“Nell’al di qua della poesia di Anna Santoliquido”, a cura di Carmen De Stasio

Occorrono mille e mille occhi per guardarsi; mille e mille orecchie per porgersi all’ascolto di tempi impliciti nelle multiformi spazialità della meditazione. Quanto tempo – oso chiedere in uno squarcio di vento – quanto tempo occorre perché la trans-letteraria meditazione – nelle sue frazioni infinitesimali – compendi l’esistenza propria come lascito universale? Quel tempo convive nell’ambiente del verso; è orientamento al comprendere la voce della poesia che lo genera. Immersa tra gli intenti franti sul foglio, un’intonazione si mantiene piana e greve, e si illumina nell’inesauribilità di una letteratura valida per essere sempre.

È, questa mia prolusione, la cornice – se così posso dire nell’economia stessa che segnala il dire – entro la quale incido il territorio polimaterico della poesia di Anna Santoliquido. In ispecial modo, il mio scrivere si anima in una delle possibili letture del volume che raccoglie poesie scelte dal 1981 al 2020 – così come recita il titolo della creatura scritturale sviluppata nei tre capitoli corrispondenti al polacco, all’italiano e, infine, all’inglese. Un tempo-limite che, però, in forma di conquista evolutiva, fronda allorquando, nel ravvivare l’avvicinamento di momenti dilatati in senso cronologico (da soli e, simultaneamente, tutti insieme), dispiega la materializzazione di riflessioni in versi, fino a giungere ad una crasi generativa di un’identità. Avvertiamo, dunque, come l’economia del tempo incalzi le sonorità senza cornici della poesia di Anna Santoliquido e le diffonda oltre il soggetto-protagonista, nella  prosodia di un esistere significato (trasformo le sensazioni in parole / e le parole in brividi / c’è lo scarto / lo scompiglio / il rito nuziale / e il nulla[1]); in una contigua dimensione tutt’altro che provvisoria. In effetti, in un qualche modo inspiegabile, siffatta meta-dimensione altresì concede al tempo poetico di manifestarsi senza scarmigliature, senza pleonastiche digressioni, lasciando sulla pagina la pluriformità di un territorio dal pensare metodico, pulito, apodittico, pertanto [Che cosa può dare / agli altri un poeta / – scrive la Santoliquido – se non (…) un luogo sicuro[2]].

Incardinato all’essenzialità solidale ai versi, libero da qualsiasi sovraffollamento di impertinenti dogmi esternalizzanti, dunque, questo tempo (pur deittico nella sua visione) dà consistenza alla parola ordinativa in un crocevia disposto nell’al di qua di un equilibrio deciso, in grado, cioè, di estirpare da sé qualsiasi tentativo di accesso a dissuasive emozioni che tutto vadano a sovrastare, a deludere. A cancellare, finanche. E greve è, invero, l’impatto. Aspro, talora, e degno di rispetto (il poeta offre parole / parole incarnate / – leggiamo ancora). Un riscontro, questo, che colloca Anna Santoliquido-poeta con l’altro/altri al di fuori di qualsiasi (ri)sentimento di possesso; estranea, pure, a qualsiasi forma di custodia metaforica nella quale i ricordi prosperino in egoica traccia. Ed invece, è nella stretta complicità tra il dire della poeta e i soggetti in versificazione (laddove la parola – essa stessa creatrice di poesia –, non lasciandosi mai sommergere, abita integralmente la vita, coniugando alla medesima vita il dire in impavida lettura) che insiste la frequenza di un conoscere comune; di un sapere in intimità che alimenta la durevolezza della sostanza semico-semantica, andando a cadenzare un rapporto incessante, quanto indelebile, per il fatto di porsi all’ascolto e di ascoltarsi in un sol tempo, e mantenere, quindi, la solidità di un ormeggio del tutto privo di perifrasi, quanto di arguzie accomodate nella recita di un tempo smemorato (non sono un agiografo / – la Santoliquido scrive – ma un poeta armato di emozioni / ho scavato nelle cronache / e nell’intimo[3]).  Così, più e più volte il rammentare poetico – che sia distante o prossimo nella cronologia dei casi – si assomma e, simultaneamente, si assimila in una presenza che con intonazione di ferma gentilezza corrode qualsiasi intemperanza possa sovvertire la significazione implicita, investendosi di una cristallina foggia, anche quando il soggetto declina verso il chiaroscuro e dall’ombra emergono rocce increspate e onde fulminanti di amarezza (e leggiamo: chissà come sarò / tra cent’anni / se le gote saranno / muschio o terra / non sentirò il trapasso / mi rapirà la luce / le labbra non emetteranno rantoli / ma versi[4]). Tant’è che l’idea di vero promana – facendosi urgenza – nell’unicità storica dei versi: Qual è il confine / fra lo scuro e il chiaro / l’apparente e il vero? (…). La chiosa della poeta soggiunge calibrata e senza equivoci riguardo quel che avvertiamo sia espressione di (un ricercato) dato di continuità: (…) Il senso sfugge / gli abissi fumano / la materia langue / l’essenza rotola.[5]

Nella poesia, dunque, trova svolgimento l’auto-costruzione della storia; un impatto, nuovamente, che coglie e riunisce nella brevità del passo un vissuto nella costanza di passaggi universali, e va a fondere – in un momento di tipo logaritmico – la vastità di un meditare che la poesia concede, in altri termini, in un qui ed ora dilatato ad abbracciare quanta più realtà possibile ed arginare qualsiasi impedimento costringa la parola fuor di coscienza. Così il dire-rammentare si fa materia di permanenza poetica nella combinazione di consapevolezza architettonica e architettura dell’infinità (propria della poesia) quel tanto, insomma, da rivelarsi nel rapporto vissuto-vivente, tra esemplarità e schiettezza, allorquando la schiettezza trasla in solco rapido e sicuro segmento in grado di metabolizzare la determinanza delle parole-verso, prima che le ombre del rimescolamento vengano a perturbare la struttura degli spazi parlati (la parola del poeta / attinge all’urna – leggiamo in la parola[6]) e si mimetizzi, infine, in un confuso (ed immobile) preambolo di sazia angoscia.

In tal senso, nessun ponte iridescente si prospetta; a prospettarsi è, invece, il procedere in una narrazione-poetica visitabile nella poli-meditazione che attraversa gli idiomi di appartenenza per via di una trama indelebile (il vissuto, la scelta, la vicinanza e l’avvicinamento). Ed è trama che miete la poesia di Anna Santoliquido nel campo del versificare reale proprio del Novecento, nel quale l’atto compiuto delle cose resta con la fragranza carnale e con la vettorialità riflessiva del proprio nome (in un’attitudine propriamente Pasoliniana), e per la quale, pertanto, si assume l’interezza di un giorno per giorno di sapore Ungarettiano, giammai asfissiato dall’eccesso, quanto, al contrario, determinato in un andare in trasparenza tra le orme della vicenda che il vissuto non trascura, ed alla quale vicenda pure la sintassi contribuisce al fine di generare un edificio di credibilità. Quel che ne consegue richiama la configurazione (senza esclusive limitazioni) di un qui nel quale si concentra l’allusione e la traccia; dove il vissuto sembra reagire all’arida ed extra-umana concettualizzazione di rimozione e di finzione, definendosi nella trans-creatività di momenti dall’innervata significante identità a contenere e, simultaneamente, varcare il confine delle schermature cronologiche. Quale l’effetto, se non la forma quasi trasgressiva di un amore; un amore che, nell’andare oltre la parola, di questa va a sillabare il territorio che l’ha generata e, al contempo, solca – nell’indelebile tempo – il territorio che essa – la parola nella sua architettura formale e discreta – genera nel fluido incontrarsi. Soprattutto, nel declinare la reazione all’impertinenza del possesso verbale, questa forma comprensiva di amore nella parola poetica orienta la rigenerazione topografica di un detto-vissuto (quanto nell’incessante vissuto del detto) nell’atto di ricomporsi, di volta in volta, negli incastri dell’asindetico mosaico (appartengo alla poesia / i carmi sono impastati di fuoco e vento / pietra lavica affronto le tempeste / furono le felci a svegliarmi / gli ippopotami e gli elefanti / a darmi la dritta / nelle ere glaciali ero nell’aria / esistevo prima che il pianeta fiorisse / fui concepita dalla Sua mente / un’armonia che impregna la pagina / con lo scricciolo gusto il tramonto / e con l’ape regina apro la finestra[7] – leggiamo ancora).

In questi termini, è tutto nel sentimento di appartenenza alla poesia che consiste la riflessione: un orientamento che l’autrice scruta per poi accompagnare alla superficie, scorrendo tra le maglie di una realtà fatta di sconfinate sovrapposizioni, di sovraffollamenti imperturbabili e coriacei, e recuperare, infine, la complessità tutt’altro che dispersiva di quel che è reale. E la poesia nel suo frangersi tra le cose della realtà – non si fa schiava di dispersione: ad essa, alla realtà, la poesia dà voce, raggiungendo altresì sponde distraenti e distratte (giganti tecnologici tagliano l’etere / scompongono le idee / – la Santoliquido scrive – incarnano le urgenze terrestri / braccano il vento e gli spiriti campestri.[8]) e che tali sono per il fatto di essere limite e prevedersi in una situazione incapsulata da (inter)leggere senza prospettiva alcuna. Al contrario, declinandosi in una grammatica esplorativa, la parola-poesia di Anna Santoliquido svela anche solo un lembo del tempo intenzionale, di una visione sulle cose, andando così a scalfire le intemperanze della realtà-limite e attraendosi, invece, ad un farsi poesia nel piacere-bisogno di un dire-sostegno nel quale riconosciamo il Canettiano vivere dell’individuo nella lingua (ma anche nell’esposizione della lingua, aggiungiamo), anziché presso luoghi confinati. Di fatto, tutt’altro che confinata è la parola di poesia (i versi / li perdo per la strada / – leggiamo – per questo vegetano / erbette e rampicanti / sui marciapiedi[9]): essa – la poesia – assume la lettura del vissuto nei suoi comportamenti; qui, sempre, tutto si compenetra nel mentre l’esigenza orientativa della parola-verso si svolge lungo tutte le fasi significative di un tempo che via via vediamo declinarsi con chiarezza nella sua etimologia letteraria, vera, piuttosto che cadenzarsi in mistificante protervia. Così, ancora una volta sopraggiunge l’identità determinante della parola: una parola simultaneamente tensiva di sintomatico ritmo; orma di persistenza trans-creativa e che in persistenza si fa rivelazione (il mio regno è la pagina – Anna Santoliquindo scrive – in preda al delirio / mi avvinghio alle colonne)[10]. Non solo: auto-generandosi nel desiderare sempre la verità (nei termini Woolfiani), la parola-poesia si fa lessico maieutico di una ricomposizione etica, nella quale pure trova posto la versatilità dell’essere-verso sul crinale del chiedersi e del chiedere al tempo, e là, nella particolarità di un prezioso «quando», evolve la graduale architettura di uno spazio nuovo nel clima di un piacere carnale / una lauda con salvacondotto[11].

Ed è una carnale continuità quella che unisce Anna Santoliquido al sentire suo nei versi, quanto nel raccordo con la materia fin da subito, vale a dire, nell’immediatezza tensiva dell’abito esteriore (così come intendo la copertina: una sintesi evocativa del paesaggio verbale) conferito alla raccolta poesie scelte (1981 – 2020): lettura di materia da leggere e, pur essa, da sentire come colonna portante ai versi, laddove la liquidità che invade lo sguardo pare assolvere al criterio di un’esistenza che resta nel suo andare ed attardarsi, evolversi e tornare, nel suo rafforzarsi e sussurrarsi, nel mentre sagome sanguigne la percorrono e la interrompono, distinguendo un gesto di complicità che è sofferenza e languore, che è consistenza ed esuberanza senza contraffazioni. Una maniera Proustiana, questa (mi si conceda) e che accoglie Anna Santoliquido nella sua poesia, ed ella, la donna-poeta, accoglie la poesia e se stessa in un movimento tutt’altro che allignato in esclusiva apparenza. Dal canto suo, la poesia – (che) è come le more / che maturano lungo i sentieri / meno battuti / dove l’aria è più salubre / il sole più cocente / e ti graffi tra i rovi / per raccoglierne una manciata[12] – accompagna la molecolarità di un essere-poeta dentro ed essere-poeta accanto; di un essere-poeta artefice della vastità verbale di un apodittico accordo fatto di lontananze nei passi e di vicinanze di pensiero, e che da sé, infine, esclude tutto quanto attenda ad un non più come fosse un mai esistibile.

CARMEN DE STASIO


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[1] Da l’angelo in «Rea confessa», 1996, «poesie scelte (1981 – 2020)», Poznań 2024, p. 101

[2] Da un poeta in «Decodificazione», 1986, Ibi, p. 82

[3] Da il messaggio, 10 giugno 2010, in «Città fucilata», 2010, Ibi, p. 115

[4] Da ritorni, 2 gennaio 1997, in «Ed è per questo che erro», 2007, Ibi, p. 103

[5] Da confine, in «Decodificazione», Ibi, p. 81

[6] Da la parola, 6 febbraio 2010 in «Città fucilata», Ibi, p. 113

[7] Da coming out, 14 febbraio 2017, in antologia«10 anni» V, 2017, Ibi, p. 135

[8] Da eoliche, 5 febbraio 2012, in «Scrittori e scritture dell’Alto Bradano», 2013, Ibi, p. 121

[9] rinascita, 15 febbraio 2000,in«Ed è per questo che erro», Ibi, p. 109

[10] Da la profetessa Anna, 3 febbraio 2014, in«Profetesha (La Profetessa)», 2017, Ibi, p. 134

[11] Da libertà, 2 marzo 2010, in «Città fucilata», Ibi, p. 114

[12] tra i rovi in «Decodificazione», Ibi, p. 86

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