, da quale fonte scaturisce (il problema del che cos’è e a che serve si presenta dopo).

E’ depositata in qualche luogo segreto e c’è qualcuno predestinato a scovarla e a portarla all’umanità, oppure cammina nell’aria, invisibile, e soltanto alcuni eletti (o condannati) possono vederla, coglierne qualche petalo e offrirlo?

E’ un problema che non sarà mai risolto. Le ipotesi si sono succedute nel tempo e filosofi, critici, teologi e psicanalisti hanno tentato una strada e un’altra senza mai arrivare a una conclusione.

E sono convinto che non ci potrà essere conclusione, perché la poesia, tra le tante cose, è innanzi tutto mistero del senso, visione di un palpito che chiede ascolto nello stesso istante in cui si dissolve.

La verità è che appare, indica e diventa brezza di un annuncio rivolto quasi sempre all’immaginazione.

A cogliere questo annuncio è il poeta o il presunto tale. Ma il presunto tale s’investe da sé, si dà un ruolo da sé, assolve a una funzione per la quale non ha né ragioni, né inclinazioni, né meriti né vocazione, né fini.

Ed ecco che la categoria poeta (o come bisogna indicarlo?) si trova ad avere davanti un binomio terribilmente dispari: l’eletto, o l’imbecille presuntuoso che crede di essere eletto e si investe dell’alloro, convinto di avere trovato la chiave per entrare nel mistero, di essere il portatore di stelle e di arcobaleni “neniando” la mediocrità e la superficialità.

La poesia si concede soltanto alla follia, a quella vera, accertata, indissolubile, perché è attraverso la follia che può portare il lettore nei meandri del divino o del nulla, del divenire o delle perdite, delle acquisizioni impossibili o delle dissolvenze illuminanti. Se il poeta non fosse folle, almeno nell’istante in cui coglie le parole inimitabili che il mistero gli suggerisce, non potrebbe sopportare l’abbacinamento, il fuoco violento che forgia il nuovo senso.

Immagino lo scetticismo con cui possono essere valutate queste mie affermazioni, immagino l’accusa di esoterismo, di vaghezza, e di altro, ma se si fa attenzione ci si può rendere conto che nelle parole dei poeti veri non c’è mai vaghezza o esoterismo gratuito, non c’è mai approssimazione. Anzi, cito da Nelo Risi, il poeta è un supremo realista che ha la possibilità di leggere la realtà nei dettagli, nelle sfumature, nei rivoli laterali, oltre che nell’essenza. Il poeta è nella pienezza della realtà e nella sua marginalità  e dunque ha facoltà di entrare nell’immensità del finito e dell’infinito, nella briciola che si fa universo, nell’universo che si fa briciola.

E si badi che non si tratta di sillogismi, ma di esperienze vissute in prima persona e vissute e verificate attraverso migliaia e migliaia di altre esperienze.

Negli anni ho raccolto una infinità di “definizioni” della poesia e mi sono reso conto che, pur contraddicendosi, hanno tutte ragione. Ciò può soltanto significare che il mistero e il senso intimo delle cose hanno sfaccettature cangianti, perfino ibride, e che bisogna temprarsi alle ragioni incomprensibili dei messaggi della poesia. Che non sono messaggi da intendere nell’accezione usuale, ma messaggi che hanno la sostanza di input, che al momento del coagulo definitivo si spostano e deragliano in altro, a testimoniare che la vita stessa è deragliamento di senso, approdo non codificato e non codificabile, nonostante quel che dicono i benpensanti abitudinari e le religioni.

Dev’essere questa sfuggente materia incandescente di cui è fatta la poesia a causare a volte corti circuiti anche nei poeti veri che in alcune situazioni non riescono a tenere il passo degli scardinamenti, degli smarrimenti e delle sottrazioni e arrivano al suicidio.

Dentro la follia dunque nasce la poesia. Ma attenti, nessuno psichiatra sarà mai in grado di stabilire in che padiglione ricoverare il poeta. In tutti  e in nessuno, perché quella della poesia è malattia non definibile, non catalogabile, eppure infettiva in maniera pericolosa, perché crea epidemie che simulano alla perfezione la malattia e fa fiorire la banalità con un sussiego che ha forme perverse e stupide, cadute nel vuoto, nella sciatteria, nella miseria umana e nel sussiego più irritante.

Conosco una miriade di imbecilli che scrivendo “è spuntato il sole / e illumina” sono convinti di avere creato qualcosa di eterno. Certo, lo spuntare del sole è eterno, ma il fatto che qualcuno lo ribadisca è soltanto tautologia, notizia priva di emozione, di mistero, di implicazioni che portino oltre la sfera del risaputo.

Dicevo che poesia e follia sono una equazione perfetta. Dicevo anche che questo tipo di follia in rapporto con la poesia non è decifrabile o catalogabile. Allora come fare a cercare la fonte da cui scaturisce la parola che poi, se è poesia autentica, illuminerà il percorso umano?

In molte occasioni mi sono domandato se senza la poesia il mondo odierno sarebbe così com’è o peggiore o migliore. Non ho avuto mai nessun dubbio, peggiore, ancora felino e scompostamente acerbo, perfino disumano. Capisco le obiezioni di coloro i quali affermano che per secoli la maggior parte dell’umanità è stata analfabeta e quindi non ha mai letto un verso. Ma si tratta di obiezioni di parte, perché non è la divulgazione della poesia a determinare il fattore etico che s’insinua nelle organizzazioni sociali, ma arrivare nell’animo dei legislatori, dei politici, dei governanti.

La poesia non fa il gioco diretto, ma quello indiretto: illumina il senso e lo arricchisce di quello spessore che permette di alzarci al di sopra del senso comune.

Adorno non aveva ragione quando dopo la barbarie nazista affermò che ormai la poesia era morta e non aveva più motivo di esistere. Non ha pensato che forse se non ci fosse stato il “deterrente” della poesia ad aleggiare in qualche modo nelle scorie di qualche cervello, forse lo sterminio sarebbe stato più vasto, più feroce, più duraturo?

Il folle vede cose che gli altri non vedono; vede la luce nel buio, la bellezza nell’ombra, il dolore in un campo di girasoli, la gloria in una finestra spalancata, la felicità in una carezza, il lupo in una goccia di rugiada, la miseria in un sorriso… Cioè vede oltre, vede l’invisibile, e ce ne dà la misura se riesce a trovare le parole che possano addensare quel rapporto, quella visione, quella luce. E se ce ne dà la misura, vuol dire che è poeta, non è soltanto folle. Se invece non riesce ad andare oltre ed è chiuso nel limite della demenza, allora significa che quel  folle è folle soltanto, non ha il privilegio di  un ulteriore occhio, di un ulteriore cuore, di  saper entrare e uscire  dal nido di semenza che cresce alitando come un miracolo.

Attenti però ai finti folli, a coloro i quali hanno magari subito la follia per un certo periodo e poi sono ritornati nella normalità della vita quotidiana non riuscendo ad andare mai oltre la siepe. Ma consapevoli di una esperienza se ne ricordano e la utilizzano facendo credere agli altri di essere ancora al fondo dell’abisso.

La follia ha uno sguardo che non si può imitare nemmeno dopo averlo avuto e poi perduto, e il folle finto poeta, il poeta finto folle rimugina dolore e tristezza, negazioni e limiti con un vezzo che io ho trovato sempre comico. E’ il caso, per fare almeno un esempio, di Alda Merini, che ha spettacolarizzato la follia per imporre una poesia del patetismo a volte perfino becero e comunque abbastanza di maniera.

Chi invece ha subito le stimmate irreversibili della follia è Dino Campana, che con Canti orfici è riuscito a darci il ritratto di una condizione umana e poetica rara, in cui il crogiuolo delle contraddizioni e delle lacerazioni diventa inferno senza remissione fino a far credere che le immagini da lui usate siano prestiti dal surrealismo e sono invece magma incandescente delle metamorfosi che lo dilaniano e lo sbattono in terra ogni volta che tenta di rompere la catena delle tentazioni e perfino delle rinunce. Dino Campana è dentro ogni suo verso con anima e corpo, s’immola, muore, resuscita, ricade nel mulinello del vuoto e si ricrea in una immagine sapendo d’essere appena un seme marcio che non potrà fiorire se non nella parola.

Ed è questa parola che deve portare il lievito a chi legge (badate che non ho detto messaggio, ma lievito), deve sincronizzare l’assurdo verso la luce, l’intuizione verso la forma, quale che possa essere.

Un caso recente è quello di Maria Marchesi, sulla quale aleggia il dubbio addirittura della sua esistenza.

La Marchesi ha dissacrato tutto. Due libri in vita, uno postumo. In ogni pagina dei suoi tre volumi c’è la dannazione che avvampa, c’è il tripudio dell’indecenza come arma per tagliare con le consuetudini, c’è la dissacrazione della sacralità e delle assuefazioni, dei rituali e di tutto ciò che è considerato intoccabile. Perfino i miti della poesia vengono sconvolti e vivisezionati, non so, Beatrice, Laura e Silvia, in modo che attraverso il filo rosso della follia ogni arbitrio risulti verità del profondo e non accoglimento dello stato di fatto.

Eppure non è terroristica, la sua non è protesta politica e sociale, ma presa di coscienza di una condizione attraverso la quale la realtà si apre e gioca a nascondiglio offrendo al lettore la possibilità di entrare nelle verità dell’altro lato della medaglia.

Ma non vorrei fare l’elenco dei poeti dichiaratamente folli, di quelli che sono stati ricoverati nei manicomi, molti dei quali si sono suicidati. Vorrei fare intendere come la follia alberga silenziosa in tutti i grandi poeti, anche quando questi non hanno dato segni di squilibrio comportamentale, nel rapporto con gli altri, nelle azioni quotidiane.

Cominciamo da lontano. Dall’Alighieri. La sua follia è totale. Egli riesce ad entrare nella condizione del morto e riesce a visitare il regno dei morti con una naturalezza che soltanto chi è veramente morto (il corpo non c’entra) può descrivere con tanta naturalezza e verità. Egli è un tramite che dentro la follia trova la strada del cammino verso la Luce.

Non è da meno Petrarca. Laura c’è e non c’è. Ha poca importanza. C’è l’amore, che si espande, che bussa, che chiede, che inonda, che patisce e che grida da luoghi lontanissimi il suo dramma. Se non ci fosse la follia a sorreggere il poeta tutto si sfalderebbe in cerimoniose adesioni a un’idea di donna dentro la banalità di un desiderio, grande o piccolo che sia.

Ma dove la follia impera e gode fino alla esasperazione, fino a farsi incanto di voli senza protezioni, è L’Orlando Furioso. Ariosto ha ceduto il suo cervello all’ammasso e resta a guardare se stesso mentre ha a che fare con protagonisti così bizzarri. Gioca, ma è un gioco di riflessi che ci portano dentro la magia di sussulti avvertibili soltanto se si ha l’umiltà di mettersi in sintonia con il ritmo delle ottave.

Ritmo che si ha dolorosamente sincopato, solenne, imprevedibile ne La Gerusalemme Liberata.

Sulla follia del Tasso sono stati scritti tanti volumi, ma nessuno ha mai detto che il poeta riesce a cogliere la prepotenza della sua poesia da un’angolazione così particolare che ha fatto pensare a una ostinazione invece che a una scelta.

Scelta fatta dalla sua follia, punto di vista fatto dalla sua follia che perseguiva le vicende per poterle aprire nel laboratorio della sorpresa assidua. Sì, Tasso ha seguito le indicazioni di un laboratorio che lo ha spinto a guardare attentamente fino a rendersi conto che poteva vedere attraverso il muro, che poteva ascoltare le voci del passato, e poteva rinascere dai residui della civiltà dei padri. Si rileggano attentamente soprattutto le sue Rime immortali.

Poesia e follia!

Non è una formula inventata per parlarne a un convegno, ma la scoperta di una condizione imprescindibile, di una realtà esatta che però è stata da sempre negata o distorta. O volutamente o ingenuamente interpretata in modo approssimativo e tendenzioso.

Ho letto nel romanzo di un’autrice americana una frase che mi ha dato la conferma di come girano i luoghi comuni e si radicano: “Che cosa sono depressione e psicosi, in fondo, se non deviazioni dal realismo?… Un Dio insufficiente è meglio che nessun Dio”.

Soltanto l’ingenuità americana di Martha Cooley poteva trovare una formula così. Come dire che chiunque si allontana dal circuito si allontana dalla verità. Orribile! Semmai chiunque si allontana dal circuito può incorrere in un incidente, può perdersi, può scantonare, ma è comunque su una nuova strada e non è fuori da nessun realismo né tanto meno è deviazione dal realismo. Ecco, la poesia nasce quasi sempre dall’uscita del circuito e non per partito preso, per una sorta di incarico imperativo ricevuto da qualcuno, ma perché la poesia ha il compito di cercare l’insondabile, l’imprevisto e l’imprevedibile, l’ingranaggio che si muove lontano dalle abitudini. Certo, un simile comportamento, nelle varie società organizzate dentro regole precise e codificate, fa scandalo, preoccupa, indica una direzione non prevista. Ma la poesia deve fare sempre scandalo, o con la sua semplicità e la sua essenzialità, o con la sua valanga che deve rigenerare il vento flaccido del risaputo.

La poesia vera può risultare a prima lettura addirittura un paradosso, perché anticipa e mette davanti al futuro. E chi ne ha paura pensa subito alla follia. Ma certo, è frutto della follia, perché soltanto il folle riesce a vedere lontano, molto lontano, a percepire i mutamenti che verranno, perché necessari per la sopravvivenza dell’uomo.

Ha scritto Daniel Defoe che “Il Diavolo, condannato a vagabondare, girovagare, essere nomade, non ha una fissa dimora e pur avendo una sorta di impegno sulla distesa liquida o sull’aria, essendo la sua natura angelica, è sicuramente parte del castigo il suo non possedere uno spazio o un luogo su cui posare la pianta del piede”.

Ecco, il poeta è condannato a vagabondare, girovagare e guai se posasse la pianta del suo piede su qualche superficie. La sua parola sarebbe inchiodata a una data epoca e non all’universale, al tempo senza tempo. Naturale quindi che, non avendo mai sosta, non avendo casa, non avendo uno scopo pratico e immediato, egli si trovi nella condizione dello “sbandato”, del “clochard”, del “randagio” . In realtà egli è assolutamente libero, non legato da niente e da nessuno, ha la stessa natura del vento, cioè è folle. Folle dentro la saggezza del movimento, della forma che si rinnova, del tripudio del senso che si rincorre e di disfa, che si crea e si rinnova, mai sazio e mai pago del raggiungimento.

In questa accezione la follia si fa mano di poesia e ridisegna ogni giorno il colloquio necessario per non diventare biblioteca della morte.

Comunque poesia e follia è tema di cui si sono occupati i maggiori psichiatri e ognuno ha detto la sua con esempi presi in prestito sia dalle proprie esperienze e sia dai classici della poesia grazie al fatto che sia il poeta e sia il folle sono attraversati dalla dinamica del profondo. Da Basaglia a Borgna i riferimenti accurati si sono fatti seguendo passo dopo passo i versi di alcuni morti suicidi o isolati dal mondo per propria scelta. Ma io vorrei sottolineare che non c’è bisogno di ricorrere a Silvia Plath, a Cristina Campo, a Nietzesche, a Walser, a Milton, ad Antonia Pozzi, per rendersi conto che davvero e incontrovertibilmente “In ogni ombra c’è un po’ di grazia”, come diceva Simone Weil. Si può perfino ribaltare e dire che in ogni grazia c’è sempre un po’ di ombra.

E’ evidente comunque che ricorrere alle citazioni dei poeti aiuta a entrare nella pienezza del discorso senza alzare muri di dubbio, ma basterebbe ricordare quel che diceva Erasmo da Rotterdam sulle passioni (“In primo luogo è pacifico che tutte le passioni rientrino nella sfera della follia”) per essere certi che davvero “La follia è la sorella sfortunata della poesia”.

Potrei continuare all’infinito, ma mi pare che Clemens Brentano abbia colto in pieno il rapporto esistente tra poesia e follia.

Già nel Cinquecento un erudito inglese, un certo Burton, affermava che “Tutti i poeti sono matti” e comunque l’idea era mutuata da fonti greche, a dimostrazione del fatto che sul poeta anche la gente comune ha sempre avuto un atteggiamento sospetto. Già, un uomo che corre appresso alle parole come i bambini corrono appresso alle farfalle o come il vento corre appresso il polline che cosa può fare di concreto? Che può dare a se stesso e agli altri?

Riporto un aneddoto che altre volte mi è occorso di ricordare. In un paesino della Calabria, San Demetrio Corone, nel secolo scorso c’era un collegio tra i più importanti del sud, con un liceo di riguardo. Ma spesso i posti letto del collegio non bastavano e allora qualche studente doveva andare a pensione presso le famiglie del paese.

Tra questi studenti ci fu uno scrittore calabrese, un poeta, Sharo Gambino, di Serra San Bruno, che abitò presso una famiglia distinta. A distanza di anni la signora che l’aveva ospitato si ricordò del giovane e domandò sue notizie alla nipote studentessa universitaria. La nipote rispose: “Nonna, Sharo è diventato un poeta”. E lei, di rimando, facendosi il segno della croce: ”Dio mio! Eppure era un bravo ragazzo”.

Voglio dire che la follia, se si legge la filigrana degli scritti dei poeti, la si trova perfino in quelli che all’apparenza sembrano perfettamente normali secondo i canoni correnti. Giovanni Pascoli può essere un esempio probante. La sua vita è scorsa nei binari del perbenismo, nella routine di una quotidianità che non pare mai scossa da nessun terremoto, se non quello del dolore, ma se scaviamo in alcune sue liriche sentiamo che lui è dentro visioni che si sfaldano, sensazioni che hanno forme  astratte simili a fantasmi che mutano e gemono sull’orlo degli abissi.

Ma io, ovviamente, parlo da poeta e senza cognizione della psichiatria, e quando dico follia intendo l’andare controcorrente, non restare nelle norme, allontanarsi dall’acqua stagnante del risaputo e mettersi contro l’assiepamento del senso del finito.

Se un poeta invece si accoda, se accetta di restare nel cerchio del giardino concluso e profumato di passato, seppure perfetto, allora vuol dire che è soltanto un esecutore di forme vuote, un finto poeta, uno che ripete le onde imitando la vita interiore che non è mai ferma, mai paga, mai definita.

Non posso dunque schierarmi con nessuna scuola psicologica o psichiatrica, ma osservare quel che mi si è mosso dentro ogni volta che ho aperto un testo le cui parole sono frutto caldo del sangue e non versione scolastica.

Nell’Avvertenza a Psicologia e poesia di Carl G. Jung troviamo un riferimento a, Hermann Hesse:

“… il giovane Emil Sinclair, scopre su un banco un foglio sul quale si legge: ‘L’uccello si sforza di uscire dall’uovo. L’uovo è il mondo. Chi vuol nascere deve distruggere un mondo”.

L’esempio mi pare evidente. Il poeta vuole nascere e per farlo ogni volta deve distruggere il mondo, mettersi contro ogni regola, seguire “l’esperienza visionaria” consapevole o non, anticipando “mutamenti presenti e futuri” e additando “possibilità di rigenerazione a  tutta l’umanità”. Ci sono dei versi di Raffaele Carrieri che “spiegano” molto bene questa condizione: “Il poeta muore diciassette volte in una sola giornata, poi viene la morte e dice basta”.

Però forse è bene specificare che la poesia non è il frutto diretto della malattia. A volte i poeti si immedesimano così tanto e così tanto bene da essere ammalati soltanto per il periodo che occorre per essere veritieri, credibili, veri. Il poeta può, riesce a fingere fino a diventare vero. Non si tratta di credibilità o meno, né di finzione teatrale portata all’estremo limite, ma di vera e propria immersione nella follia in modo che nessun freno inibitorio, nessun condizionamento intervenga o possa avere diritto di modifica o di limitazione.

Ma a questo punto si apre un’altra voragine e Jung direbbe che al poeta “Non gli resta che obbedire e seguire questo impulso apparentemente estraneo, rendendosi conto che la sua opera è più grande di lui, e perciò ha su di lui un potere al quale non può sottrarsi”. Un fatto è certo: la poesia è frutto di un processo lungo che macera all’interno dell’anima e nell’indeterminatezza dell’inconscio e la conoscenza umana può poco o niente per analizzarla nelle scaturigini. Non sapremo mai da che cosa si genera la parola che accende i lumi dell’indeterminatezza e si fa lucida determinatezza spiegando l’indecifrabile attraverso le lenti del sogno. Un sogno che naviga naturalmente, che si forma, cresce e si espande alla stessa maniera in cui lo fa un fiore. Meccanismi imprendibili nel loro farsi e disfarsi, nel loro alitare a volte parole che aprono ferite, che fanno sanguinare, che costruiscono interi mondi o li demoliscono, che sono melodie ch’erano perdute, recuperi di verità affondate nei baluginii di un dissesto che anelava alla perfezione e alla compiutezza.

Forse è tutta una illusione?

O è soltanto una maniera che consapevolmente o inconsapevolmente ci avvicina a Dio, ai disegni segreti dell’essere e del divenire? Per dirla con Celan “E’ come porsi fuori dell’umano, un trasferirsi, uscendo da se stessi. In un dominio che converge sull’umano ed è arcano”.

Dopo tutto ciò che ho detto però alla fine mi sono ricordato di quel che diceva Sant’Agostino sul tempo:
“ Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”.

Jorge Luis Borgese propone di applicare la stessa domanda alla poesia. Io propongo di applicarla anche alla follia.

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N.E. 01/2023 – “La rosa segreta. Velate assenze d’armoniche rime” di Paolo Ottaviani. Recensione di Lorenzo Spurio

Il mondo parla una sua lingua oscura

di cui l’anima avverte rare note

che il verso dona in una lingua pura. (p. 49)

Il poeta umbro Paolo Ottaviani (Norcia, 1948) ha recentemente dato alle stampe, per i tipi di Manni editore, una nuova raccolta di poesia dal titolo evocativo e curioso La rosa segreta. Il testo, che porta quale sottotitolo Velate assenze d’armoniche rime, si apre con due citazioni in esergo, una tratta da “Settima fuga” del triestino Umberto Saba e l’altra da L’ordine del tempo del fisico Carlo Rovelli nella quale saggiamente sostiene che “la nostra esperienza del mondo è dall’interno”. La doppia apertura nozionistica, per estratti, quella da un’angolatura poetica e meramente letteraria di Saba e quella scientifica di un’analista e investigatore della realtà fisica, sul tema dell’interiorità, dell’intimità e della segretezza (richiamata nell’opportuno titolo dell’intero lavoro), è il metro duplice – mai bipartito e scisso, ma molteplice e complessivo di una dualità in sé non manifesta – che l’Autore propone al lettore, l’andatura cadenzata che la successione dei vari componimenti propone e facilita. Lo si vedrà anche con la poesia “Gli Infiniti” che nella citazione fa riferimento ai due “infiniti”, quello introspettivo e filosofico tutto leopardiano (“tra questa immensità / s’annega il pensier mio”) e quello del fisico Stephen Hawking connaturato nella complessità della sua “teoria del tutto” che apre varchi a nuove letture della realtà fisica e dei suoi meccanismi (non a caso uno dei suoi maggiori volumi conosciuti nel nostro Paese è l’autobiografia-testamento Verso l’infinito edito da Piemme nel 2015).

La nuova opera s’inscrive in un percorso professionale e letterario di tutto rispetto e motivo di attenzione da parte della scena culturale contemporanea. Laureato in Filosofia con una tesi su Giordano Bruno, Ottaviani ha pubblicato negli «Annali dell’Università per Stranieri di Perugia» saggi sul naturalismo filosofico italiano. È stato direttore della Biblioteca della medesima Università e ha fondato la rivista «Lettera dalla Biblioteca». Quale poeta ha pubblicato le opere Funambolo (1992), Il felice giogo delle trecce (2010), Trecce sparse (2012), Nel rispetto del cielo (2015) e La rosa segreta (2022). In idioletto neo-volgare (con traduzione in italiano) ha pubblicato Geminario (2007). Hanno scritto di lui, tra gli altri, Maria Luisa Spaziani, Paolo Ruffilli, Maurizio Cucchi e Mauro Ferrari. Il poeta marchigiano Eugenio De Signoribus, inoltre, nella sua qualità di Direttore Letterario, lo ha invitato a pubblicare suoi testi nei fascicoli d’arte “Passaggi” editi dall’Associazione Culturale La Luna.

La nuova opera fornisce al lettore quattro percorsi (se non tematici, in qualche modo organizzativi del vario materiale da parte dell’Autore) contraddistinti dalle quattro porzioni che lo contraddistinguono, “Comete e comete” (pp. 7-29) che è la parte iniziale e quella contenutisticamente più nutrita; “20 sonetti” (pp. 33-52) in cui con fedeltà alla metrica Ottaviani si allinea a una tradizione alta e sempre rispettata del “far poesia”; “Spigolature” (pp. 54-65) che, come recita il titolo, sono di genere vario e di tipologia diversa (vi troviamo, infatti, testi nell’idioletto umbro, il nursino d’epoca medievale, da lui impiegato ma anche distici e haiku) e, infine, una sezione contenitiva ben più generica sotto la definizione di “Altre poesie” (pp. 69-77).

Immergendoci nella raccolta incontriamo poesie dedicate alla meraviglia naturale degli ambienti a lui cari, tra cui il Monte delle Rose, il Lago Trasimeno, mare dell’Umbria, la natia Norcia (“questa mia terra inghiotte ogni altra terra”) e le cascate delle Marmore che lo animano a una riflessione continua sull’esistenza, sui rapporti primordiali dell’uomo tra natura e cultura: “Se l’Uomo o la Natura / a governare l’immane potenza / delle acque dottrina più sicura // non può mai dire. S’inchina la Scienza / alla Bellezza” (p. 35). Non mancano i ricordi di momenti appartenuti a un’altra fase dell’esistenza impressi attorno a immagini indelebili o contenuti olfattivi che, con l’atto della rimembranza, l’autore sembra riconquistare.

Ottaviani, che è un grande cultore della materia letteraria (non mancano citazioni dantesche ma anche dediche a poeti dei nostri giorni quali Franco Scataglini, difensore originalissimo di un dialetto neo-volgare con recuperi dell’antico veneziano intessuti nel dettato gergale dell’anconitano) fa ricordare il Genio Recanatese quando nella lirica “Sorella mia ginestra” parla di un fiore tanto amato a Leopardi e al quale dedicò uno dei componimenti più celebri. Il testo del poeta umbro è, a suo modo, un valido viatico per una rilettura del presente e una comprensione degli istanti che fuggono; non è un caso che la chiusa, dal velame esistenzialista, contenga queste parole: “dimmi se il tutto è solo un vano errore” (p. 14). Il canto della terra, che in Ottaviani ben si eleva da liriche di diverso contenuto, è forse meglio espresso in “Madre nostra terra”, componimento dedicato alle esistenze disagiate delle popolazioni che, tra Marche e Umbria, furono duramente colpite dal terremoto del 2016: “Più d’un mare in tempesta madre nostra / terra da furie e viscere irrequiete / smuove montagne altere e qui ci prostra/ […] // Madre perché, perché ci sei sì cara?” (p. 22).

Non manca in questa raccolta l’adesione ai fatti del mondo, la compartecipazione autentica e sentita ai drammi quotidiani come è evidente in “Cera una volta”, lirica dedicata – come recita il sottotitolo che parla di “favola” (una favola amara, è vero) – a un “meraviglioso ragazzo friulano” ovvero al ricercatore Giulio Regeni assassinato in Egitto nel 2016 e sulla cui vicenda non si sono mai dileguate ombre né e opacità. Ottaviani nella sua poesia che, come nella migliore delle favole inizia con un “C’era una volta”, ci fa ricordare la brutta vicenda di un giovane dileguatosi in una terra straniera, percepita ancor più inospitale e disattenta verso la natura spassionata del sorriso del ragazzo: “Oggi Giulio splende con la luna”, chiosa il Poeta nell’explicit, un messaggio lapidario e dolente, una sintesi innaturale di un’esistenza dissipata nel bel mezzo del suo fulgore. L’idea della luce – quale segno vivo che testimonia una presenza, seppur in altra dimensione – è l’immagine scelta dal poeta umbro per dire che quella di Regeni è una storia che non dimenticheremo (che non dovremo mai dimenticare).

La poesia “Queste placide nuvole” è dedicata alla sciagura più grande dei nostri tempi, quella dell’epidemia del Coronavirus che “traghetta[…] il dolore / tra gli oscuri riverberi che allagano // il verde della terra e ne dismagano / il volto” (p. 38). C’è spazio anche per affrontare, col solito piglio garbato e rispettoso, un altro grande tema, quello dell’immigrazione, quando l’Autore parla delle “bocche dei vivi o morti in mare” (p. 9).

In “Un invito a cena”, una delle poesie che chiudono la raccolta, Ottaviani riflette sulla figura del poeta considerando il tema del silenzio (requisito spesso necessario per la giusta captazione dal mondo e l’accoglimento della chiamata creativa). Già in “L’acqua senza suono” aveva riflettuto sulla dimensione di atonia, della mancanza di rumore, ma in questo caso “La vastità tranquilla del silenzio / induce a conversare di minuzie” (p. 75) sino all’evidenza dell’imperscrutato (il lettore consentirà l’uso di questa enigmatica costruzione che ben rimarca il labile confine tra il visibile e l’invisibile): “La poesia sembra non presente / ma sta in disparte, ascolta e lenta tra una / portata e l’altra / […] / volge in canto” (p. 75).

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N.E. 01/2023 – “E’ già mattina. Storia di Alessandria”. La “bambina che visse due volte” di Alberto Samonà. Recensione di Giulia Maria Sidoti

 “E’ già mattina” è un romanzo-saggio che coinvolge e intriga a mano mano che si va avanti con la lettura; narra una storia vera ed incredibile. Tratta di un presunto caso di reincarnazione che riguarda un’ava dell’autore. Il caso sconvolge l’ambiente degli intellettuali dell’epoca, gli anni della belle epoque di una Sicilia che sta per  scomparire al progressivo avanzare della modernità. E’ la storia di Alessandrina, una bambina identica ad una sorellina morta che appena cresciuta manifesta ricordi di una vita precedente, quella appartenuta alla sorella, e straordinarie facoltà di sensitiva. La storia vera attraversa, passando per generazioni ed epoche diverse, la storia della Sicilia stessa. Il tema del “ritorno” sotto altre sembianze ha pieno compimento in senso metafisico e si incrocia perfettamente con la concretezza della realtà. E’ la storia di uno spirito che non muore, che ci dona una inquietante apertura e che ci conduce a pensare, in maniera diversa, all’eterno. Il romanzo oltre ad avere le caratteristiche del saggio e del romanzo storico, possiede una struttura particolare che è il risultato della varietà condotta con coerenza.

L’essenza di ciò che viene narrato ovvero l’esistenza di un sottile filo che lega la realtà del mondo concretizzatosi in atto e quella intangibile che si materializza in “momenti-vite”, è racchiusa tra le pagine dell’inizio e quelle della fine. Non si tratta di una semplice struttura ad anello che comincia dal presente o che vi ritorna alla conclusione del romanzo, ma sono i piani narrativi a costituire la cifra del suo lavoro, piani che Samonà sa giocare in modo originale; è una sua caratteristica, infatti, quella di intrecciare più piani temporali per descrivere l’infinito eterno, facendo sempre riferimento alla realtà, quella in atto. Il suo andare avanti ed indietro nel tempo del racconto, il suo disinvolto e naturale passeggiare tra i livelli temporali, realizzano unità, coerenza e chiarezza narrativa. Il narrare cose intangibili risulta concreto: parla di avvenimenti, di storia di luoghi e di generazioni. Ai superficiali, alcuni fatti potrebbero apparire tutt’altro che reali, ma il tutto è reso altamente credibile. Le descrizioni di luoghi e persone sono fotografie realistiche, riprese però con una sapiente velatura , come se questa fosse l’aura di un ricordo, ma del ricordo di qualcosa che è ancora vivo ed esistente, così come le descrizioni degli stati d’animo interni ai personaggi storici, perché realmente vissuti, sono carichi di un pensare poetico che spesso comunica la pudica nostalgia dell’autore per un mondo trascorso. Belle e delicate le pagine finali, costituiscono magistralmente una scena teatrale, visibilissima, che lascia intuire quanta struggente nostalgia e forse anche dolore vi sia nella sopravvivenza, in un’altra dimensione incastonata in un luogo reale, di spiriti ancor oggi presenti a Villa Ranchibile. La lettura si lascia assaporare e ci solleva dalle obsolete considerazioni sulla polarizzazione tra mondi materiali e i mondi dell’aldilà, aprendoci ad una prospettiva diversa ed unificante di tali dimensioni esistenziali dell’anima.                    

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N.E. 01/2023 – Alternanza lirica tra “vita” e “silenzio”: “Brezza ai margini” di José Russotti. Recensione di Angelo Maugeri

“Brezza ai margini” costituisce una sorta d’inventario dei momenti di maggior rilievo vissuti dall’Autore durante l’erranza “per i quotidiani incroci”, o il peregrinare “per riflessi di specchi / e scarti di memorie”. Il tutto, sperimentato da una marginalità esistenziale il cui sollievo è dato dallo spirare di un dolce vento: la brezza vitale che origina il canto della poesia, qui adombrato dall’“attesa del canto melodioso dell’usignolo”, come recita la poesia che inaugura la silloge fungendo da plausibile dichiarazione d’intenti.

Tutta la raccolta appare segnata da un’intensa attività memoriale divisa fra “brama di vita” e “cenere da inumare”, per il cui tramite l’Autore esprime i sentimenti suoi più profondi: lusinghe e disinganni, illusioni e delusioni, coraggio e paura, oltre al desiderio di un sereno ritorno all’amato paese d’origine della famiglia: “Se un dì verrete a Malvagna/” – scrive il Poeta – “a parlarmi del ciliegio sfiorito / o dei miei figli cresciuti in fretta, / non dite di me e del neo sulla guancia”. Ma soprattutto esprime ciò che sembra attraversare, più o meno scopertamente, l’intera silloge: i sentimenti di morte e di amore.

Infatti, a censire le parole ricorrenti nelle ventiquattro poesie della raccolta, ce n’è una che accompagna come un basso ostinato l’accorata musicalità dei versi ed è la parola “morte”. Di essa si dice che è “dura”, “amara e ingannatrice”, “stupida”, che “ha la sagoma scura dei tank”, che “è un gelido varco interno”.

Essa, tuttavia, non costituisce la soluzione definitiva, poiché le si contrappone, in funzione dialettica, la parola “vita” – già presente nella sezione introduttiva “Amare è vita” – che ne annuncia l’intenso sviluppo lirico, ritenendo lo stesso momento estremo come il “punto d’inizio o d’origine / di una seconda vita”.

L’alternanza lirica avviene fra la “vita” e il “silenzio. Ossia fra la vita e la morte, ossia ancora fra l’amore e quel silenzio che suggella “il vuoto degli assenti”. “Angoli bui nel silenzio”, del resto, è il titolo riassuntivo della seconda parte della silloge.

L’amore è precipua ragione di vita. Il Poeta ne sperimenta la realtà sulla propria carne nel consapevole dissidio fra amore e disamore, e così ne scrive: “Se dovessi frugare nel vano / del tuo ventre acceso / o nella finzione del tuo volto / che non tratteggia più stupore / avrò ancora la disperata voglia / di lambire la tua pelle? // E se non fosse più amore / ma tarantole infette / proverai con le tue esili dita / ad aprirmi il cuore?”.

Il Poeta si affida alla memoria con una precisa disposizione d’animo: “Come a voler frugare nei vicoli / carichi di remoti silenzi, provo / a scavare con le unghie dei piedi / tracce del mio passato”. Ne consegue che la ricerca di tali “tracce” comporti una totale immersione nelle pieghe del “tempo”, quel “Tempo” con la T maiuscola che “ha i colori dell’iride”, variamente aperto alla bellezza del mondo, che però si presenta come “l’inganno della vita”. Ricordi, dunque, elaborati lungo un percorso temporale – “l’osso duro che rimpingua il dolore” – che li rende vivi, dolorosamente vivi come una ferita mai rimarginata, cui può dare qualche lenimento l’invenzione (leopardiana?) di “brandelli di lusinghe”.

La poesia è nutrimento dell’anima. Ma è anche medicina, farmaco dell’anima. C’è tanta angoscia in questi versi: angoscia davanti all’imponderabile, all’inimmaginabile, al mistero dell’essere qui e ora (eloquente l’esergo heideggeriano). Si veda quanto e come agiscono nel tessuto lirico le parole “fiele” e “veleno”, tanto che per l’Autore la poesia non sembra porsi come medicina dell’anima ma come veleno. Sappiamo che la parola farmaco deriva dal greco antico e può significare sia «medicina» che «veleno». Contro ogni apparenza, tuttavia, per Russotti la poesia non è solo “veleno”, ma è anche “nutrimento”: linfa necessaria a sostenere il fardello dell’esistenza.

Lo spirito elegiaco che aleggia in queste liriche dà senso e significato al pianto e al rimpianto che intridono la storia personale dell’Autore costretto a scendere umanamente a patti con il dolore. Pur negli abbandoni, pur nei silenzi degli assenti, il percorso poetico di Russotti finisce per dare spazio a una consapevole riconciliazione con la vita: “Nel madrigale triste della sera / commuterò il ciclo dell’argilla e della corolla, / commuterò lo sterco in rimpianto / e come per incanto / sorgerà il sole del mattino”. Le immagini dell’io lirico, elaborate con sorprendenti divaricazioni di senso, ne offrono la logica riposta, la riflessione vitalistica propria dell’uomo in perenne dissenso con la morte.

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N.E. 01/2023 – “En cada ventana de azul / Ad ogni finestra d’azzurro” di Claudia Piccinno. Recensione di Annamaria Ferramosca

É con grande gioia che attraverso questa ultima raccolta di Claudia Piccinno, innanzitutto guardando alla bellissima intesa dell’autrice con l’amica poeta e sua straordinaria traduttrice Elisabetta Bagli, intesa che continua il dialogo intessuto dalle due amiche nella precedente intensa raccolta a quattro mani, dal titolo Versos Cruzados (Editorial Dunken, 2021).

Questa corrente empatica che porta a realizzare un dialogo poetico oppure, come in questo libro, a offrire le proprie poesie in traduzione, mi conferma l’efficacia comunicativa di una modalità di incontro tra poeti che riflette un profondo scambio emozionale, ma che si spinge al di là della solita dilatazione della parola oltre un confine linguistico. Leggiamo infatti questo scambio come qualcosa che, attestando l’incontro  tra due sensibilità, si oppone alla possibile deriva egoica e spesso autoreferenziale di una scrittura individuale tout court.

Ma cerchiamo di entrare nelle stanze di questa raccolta che nel titolo dichiara l’apertura all’azzurro, elemento cromatico collegato da sempre, oltre che alla spiritualità, alla profondità e alla vastità. Chi legge avverte infatti subito l’aprirsi di un largo cielo visionario che attraversa realtà e memoria, natura e mito, ma che diventa anche un mare, il mare della vita personale e collettiva, le cui onde sono gli infiniti e pure inaspettati eventi da affrontare, le ferite ricevute, l’incessante ripetersi di naufragi collettivi per gli errori umani, ma anche il resistere ostinato della speranza.

In questo vasto azzurro i testi si stagliano nella loro concisione e limpidezza, come a indicare l’urgente necessità di una sincera comunicazione volta ad un rigenerarsi collettivo, nonostante le rare gioie e le più frequenti amarezze oscurino l’intensità dell’azzurro con l’ombra del disincanto.

Così accade che la percezione degli eventi nel mondo e la riflessione sull’esistenza si mescolino di continuo dando vita a scene ed epifanie in un mosaico visivo e simbolico costantemente caratterizzato da un’incisiva impronta etica.

E percorrendo dall’inizio i testi notiamo subito come la prima urgenza comunicativa  sia stata quella di salvare la sacralità degli affetti fondamentali, sottraendo per sempre dalla evanescenza la memoria dei genitori scomparsi (Ad ogni finestra d’azzurro; A mio padre).

Sono queste prime finestre ad aprirsi e lo fanno in modo invertito, non aprendosi all’esterno, ma nel proprio cielo interiore, a indicare il senso profondo di un sentimento assoluto, incrollabile, dispiegato attraverso percezioni uditive (la voce materna che chiama dal cortile dei giochi), olfattive (il profumo delle arance raccolte dal padre), simboliche (la piuma, il vento, le corone d’alloro). Qui subito si evidenzia la cifra poetica di Claudia Piccinno nella forma e nel ritmo, con l’andamento libero e armonioso di un racconto-fabula in versi, a volte scosso dal battere delle anafore, spesso chiuso da un finale epifanico.

Un’altra finestra di grande delicatezza psicologica, che si apre nell’azzurro della memoria è quella che dice di un’altra mancanza, così crudele perchè avvenuta durante l’infanzia (Compagno di scuola), quando si è disarmati, tanto da sentirsi “in castigo” , per chissà quali piccole colpe ingigantite dalla perdita (quanti tra i lettori si riconosceranno in questa dimensione!).

L’esercizio incessante dello sguardo porta poi inevitabilmente l’autrice a notare le colpevoli incongruenze della contemporaneità, il mancato progresso sociale ed etico, se ancora  non solo non si è raggiunta la vera parità di genere (giacché la donna è ancora oggi paragonabile alla sapiente Aspasia di Mileto, non riconosciuta nel suo valore perfino dallo stesso Pericle che l’aveva amata), ma anche perché ancora l’umanità persevera nell’errore, non annullandosi l’assurdità di guerre e violenze. Sono, queste, le domande centrali dell’oggi, cui ogni poeta non può sottrarsi. Sono domande che sottendono il senso universale profondo dell’esistere, mentre si continua a percepire il correre della vita come un insulso girare a vuoto, anzi come solo “ rumore “, privo com’è della luce dell’incontro vero (Nel codice alfanumerico).

E l’autrice reagisce ad ogni deriva dichiarando di non poter che “predisporsi al silenzio”, come in una rassegnazione muta, che trova sollievo solo nella contemplazione e nell’ascolto della natura. Sì, perchè in natura perfino le pietre, con le loro soluzioni di saggezza geologica millenaria, ci parlano di un equilibrio tra materia vivente e non vivente ancora possibile (La rupe; Le pietre di Sardegna). Se sappiamo ascoltarlo, vi è un intero continente fuori di noi che ci parla: voci di rocce acque piante a indicarci, semplicemente coabitando in vantaggio reciproco, una dimensione armonica di salvezza.

Per Claudia Piccinno vi è anche un’altra soluzione di resistenza, che sale dal profondo della sua interiorità: è il fermo proposito di conservare intatta la propria schiettezza, non tener conto del disconoscimento altrui del proprio valore, di ogni ingratitudine, anche se è doloroso veder montare la disillusione e cadere l’entusiasmo.

Ci rendiamo allora conto che queste riflessioni di Claudia Piccinno sono anche le nostre, anzi riconosciamo, come sempre accade in poesia, il senso universale che investe questa parola poetica nel nostro tempo di deriva, tempo del disincontro, che scorre tra virtuale e tecnologia, tra indifferenza e superficialità. Claudia Piccinno, come altri poeti contemporanei (posso citare Jorie Graham, Cristina Bove, Laura Liberale, Giuseppe Yussuf Conte), sta lanciando un alert in poesia, che è la nostra fiera ribellione contro la disumanità che avanza con il suo corredo di potere, alienazione, mancanza di solidarietà. E dunque accogliamo la sua indicazione nel voler restare “vetro”, che sopravvive in virtù della propria limpidezza (Plastica nelle vetrine); soluzione di semplicità cristallina, non affidata a formule, ma al proprio istinto che, decidendo di sottrarsi ad ogni pesantezza da pensieri dolorosi o da urti ricevuti, cerca solo la levità, l’onestà, la benevolenza, l’incontro e il continuo stupore (L’arte del sottrarre).

Questa scrittura di donna non poteva poi escludere l’esperienza di madre tormentata, come lo sono tante madri, che però lascia sempre aperta la porta alla fiducia nel futuro, purchè sia costruita con il legno del coraggio e mai della resa (Lente le ore), con la consapevolezza che ogni esperienza, anche la più dolorosa, è riserva di forza e sempre di sovrabbondante voglia di donare (Il dolore che mi porto dentro).

 La scrittura ritorna poi a trasmettere le voci autentiche dell’umanità abbattuta e violentata nel passato, il grido di sangue versato nei conflitti che giunge da luoghi e immagini significative (Cracovia, il Piave, l’olivo di Fossoli giunto da Israele), per ricordare ancora una volta l’insensatezza della morte per-uomo (Zio Tore; Ciao Gazzella).

Non sono poi da tralasciare le poesie raccolte a fine libro nella sezione Frammenti di vita, dove l’autrice mostra la sua ricchezza visionaria unita alla sapienza nel mescolare immagini, colori e sensazioni e alla sua straordinaria padronanza del ritmo (Ragnatele cremisi e segg.).

Poesia profondamente civile e dunque profondamente contemporanea, pure poesia coraggiosa, che prende le distanze da ogni eventuale giudizio smaccatamente letterario-estetico, preferendo dichiarare la propria fede aperta alla parola della speranza: quella di un’inversione di rotta dell’umanità verso l’etica dei comportamenti, la sola dimensione che fa umano l’essere umano (E tu nascesti, nasci e nascerai).

Per queste ragioni sento questi versi costeggiare la Parola assoluta, divenire segno umano degno di memoria.

E per queste ragioni invito caldamente i lettori in due lingue a leggere queste pagine.

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Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

N.E. 01/2023 – Recensione a “Lo sguardo deluso degli specchi” di Luca Gamberini. A cura di Cristina Biolcati

C’è un poeta che seguo da un po’, che più di ogni altro rimanda nei suoi versi i riflessi di uno specchio spietato. Perché la vita porta inevitabilmente all’imperfezione, specie quando si inizia ad avere qualche anno e più di qualche acciacco, ma non per questo perde la sua bellezza.

Bellezza che risiede in un gesto, ricco d’armonia. In un animale o in un amore, in quanto cari al cuore e salvifici, da utilizzare come cura. Ci sono infatti situazioni o persone che sono entrate nell’intimo e hanno scavato un solco indelebile nella nostra corteccia. Un posto unico, a loro riservato, che sarà lì per sempre, al di là dello spazio e del tempo. Affetti che hanno graffiato l’imperturbabilità della ragione e torneranno, seppure in uno scorcio stonato, nella malattia, nella solitudine. Come smalto che diventa opaco ma poi, ad ogni carezza, riacquista la sua lucentezza, anche l’opera dei poeti contribuisce nel profondo a far emergere quel che di pittoresco risiede nelle brutture.

Luca Gamberini, nato a Bologna nel 1967, è il poeta delle cose autentiche, delle parole spese al bar, delle frasi sussurrate ai cani, ai gatti. Dice di sé, nella sua biografia: “… per tutto il resto sembra possa esserci tempo.” E io, che appunto l’ho seguito nelle precedenti pubblicazioni, mi ritrovo a parlare della sua ultima fatica Lo sguardo deluso degli specchi (Yucanprint, novembre 2022), con un’illuminante Prefazione di Carmine Mangone e la bella copertina realizzata da Ilaria Carassiti.

Un volume piccino. Poco più di ottanta pagine, perché l’autore è delicato nel suo proporre, mai invadente. E poiché anche i libri sono, appunto, specchio di un’anima, la pubblicazione in self ne riverbera lo spirito libero.

Mi hanno sempre incantato le sue rime dolci, ma azzeccate. Le sue costruzioni in ordine perfetto, lineari, senza una reale geometria. I suoi versi strazianti, in cui scaturisce il dolore di un’anima che sperimenta tutto sulla propria pelle.

In questa raccolta, in particolare, ho trovato un Luca Gamberini più maturo, disposto a dissertare sull’amore, espresso in ogni sua forma, che però può avere anche il corpo della donna amata. Un retrogusto amaro di fondo resta, perché quella del poeta è una spietata analisi della realtà, dove i voli pindarici non si lasciano prendere dal desiderio di inutili utopie, bensì vengono utilizzati ed inseriti per valorizzare i soggetti. Poco chiede per sé, insomma in poeta, ma la sua analisi è lucida e precisa. Che egli riesce a realizzare sempre in modo suggestivo, e qui sicuramente sta il valore aggiunto.

Consiglio questa lettura a chi non ama solo la musicalità dei versi, ma percepisce l’onesta disanima che trasuda dalle parole. E concludo citando Apatia, per dare una dimostrazione pratica di quel che intendo.

“So fare bene a sedermi/ poco altro so fare, forse/ niente./ E poi so fare bene a guardare./ Osservare per ore le cose immobili./ I miei occhi non piangono mai/ per qualcosa di mio/ mi sento di nessuno, quanto un asfalto/ che tutti ci passano sopra/ ed io osservo/ e so fare a stare muto per una vita/ mentre una ad una te ne vai/ ed io rimango ad osservare/ le immobili cose da seduto./ Muto.”

La poesia è bella perché è libera, un genere che dà a ciascun lettore differenti sensazioni. Nulla di pilotato, quindi. Però riportando questi versi di Luca Gamberini, chissà perché, un poco m’illudo di averlo compreso.

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N.E. 01/2023 – “L’essenza dell’essere: pensiero, anima e ragione”. Recensione a “Lockarmi e curarmi con te” di Zairo Ferrante. A cura di Maria Pellino

Nuovo capolavoro del poeta e medico radiologo Zairo Ferrante “Lockarmi” e curarmi con te, finito di pubblicare nel febbraio del 2002. La genialità di questo testo sta nella franchezza dei contenuti e nell’autenticità intellettuale del poeta che contraddistingue il suo agire pratico e ispirato ai più  alti valori morali.

La ricostruzione dell’essere attraverso la sublimità dei versi e la maestria della parola in racconto, questo intento ritroviamo nel libro di Zairo Ferrante, una vera e propria giostra di pensieri, una profonda riflessione sulla vita che traccia la nudità del sé tramite un’espressività concisa, delicata e infrangibile.

La narrazione esalta la duplice natura dell’autore di poeta e medico  che mai stride, ma rende compenetrante ogni lato, valorizzandone la sostanza senza mai essere antitesi.

Si nota un’arte poetica dal taglio intimista, filosofico, che si apre a un pensiero quasi ascetico dell’essere, dove la meditazione si riversa sul fare silente dell’amore universale.

Versi schietti, immediati, dalla verità impellente sussurrata senza orpelli, vividi di emozioni che si sentono vibrare, parole di una comunicazione in cui quasi a intermittenza la ragione diviene intercapedine tra le vie del sentimento umano su un terreno di rinascita. L’umanità è intreccio di sofferenza e speranza. In  ciò la poesia di Zairo si eleva al sublime, poeta smarrito nell’essenza dell’io che si ritrova nella propria luce.  

Si assapora la sua anima prima ancora di inoltrarsi in profondità. Un percorso dove si ritrovano i tasselli del sé  tra  gli abissi di questa umanità balorda che scaccia via la verità e si nasconde dietro le apparenze. Il cuore  è  passione e rispetto e il silenzio se ne prende cura. Un responso che si innesta dolcemente tra il respiro della vita e il sentire dell’anima.

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N.E. 01/2023 – La nostra casa sono i libri che amiamo. Libri da leggere, libri che ci hanno formato, libri amatissimi e speciali come quello di Giulia Caminito, “Amatissime”. Recensione di Loredana Magazzeni

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una vera e propria esplosione di libri dedicati alla lettura, che siano le proprie letture di bambina e poi di adulta, che siano i libri che ci hanno formato, ammaliato con la propria grandezza e originalità, e reso quello che siamo. Trasuda amore per i libri, tanto da rendere reale il sogno di aprire una libreria in un piccolo cottage di un borgo della Toscana La libreria sulla collina (Einaudi, 2022) di Alba Donati. In quello che si rivela un avvincente diario della progettazione e poi realizzazione della piccola libreria ‘Sopra la Penna’ a Lucignana, iniziato con un crowfunding nel dicembre del 2019 e portato a termine grazie all’aiuto di tutta la comunità lucignanese e di una rete di amici e appassionati, Alba Donati riversa la propria competenza di poeta e di studiosa: ciascuna giornata del diario è conclusa dai libri venduti quel giorno, da Pia Pera a Christa Wolf, da Emily Dickinson a Simone De Beauvoir, con un invito irresistibile a seguire le sue tracce e caricarsi mente e anima di tesori. Sandra Petrignani e Bianca Pitzorno, la prima con Leggere gli uomini (Laterza, 2021), la seconda con Donna con libro. Autoritratto delle mie letture (Salani, 2022) compiono un’analoga operazione doppia: dell’ammirazione per la scrittura e il libro in sé e come specchio di sé. Come scrive Manuela Altruda nel recensire il primo dei due libri, con “esercizi di ammirazione e scatti di rabbia, attraverso memorabili citazioni, Sandra Petrignani ci porta dentro tante pagine indimenticabili, da Dumas a Roth, da Pavese a Proust, da Calvino a Tolstoj, da Gary a Dostoevskij, da Moravia a Mann, da Manganelli a Kundera, da Malerba a Čechov, da Nabokov a Chatwin, da Tabucchi a Kafka e a mille altri”. Per scoprire quanto gli uomini siano simili e diversi da noi, quanto gli scrittori amati ci abbiano rese le scrittrici che siamo. Ma vengo all’ultimo libro speciale di Giulia Caminito, Amatissime, (Giulio Perrone Editore, 2022) in cui la giovane autrice di L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, 2021), o di La grande A (Giunti, 2016), rende omaggio alle madri letterarie e al nostro eterno debito di amore e venerazione. Ne sceglie cinque, le più care: Elsa Morante, Paola Masino, Natalia Ginzburg, Laudomia Bonanni e Livia De Stefani. Con loro intreccia da subito un dialogo impossibile, appassionato e autobiografico, in cui ciascuna amatissima occupa e rispecchia una fase della vita di Giulia. Elsa Morante è, per esempio, il ricordo di una grande foto della scrittrice sopra la scrivania della madre, che si laureò con una tesi su di lei. Madre doppia dunque, e doppiamente temibile. Giulia si accosta alla scrittrice da bambina, ce ne racconta i riccetti ribelli e i primi amori letterari, le prime scritture, storie di bambole, analoghe a quelle che Lena e Lenù si scambiavano nel primo libro di Ferrante, L’amica geniale. Genio e spiritello malefico è Elsa, pronta a ficcare la punta del suo ombrello in faccia a chi osi accostarsi troppo alle sue imprevedibili stranezze, al suo mondo interiore labirintico e favoloso. Paola Masino invece è nei vestiti: gli abiti usati della sorella, gli abiti anni Ottanta di Giulia, il ricordo di tutti quelli che hanno rivestito la sua vita, nel recentemente ripubblicato Album di vestiti (Elliot, 2015).

E con Paola Masino Giulia Caminito inaugura la serie delle amatissime recuperate, la schiera di valenti scrittrici dimenticate e uscite fuori dal canone letterario, ma che invece amarono e influenzarono la storia letteraria italiana, verso cui si rivolge la curiosità e l’amore delle giovani scrittrici di oggi. Al lavoro di editor di Giulia si affianca in parallelo una giovane Lisa Ginzburg, sofferente e umanissima, scopritrice di talenti e valida traduttrice per Einaudi, dopo la perdita precoce del marito Leone. Infine le due outsider, recentemente riscoperte e ripubblicate da case editrici coraggiose e sensibili come Cliquot, Laudomia Bonanni e Livia De Stefani. La Bonanni appare irrequieta anticipatrice di temi quanto mai attuali come il desiderio ambivalente di maternità, la violenza familiare, lo svantaggio sociale che pesa sulle donne e sui ragazzi del dopoguerra, la questione delle droghe e quella della solitudine dell’intellettuale che sceglie l’inappartenenza. Da insegnante aquilana a lungo impegnata in scuole di piccoli comuni di montagna, in quella frontiera di isolamento, freddo e miseria che il secondo dopoguerra aveva lasciato in eredità, soprattutto nei bambini che lei aiuterà e avrà sempre nel cuore, persino quando “delinquono”, e che seguirà nei Tribunali minorili come Giudice laico, Laudomia si accosta a Roma, ne frequenterà, grazie al successo dei primi romanzi, i salotti intellettuali, come quello di Maria Bellonci e degli Amici della Domenica, da cui nacque il Premio Strega, vinto da lei per l’inedito con i racconti de Il fosso, nel 1948. Caminito ne segue le vicende e i misteri, come quello della mancata accettazione da parte delle case editrici Mondadori e Bompiani, dell’ultimo romanzo della scrittrice, La rappresaglia, romanzo quanto mai amaro e simbolico delle ferite inferte dalla guerra e del prezzo pagato soprattutto dalle donne. Infine, tra i sei scatoloni di carte private della scrittrice De Stefani, “entusiasta per il tesoro e atterrita dal patrimonio”, Giulia Caminito assume su di sé il peso e la responsabilità di una vita di donna, tutta in quelle carte, “chilogrammi di vita” di una donna artista, che ci chiedono di non essere dimenticati, di essere riportati alla vita letteraria e alla dignità di patrimonio di noi donne tutte e uomini di oggi. Un libro, questo di Giulia Caminito, che ci insegna l’amore per la lettura delle scritture femminili come patrimonio immateriale della comunità, guida affettiva a una cultura letteraria più consapevole, profonda e carica di futuro.

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