La poetessa e scrittrice marchigiana Luciana Salvucci, già dirigente scolastica, ha di recente dato alle stampe un libro interamente dedicato a padre Matteo Ricci (Macerata, 1552 – Pechino, 1610), suo celebre conterraneo elevato agli onori di “Venerabile” nel dicembre 2022 da Papa Francesco. In Cina, in particolare a Pechino dove arrivò per la seconda volta nel 1610 e rimase fino alla morte, fu portatore della cultura umanistica e scientifica dell’Europa.“Lì Mǎdòu”, come chiamavano Matteo Ricci in Cina (il suo nome nella traduzione in cinese mandarino), “si presenta in qualità di europeo”, scrive Fang Hongjing in Qianyi lu 千一录 (Uno su mille), edizione stampata durante il regno di Wanli. Ricci rileva delle somiglianze tra la cultura confuciana e le filosofie greca e latina; inoltre, il tema dell’amicizia è presente anche nel confucianesimo, rendendo possibile un dialogo tra la sapienza cinese e quella europea, attraverso argomentazioni razionali.
Il ricco e approfondito volume, che è anche un ricco compendio di interventi di altri studiosi, s’intitola La forza del dialogo. Matteo Ricci, ponte tra Europa e Cina ed è stato edito dalle Edizioni Cantagalli con il contributo della Direzione Generale Educazione, ricerca e istituti culturali (DG-ERIC) del Ministero della Cultura (MIC). Dario Grandoni, Presidente della Fondazione Internazionale Padre Matteo Ricci, con il quale si è collaborato per la pubblicazione, è autore della Postfazione.
Ha nella prima parte i saggi di Frediano Salvucci, Francesco Solitario, Antonio Spadaro e Antonio De Caro, Andrea Fazzini.
La Salvucci, che si è in precedenza occupata di saggistica, narrativa, poesia e teatro, ha approfondito tematiche legate alla pedagogia della formazione, alla comunicazione di massa e al rapporto tra scienza e letteratura, sia in ambito prettamente saggistico che artistico-culturale.
Nell’introduzione di questo nuovo lavoro, a firma dell’Autrice, vengono chiariti i motivi di tale approfondimento che sono da ricercare nella versatile figura di padre Matto Ricci che, oltre a evangelizzatore cattolico nel mondo orientale e celebre sinologo, fu appassionato costruttore di ponti umani, di legami tra culture, come pure tra scienze spesso pensate distanti e impermeabili tra loro.
L’età nella quale padre Matteo Ricci si colloca è il Rinascimento, in quell’età fertile di scoperte e nuove conoscenze, dettata da due fatti d’indiscutibile valore: la nascita della stampa (la prima stamperia, quella di Gutenberg, sorse a Mainz, ovvero a Magonza, nel 1448) che, con l’età degli incunaboli (1450-1500), segnò la nascita del mondo proto-editoriale e diede avvio a un’ampia diffusione dei saperi e la scoperta dell’America (1492) che diede impulso alla stagione delle grandi navigazioni e della scoperta dei Nuovi Mondi.
Padre Matteo Ricci, gesuita, visse gli influssi di entrambe le esperienze: in campo editoriale la sua opera di catechesi cattolica tradotta in cinese fu una delle prime prove decisive della stampa di testi religiosi col motivo evangelizzatore in contesti ben distanti dalla Vecchia Europa. D’altro canto, fu immerso anche nelle nuove rotte verso i territori dell’Oriente. Egli stesso fu cartografo e, una volta giunto e impiantatosi in Cina (esattamente a Macao) nel 1582 non abbandonò più il Paese sino alla sua morte, avvenuta nel 1610. Venne sepolto a Pechino.
Fu esperto di scienze ma anche di lettere, pervaso da un atteggiamento conciliante e arricchente tra dottrine ed esperienze diverse. Come ricorda la quarta di copertina, il religioso favorì “la relazione tra le due civiltà più importanti della storia del tempo: l’Europa cristiana, impregnata di Umanesimo e di Rinascimento, e la Cina, sotto la dinastia dei Ming”.
Le pagine del volume, con la preziosa prefazione di Luigi Lacchè, già Presidente dell’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Macerata, consentono di esaminare con attenzione la figura di padre Matteo Ricci e le sue spiccate doti umane, filantropiche e sociali, la sua figura di lucido conciliatore le cui tesi sono state fatte oggetto di dialoghi, conversazioni tra più parti, confronti. L’Autrice ha, infatti, rivelato: “Quello del dialogo è un genere letterario molto conosciuto sia nella tradizione cinese che in quella occidentale, per questo viene spesso utilizzato dai missionari gesuiti”.
Nel maggio del 2023 nella facciata della cattedrale della città natale di padre Matteo Ricci – Macerata – sono state inaugurate due imponenti statue, dono delle comunità cattoliche dei cinesi, realizzate nella provincia dell’Hebei. Esse raffigurano rispettivamente lo stesso Ricci e Paolo Xu Guangqi (1562-1633) noto letterato cinese attivo alla corte dei Ming, amico di Ricci e ritenuto suo discepolo e primo iniziatore della comunità cattolica di Shangai. Il Segretario di Stato Vaticano Cardinale Parolin, che ha presieduto la celebrazione eucaristica, ha parlato in quel contesto di un “incontro nell’amicizia che genera amicizia”, un simbolo positivo da prendere come ispirazione.
LORENZO SPURIO
La riproduzione del presente testo, in forma integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione, con gli opportuni riferimenti (nome del sito, data e link) è consentita.
Il presente bando di concorso prevede cinque macrosezioni alle quali è possibile partecipare. Ciascuna di esse è dedicata al ricordo di insigni poeti ed esponenti della cultura italiana, alcuni dei quali già premiati – con premi speciali o d’altro tipo – in seno a questo premio letterario[1]. All’interno di esse sono individuate delle sottosezioni, indicate, per praticità, con un codice.
Dal momento che per alcune sezioni viene richiesto l’invio di opere rigorosamente inedite e in altre è possibile partecipare anche con opere edite si prega di leggere attentamente il bando e la tabella dove sono indicati i requisiti di partecipazione per ciascuna sottosezione.
L’autore può prendere parte a una o più sottosezioni del Premio, anche afferenti a diverse macrosezioni.
Articolo 2
La struttura delle varie sottosezioni alla quale è possibile prendere parte è così strutturata:
MACROSEZIONE A “POESIA A TEMA LIBERO”
A1 – Poesia singola [opere inedite]
A2 – Silloge di poesia [opere inedite]
A3 – Libro edito di poesia [opera edita]
A4 – Haiku [opere inedite]
MACROSEZIONE B “POESIA A TEMA”
B1 – Poesia naturalistica [opere inedite]
B2 – Poesia d’amore [opere inedite]
B3 – Poesia religiosa [opere inedite]
B4 – Poesia civile [opere inedite]
MACROSEZIONE C “LINGUA E POESIA”
C1 – Poesia in dialetto [opere inedite]
C2 – Poesia in lingua straniera [opere inedite]
MACROSEZIONE D “ARTE E POESIA”
D1 – Poesia visiva [opere inedite]
D2 – Fotopoesia [opere inedite]
D3 – Videopoesia [opere edite e inedite]
MACROSEZIONE E “POESIA E CRITICA LETTERARIA”
E1 – Recensione [opere edite e inedite]
E2 – Prefazione / postfazione [opera edita]
E3 – Saggio letterario [opera inedita]
E4 – Libro edito di saggistica [opera edita]
Articolo 3
I minorenni partecipano a titolo gratuito. Per i concorrenti minorenni si richiede l’autorizzazione scritta da parte di tutti e due i genitori, o da chi ne detiene la responsabilità genitoriale.
Articolo 4
Le modalità di partecipazione per ciascuna sottosezione ovvero la tipologia, il numero, la lunghezza dei testi, etc. sono indicate nelle tabelle a continuazione che contengono tutti i requisiti di partecipazione per ogni sotto-sezione alla quale si deciderà di prendere parte.
MACROSEZIONE A “POESIA A TEMA LIBERO”Dedicata ad Amerigo Iannacone (1950-2017)
A1Poesia singola
A2Silloge di poesia
A3Libro edito di poesia
A4Haiku
Lingua: italiano Numero max di opere: 3 Tema: libero Tipologia: opere inediteLunghezza: max 30 versi Specifica: ogni singola opera va messa in un file in formato Word (.doc / .docx) a parte
Lingua: italiano Numero di poesie della silloge: da 20 a 30 Tema: libero Tipologia: opere inediteLunghezza dei singoli testi: max 30 versi Specifica: le poesie che compongono la silloge dovranno essere inserite in un unico file in formato Word (.doc / .docx) e l’opera dovrà essere dotata di un titolo
Lingua: italiano Numero di opere: 1 Tema: libero Tipologia: libro edito pubblicato da una casa editrice (no self-publishing), dotato di ISBN Specifica: l’opera deve essere stata pubblicata dal 2020 in poi
Lingua: italiano Numero max di opere: 3 Struttura: 5-7-5 Tipologia: opere inediteSpecifica: ogni singola opera va messa in un file in formato Word (.doc / .docx) a parte
MACROSEZIONE B – “POESIA A TEMA”Dedicata a Giusi Verbaro Cipollina (1938-2015)
B1Poesia naturalistica
B2Poesia d’amore
B3Poesia religiosa
B4Poesia civile
Lingua: italiano Numero max di opere: 3 Tema: come da ciascuna sottosezione Tipologia: opere inediteLunghezza: max 30 versi Specifica: ogni singola opera va messa in un file in formato Word (.doc / .docx) a parte
MACROSEZIONE C – “LINGUA E POESIA”Dedicata ad Alfredo Bartolomei Cartocci (1945-2020)
C1Poesia in dialetto
C2Poesia in lingua straniera
Lingua: dialetto (specificare il tipo di dialetto e la zona geografica dove viene parlato) Numero max di opere: 3 Tema: libero Tipologia: opere inediteLunghezza: max 30 vv. Specifica: ogni singola opera va messa in un file in formato Word (.doc / .docx) a parte unitamente alla versione tradotta in italiano
Lingua: lingua straniera Numero max di opere: 3 Tema: libero Tipologia: opere inediteLunghezza: max 30 vv. Specifica: ogni singola opera va messa in un file in formato Word (.doc / .docx) a parte unitamente alla versione tradotta in italiano
MACROSEZIONE D – “ARTE E POESIA”Dedicata ad Aldo Piromalli (1946-2024)
D1 – Poesia visiva
D2 – Fotopoesia
D3 – Videopoesia
Lingua: italiano Numero max di opere: 3 Tema: libero Tipologia: opere inediteLunghezza: max 30 versi Specifica: sulla scia dei celebri “Calligrammi” di Apollinaire, la poesia dovrà avere una disposizione particolare sul fondo bianco, con particolare attenzione all’aspetto estetico atto a rivelare forme, immagini, possibili simboli, in una combinazione di linguaggi, tra poesia e grafia, contenuto e gesto. Invio: ogni singola opera va messa in un file in formato Word (.doc / .docx)
Lingua: italiano Numero max di opere: 3 Tema: libero Tipologia: opere inediteLunghezza: max 30 versi Specifica:la poesia deve essere abbinata a una foto di propria produzione (affiancata, sovrapposta, in filigrana, o altra posizione): è fondamentale che vi siano i due elementi: testuale e fotografico e che vi sia una correlazione / contrasto volti al messaggio da comunicare / intenzione espressiva dell’autore Invio: ogni singola opera (poesia+foto) va messa in un file in formato Word (.doc / .docx) o PDF
Lingua: italiano Numero max di opere: 1 Tema: libero Tipologia: opere edite/inediteLunghezza: max 4 minuti Invio: si può inviare il link di YouTube dove figura il video o allegare l’opera (nei soli formati .avi, .mp4, .wmv) con WeTransfer
MACROSEZIONE E – “POESIA E CRITICA LETTERARIA”Dedicata a Lucia Bonanni (1951-2024)
E1Recensione
E2Prefazione / Postfazione
E3Saggio letterario
E4Libro edito di saggistica
Lingua: italiano Numero max di opere: 2 Oggetto: recensione a un libro di poesia Tipologia: opere edite/inediteLunghezza: max 3 cartelle editoriali (ovvero 5.400 battute spazi esclusi) Specifica: all’inizio dell’opera va indicato in forma precisa e completa il libro a cui la recensione si riferisce (nome autore, titolo, casa editrice, anno)
Lingua: italiano Numero max di opere: 1 Oggetto: prefazione / postfazione a un libro di poesia Tipologia: opera editaLunghezza: max 3 cartelle editoriali (ovvero 5.400 battute spazi esclusi) Specifica: all’inizio dell’opera va indicato in forma precisa e completa il libro a cui la prefazione / postfazione si riferisce (nome autore, titolo, casa editrice, anno)
Lingua: italiano Numero max di opere: 1 Oggetto: saggio di critica letteraria su autori / opere della poesia locale, nazionale, internazionale (opere vertenti su Poeti e poesia) Tipologia: opera ineditaLunghezza: max 5 cartelle editoriali (ovvero 9.000 battute spazi esclusi) Specifica: si raccomanda l’uso di note di approfondimento e bibliografiche
Lingua: italiano Numero di opere: 1 Tema: saggio di critica letteraria su autori / opere della poesia locale, nazionale, internazionale (opere vertenti su Poeti e poesia) Tipologia: libro edito pubblicato da una casa editrice (no self-publishing), dotato di ISBN Specifica: l’opera deve essere stata pubblicata dal 2020 in poi
Articolo 5
È fatto divieto di partecipare, pena l’esclusione, ai soci fondatori, ai soci onorari, ai Consiglieri (in carica o passati) di Euterpe APS e ai Presidenti di Giuria attivi o passati del presente premio.
Saranno, altresì, escluse tutte le opere che presentino elementi razzisti, xenofobi, denigratori, pornografici, blasfemi, di offesa alla morale e al senso civico, d’incitamento all’odio, alla violenza e alla discriminazione di ciascun tipo o che fungano da proclami ideologici, partitici e politici.
Articolo 6
Per prendere parte al Premio è richiesto un contributo di € 15,00 (QUINDICI//00) per la prima sottosezione alla quale si partecipa e un contributo successivo pari a € 5,00 (CINQUE//00) per ogni ulteriore sottosezione, a copertura delle spese organizzative.
È possibile partecipare a più sottosezioni corrispondendo il relativo contributo in un unico pagamento specificando nella causale i codici delle sotto-sezioni alle quali si partecipa.
Il pagamento del contributo potrà avvenire mediante una delle due possibilità indicate a continuazione:
Bollettino postale– CC n°1032645697
Intestazione: Euterpe APS
Causale: XIII Premio di Poesia “L’arte in versi” – nome e cognome del partecipante – sottosezioni
Causale: XIII Premio di Poesia “L’arte in versi” – nome e cognome del partecipante – sottosezioni
Articolo 7
I materiali per partecipare al Premio (la scheda di partecipazione adeguatamente compilata e sottoscritta in originale; la copia del pagamento effettuato e i file delle opere in linea con i requisiti indicati in tabella) dovranno pervenire unicamente a mezzo mail all’indirizzo premiodipoesialarteinversi@gmail.com entro il 31 maggio 2025 indicando quale oggetto della comunicazione “Partecipazione al XIII Premio di Poesia L’arte in versi”.
Articolo 8
Le commissioni di Giuria, diversificate per le varie sottosezioni, sono presiedute da Michela Zanarella e sono costituite da poeti, scrittori, critici, giornalisti e promotori culturali a livello nazionale: Stefano Baldinu, Fabia Binci, Valtero Curzi, Mario De Rosa, Graziella Enna, Zairo Ferrante, Filomena Gagliardi, Rosa Elisa Giangoia, Fabio Grimaldi, Giuseppe Guidolin, Francesca Innocenzi, Antonio Maddamma, Simone Magli, Emanuele Marcuccio, Francesco Martillotto, Morena Oro, Rita Stanzione e Laura Vargiu.
Articolo 9
Per ciascuna sottosezione saranno assegnati premi da podio (1°, 2° e 3° premio) rappresentati da targa personalizzata, diploma e motivazione della Giuria e alcune menzioni d’onore rappresentate da medaglia e diploma.
Verranno altresì assegnati alcuni Premi Speciali: il Premio del Presidente di Giuria, il Premio della Critica, il “Trofeo Euterpe”, il Premio “Picus Poeticum” (assegnato alla migliore opera di un autore marchigiano) e il Premio “Donne e Poesia” (donato dal Movimento Internazionale “Donne e Poesia” di Bari presieduto dalla poetessa e scrittrice prof.ssa Anna Santoliquido).
Nel caso in cui non sarà pervenuta una quantità di testi numericamente congrua o qualitativamente significativa per una sezione, la Giuria, a sua unica discrezione, si riserva di non attribuire determinati premi.
Tutte le opere premiate verranno pubblicate nell’antologia del Premio, disponibile gratuitamente il giorno della premiazione.
Fuori concorso verranno assegnati i Premi Speciali “Alla Memoria”, “Alla Cultura” e “Alla Carriera” a insigni poeti del nostro Paese, su unica proposta del Presidente del Premio. Non si accetteranno candidature in tal senso.
Articolo 10
Per gli obblighi di pubblicità e trasparenza il presente bando di partecipazione, così come il verbale di Giuria, vengono pubblicati e diffusi su questi spazi online:
Qualsivoglia richiesta inerente al Premio dovrà essere presentata unicamente in forma scritta adoperando la mail: premiodipoesialarteinversi@gmail.com
Articolo 11
La cerimonia di premiazione si terrà nelle Marche in un fine settimana di novembre 2025.
I vincitori e i premiati a vario titolo sono tenuti a presenziare alla cerimonia per ritirare il premio. Qualora non possano intervenire hanno facoltà d’inviare un delegato. Non sarà possibile delegare membri della Giuria e familiari diretti degli stessi. Un delegato non potrà avere più di due deleghe da altrettanti autori vincitori assenti. Non verranno considerate le deleghe annunciate in via informale ma unicamente a mezzo mail.
I premi non ritirati personalmente né per delega potranno essere spediti a domicilio (sul solo territorio nazionale) mediante Corriere Fedex, previo pagamento delle relative spese di spedizione a carico dell’interessato. In nessuna maniera si spedirà in contrassegno.
Articolo 12
Ai sensi del D.Lgs 196/2003 e del Regolamento Generale sulla protezione dei dati personali n°2016/679 (GDPR) il partecipante acconsente al trattamento, diffusione e utilizzazione dei dati personali da parte della Segreteria del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” che li utilizzerà per i fini inerenti al concorso in oggetto e per iniziative culturali e letterarie analoghe organizzate dalla stessa.
Dott. Lorenzo Spurio – Ideatore e Presidente del Premio
Data___________________________________ Firma ___________________________________
L’autore è iscritto/ tutelato dalla SIAE? □ Sì □ NoI testi presentati al concorso sono depositati alla SIAE? □ Sì □ NoSe Sì indicare quali testi ______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
DICHIARAZIONE DA SOTTOSCRIVERE
(PER I PARTECIPANTI DI TUTTE LE SEZIONI)
□ Dichiaro che le opere NON presentano in nessuna forma elementi che possano rimandare a una lettura, interpretazione, collegamento e/o richiamo a impostazioni ideologiche di tipo razziste, xenofobe, denigratorie, pornografiche, blasfeme, di offesa alla morale e al senso civico, d’incitamento all’odio o alla differenza e all’emarginazione, nonché di tipo politico, partitico o di ogni altra impostazione e fazione che possa richiamare un clima di violenza, lotta, incomprensione, intolleranza e insubordinazione.
□ Dichiaro che i testi presentati sono frutto del mio unico ingegno e che ne detengo a ogni titolo i diritti e la proprietà.
□ Autorizzo la Segreteria del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” a pubblicare in cartaceo i miei testi all’interno dell’opera antologica del Premio, qualora risultassi premiato, senza nulla avere a pretendere né ora né in futuro. L’opera antologica è un volume a tiratura limitata, non in commercio e privo di codice ISBN.
□ Autorizzo la Segreteria del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” al trattamento dei miei dati personali ai sensi della disciplina generale di tutela della privacy (D.Lgs n. 196/2003 e Regolamento Europeo 2016/679 – GDPR) allo scopo del concorso in oggetto e per future iniziative culturali indette dalla medesima.
Data__________________________________ Firma ___________________________________
DICHIARAZIONE DA SOTTOSCRIVERE:
Per i partecipanti delle sezioni D2 e D3
□ Dichiaro, sotto la mia unica responsabilità, di aver fatto uso, nell’elaborazione della videopoesia / fotopoesia di immagini/video/suoni e altri materiali di mia proprietà o di dominio pubblico o, laddove abbia usufruito di materiali di terzi, di aver provveduto a richiedere e aver ottenuto la relativa liberatoria degli autori per l’autorizzazione a usarli nell’elaborazione del video, sollevando l’Organizzazione da qualsiasi disputa possa nascere.
Per i partecipanti della sezione D3
□ Dichiaro, sotto la mia unica responsabilità, di non aver fatto uso di brani, musiche, canzoni, melodie iscritte/tutelate dalla SIAE nella mia videopoesia.
Data_______________________________ Firma ___________________________________
È di poche settimane fa la notizia dell’uscita di una nuova raccolta di poesie in lingua straniera per la poetessa Michela Zanarella che ha già alle spalle varie pubblicazioni bilingui tra cui in rumeno, in inglese e in arabo. Stavolta la pubblicazione è in doppia lingua spagnolo-italiano. La traduzione è a cura della poetessa Elisabetta Bagli. Si tratta, per la nota poetessa Zanarella, da anni “naturalizzata” romana, della ventunesima pubblicazione.
Non si tratta dell’unico lavoro della Nostra in lingua spagnola dato che in Colombia la poetessa veneta aveva pubblicato il libro La verdad a la luz per i tipi di Papel y Lapiz. Ora è il caso del mercato editoriale argentino che accoglie i suoi versi. Il volume, dal titolo La experiencia de la mirada/ L’esperienza dello sguardo esce per il marchio Arte Sin Aduanas Ediciones all’interno della collana (curata dai poeti Elisabetta Bagli e Gastone Cappelloni) che porta quale titolo “Dal Mare all’Oceano”.
Nel testo di prefazione Silvia Clarión ha avuto modo di rivelare: “Ci accolgono le lune primaverili che invadono di ricordi gli sguardi immortali. Emergono orizzonti remoti, promessi da amori antichi, incompiuti, insoddisfatti” mentre queste a seguire sono le parole dell’editrice Daniela Tomé: “Un invito alla bellezza, alla sensibilità e alla profondità della poesia, che si nutre di soli e abissi incommensurabili”.
Nella potenza dei sentimenti e tra immagini in cui emergono gli elementi della natura continua a maturare un linguaggio essenziale, fluido e intenso, che sprigiona vita ricordandone la sacralità. L’osservazione costante del mondo diventa necessaria per comprendere il valore e la bellezza delle cose. Zanarella, che è recentemente uscita con un affascinante romanzo breve di forte impronta autobiografica (Quell’odore di resina uscito quest’anno per i tipi di Castelvecchi Editore), con la nuova opera poetica seguita ad affidarsi alla poesia per continuare il suo viaggio di esplorazione e ricerca, senza mai perdere il desiderio di stupirsi e donarsi con sincerità al lettore.
Michela Zanarella è nata a Cittadella (PD). Dal 2007 vive e lavora a Roma. Ha pubblicato numerosi libri, soprattutto di poesia. Giornalista, si occupa di relazioni internazionali. Collabora con diverse testate e redazioni tra cui la rivista di poesia e critica letteraria «Nuova Euterpe» (già «Euterpe»). Le sue poesie sono state tradotte in oltre dieci lingue. È tra gli otto co-autori del romanzo di Federico Moccia La ragazza di Roma Nord edito da SEM. Presidente di Giuria in vari concorsi letterari a livello nazionale tra cui il “Città di Latina”, “L’arte in versi” di Jesi, è Presidente dell’Associazione di Promozione Sociale “Le Ragunanze” di Roma che annualmente bandisce l’omonimo premio letterario.
Nelle scorse settimane la Nemapress edizioni ha dato alle stampe il volume Figlia del Sud / ابنة الجنوب – Poesie di Anna Santoliquido, che contiene una scelta dell’ampia produzione letteraria della poetessa appulo-lucana proposta in doppia versione italo-arabo. La traduzione nella lingua straniera è a cura di Kegham J. Boloyan, docente e traduttore dall’arabo presso l’Università “Aldo Moro” di Bari e l’Università del Salento di Lecce.
L’apprezzata poetessa di Forenza (PZ), alla quale negli ultimi anni sono stati dedicati vari saggi tesi ad approfondire e analizzare i contenuti delle sue opere letterarie[1], ha visto venire alla luce una serie di pubblicazioni di sue opere in lingue straniere, con particolare attenzione a quelle dei Balcani (serbo, sloveno, albanese, etc.), area geografica dove è particolarmente letta, apprezzata e spesso invitata a presenziare come madrina in eventi di primo piano, quali Festival e kermesse culturali. Non è un caso che nella mia monografia a lei dedicata, pubblicata nel 2021, dedicavo un intero capitolo a questo importante aspetto titolando “La reversibilità tra codici linguistici nell’empatia con le terre oltre l’Adriatico”.
Anna Santoliquido, che vanta il “glorioso” numero di ventitré raccolte di poesia, ha esordito nel non vicino 1981 con I figli della terra che, assieme ad una delle opere successive, Ofiura (1987), rappresenta la sua prima e autentica rivelazione lirica permeata dalla centralità dei ricordi, dalla ricchezza dei sentimenti e dalla difesa della semplicità, a contatto con la natura lontana dai fastidi della città contemporanea, in sinergia con un ambiente puro e rilassato, quello della Provincia del sud Italia delle ultime decadi del Secolo scorso, in quella terra ricca di voci potenti quali il poeta-contadino Rocco Scotellaro (1923-1953) di Tricarico (che di quella città fu Sindaco, uno dei più giovani, all’epoca, dell’intero Stivale) e il dialettale Albino Pierro (1916-1995) di Tursi che più di qualcuno propose (ritenendolo a tale altezza) quale possibile Premio Nobel per la Letteratura, riconoscimento che sfiorò in più di un’occasione.
Docente di lingua inglese e animata da un grande spirito cosmopolita e solidale, la Santoliquido ha dedicato alcune delle sue più belle liriche a dolorosi episodi della storia internazionale quali la traumatica esperienza della dittatura comunista “narrata in versi” in Bucarest (2001) e il (poco noto) massacro di Kragujevac (1941), una vera ecatombe con circa 3.000 morti, soprattutto serbi, caduti nel delirio delle spietatezze tedesche, da lei rimembrata in Città fucilata (2010).
Dagli anni Duemila si è assistita a una grande proliferazione di pubblicazioni in lingue straniere quali – solo per citarne alcune – Casa de piatră / La casa di pietra (in italiano/rumeno, libro pubblicato a Bucarest nel 2014) e Profetesha / La Profetessa (in albanese, pubblicato a Saranda nel 2017).
Fondatrice e presidente del Movimento Internazionale “Donne e Poesia” di Bari con il quale organizza numerose attività culturali e poetiche nonché di sensibilizzazione su temi d’attualità e di difesa della donna, ha ottenuto numerosi riconoscimenti letterari tra i quali la prestigiosa Laurea Apollinaris Poetica dell’Università Pontificia Salesiana di Roma (2017) e il Premio alla Carriera de “L’arte in versi” di Jesi (2018).
Nell’opera sono pubblicate poesie della Nostra che rappresentano davvero dei must intramontabili, delle pietre miliari decisive e fondamentali del suo percorso di letterata. Tra di esse figura nelle primissime pagine “La casa di pietra” dedicata alla vecchia casa dell’infanzia, a Forenza, nel Potentino, da dove tutto – compresa la vena lirica – è nato: “Il sedile / è ancora lì / testimone nella sua dignità / di pietra”, scrive la Nostra, in un testo che è al contempo intriso di nostalgia e di speranza. “Tutto aveva un sapore / di storia vissuta” così come le “pietre arroventate” e “l’ombrafresca” che, come reali presenze umanizzate, definiscono quel locus primigenio, vera culla dell’esistenza e punto di partenza per successive e numerose peregrinazioni e autodeterminazioni.
Non mancano alcuni componimenti che, con affetto partecipativo, descrivono luoghi cari alla Nostra, dal Gargano nella sua magica schiuma acquosa all’aspra e arroventata Murgia.
I richiami all’impegno etico-civile sono sparsi ovunque: l’angosciante vicenda di Anne Frank (1929-1945) e della sua famiglia, così come il già richiamato eccidio di Kragujevac, sempre per mano nazista, e i moniti di ribellione e di denuncia della mancanza delle libertà nelle forme di resistenza collettiva. In “Mattanza” viene affrontato da vicino lo scottante tema, così sempre troppo d’attualità, del femminicidio e, in generale, della violenza di genere.
Figlia del Sud è stato presentato al pubblico in due recenti eventi: il 15 maggio u.s. a Bari, presso l’Aula 14 della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere alla presenza di Marina Cordella (saggista), Italo Interesse (giornalista del «Quotidiano di Bari») e Aldo Nicosia (Università degli Studi di Bari) e il 17 maggio u.s. a Lecce, presso la Sala Gradonata-Olivetani della Facoltà di Lettere e Filosofia, Lingue e Beni Culturali dell’Università del Salento alla presenza di Samuela Pagani (Università del Salento) e Carlo Alberto Augieri (poeta e già docente dell’Università del Salento).
Da Ed è per questo che erro, opera del 2007, la Santoliquido ha estratto una significativa poesia scritta quattro anni prima, nel 2003, dedicata a una delle maggiori poetesse dell’Europa orientale e non solo, Desanka Maksimović (1898-1993), da lei richiamata come “la grande madre”, “iconaslava” e, ancora, “la dea della poesia”, con la quale la poetessa appulo-lucana senz’altro percepisce una sorta di affinità, di comunanza nel sentire e di affrontare determinate tematiche in forma empatica e vivida. Difatti, se la Maksimović è evocata e descritta come la poetessa che “declamò con la voce del Sud”, la Santoliquido, orgogliosamente, di sé dice e rivela “sono nata in via Meridionale” e, in “Sono poeta” (dedicata allo scrittore americano Hemingway): “sono poeta / a Belgrado e a Zagabria, / sotto il sole di Puglia / e nel covo dei briganti” in linea con l’universalità che è di ogni vera Poesia.
Lorenzo Spurio
18/05/2024
[1] Mi riferisco a Francesca Amendola, Anima mundi. La scrittura di Anna Santoliquido, Aviapervia, Oppido Lucano, 2017; Parole in festa per Anna Santoliquido, a cura del Laboratorio Don Bosco oggi, IF Press, Roma, 2018; Francesca Amendola, Una vita in versi. Trentasette volte Anna Santoliquido, LB Edizioni, Bari, 2018; Lorenzo Spurio, La ragazza di via Meridionale. Percorsi critici sulla poesia di Anna Santoliquido, Nemapress, Alghero / Roma, 2021; Licia Grillo, Multas per gentes. Itinerario poetico di Anna Santoliquido, Falvision, Bari, 2021. Mi sono occupato del volume critico di Licia Grillo sulla poetessa appulo-lucana su «La Fionda» il 10/10/2021 e della sua opera poetica Poezje Wybrane (1981-2020), a cura della Fundacja Literacka “Jak podanie ręki” in collaborazione con la Wielkopolski Oddział Związku Literatów Polskich – Greater Poland Branch of the Polish Writer’s Union, Poznań, Polonia, 2023 su «Il Salto della quaglia», 12/04/2023. Recentemente la Amendola si è occupata nuovamente della Santoliquido in un saggio diffuso in rete nel quale analizza il percorso poetico di alcune poetesse lucane, con particolare attenzione al tema della spiritualità: Francesca Amendola, “La religiosità spirituale nelle opere delle poete lucane: da Isabella Morra ad Anna Santoliquido”, «Nuova Euterpe» n° 02/2024, 16/04/2024. La bibliografia sulle sue opere è vastissima.
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Quando ho conosciuto per la prima volta la poesia di Alfredo Pérez Alencart, ne sono rimasto letteralmente affascinato al punto da viverla come una autentica boccata d’aria: quel viaggio impossibile durante il periodo del lockdown pandemico che i suoi versi invece consentivano di fare con altri strumenti e altri sguardi. Non saprei dire se quel fascino da cui fui catturato dipendesse dal fatto che, avendo trascorso circa un decennio in America Latina, fossi rimasto immediatamente folgorato da quegli elementi che inevitabilmente e fascinosamente affiorano nei suoi versi da quella parte del mondo e tornano in modo costante a declinarsi nelle mille sfumature che a quella cultura rimandano: penso di getto a Presagios e a Luciérnagas così come a Trocha o alla straordinaria Perù o, ancora, più in generale alla raccolta Selva que cabes en el tamaño de mi corazón e alle tante altre liriche e sillogi che ho avuto modo di sfogliare.
Il punto, tuttavia, non è tanto identificare quegli elementi ed isolarli. Non è esercizio utile dal momento che i profumi, i sapori e le sfumature delle albe latine, i giochi di luce, i disegni delle ombre lunghe e lo sguardo ai cieli di quella parte del mondo è facile trovarli un po’ dovunque nella sua poesia. Perfino quando Alfredo prova a disegnare i contorni dell’anima ne vengono fuori suoni e immagini che rimandano a una antica danza rituale – celebrativa, propiziatoria o funebre che sia – delle lande amazzoniche dove anche chi non vi ha mai messo piede riesce ad addentrarsi, guidato da questa sua intima essenza «con un piede su entrambe le rive dell’Atlantico» (Carlos Aganzo); attraverso un ponte di corda: magnifica immagine che José Manuel Suarez utilizza nel suo saggio, presente in apertura del volume. In realtà l’immagine è quella di una «scala» dove, attraverso il verso breve, folgorante e intenso, «come fosse fatto d’aria», il poeta consente che «saliamo e scendiamo, torniamo indietro per recuperarne il senso o ci fermiamo un momento per osservare, per ascoltare. Poggiamo il piede sulla corda e continuiamo», perché «così è una scala di corda: solo filo». Che sia una scala o un ponte, ciò che conta, oltre al fatto che sia solo fatta di corda (e proprio per questo), è esattamente l’avventura di quel percorso da parte di chi lo compie e, soprattutto, il fatto che dall’altra parte del ponte c’è il territorio nel quale il poeta ci invita a sostare e dall’altro capo della scala il vero e proprio orizzonte del panorama dell’anima che Alfredo dipinge con tutte le sfumature dei colori che conosce e possiede, indicando la luce la cui percezione è nulla senza un’ombra che ne testimoni l’essenza: quell’immancabile «profilo adombrato che dà profondità» a tutto il resto.
Un panorama variegato e ricco, come testimoniano i diversi saggi inclusi in questa raccolta, ciascuno dei quali coglie sfumature e nuances come tasselli di un puzzle, come segmenti di un disegno da ricostituire secondo l’ottica e il pensiero del poeta o, com’è giusto che sia quando si ha a che fare con la poesia, secondo la percezione del lettore che finisce per ricostituire un’ottica nuova, talvolta inedita, pur sempre con assoluto diritto di cittadinanza. Perché, si sa, quando il poeta ha scritto, ha anche consegnato ogni parola, ogni significante e ogni significato, all’anima del lettore. Il quale entrerà nel giardino panoramico di Alfredo ma affronterà quel percorso con le sue “scarpe”, la sua bussola e secondo i suoi propri riferimenti cardinali. Ed è proprio questo che rende ecumenica la poesia; è questo che rende il nostro poeta «una voce universale di un uomo ispano-peruviano» (Sandra Beatriz Ludeña).
Così, tra le sfumature dell’arte del Nostro prendono parte tanto i pastelli delicati quanto i colori a tinte forti declinati anche attraverso quella scelta dialogica che trascina il lettore all’interno della realtà e del vissuto del poeta. A giusta ragione Jeanette L. Clariond sottolinea la presenza del “tu” nella poesia di Alfredo: un “tu” al quale imprescindibilmente va legata la figura della sua princesa, come sottolineo nel mio epilogo, ma che si arricchisce anche di slarghi di vedute che trasformano quel “tu” in un veicolo di superamento della realtà stessa fino a farsi perfino il «Tu che sta nell’alto» al quale viene consegnata la didascalia di un umanissimo afflato verso l’alto che supera i confini del credo fideistico e dogmatico e diviene tendenza all’Assoluto, tutta umana, al di là di ogni confine, fosse anche quello spirituale, al di là di ogni religione in quanto tale. È così che «il suo cristianesimo (…) non è neppure esente da un misticismo erotico», tutt’altro! Perché tutto è incluso nel disegno panoramico dell’esperienza di vita del poeta. È una fusione esperienziale che non tralascia alcuna dimensione e che, al contrario, le fonde mirabilmente: non è un caso che il titolo di questa raccolta sia proprio La carne y el espiritu e, una fra tante, si legga l’intera poesia Creación e in particolare la sua chiusa che così recita: «Ti insalivo, / donna, / ti impasto a me», mirabile sintesi in una declinazione erotica con un evidente richiamo all’atto stesso della Genesi biblica.
Così anche Leocádia Regalo che rafforza questa presenza “metareligiosa” (perché tanto al di là della corporeità terrena quanto al di là della solitudine spirituale) sottolineando la presenza di «un “io” e un “tu” che si compenetrano in una assunzione della poesia a conoscenza del mondo e di se stesso». Un «misticismo erotico – come sottolinea Fermin Herrero – la cui fonte potrebbe ben essere identificata nel Cantico dei Cantici, che innerva e tende l’espressione». Così, stagliandosi la parola come oggetto assoluto della poesia, attraverso essa il poeta «invita ad addentrarci nella profondità delle perplessità condivise» attraverso una lettura che necessita di un suo tempo per essere “sbrogliata”, goduta e fatta propria da ciascuno.
Guardare alla realtà dall’alto di un sistema di valori spirituali che non restano fermi nell’iperuranio inutile della contemplazione ma si calano profondamente nella traduzione esperienziale del vissuto, è la cifra ermeneutica di Alencart che, attraverso questa architettura, riesce a conferire ai suoi versi quel valore universale che fa guardare a Asunción Escribano alla «cecità física come símbolo della cecità morale». Allegoria e metafora, certo, che nell’ossimoro letterario che unisce l’immagine del sole e della cecità non si traduce in una contraddizione quanto piuttosto nella «incapacità razionale dell’uomo di captare l’unità e la realtà» che solo all’interno della poesia può trovare l’esatta coniugazione, irrazionale eppure inconfutabile, del vissuto esperienziale che la metafora stessa disvela. «Ebbene, ogni poesia di questo libro merita un riconoscimento che ci riempie di mistica speranza in mezzo alle tragedie quotidiane» (Juan Mares).
In questo continuo andirivieni dell’indagine umana che si consuma in questa poesia, i capisaldi restano evidentemente fermi né si può tacere l’apporto e la continua “religiosa” comunione con i classici («il maggior premio a cui può arrivare qualunque poeta degno di esserlo davvero») della tradizione iberica, ispano-americana, latina e perfino italiana (si veda in proposito lo studio di Yordan Arroyo qui incluso), metro e misura di una evoluzione poetica che porta il verso di Alencart a cercare e trovare la sua sintesi migliore in una contrazione strutturale tutta finalizzata all’esaltazione del contenuto evocato da quella struttura. Juan Suárez Proaño scrive di «una brevità nata della ripulitura della lingua, una lingua tutta sua che in questa silloge finisce per emulare il bagliore» e gli fa eco Victor Coral sottolineando «la sua voce riuscita e personalissima.
La dinamica dei sensi che mette in gioco con parole semplici e profonde è la vera comunicazione». E direi anche comunione. Una evoluzione anche stilistica, dalla descrizione all’evocazione che, attraverso la Parola (si ricordi che è il verbo il protagonista del fiat lux della Genesi), rende compiuto e rotondo l’atto della poiesis nella quale meglio collocare anche la funzione e il compito del lettore («l’intensità della sua parola, (…) si costituisce in un sole salvifico per tanta vita odierna preda dell’oscurità», José LuisOchoa); lettore che ad essa si accosta e che di questo tempo, insieme al poeta, è l’uomo, il protagonista assoluto. Destinatario e quasi compartecipe dell’atto creativo. Un «confronto su due livelli con l’essere in se stesso e per se stesso» (José Carlos de Nóbrega). El sol de los ciegos, rende visibile il percorso strutturale che, attraverso un finissimo labor limæ, conquista “artigianalmente” un senso della misura interamente riprodotto e tradotto nelle architetture lessicali e liriche del verso («Un dettato misurato che rende cristallino in modo intenso, radioso, il legame della memoria, l’immaginazione e cerca di recuperare ciò che è stato cancellato dal tempo», Gerardo Rodriguez) e così sintetizza in sé «una poetica che incanala la trasmissione di ciò che avverrà lungo tutta la silloge, come un perfetto avvertimento della finalità e del senso profondo della poesia e dei suoi percorsi attraverso l’anima umana» (José Maria Muñoz).
Parola poetica e realtà esperienziale trovano così il punto di congiunzione definitivo nell’elaborazione della poetica di Alencart giacché – come sottolinea David Cortéz Cabán – «Se al principio la poesia era l’origine delle cose, ora influenzerà anche la percezione del mondo fisico e spirituale» e così «la parola poetica, in nome proprio, ribattezza col fuoco l’universo» (Amarú Vanegas).
Bene dunque ha fatto Alfredo Pérez Alencart a voler organizzare un percorso lirico selezionato all’interno de El sol de los ciegos, ponendo evidentemente gli accenti giusti, illuminando e lasciando in ombra le zone più appropriate perché dall’alto contrasto – non a caso – di luce e ombra, di chiari e scuri, meglio risultassero definiti e comprensibili (per quanto la poesia, quella vera, lo consenta) dettagli, livelli e chiavi di lettura che danno un senso compiuto alla sua poetica e al contenuto generale da essa veicolato. «La luce acceca, non scopre forme, le nasconde mentre l’ombra, l’oscurità diventa perseveranza nella ricerca dei significati» (Alberto Hernández). Così Alfredo unisce a filo doppio il senso dell’esperienza e l’impatto della percezione, il valore del passato, la consistenza del presente e la speranza del futuro, la forza della ragione e l’intensità della passione in un gioco di contrasti solo apparentemente ossimorico e che, soprattutto, non chiede affatto di essere risolto quanto forse di essere vissuto per quello che è giacché il mondo interiore di Alfredo è «un mondo senza frontiere, – come scrive Esmeralda Sánchez Martín – un universo aperto che oltrepassa i limiti del tempo e dello spazio. Carne e spirito, dolore e placidità, desideri e realtà, passato, presente e futuro, virtù e difetti, accettazione e sforzo… i versi di A.P.A. si muovono nel chiaroscuro e nel contrappunto dell’esistenza». È così che il panorama dell’anima di Alfredo non chiede affatto che si risolva una contraddizione, che sia sciolto un dilemma, che sia appianato un contrasto, che sia uniformata una diversità: tutto – e il verso poetico ne è lo strumento divino – è «come fiore, come spina, come speranza» (Anibal Fernando Bonilla) e quel panorama è fatto anche di carne; di percezione del dolore, di sensorialità della felicità; prevede e contempla una coesistenza esaltante dell’umana essenza generata e disegnata dal confine sul quale luce e ombra si sfiorano, vissuto e vivibile si incontrano, carne e spirito si abbracciano, ben al di là di una “semplice” guerra fra Bene e Male quanto piuttosto nella piena consapevolezza che «il poeta non può separarsi dalla propria condizione di essere umano, non può allontanarsi dal vero cammino, dallo splendore della parola come unico strumento di trasformazione del mondo» (José Antonio Santano).
Ed ecco compiuto l’atto creativo. E rivoluzionario. Ecco la poiesis! Un panorama che vada al di là dell’orizzonte fisico attraverso uno sguardo allegorico a palpebre strette: «Come fare – si domanda Sixto Sarmiento – per aprire gli occhi e alzare lo sguardo se in quel preciso istante l’orizzonte svanisce?». C’è bisogno di un altro sguardo, di occhi nuovi che non contemplino l’osservazione com’è comunemente concepita: «lo sguardo capace di vedere oltre i domani». E di un nuovo atto generatore che, attraverso la parola stutturi e ristrutturi «la poesia come costume di vita» (Harold Halva).
Ognuno di questi saggi è un nuovo passo, un’ulteriore conquista, una nuova acquisizione, un nuovo punto segnato dall’ago di una bussola ermeneutica, una nuova trocha che taglia il cammino secondo sentieri inediti ma, se si alza lo sguardo e si mira all’orizzonte, quel cielo è lo stesso per tutti; quel panorama e ciò a cui tutti finiscono per guardare. Ed è il panorama dell’anima, la meno terrena caratteristica dell’umanissima realtà, che Alfredo cesella finemente, parola per parola, lungo un percorso esteso di produzione lirica nel quale è ben visibile come l’artista concentri e concretizzi l’attenzione sempre più sulla Parola, sulla tessera singola di quel mosaico che va costituendo con pazienza certosina e forza comunicativa sempre più intensa e concentrata. Ma è nella distanza che al lettore è offerto il miglior godimento di percezione: che siano passi indietro o in avanti, è il lettore, attraverso questi saggi, a scegliere quanto avvicinarsi o distanziarsi nella contemplazione e nell’osservazione alencartiana. Un mosaico può essere goduto davvero e per intero quando «noi possiamo vederlo ma solo a una certa distanza» perché solo nella distanza può essere abbracciato tutto. «Ecco perché i termini chiave sono radicati nella problematica dello sguardo».
Così, per converso, la contemplazione del dettaglio, diventa esercizio di maestria da godere su un livello diverso e a più livelli e ciascuno di questi saggi offre la possibilità di fermarsi a riflettere, leggere, interpretare e godere di tessere che hanno la loro esatta posizione, colore, dimensione e intaglio dentro il disegno generale. E questo si propone – senza la pretesa di risolverlo tutto – questa raccolta di saggi: offrire insieme uno sguardo sul panorama dell’anima, sulla mappa emozionale che è parte fondante del disegno generale della poetica di Alfredo Pérez Alencart.
E allora: «Entrino, entrino con me in questo tratturo, / […] / Vi invito dentro un percorso arricchito / dal distillare delle reminiscenze».
[1] Grazie al consenso del curatore Vito Davoli e del poeta Alfredo Pérez Alencart, oggetto di questo studio, pubblichiamo in anteprima, la prefazione alla raccolta La carne y el espíritu (Trilce Ediciones, Salamanca 2023), una collettanea letteraria in lingua castigliana che raccoglie ben 24 saggi, intervallati dalle opere pittoriche dell’artista Miguel Elias (intervenuto anche in copertina), quali contributi di intellettuali, accademici, poeti e letterati provenienti da tutto il mondo ibero-americano a proposito dell’ultima silloge del poeta ispano-americano dal titolo El sol de los ciegos, (Vaso Roto 2021) interamente curata dal critico pugliese. Il volume in spagnolo include i contributi di José Manuel Suárez, Asunción Escribano, Fermín Herrero, José María Muñoz Quirós, Esmeralda Sánchez Martín, Carlos Aganzo, José Antonio Santano (Spagna), Jeannette L. Clariond, Gerardo Rodríguez (Messico), Leocádia Regalo (Portogallo), Yordan Arroyo (Costa Rica), Juan Mares (Colombia), José Luis Ochoa, José Carlos De Nóbrega, Amarú Vanegas, Alberto Hernández (Venezuela), David Cortés Cabán (Porto Rico), Juan Suárez Proaño, Sandra Beatriz Ludeña, Aníbal Fernando Bonilla (Ecuador), Víctor Coral, Sixto Sarmiento, Harold Alva (Perù) e Vito Davoli (Italia). Anteprima giacché il testo, già edito in Spagna nello scorso giugno, vedrà la luce anche nella versione tradotta in italiano dallo stesso Vito Davoli, per il nuovo anno 2024. Di seguito la prefazione in italiano del critico pugliese che ha contribuito anche con un suo proprio saggio in postfazione. Edizione originale spagnola: AA.VV., LA CARNE Y EL ESPÍRITU: Aproximaciones a “El sol de los ciegos” de Alfredo Pérez Alencart, Trilce Ediciones, Salamanca, España 2023, ISBN: 979-8398610628
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
La grande notorietà di Federico García Lorca (1898-1936) e della sua opera nel nostro Paese è testimoniata non solo da una prolifica attività critica e da continue riedizioni – anche commentate – della sua opera, ma anche da alcuni esperimenti di lettura di diverso tipo, che meritano adeguato rispetto e approfondimento. Mi riferisco – in relazione a quel suo carattere di poeta terrigno eppure universale – alla sua grande capacità di saper parlare e raggiungere popoli, gruppi umani, linguistici diversi, al pathos che trasmise nelle sue produzioni che i traduttori – non senza difficoltà – hanno cercato di rendere in idiomi altri rispetto allo spagnolo nativo del Poeta. È il caso anche dell’esigenza di percorrere la sua opera lirica in lingue dalla diffusione più limitata, localizzate in specifici ambienti di provincia, vale a dire i dialetti.
Non sono mancate, infatti, iniziative di cultori di dialetto che sono andate in questa direzione: non tanto quella del recupero della tradizione poetico-culturale oriunda, tra reminiscenze di età andate e grumi di nostalgia ma, piuttosto, quello di riconnettersi alla tradizione alta, colta, riallacciandosi a opere e autori di altre età, di altri contesti e “prenderle in prestito”, in qualche maniera, per “farle proprie” ma in maniera originale. Si tratta di un procedimento alquanto curioso, che nella maggior parte dei casi non ha visto esiti di particolare altezza, ma che ha, comunque, evidenziato una questione rilevante: la necessità dell’uomo contemporaneo – dello studioso attento – di saper interloquire anche con ciò che costituzionalmente non gli appartiene in forma nativa e identitaria.
La traduzione, questo “versare”, “porre a lato”, diviene, dunque, un qualcosa di fondamentale. Il tradurre da lingua a lingua lo è per ovvi motivi che qui risulta superfluo richiamare e che attengono principalmente alla possibilità di conoscere, apprendere, apprezzare e introiettare nel proprio panorama di ricchezze nozionistiche un sapere in una lingua estranea dalla nostra e, pertanto, se non intervenisse un medium a facilitarci la comprensione di quel testo, reso – adattato, trasposto, versato – nella nostra lingua, saremmo irrimediabilmente esposti a una perdita gravosa di conoscenze.
Il tradurre da lingua a dialetto è qualcosa di diverso poiché quest’ultimo non aspira a una diffusione capillare nel contesto nazionale e negli usi della lingua – da quelli formali e istituzionali a quelli pratici e d’uso comune della propria familiarità – dacché, per portare un esempio, tradurre i Sonetti di Shakespeare in napoletano non direttamente apporta per i parlanti del napoletano (né, di converso, per gli italiani tutti) una conoscenza superiore o inedita rispetto al bagaglio di conoscenze già in dotazione dell’italiano, dacché le liriche del Bardo sono già ben note in italiano, che è la versione primaria nella quale sono state trasposte nel nostro Paese dal loro originale.
Va da sé che, essendo un procedimento non automatico ma condotto dall’uomo dietro perizia di lettura, studio, attenzione e conoscenza delle due culture (quella dalla quale si parte e quella alla quale si giunge) e dunque un “trasferimento”, non può esistere un’unica versione concepita come giusta, completa, unanimamente accettabile di un’opera né, per le stesse ragioni, superiore rispetto a un’altra (con i distinguo di competenza e rispondenza all’originale di cui si diceva).
Avvicinandoci al caso di Federico García Lorca tradotto nel nostro Paese in lingue e varianti dialettali d’uso che non siano la lingua italiana (eliminando chiaramente il tedesco del Sud Tirol, il catalano di Alghero, il francese della Valle d’Aosta) ho reperito alcune informazioni che mi sembrano utili, sebbene approssimative, dal momento che la ricerca è stata breve e non può considerarsi esaustiva né particolarmente soddisfacente. Valga, comunque, come “anticipo” di un possibile discorso da riprendere e approfondire, quale tesi propedeutica a uno studio investigativo più allargato.
Veniamo al caso di Federico García Lorca, l’“andaluso universale” come ebbe a definirlo Carlo Bo, all’interno della grande vastità di dialetti del Belpaese. Alcuni anni fa Piero Marelli e Maurizio Noris hanno compilato un’antologia di poeti dialettali traduttori dal titolo Con la stessa voce (Lieto Colle, 2015) nella quale compaiono autori della classicità europea tradotti in altrettanti dialetti regionali o locali del nostro Paese. A fianco di Lee Masters, Shakespeare, Leopardi e Robert Burns, vi figura – doverosamente – anche García Lorca, tradotto in bergamasco dallo stesso Noris[1] ma anche in barese da Vincenzo Mastropirro[2]. Si vedano degli esempi:
I
Lorca:
Muerto se quedó en la calle
con un puñal en el pecho.
No lo conocía nadie.
¡Cómo temblaba el farol!
Madre.
¡Cómo temblaba el farolito
de la calle!
[prime due strofe della poesia “Sorpresa” estratta da Poema del Cante Jondo, 1921]
Noris:
Mòrt l’è restàt lè ‘n de strada
con d’o pognal in del pèt.
Negut l’lo conussìa.
Come tremàa ol lampiù!
Màder.
Come l’tremàa ol lampiunsì
de la strada!
*
II
Lorca:
Cuando yo me muera,
enterradme con mi guitarra
bajo la arena
[prima strofa della poesia “Memento” estratta da Poema del Cante Jondo, 1921]
Mastropirro:
Quanne Criste me chiòme,
prequàteme cu la chetàrra maje
sotta tièrre
Sebastiano Burgaretta[3], studioso di tradizioni popolari e cultore locale nato ad Avola (SR) nel 1946 ha llevado a cabo – ha portato avanti – una traduzione in siciliano di un’opera teatrale di Lorca ovvero La casa de Bernarda Alba, pièce conclusiva della nota trilogia drammatica che l’autore, a causa dell’assassinio nel 1936, non poté mai vedere rappresentata né stampata su carta. Burgaretta, che ha anche curato il relativo adattamento teatrale dell’opera, ha pubblicato il suo volume tradotto in siciliano con i tipi di Algra Editore di Zafferana Etnea (CT) nel gennaio 2015. Giuseppe Di Stefano in una nota critica sull’opera di Burgaretta ha osservato: «Il lettore ha così un anticipo immediato, seppur succinto, di quanto calzante sia stata l’iniziativa di tradurre in un siciliano autentico e duro lo spagnolo di un’opera che mette in scena quel che abbiamo sentito o anche visto accadere, e non tanto di rado, in più di una casa dei nostri paesi fino a non molte decine di anni fa; quel che in tempi andati abbiamo raccontato e commentato in piazza, al circolo, al caffè, o ci è stato raccontato, usando il medesimo linguaggio che fu nostro e che era dei nostri padri, zii, nonne, donne di casa, ad Avola o a Fuente Vaqueros fa lo stesso».
Ed è proprio il siciliano che ha dato grande eco all’opera dell’autore di Romancero gitano se pensiamo che il grande poeta Salvatore Camilleri (1921-2021) con Tringale Editore di Catania nel 1983 pubblicò 70 Poesie dove raccolse alcune delle più impressive poesie di Lorca in versione siciliana[4]. Così scrive nella prefazione: «Federico m’insegnava a trarre ispirazione dal folclore, senz’essere folcloristico […] ma era un maestro difficile, quasi impalpabile, che chiedeva totale devozione e tensione continua; un maestro le cui emozioni folgoranti dovevano essere percepite senza nessuna mediazione, per magie, risolvendosi in banalizzazione ogni tentativo di dare significato all’immagine o alla metafora. […] Nessuno procede da solo, né nella vita, né nei sentieri della poesia; né mai poeta ha percorso la strada senza avere a fianco altri compagni di viaggio, altri poeti, senza ricevere e senza dare a quelli che vengono dopo»[5].
Altra manifestazione interessante è quella di Rosario Loria (nato a Poggioreale, nel Trapanese, nel 1938) – noto scrittore, poeta, commentatore attento delle vicende cronachistiche e culturali dei nostri tempi nonché ideatore del genere riverismo poetico – che nel suo dialetto locale, quello di Poggioreale con influssi della parlata di Menfi (AG) dove vive da varie decadi – ha tradotto la prima delle quattro parti – quella che in originale porta il sotto-titolo di “La cogida y la muerte” – del famoso Llanto por la muerte de Ignacio Sánchez Mejías. Lorca scrisse quest’opera nel 1934, sull’onda del lutto e dello scuotimento emotivo provato per la morte del celebre torero andaluso che nel 1934 sulla plaza de toros di Manzanares venne duramente attaccato dal toro Granadino e morì della fatale cornata.
Riportiamo a continuazione la versione tradotta di Loria (notare anche la bizzarra circostanza della quasi totale corrispondenza tra cognome dell’autore e del traduttore che si diversificano per una sola lettera: LorCa A Loria), con l’adozione del corsivo per i versi che trasmettono, in maniera anaforica, il terribile ritornello che preannuncia e dichiara, inveisce e proclama l’avvicinarsi, il concretizzarsi e il prodursi della morte del celebre matador:
Eranu li cincu di la sira, a ‘ttutti li ‘rròggiura !
Eranu li cincu, all’ummira di la sira…
Il poeta e noto giurista Corrado Calabrò sulle famose quartine lorchiane che compongono lo struggente Llanto (tradotto nella nostra lingua frequentemente come Lamento e più raramente con l’azzeccato Pianto) ebbe a porre l’attenzione sul senso d’incompiutezza (e dunque di formidabilità) di questo canto lirico: «Erano le cinque in punto della sera. Erano le cinque [in] tutti gli orologi. Venticinque volte Lorca ripete A las cinco de la tarde, alle cinque della sera nel suo Llanto por Ignacio Sánchez Mejías. Non lo fa certo per dirci l’ora. Ma se avesse detto: «Nel pomeriggio di oggi nella plaza de toros di Siviglia, il giovane e valente Ignacio Sánchez…» avrebbe fatto solo una cronaca da giornale locale. Lui dice invece Eran las cinco de la tarde; e niente come quelle parole che citano semplicemente l’ora segnata dall’orologio in quel momento, potenzialmente da tutti gli orologi in quel momento, ci dà il senso di come, in un istante, la nostra vita ci sfugga, ci sfugga per sempre, irreversibilmente. Sfugge al torero Ignacio, sfugge, prima o poi, a ognuno di noi, in un attimo. Il massimo della significazione con il minimo dell’espressione. Il non detto che scaturisce dal detto, da quello specifico detto; l’evocazione nell’udito interiore generata da un ascolto insostituibile e indeterminato ad un tempo. È questo che fa la poesia, la grande poesia. E la poesia di García Lorca è Grande. Agli inizi, la sua limitata acculturazione, suscitò dei dubbi sulla profondità di quella poesia. Critici emunctae naris rimasero perplessi di fronte alla sua immediatezza impressionistica, sospettandola di superficialità e accusandola di impurità, in tempi in cui si stavano già affermando, in poesia, tendenze esoteriche e rarefatte. Non capivano che quella immediatezza nasceva da una magica capacità d’immedesimazione, da un dono naturale di libertà e autenticità, che, rifiutando asfittiche prigioni correntizie e speculazioni di nessun esito, non per questo debordava dal territorio eletto dell’arte. “Ginatismo”, si disse; era invece un territorio che con lui appariva rigogliosamente ancora vergine per la prodigiosa capacità di reinvenzione della poesia, quella vera. Sì – osserva ancora Carlo Bo – «sembrava che lo guidasse una vera fame di poesia e che per questa fame non ci fosse un cibo capace di saziarlo». Con gli anni, Lorca, senza perdere la sua spontaneità, trovò una sua misura, al tempo stesso naturale e vicino alla misura classica. Sopravvenne la sua morte, e con essa la fama di Lorca, s’ingigantì e dilagò per il mondo. Giustamente venne visto nella sua uccisione il tentativo bestiale dell’incultura di sopraffare i valori assoluti dell’uomo. […] Quando una poesia è grande – e quella di Lorca lo è – essa è universale. Così come la morte di Ignacio è la sorte di ognuno di noi»[7].
A Calabrò sembrano far eco – con un linguaggio disomogeneo e a tratti sospensivo, ma per questo non meno catartico e passionale – alcune considerazioni di Rosario Loria che a maggio di quest’anno ha inteso porre a corredo della sua traduzione lorchiana testé riportata. Qui leggiamo: «Mai un’emozione intensa come questa volta, così istantanea e così violenta, dopo tante letture e riletture e decine di traduzioni dall’italiano… Ora capisco… Ora capisco, mentre vibro e ho la gotta, e sudo, la ripetizione folle e apparentemente assurda, del gelido e imperiale celeberrimo verso… Come una falce, che non guarda alti e bassi… E miete… Inesorabile… Il martellare delle nostre insistenze, dove il pianto non certifica la ragione, avviene sempre in tutti gli orologi, a quell’orario… Solo a quell’orario… È sempre quell’orario, quando non vedi riconosciuto il tuo diritto di avere un amico comune, ed esserne estromesso per gelosia… Martella, martella sempre, dalle cinque della sera, in tutti gli orologi… Fino adesso mai avevo capito il furore di questo Poeta, e capire la paura del tiranno, per liberarsi della quale, lo ha fucilato… Non è un problema ideologico… Ma è la viltà della potenza che ci fa caini…».
Per ampliare il tema qui proposto con questo scritto della versatilità dei contenuti lorchiani resi in alcuni dei dialetti nazionali vorrei riportare altre circostanze che mi sembrano interessanti. La città di Napoli – dove è sempre stato particolarmente vivo il mondo teatrale, tanto di maschere, di scena e impegnato – ha visto la creazione di un vero e proprio connubio con l’opera teatrale del Granadino.
Ne è testimonianza la trasposizione in dialetto partenopeo de La casa de Bernarda Alba a opera e per la regia di Gigi Di Luca che a maggio del 2010 andò in scena alla Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta nel capoluogo partenopeo. Tra gli attori protagonisti: Fulvia Carotenuto nel ruolo dell’arcigna Bernarda Alba, Gina Perna nel ruolo della domestica Poncha, la giovane Benedetta Bottino nei panni della tormentata Adela, Lisa Falzarano (Angustia), Federica Aiello (Martirio), Ilaria Scarano (Amelia) e Roberta Serrano (Maddalena). Come ricorda la stampa, tale opera in napoletano aveva debuttato già qualche anno prima, nel 2007 al Teatro Nuovo di Napoli, alla presenza dell’allora Assessore alla Cultura di Siviglia, don Juan Carlos Marset, poi portato anche in Spagna al Teatro Almeda.
Nel marzo del 2019 al Teatro TRAM di Via Port’Alba a Napoli andò in scena la versione in dialetto napoletano di Yerma col titolo ‘A Jetteca per la regia di Fabio Di Gesto e Silvio Fornacetti, costumi di Rosario Martone e attori recitanti Chiara Vitiello, Diego Sommaripa, Francesca Morgante, Maria Grazia Di Rosa e Gennaro Davide Niglio.
L’interesse verso la drammaturgia drammatica di Lorca è particolarmente forte nel nostro Meridione dove, la realtà sociale e familiare di piccoli borghi di provincia e delle campagne nel secolo scorso, viene percepita molto affine – se non addirittura identica – a quella della retrograda, machista e illiberale Spagna che Lorca dipinse. Non solo in Sicilia, in Campania, ma anche in Sardegna l’opera di Lorca trova una versione in una lingua locale. È il caso di Bodas de sangre tradotta in sardo da Gianni Muroni col titolo Isposòriu de sàmbene e pubblicata da Condaghes Edizioni di Cagliari nel 2013.
Pur tuttavia non si trattò della prima traduzione in sardo di quest’opera se si tiene presente che nel 2011, prima al Teatro Verdi di Sassari poi al Teatro delle Celebrazioni di Bologna, andò in scena Nozze di sangue nella versione sarda (variante barbaricina) scritta a quattro mani dal noto Marcello Fois e Serena Sinigaglia col titolo Bodas de sambene. Una lingua – quella sarda – che come ricorda la segnalazione della messa in scena su «La Repubblica» del periodo: «[è] di terra e sangue, perfetta per le sue caratteristiche linguistiche e antropologiche, per parlarci di confini distesi e violati, campi arsi e coltelli, di parole impronunciabili, di silenzi violenti»[8]. Nell’opera di Fois e Sinigaglia la Barbagia sostituisce la Vega, ma tutto è rimasto inalterato: l’ambiente di campagna, la reticenza dei personaggi e la loro ritrosia, l’incomunicabilità diffusa e un senso inscalfibile di tragedia sin dalle prime battute con una dominazione indiscussa del mistero e del fatalismo. Il successo della rappresentazione fece sì che l’opera venisse riproposta nel suo locus primigenio, in Sardegna, alcuni anni dopo (al Teatro Massimo di Cagliari in tre serate consecutive dal 21 al 23 aprile 2017 e al Teatro Eliseo di Nuoro in due serate consecutive, dal 28 al 29 aprile 2017) dove la popolazione locale non poté che premiarla con applausi, rispettosa attenzione ed entusiasmo. Di questa fulgida esperienza, motivo d’arricchimento per il teatro del Belpaese, è un volume dal titolo Nozze di sangue (co-autori Marcello Fois e Federico García Lorca) edito da Transeuropa Edizioni di Massa nel 2011 con allegati contenuti media relativi alla messa in scena.
Non furono solo i dialetti dell’Italia meridionale e insulare a mostrarsi interessati all’opera letteraria di Federico García Lorca: due esempi sono utili per testimoniare quanto si sta dicendo, ovvero le traduzioni in friulano (il casarsese per la precisione) di Pier Paolo Pasolini e quelle in piemontese di Luigi Olivero.
La professoressa Maria Isabella Mininni dell’Università di Torino in un recente saggio dal titolo “Traduzioni di poeti spagnoli nel felibrismo friulano di Pier Paolo Pasolini (1945-1947)”[9] si è dedicata a una veloce disamina dei principali autori spagnoli tradotti da Pasolini in friulano, richiamando, appunto, anche Lorca (sebbene preferisse, a lui, di gran lunga Antonio Machado e Juan Ramón Jiménez[10]). Sono i testi che vennero pubblicati nell’opera poetica totale di Pasolini nel 2003 a cura di Walter Siti per la Mondadori. Nel saggio di Mininni si ripercorre, pertanto, la natura di traduttore in friulano[11] di Pasolini di alcuni dei maggiori lirici spagnoli del Secolo scorso: oltre a Lorca, Machado e Juan Ramón Jiménez, anche Salinas e Jorge Guillén. Questi autori – forse con l’aggiunta di altri – avrebbero costituito un possibile nuovo volume per Pasolini, che indicò in forma di bozza con l’indicazione di Traduzioni. Piccola antologia iberica. Il poeta di Casarsa, che era un grande amante del libro e che già da giovanissimo aveva contribuito a costruire un’ampia biblioteca personale, con viva probabilità possedeva – o per lo meno aveva letto – la prima traduzione in italiano di una selezione di testi poetici del Granadino curata dal critico e traduttore Carlo Bo (Poesie di García Lorca edito da Guanda di Parma nel 1940) o nella successiva opera da lui curata col titolo di LiriciSpagnoli (Corrente Edizione, Milano, 1941)[12]; quest’ultima, a differenza dell’altro volume citato, non era monografico sull’autore Granadino e contemplava vari altri poeti della penisola iberica e proponeva, oltre alle traduzioni in italiano, a fronte, anche i testi nella lingua originaria. Sono sei le poesie lorchiane tradotte da Pasolini: “Romance sonámbulo”, “El cazador”, “Canción de la muerte pequeña”, “La balada del agua del mar”, “Preciosa y el aire” e una parte del celebre Llanto por Ignacio Sánchez Mejías (la sezione “La cogida y la muerte”, la sezione “La sangre derramada” sino al verso 24 e la sezione “Alma ausente”).
Notevole anche il lavoro di traduzione del giornalista e poeta piemontese Luigi Armando Olivero (1909-1996) la cui consultazione è possibile, tramite la rete, grazie a un documentatissimo sito curato dal prof. Giovanni Delfino[13] dal quale si viene a conoscenza del fatto che Olivero, presente in territorio catalano nel 1931, incontrò e scambiò delle battute con lo stesso Lorca (uno dei pochi intellettuali italiani ad averlo conosciuto di persona, ad aver interagito con lui).
Oltre a dedicarsi a una serie di traduzione di liriche lorchiane in dialetto piemontese, Olivero scrisse – nel medesimo idioma – alcuni articoli su una rivista denominata «Èl Tòr» dei quali si riportano i riferimenti a continuazione: “Omage a Federico García Lorca Tradussion an Piemontèis dal Romancero gitano”, «Èl Tòr» n°14, 1946; “Polemica gentil con la «Rivista poliglotta» di Lisbona. In margine ad alcune traduzioni piemontesi di Federico García Lorca”, «Èl Tòr» n°17, 1946 (testo scritto quale risposta al prof. Moisé Guillén Pascolato relativamente ad alcune critiche rivolte verso le sue traduzioni di opere lorchiane). Delfino segnala, inoltre, l’esistenza di altri due articoli correlati usciti su altre riviste in età successiva: “Rivive nelle danze gitane la fortuna del Romancero”; “Tra il folklore di Spagna e le suggestioni surrealistiche Fortuna agitata di García Lorca”; “Amici e nemici per il poeta Andaluso”, «La Fiera Letteraria», n°4-5, 1951 (ovvero tre articoli con quattro disegni di Lorca contenenti due suoi ritratti a opera di Gregorio Prieto, due poesie dichiarate inedite a tradotte da Olivero in italiano: “Tre storielle del vento” e “Stampa del cielo”). Seguì poi l’articolo “Federico García Lorca Poeta – Musicista andaluz”, «Musicalbrandé», n°12, 1962 (contenente alcune notizie su Lorca e la traduzione in piemontese della poesia “Se ha quebrado el sol” tradotta con “Cita romansa dla passion stërmà” il cui originale in spagnolo venne pubblicato per la prima volta da Claude Couffon nel 1962 in appendice al suo volume A Grenade sur le pas de García Lorca) e un ulteriore articolo, questa volta scritto da Francesco Tentori, in risposta a quanto precedentemente pubblicato da Olivero su Lorca che uscì su «La Fiera Letteraria», n°8 e n°10, 1951.
Questo breve studio – come si era doverosamente asserito agli inizi – non ha nessuna pretesa di esaustività sull’argomento dal momento che esistono anche in numerosi altri dialetti versioni di opere di Lorca, spesso non pubblicate con editori professionali ma con tipografie o in proprio o, nel caso di opere teatrali, vive solo per mezzo dei ricordi della rappresentazione non esistendo copie cartacee delle rispettive bozze di recitazioni. Si capisce, pertanto, anche per le ragioni addotte, come questi testi e versioni spesso risultino non di semplice recupero, localizzazione e dunque di successiva menzione o riproposizione. Quel che è certo è che Lorca fu (ed è) tradotto non solo nelle lingue nazionali ma anche nei dialetti locali, nelle parlate, in codici linguistici che non direttamente si identificano con un concetto di nazione. Questo è di ulteriore dimostrazione e della grandezza della sua opera e dell’universalità dei contenuti e dei messaggi tramandati.
LORENZO SPURIO
Jesi, 20/06/2021
[1] Un’altra poesia lorchiana tradotta da Noris (“El niño mudo”) in dialetto bergamasco (“Ol s-cetì möt”) è disponibile e ascoltabile nella versione registrata all’interno della notizia: Maurizio Noris, “El niño mudo, Ol s-cetì möt. I versi di García Lorca in dialetto bergamasco”, «Sant’Alessandro», [settimanale online della Diocesi di Bergamo], 2 maggio 2019, link: http://www.santalessandro.org/2019/05/02/so-los-dell-02-05-2019-el-nino-mudo/ (Sito consultato il 10/05/2021).
[2] In maniera più precisa si tratta del dialetto di Ruvo di Puglia (BA). La traduzione di questo testo nel volume viene posta “a confronto” con quella – dei medesimi versi – eseguita da Fernando Grignola nel suo dialetto ticinese di Agno (Svizzera) che così recita: «Quand ch’a sarò mòrt, / soteremm / cun ra mè ghitàra / sóta ra sàbia».
[4] Ringrazio l’amico, il poeta e scrittore Marco Scalabrino di Trapani, grande studioso del dialetto siciliano, per avermi reso edotto di questa preziosa notizia e per avermi proporzionato le scansioni dell’immagine di copertina e della prefazione al volume.
[5] Salvatore Camilleri, Prefazione a Federico García Lorca, 70 Poesie Tringali, Catania, 1983, pp. 5-8.
[6] Sia la traduzione di Loria che il suo commento successivo sono alla data odierna inediti e l’Autore ne ha concesso l’autorizzazione alla pubblicazione.
[9] Maria Isabella Mininni, “Traduzioni di poeti spagnoli nel felibrismo friulano di Pier Paolo Pasolini (1945-1947)”, «Intralinea Online On line Translation Journal», 2013, link: http://www.intralinea.org/specials/article/2003 (sito consultato il 18/05/2021).
[10] «García Lorca, en cambio, me impresionó mucho menos, por ejemplo, pero Juan Ramon Jiménez y Antonio Machado han tenido una gran influencia sobre mí. En aquella época yo escribía en friulano», in “Es atroz estar solo”, Entrevista con Pier Paolo Pasolini por Luis Pancorbo, «Revista de Occidente», 1976, n°4, pp. 42-43.
[11] «Il friulano in cui Pasolini scriveva era un ibrido, né la versione già codificata della tradizione letteraria del capoluogo regionale, né il canone stabilito dal dizionario Italiano-Friulano di Pirona. Pier Paolo si basava su quello che sentiva, trascrivendo una mescolanza di friulano, di veneto e delle idiosincrasie personali in cui si imbatteva», in Barth David Schwartz, Pasolini. Requiem, Venezia, Marsilio, 1995, p. 215.
[12] Qui erano stati antologizzati i poeti: Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Fernando Villalón, Rafael Villanova, Pedro Salinas, Jorge Guillén, Gerardo Diego, Federico García Lorca, Rafael Alberti, Luis Cernuda, Josefina de la Torre.
La riproduzione del presente saggio, in forma integrale e/o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.
Loretta, benvenuta e grazie per aver permesso questa intervista. Ha recentemente dato alle stampe un volume dal titolo “Romanzo indigenista” (auto-pubblicato sulla piattaforma Amazon), potrebbe parlarcene un po’?
Iniziai a scrivere questo romanzo nell’agosto del 2013 e l’ho ultimato nel novembre del 2019. La privilegiata convivenza di oltre quattro anni con gli yanomami nella loro lussureggiante patria-foresta, mi ha segnata profondamente; nella loro cultura il nome attribuito a una persona può variare nel corso della sua esistenza, quindi ho affidato il racconto della mia vita a quattro voci, che cambiano se rimandano a infanzia, adolescenza, maturità o vecchiaia. La scelta è stata influenzata anche dall’opera di Pirandello, che mi affascina fin da quando ero un’adolescente. Il contenuto del romanzo ricostruisce il mio andare e venire dal “primo” al “terzo mondo”, dal Brasile al mondo yanomami considerato “primitivo”, dall’Europa all’America Latina, dalla narrativa alla saggistica, dalla poesia alla fotografia, dalla lotta per la conquista e il riconoscimento dei diritti indigeni alla lotta per l’affermazione e il rispetto della mia individualità. Nella cultura yanomami il tempo è scandito dal susseguirsi delle stagioni, per cui possiamo definirlo “circolare”: la concezione indigena mi ha permesso di oltrepassare quella occidentale, che raffigura il tempo come se fosse una linea retta su cui le date appaiono in ordine cronologico. I paragrafi del libro rimandano ad ambiti geografici e temporali diversi; il criterio di inserimento in una sezione piuttosto che in altra, non segue l’ordine cronologico, né quello della stesura dei capitoli, ma è determinato dalla maggiore intensità con cui ho vissuto uno degli eventi durante un determinato ciclo della mia vita. Mi piace affermare che ho atomizzato e ricreato il tempo, così il passato è presente e il presente è già futuro.
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Per il fatto che ha vissuto a contatto vari anni con la comunità indigena Yanomami in Brasile e per aver dedicato molti studi e volumi a quella realtà è considerata una delle maggiori studiose e divulgatrici nel nostro Paese. Può raccontarci come è nato il suo amore verso il mondo indigeno brasiliano e come si è avvicinata ad esso?
La ringrazio per considerarmi una delle maggiori studiose e divulgatrici, in Italia, della vita e cultura yanomami, ma a pensarla come lei è un ristretto numero di persone. Poiché lotto contro preconcetti e stereotipi, sono poche le porte che mi vengono aperte per realizzare una sensibilizzazione più ampia circa la problematica yanomami. Case editrici e mezzi di comunicazione preferiscono divulgare notizie sensazionalistiche, farcite di stereotipi, esotismo, superficialità.
Quando ero ancora una bambina, due desideri si installarono nella mia mente: diventare scrittrice e operare nel “terzo mondo”. Quando arrivò l’età giusta per fare drastiche scelte di vita, decisi che prima avrei svolto volontariato internazionale; l’esperienza, poi, mi avrebbe fornito temi interessanti da salvaguardare attraverso la scrittura, ed è ciò che ho fatto. Nelle Marche, dove ancora non vivevo, conobbi due persone che lavoravano con gli yanomami. La loro testimonianza e le stupende foto che uno dei due proiettò, mi fecero innamorare di questo popolo; la sua situazione esistenziale, all’epoca già difficile, mi fece decidere di operare in mezzo a loro, con loro.
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Loretta Emiri impegnata in un’attività di alfabetizzazione nel Demini, negli anni Ottanta.
Il termine “Yanomami” che contraddistingue tanto la comunità e la loro lingua, che cosa significa?
Il termine “Yanomami” è generico e fu adottato in Brasile da coloro che per primi lavorarono con questo popolo, cioè antropologi, funzionari governativi, missionari. Nel dizionario da me scritto si legge: YÃNOMAMÈ = (1) homem, pessoa, gente. (2) Yanomami de língua yãnomamè. (3) Língua yãnomamè. Per quanto riguarda la lingua, va precisato che della famiglia linguistica yanomami fanno parte ben sei lingue differenti, ognuna delle quali con molti dialetti.
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Quale peculiarità si sente d’individuare nella comunità Yanomami rispetto alle altre del contesto dell’Amazzonia brasiliana che ha conosciuto e/o studiato nel corso del tempo?
Con gli yanomami ho vissuto a lungo; con le altre etnie presenti nello Stato di Roraima ho avuto contatti sporadici, per cui non sono in grado di determinare le peculiarità di queste ultime. Posso solo dire che la differenza maggiore è lo spazio che occupano: gli yanomami vivono in foresta, la maggioranza degli altri gruppi vive nella savana. È l’occupazione territoriale e l’utilizzo delle sue risorse che determina il formarsi delle peculiarità delle società indigene.
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Esiste un senso di spiritualità nella comunità Yanomami? In quali manifestazioni concrete si esplica?
Il senso di spiritualità tra gli yanomami è talmente forte che hanno preservata intatta la foresta amazzonica fino ai nostri giorni. Gli yanomami sono animisti, per cui credono che ogni essere vivente, compresi vegetali, animali, cose, possiede uno spirito ed esso, a seconda della situazione, può essere benefico o malefico. Questo concetto determina che la vita del popolo yanomami sia impregnata di spiritualità, anche nelle più banali e normali attività quotidiane.
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Come definirebbe il concetto di “anima”?
Moltissimi anni fa mi invitavano a partecipare ad una riunione di preparazione del “Corso di Abilitazione al Magistero per Maestri Kaingang”. Durante l’incontro, non ricordo in che contesto, impiegai la parola “anima”. Uno dei presenti mi fece notare di averla usata in modo improprio. Dal momento che la loro religione vanta molti spiriti, sostenne che un termine intimamente legato al concetto di un solo dio non poteva essere applicato ai Kaingang. Obiezione e argomentazione vennero formulate in modo così schietto e diretto che sentii di essere stata raggiunta da una rivelazione. Da qual momento, riferendomi agli indigeni (ma anche a me stessa) non ho più utilizzato la parola “anima”, preferendo l’uso della parola “spirito”.
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L’anima è qualcosa di strettamente legato all’umano o si ritrova anche negli altri esseri viventi? Esiste un’anima dei luoghi?
Considerando quanto detto sopra, l’anima è qualcosa di strettamente legato all’uomo di religione cristiana, che si rapporta individualmente con una sola divinità. Gli indigeni rispettano e interagiscono con i molti spiriti che popolano la foresta, con ciò riuscendo a mantenerla intatta e sana, perché la foresta tutta è il loro luogo ancestrale, sacro per eccellenza.
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Loretta Emiri partecipa alla conferenza di apertura del Seminario UFRR, insieme a Dawi Kopenawa Yanomami, nell’ottobre del 2023
La spiritualità dell’essere ha a che vedere imprescindibilmente con il suo attaccamento alla dimensione prettamente religiosa o può concernere anche altre dimensioni avulse alla religione?
Come abbiamo visto, nel caso degli yanomami non c’è separazione tra dimensione religiosa e dimensione fisica, materiale. Questo concetto per me è fonte di ispirazione e meditazione costante. Nel mondo occidentale, succede spesso che le belle parole sostituiscono le buone azioni, così che “tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare”. E tra il dire e il non fare c’è sempre di mezzo tanta ipocrisia, superficialità, indifferenza verso gli altri. Spesso mi capita di chiedermi se io stessa sono coerente con ciò che scrivo e ciò che nella pratica faccio; quando questo tipo di dubbio mi assale, apro l’archivio e dissotterro testi, che sempre mi tranquillizzano a rispetto.
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Lei ha curato un dizionario yanomami-portoghese. Esistono delle parole nella lingua yanomami che risultano di difficile traduzione in italiano? Quali? Può farci degli esempi?
Realizzai la mia ricerca nella lingua yãnomamè, che è una delle sei che fanno parte della famiglia linguistica yanomami. Sia in portoghese che in italiano le parole che risultano di difficile traduzione sono quelle che derivano dalla cosmogonia yanomami. Nel dizionario, per tradurre il termine rixi ho utilizzato la locuzione “alter ego”, seguita dalla spiegazione “essere simbolico che vive una vita parallela a quella dell’uomo”. Una parola corta come rixi è la rappresentazione di una serie di concezioni, fra cui: ogni individuo possiede un alter ego; vivendo vite parallele, le due entità mai s’incontreranno; la morte dell’alter ego provoca quella dell’uomo a cui è abbinato. Alla traduzione bisogna aggiungere spiegazioni e note affinché il lettore si avvicini il più possibile alla comprensione del sofisticato concetto che può celarsi dietro a una singola, semplice parola.
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Quali sono attualmente le condizioni della comunità Yanomami? Subisce interferenze e minacce dalla società consumistica o riesce a preservare la sua anima primordiale?
Il contatto degli yanomami con i fronti di espansione della società capitalista ha i connotati di un bollettino di guerra. Nel 1974, la strada Perimetrale Nord, voluta dai militari all’epoca al potere, tagliò a sud il territorio yanomami; il contatto con i lavoratori della strada ridusse tredici villaggi a otto piccoli gruppi di superstiti, a causa di epidemie introdotte e verso le quali gli yanomami non avevano anticorpi. Nel 1977, la seconda epidemia di morbillo dall’arrivo della strada uccise la metà della popolazione di tre villaggi. Nell’agosto del 1987 oligarchie e politici locali fomentarono l’invasione del territorio yanomami, dentro il quale confluirono circa quaranta mila uomini; non si sa quanti yanomami sopravvissero alle armi da fuoco e all’avvelenamento da mercurio utilizzato per l’estrazione dei minerali. Anche se l’area yanomami è stata omologata nel 1992, le invasioni non sono mai cessate. La situazione è drasticamente peggiorata durante la presidenza di Bolsonaro, che l’invasione l’ha criminosamente fomentata. Durante il suo mandato, in territorio yanomami sono entrate macchine potenti e uomini fortemente armati legati a fazioni criminose, che hanno prodotto il disastro finale. Nel gennaio del 2023 il governo Lula ha dichiarato Emergenza in Salute Pubblica di Importanza Nazionale, in decorrenza della mancata assistenza agli yanomami. Oggigiorno il popolo yanomami è in pieno collasso territoriale, sanitario, culturale.
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Loretta Emiri prende parte in diretta alla trasmissione “Geo” di Rai Tre che ha dedicato spazio ad alcuni aggiornamenti sulla problematica yanomami. Ottobre 2023.
L’attività “storica” dei missionari cattolici del Vecchio Continente ha riguardato anche la comunità Yanomami? Quale è stata la ricezione e quali sono stati gli esiti di questa attività di evangelizzazione?
Io decisi di operare tra gli yanomami del Catrimâni perché all’epoca i missionari che con loro già lavoravano non erano preoccupati con l’evangelizzazione, ma con la sopravvivenza fisica e culturale di questo popolo. Resta il fatto che le varie chiese che tra gli yanomami hanno operato, e ancora operano, hanno contribuito a dividere questo popolo, perché ognuna di esse affronta a modo suo la situazione senza interagire, dialogare, collaborare con le altre in funzione del benessere e dell’unità del popolo yanomami.
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Ha assistito a feste o rituali che contraddistinguono la vita sociale della comunità Yanomami? Se sì, può raccontarcene qualcuna (le principali o quelle che l’hanno suggestionata maggiormente)?
In uno dei miei racconti, descrivo il rituale funebre, a cui ho assistito, di un giovane amico yanomami. La lettura del testo risponderebbe egregiamente alla domanda, per cui vi segnalo il link:
A quale divinità (o molteplicità di divinità) gli indios Yanomami sono votati?
Oltre al fatto che si rapportano con sacralità allo spirito insito in ogni cosa, gli yanomami tramandano la memoria dell’eroe mitologico Omá. Quando gli sciamani devono entrare in contatto con l’aldilà, cercano la collaborazione degli Hekurapè, spiriti minuscoli come la propria immagine riflessa negli occhi.
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Esistono testi in forma scritta della comunità Yanomami che hanno affrontato il tema della religiosità, della spiritualità e del rapporto con l’aldilà?
Un libro scritto dall’antropologo francese Bruce Albert e dal leader Davi Kopenawa Yanomami è stato tradotto in italiano con il titolo La caduta del cielo. È una vera e propria enciclopedia yanomami, allo stesso tempo è una biografia e un’autobiografia; c’è dentro di tutto: società, cultura, lingua, cosmogonia, religiosità, scontro con l’invasore uomo bianco. Ne suggerisco la lettura a quanti vogliano avvicinarsi alle concezioni filosofiche della società yanomami.
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Nel 2018 ha pubblicato un libro dal titolo “Discriminati”. Può dirci di cosa si tratta e da che cosa è stata mossa per scrivere quest’opera? Chi sono i discriminati di oggi?
Discriminati è un libro che non avrei dovuto pubblicare. Il progetto iniziale includeva racconti vari e il titolo era Racconti discriminati; discriminati perché rifiutati da un’altra casa editrice. Nello sciocco desiderio di vedere un nuovo libro pubblicato, permisi che alcuni racconti fossero esclusi e un altro, che niente aveva a che vedere con la struttura del libro, vi fosse inserito. Dovetti inghiottire anche il titolo differente. Naturalmente i discriminati di oggi sono anche gli yanomami, le minoranze in generale.
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Grazie per aver risposto con attenzione e disponibilità alle domande di questa “chiacchierata” che ci hanno fatto conoscere da più vicino la comunità Yanomami.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Alcuni mesi fa il poeta e scrittore lombardo Maurizio Noris mi ha gioiosamente coinvolto nel lavoro della pubblicazione del suo libro contenente una scelta di opere poetiche di Federico García Lorca tradotte da Noris nel suo dialetto bergamasco della media Valle Seriana, per la stesura di un commento critico sull’opera (intitolato “Comincia il pianto della chitarra!”).
Il libro, dal titolo Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico Garcia Lorca – edito da Tera Mata Edizioni (Bergamo) – si apre con il testo della mia presentazione (che viene proposto, a continuazione, sulle pagine di questo sito) e contiene opere di Sara Oberhauser. Traduzione e voce a cura di Maurizio Noris.
Le letture sono state trasposte in registrazioni audio-video in cui è Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti. Il libro si chiude con una postfazione di Vincenzo Guercio.
BIOGRAFIA DELL’AUTORE
Maurizio Noris (Comenduno di Albino, BG, 1957). Scrive poesie in lingua prima del dialetto bergamasco della media Valle Seriana. Ha pubblicato Santì (2001, libro artigiano di poesie con l’artista grafico Ivano Castelli e presentazione di Ivo Lizzola), Dialèt De Nòcc D’amùr (2008, vincitore del prestigioso Premio “Città di Ischitella”), Us de ruch (2009, plaquette con introduzione di Alberto Belotti), Us de ruch (2010, con introduzione di Franco), Àngei? e Zögadùr (2012, con la presentazione di Piero Marelli e Silvio Bordoni), In del nòm del pàder (2014, con postfazione di Giulio Fèro), Resistènse (2016, introduzione di Franca Grisoni), A cüre socane (2022, installazione organico-poetica con un catalogo di 20 poesie inedite presentato da Gabrio Vitali), Santìd’Andalöséa. Omaggio a Federico García Lorca (2023, presentazione di Lorenzo Spurio, con opere di Sara Oberhauser, traduzione e voce a cura di Maurizio Noris, registrazioni audio-video di Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti, postfazione di Vincenzo Guercio). Ha curato Guardando per terra, voci della poesia contemporanea in dialetto (2011, co-curatore Piero Marelli). È presente con suoi testi in L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto (2014), in Dialetto lingua della poesia (2016) a cura di Ombretta Ciurnelli e in diverse antologie e riviste. Per tutto il 2019 ha curato la rubrica settimanale SÖ L’ÖS del -santalessandro.org- settimanale della Diocesi di Bergamo, con la presentazione anche sonora e commento delle sue poesie.
PRESENTAZIONE AL LIBRO
“Comincia il pianto della chitarra!”
Di LORENZO SPURIO
Molti dei letterati della nostra età, oltre a perseguire con necessità primaria la propria vocazione di autori che li vede poeti o scrittori che sia, non hanno mancato d’interfacciarsi con il non complicato mondo della traduzione. Il fenomeno di comprensione di una lingua d’altri, d’interpretazione e di lettura profonda (e d’immedesimazione, spesso) per poter generare la medesima opera con un vestito leggermente diverso (mai diremmo se migliore o peggiore del suo originale) coinvolge in maniera correlata e intensa una serie di meccanismi mnemonici-sensoriali, evocativi e reminiscenziali ma anche psicologici, più profondamente intimi e innati nel singolo.
La grandezza di un autore non è data né dal numero di copie dei suoi libri che vende nel corso del tempo né dal numero di lingue (diremmo meglio gli idiomi, a voler intendere anche parlate più ridotte o che non hanno, a differenza di quanto avviene con la lingua, un più diretto richiamo o correlazione a un determinato stato nazionale) in cui la sua opera viene versata. Sta, al contrario, nella capacità delle genti, di età, luoghi e da identikit sociali differenti, a riuscire a farsi ascoltare. A trasmettere una percezione unica e indescrivibile. Un gigante della letteratura internazionale come Federico García Lorca nel corso delle decadi che si sono succedute dalla sua prematura morte ha avuto (e contribuito ad alimentare) un lascito umano di lettori, critici, studiosi e affezionati, di anime in sintonia col suo dire, di persone più o meno altolocate, cattedratici e popolani, ingente, in logaritmica e irrefrenabile ascesa.
I componimenti che Maurizio Noris ha scelto dell’ampia produzione lirica del celebre “poeta con il fuoco nelle mani”, rimontano a quell’esigenza di calarsi in una natura primigenia e inalterata dall’introduzione del dato antropico. In appena una ventina di testi scorre davanti agli occhi del lettore una sorta di sintesi perfetta dei temi, delle immagini care, dei colori, dei rimandi e degli echi che hanno contraddistinto la poesia del Granadino rendendolo universalmente celebre e ineguagliabile. Una leggenda, per alcuni, un martire per altri. Sicuramente una presenza inesauribile e imprescindibile per tutti.
Le vicende che nel tempo hanno visto il prediligere di alcune traduzioni di Lorca nel nostro italiano piuttosto che altre (ricordiamo qui, per mero inciso, che non solo i tanto “celebrati” Bo, Bodini, Rendina e Macrì tradussero Lorca in italiano come spesso, facilisticamente, vien dato da intendere) sono tortuose e rimangono per lo più difficili da tracciare (ammesso che in esse si possa riscontrare un vero interesse di fondo) dettate spesso anche da logiche di mera diffusione editoriale o, al contrario, di veti espressi (o malcelati) all’interno di congreghe accademiche. Sta di fatto che, nel nostro Paese, Lorca ha visto non solo tante traduzioni (più o meno ricordate, più o meno affidabili) nella nostra lingua, ma anche in alcuni dialetti. Penso al torinese nel quale lo versò Luigi Armando Olivero, al friulano di Pier Paolo Pasolini, al siciliano di Salvatore Camilleri, al romagnolo di Tolmino Baldassari, solo per citare alcuni nomi ma la lista potrebbe essere infinita e sempre – purtroppo – clamorosamente incompleta a causa della difficoltà di una ricerca che, pur mirata, spesso non riesce a fornire apprezzabili risultati (ricordiamo che molti tentativi di traduzione non vennero alla luce, altri solo in ciclostile, la gran parte di essi non pubblicati con un editore, né registrati in biblioteche nazionali).
L’operazione di Noris – poeta sopraffino e amante del suo dialetto nativo, il bergamasco della Val Seriana – s’inserisce, dunque, in una tradizione (non sempre scritta) che sappiamo essere fluentissima (per nulla studiata, purtroppo) che nasce da quella volontà intima di far parlare l’opera di un Grande come l’autore di Nozze di sangue con l’autenticità della propria lingua personale, del proprio dettato ancestrale e familiare.
Riconducendo il discorso alla scelta delle liriche effettuata da Noris, ritroviamo nel volume poesie selezionate dalle Canciones, opera della fase giovanile, dall’arcinoto Poema del cante jondo, sino ad arrivare all’ampio campionario dei Poemas Sueltos e alle raffinatissime composizioni delle casidas che, insieme alle gacelas, fanno parte del Diván del Tamarit, opera la cui prima pubblicazione avvenne nel 1940 ovvero quattro anni dopo l’assassinio dell’Autore come pure Poeta en Nueva York, l’opera surrealista del Nostro che Noris ha deciso di non compendiare (crediamo per la forte lontananza alla poesia della Spagna arcadica e neo-popolare del primo Lorca). La scelta di testi ci fa immergere completamente nella Spagna autentica e rurale di Lorca, quella della campagna arsa dal sole e sollevata spesso da qualche vento inaspettato, quella delle case di calce bianca dei pueblos, gli antichi (e conservatissimi) agglomerati cittadini che si snodano in vicoli e vicoletti, piazzette e stradine ancor più piccole.
La tradizione andalusa è percorsa in lungo e in largo da Noris per mezzo di liriche che ben risaltano le peculiarità del tessuto abitativo e sociale di quella regione con particolare attenzione a quel mondo ritmico-sonoro così importante (il flamenco, il lamento della pena negra, le danze dei tablaos, il clarinonelle corride, etc.) richiamato anche nelle saetas della Semana Santa con la processione del Cristo, il zorongo, che assieme al jaleo è uno dei più celebri canti e balli della tradizione andalusa riconducibili alla grande famiglia della flamenqueria, finanche la nenia giocosa e fiabesca delle ninnenanne (famosa la sua conferenza sulle ninnenanne, Las nanas infantiles, tradotta anche dal veronese Arnaldo Ederle).
L’universo simbolico-oggettuale di Lorca (non solo poeta ma anche drammaturgo) diluito nei versi qui raccolti ben si condensa nel corso della lettura: il predominio della luna a volte imperscrutata altre volte che ammicca in senso fatalistico (sempre, comunque, collegata a un’idea di morte o di un nefasto presentimento) si lega alle immagini dello specchio (ricerca d’espressione e al contempo caducità dell’immagine) e a quelle degli arnesi del mondo contadino (il pugnale, la falce) che se hanno un uso pratico nel proprio lavoro a volte vengono impiegati, in un clima d’odio e vendetta, anche come minaccia o per dar la morte (ricordiamo la struggente e drammatica “Reyerta” tradotta da Rendina e Clementelli con “Zuffa”). Ci sono bambini, si odono lamenti, invocazioni alla luna, cavalli e farfalle, l’osservazione attenta e panica dello scorrere delle acque, lo sfolgorio dei colori e la densità dell’argento. Su ogni poesia, data la ricchezza contenutistica e gli squarci di alta intensità lirica (nei testi selezionati l’Autore ha preferito non inserire poesie che, più direttamente, potessero essere analizzate in relazione alla loro tensione etico-civile, pure presente in buona produzione del Nostro), l’inspiegabile suggestione trasmessa, la capacità pareidolitica e la potenza empatica sul lettore, si potrebbero dire molte cose, riflettere, ampliare, senza riuscire mai a compendiare in forma totale quella massa sconfinata d’energia e magma interiore.
Maurizio Noris in quest’opera avvolgente, frutto di un lavoro condiviso con altri autori e artisti (in quel sodalizio ampio che tanto amava Federico e lo portava a collaborare con molte persone, si ricordi la gloriosa esperienza corale de “La Barraca”), fonde due circostanze importanti della sua realtà presente – non tangenziali né improvvise – ovvero l’amore per l’universo lorchiano, che ne fa di lui interprete, seguitore e convinto confidente, e quello per il dialetto personale, radicato nella provincia lombarda. Distanze, quelle tra la Val Seriana e l’Andalusia, che ci appaiono di colpo annullate o mai esistite. Nel flusso inalterabile di un fuoco creativo ed energico che arde imperituro e s’espande, inondando mente e cuore al di là di categorie umane.
LORENZO SPURIO
Jesi, 13/01/2023
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É con grande gioia che attraverso questa ultima raccolta di Claudia Piccinno, innanzitutto guardando alla bellissima intesa dell’autrice con l’amica poeta e sua straordinaria traduttrice Elisabetta Bagli, intesa che continua il dialogo intessuto dalle due amiche nella precedente intensa raccolta a quattro mani, dal titolo Versos Cruzados (Editorial Dunken, 2021).
Questa corrente empatica che porta a realizzare un dialogo poetico oppure, come in questo libro, a offrire le proprie poesie in traduzione, mi conferma l’efficacia comunicativa di una modalità di incontro tra poeti che riflette un profondo scambio emozionale, ma che si spinge al di là della solita dilatazione della parola oltre un confine linguistico. Leggiamo infatti questo scambio come qualcosa che, attestando l’incontro tra due sensibilità, si oppone alla possibile deriva egoica e spesso autoreferenziale di una scrittura individuale tout court.
Ma cerchiamo di entrare nelle stanze di questa raccolta che nel titolo dichiara l’apertura all’azzurro, elemento cromatico collegato da sempre, oltre che alla spiritualità, alla profondità e alla vastità. Chi legge avverte infatti subito l’aprirsi di un largo cielo visionario che attraversa realtà e memoria, natura e mito, ma che diventa anche un mare, il mare della vita personale e collettiva, le cui onde sono gli infiniti e pure inaspettati eventi da affrontare, le ferite ricevute, l’incessante ripetersi di naufragi collettivi per gli errori umani, ma anche il resistere ostinato della speranza.
In questo vasto azzurro i testi si stagliano nella loro concisione e limpidezza, come a indicare l’urgente necessità di una sincera comunicazione volta ad un rigenerarsi collettivo, nonostante le rare gioie e le più frequenti amarezze oscurino l’intensità dell’azzurro con l’ombra del disincanto.
Così accade che la percezione degli eventi nel mondo e la riflessione sull’esistenza si mescolino di continuo dando vita a scene ed epifanie in un mosaico visivo e simbolico costantemente caratterizzato da un’incisiva impronta etica.
E percorrendo dall’inizio i testi notiamo subito come la prima urgenza comunicativa sia stata quella di salvare la sacralità degli affetti fondamentali, sottraendo per sempre dalla evanescenza la memoria dei genitori scomparsi (Ad ogni finestra d’azzurro; A mio padre).
Sono queste prime finestre ad aprirsi e lo fanno in modo invertito, non aprendosi all’esterno, ma nel proprio cielo interiore, a indicare il senso profondo di un sentimento assoluto, incrollabile, dispiegato attraverso percezioni uditive (la voce materna che chiama dal cortile dei giochi), olfattive (il profumo delle arance raccolte dal padre), simboliche (la piuma, il vento, le corone d’alloro). Qui subito si evidenzia la cifra poetica di Claudia Piccinno nella forma e nel ritmo, con l’andamento libero e armonioso di un racconto-fabula in versi, a volte scosso dal battere delle anafore, spesso chiuso da un finale epifanico.
Un’altra finestra di grande delicatezza psicologica, che si apre nell’azzurro della memoria è quella che dice di un’altra mancanza, così crudele perchè avvenuta durante l’infanzia (Compagno di scuola), quando si è disarmati, tanto da sentirsi “in castigo” , per chissà quali piccole colpe ingigantite dalla perdita (quanti tra i lettori si riconosceranno in questa dimensione!).
L’esercizio incessante dello sguardo porta poi inevitabilmente l’autrice a notare le colpevoli incongruenze della contemporaneità, il mancato progresso sociale ed etico, se ancora non solo non si è raggiunta la vera parità di genere (giacché la donna è ancora oggi paragonabile alla sapiente Aspasia di Mileto, non riconosciuta nel suo valore perfino dallo stesso Pericle che l’aveva amata), ma anche perché ancora l’umanità persevera nell’errore, non annullandosi l’assurdità di guerre e violenze. Sono, queste, le domande centrali dell’oggi, cui ogni poeta non può sottrarsi. Sono domande che sottendono il senso universale profondo dell’esistere, mentre si continua a percepire il correre della vita come un insulso girare a vuoto, anzi come solo “ rumore “, privo com’è della luce dell’incontro vero (Nel codice alfanumerico).
E l’autrice reagisce ad ogni deriva dichiarando di non poter che “predisporsi al silenzio”, come in una rassegnazione muta, che trova sollievo solo nella contemplazione e nell’ascolto della natura. Sì, perchè in natura perfino le pietre, con le loro soluzioni di saggezza geologica millenaria, ci parlano di un equilibrio tra materia vivente e non vivente ancora possibile (La rupe; Le pietre di Sardegna). Se sappiamo ascoltarlo, vi è un intero continente fuori di noi che ci parla: voci di rocce acque piante a indicarci, semplicemente coabitando in vantaggio reciproco, una dimensione armonica di salvezza.
Per Claudia Piccinno vi è anche un’altra soluzione di resistenza, che sale dal profondo della sua interiorità: è il fermo proposito di conservare intatta la propria schiettezza, non tener conto del disconoscimento altrui del proprio valore, di ogni ingratitudine, anche se è doloroso veder montare la disillusione e cadere l’entusiasmo.
Ci rendiamo allora conto che queste riflessioni di Claudia Piccinno sono anche le nostre, anzi riconosciamo, come sempre accade in poesia, il senso universale che investe questa parola poetica nel nostro tempo di deriva, tempo del disincontro, che scorre tra virtuale e tecnologia, tra indifferenza e superficialità. Claudia Piccinno, come altri poeti contemporanei (posso citare Jorie Graham, Cristina Bove, Laura Liberale, Giuseppe Yussuf Conte), sta lanciando un alert in poesia, che è la nostra fiera ribellione contro la disumanità che avanza con il suo corredo di potere, alienazione, mancanza di solidarietà. E dunque accogliamo la sua indicazione nel voler restare “vetro”, che sopravvive in virtù della propria limpidezza (Plastica nelle vetrine); soluzione di semplicità cristallina, non affidata a formule, ma al proprio istinto che, decidendo di sottrarsi ad ogni pesantezza da pensieri dolorosi o da urti ricevuti, cerca solo la levità, l’onestà, la benevolenza, l’incontro e il continuo stupore (L’arte del sottrarre).
Questa scrittura di donna non poteva poi escludere l’esperienza di madre tormentata, come lo sono tante madri, che però lascia sempre aperta la porta alla fiducia nel futuro, purchè sia costruita con il legno del coraggio e mai della resa (Lente le ore), con la consapevolezza che ogni esperienza, anche la più dolorosa, è riserva di forza e sempre di sovrabbondante voglia di donare (Il dolore che mi porto dentro).
La scrittura ritorna poi a trasmettere le voci autentiche dell’umanità abbattuta e violentata nel passato, il grido di sangue versato nei conflitti che giunge da luoghi e immagini significative (Cracovia, il Piave, l’olivo di Fossoli giunto da Israele), per ricordare ancora una volta l’insensatezza della morte per-uomo (Zio Tore; Ciao Gazzella).
Non sono poi da tralasciare le poesie raccolte a fine libro nella sezione Frammenti di vita, dove l’autrice mostra la sua ricchezza visionaria unita alla sapienza nel mescolare immagini, colori e sensazioni e alla sua straordinaria padronanza del ritmo (Ragnatele cremisi e segg.).
Poesia profondamente civile e dunque profondamente contemporanea, pure poesia coraggiosa, che prende le distanze da ogni eventuale giudizio smaccatamente letterario-estetico, preferendo dichiarare la propria fede aperta alla parola della speranza: quella di un’inversione di rotta dell’umanità verso l’etica dei comportamenti, la sola dimensione che fa umano l’essere umano (E tu nascesti, nasci e nascerai).
Per queste ragioni sento questi versi costeggiare la Parola assoluta, divenire segno umano degno di memoria.
E per queste ragioni invito caldamente i lettori in due lingue a leggere queste pagine.
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Dopo mesi di lavoro è uscita l’opera antologica della poetessa argentina Anahí Lazzaroni (1957-2019) definita dalla stampa di quel paese come “la precursora dell’estremo sud Argentino”. L’opera, pubblicata con la casa editrice Editorial Cultural Tierra de Fuego, porta il titolo evocativo “La palabra nieve es una buena contraseña (1988-2017)” che potremmo liberamente tradurre in italiano come “La parola neve è una buona credenziale” o “La parola neve è una password efficace”. Grazie al meticoloso lavoro di Florencia Lobo, Responsabile della Editorial Cultural Tierra de Fuego e alla collaborazione e all’apporto della sorella della poetessa, Alicia Lazzaroni, finalmente è possibile sfogliare in un tomo unico l’intera produzione poetica della poetessa Anahí Lazzaroni morta qualche anno fa a Ushuaia, capitale della Provincia di Terra del Fuoco, Antartide e Isole dell’Atlantico del Sud, all’estrema propaggine del continente americano.
Quasi parallelamente all’uscita complessiva del percorso letterario della Lazzaroni è appena uscita nel nostro Paese la prima versione in volume in lingua italiana di una porzione dell’opera della Lazzaroni. Il poeta e critico letterario Lorenzo Spurio, infatti, ha lavorato nell’ultimo anno all’opera di traduzione di una selezionata parte della sua produzione ovvero alle sillogi “El viento sopla” del 2011 e “Alguien lo dijo” del 2017, ovvero le due opere più recenti della poetessa fueguina (della Terra del Fuego). L’opera, dal titolo “Il vento soffia / Qualcuno lo disse” è uscita per i tipi di Bertoni Editore di Corciano (PG), con l’autorizzazione della sorella Alicia e del Patrocinio morale della Tierra del Fuego, Antártida y Islas del Atlántico Sur.
Il ricco articolo-recensione di Pablo Nardi sull’opera omnia della Lazzaroni pubblicato lo scorso 9 giugno sulla testata «Infobae» ci parla con grande perizia della poetica dell’apprezzata poetessa di Ushuaia, la città dalla pioggia continua come era solita ricordare la stessa autrice, ma anche della neve osservata al di là della finestra, come richiama il titolo stesso del volume. La Ushuaia narrata dalla Lazzaroni era quella di allora, di una città per lo più tranquilla e assopita, silenziosa nel suo manto di bianco, ancora non divenuta oggetto di un turismo massivo e rumoroso degli occidentali del Vecchio Continente per conoscere “la fine del mondo”. Affascinata dal grande romanzo contemporaneo dei geni indiscutibili della narrativa tra cui i russi Tolstoj, Destovieskij e Gogol, la Lazzaroni era una grandissima lettrice e amante della letteratura di varie culture: quella italiana di Calvino, grande sperimentatore e narratore spesso vicino all’onirico e dell’esistenzialismo doloroso di Eugenio Montale, ma anche la tradizione orientale della cultura giapponese che la portò a cimentarsi anche con la forma dell’haiku. Alla sua morte, avvenuta nel 2019 all’età di sessantadue anni, sua sorella ha deciso di donare l’ingente patrimonio librario della poetessa alla locale biblioteca che è stata a lei dedicata.
La poesia di Anahí è fatta di silenzi e approfondimenti interiori, piccole passeggiate e scatti fotografici, riflessioni sulla vita e sull’uomo in generale, permeata di spazi e cesure, momenti di stasi, rallentamenti. L’andatura è dettata spesso dai sommovimenti metereologici: raffiche di vento, pioggia che non annuncia a diminuire e che spaventa, neve che s’adagia lieve e che trasforma il paesaggio a lei circostante. Sono gli elementi naturali i veri abitatori degli spazi, i protagonisti fondamentali del suo pacato interloquire, le presenze immancabili e caratterizzanti le sue giornate. Poesia dell’isolamento e della distanza, ma anche del limite e del confronto, poesia degli spazi e degli elementi naturali è quella della Lazzaroni nella quale non mancano slanci ironici, elementi di denuncia, piccoli sfoghi dettati dalla malattia e dalla stanchezza.
Il volume antologico si apre con un prologo scritto dalla sorella Alicia e da uno studio preliminare a firma di Luciana Mellado che già in precedenza si era occupata in termini critici della poetessa di Ushuaia. Città nella quale Anahí – nella cui ascendenza c’era sangue italiano, come pure il cognome evidenzia – visse instancabilmente dal 1966 e nella quale fu attiva in campo culturale ed editoriale ottenendo consensi e riscontri dall’ambiente degli scrittori patagonici al punto tale che, secondo le parole di Roberto Santana, “fondò la poesia moderna fueguina”. Anahí Lazzaroni rappresentò senza dubbio alcuno – assieme ai poeti Julio José Leite (1957-2019) e Niní Bernardello (1940-202), che purtroppo se ne sono anch’essi andati recentemente – una delle maggiori voci poetiche non solo della Terra del Fuoco e della Patagonia ma dell’Argentina contemporanea, ragione che ha motivato l’interesse di interpretazione e traduzione anche in contesti geografici – come il nostro – a lei distanti.
La poetessa argentina Anahi Lazzaroni
Nel corso della sua vita pubblicò otto libri di poesia: “Viernes de acrílico” (1977), “Liberen la libélula” (1980), “Dibujos” (1988), “El poema se va sin saludarnos” (1994), “Bonus Track” (1999), “A la luz del desierto” (2004), “El viento sopla” (2011) e “Alguien lo dijo” (2017) e il romanzo “En esta ciudad se escribirá una novela” (1989). Alcune sue poesie sono state tradotte in francese, inglese, catalano, italiano e coreano su siti e blog di cultura.
La prima edizione in volume della sua opera tradotta in italiano, a cura di Lorenzo Spurio – autore che in precedenza ha tradotto in italiano anche l’ecuadoriana Dina Bellrham – è appena uscita col titolo “Il vento soffia / Qualcuno lo disse” per i tipi di Bertoni Editore di Corciano. Il volume, che contempla le due ultime sillogi poetiche pubblicate dall’autrice, ha ottenuto il Patrocinio Morale della Provincia della Terra del Fuoco, Antartide e isole del sud.
Il Festival Bologna in Lettere si sviluppa da sempre a cavallo di due anni solari, più o meno da settembre a maggio. In questa edizione, in cui cade il decennale, il Festival ha intensificato il numero degli eventi a cominciare da Giugno 2021 con la realizzazione di ben quattordici eventi e si concluderà nel mese di Maggio 2022 con otto giornate in presenza e sei online. Per celebrare in maniera significativa il decennale si è pensato di lavorare su quella che è, per così dire, la materia prima, ovvero la lingua. Nei due anni di pandemia, un po’ per scelta, un po’ per necessità abbiamo incrementato e consolidato rapporti di vario tipo con autori, traduttori e curatori di tutti e cinque i continenti, gettando così le basi per la deflagrazione del decennale. Da qui il ricorso alle lingue. Il volume BABEL stati di alterazione (Bertoni, Perugia, 2022), curato da Enzo Campi, nasce da questi presupposti e viene a caratterizzarsi non tanto come un’opera quanto come una vera e propria operazione. A ognuno dei ventisette autori selezionati (Karine Marcelle Arneodo, Vincenzo Bagnoli, Daniele Barbieri, Brice Bonfanti, Domenico Brancale, Sonia Caporossi, Marthia Carrozzo, Laura Cingolani, Lella De Marchi, Francesco Forlani, Gianluca Garrapa, Marisol Bohorquez Godoy Michela Gorini, Alessandra Greco, Eugenio Lucrezi, Lorenzo Mari, Francesca Marica, Silvia Molesini, Fabio Orecchini, Jonida Prifti, Lidia Riviello, Massimo Rizza, Ranieri Teti, Ida Travi, Paolo Valesio, Sara Ventroni, Maria Luisa Vezzali) è stato chiesto di produrre un solo testo inedito. Ognuno di questi testi è poi stato tradotto in tre lingue diverse. Le lingue al lavoro nel volume sono quindici (rumeno, inglese, francese, arabo, russo, tedesco, spagnolo, giapponese, albanese, turco, greco moderno, greco antico, latino, dialetto napoletano, dialetto lucano). I traduttori che hanno preso parte a questo progetto sono: Claudia Albu-Gelli,Karine Marcelle Arneodo, Alice BartoliniFabiana Bartuccelli, Chantal Bizzini, Antonino Bondì, Amal Bouchareb, Ani Bradea, Domenico Brancale, Michele Carenini, Valentina Chepiga, Anna Maria Curci, Gianni Darconza, Francesca Del Moro, Kaharu Inokuchi, Irène Dubœuf, Gerhard Friedrich, Marisol Bohorquez Godoy Eugenio Lucrezi, Silvia Molesini, Anna Chiara Peduzzi, Evangelia Polymou, Jonida Prifti, Graziella Sidoli, Maria Laura Valente, Daniele Ventre, Maria Luisa Vezzali, Patrick Williamson, Gabrielle Zimmermann.
Un discorso a parte merita la postfazione in cui le lingue, attraverso svariati processi di manipolazione (stati di alterazione), si moltiplicano a vista d’occhio partendo da lingue morte come l’ittita, l’aramaico, il sumero, l’accadico, il lidio, passando attraverso lingue generalmente poco usate nelle traduzioni dall’italiano quali olandese, armeno, basco, vietnamita, macedone, indonesiano, creolo, danese, serbo, catalano e via dicendo, in una sorta di gioco a rimpiattino dove le lingue rimbalzano le une sulle altre mescolandosi e confondendosi tra loro. L’idea è quella di trattare le varie lingue innestandole in un unico corpus e creare così una vera e propria trasposizione babelica che è poi in stretta sintonia con quella che è oggi la nostra civiltà. Si pensi soprattutto alle grandi metropoli dove per sopravvivere e tenersi al passo coi tempi è letteralmente insufficiente parlare una sola lingua. Tutti gli eventi di maggio partono dall’idea, sicuramente utopista, che si possa creare una sorta di lingua universale che possa essere compresa da tutti e veicolata attraverso atti artistici. Non è un caso che tutti gli eventi del decennale siano stati definiti azioni e numerati progressivamente, così come non è un caso che Bologna in Lettere sia sempre stato un festival multidisciplinare.
Valeriu Stancu, poeta, scrittore ed editore rumeno attivo nella città di Iaşi, è da vari anni piuttosto noto anche nel nostro Paese. Non solo per mezzo della sua attività editoriale all’interno della Cronedit che lo ha visto seguire la curatela di varie opere di autori nostrani, prodotti e dati a conoscere in doppia lingua nell’antica Dacia di romana memoria, ma per mezzo della sua attività di autore. Sue opere, infatti, sono state tradotte da vari marchi editoriali e, nel tempo, hanno ottenuto una discreta visibilità su riviste nella forma di segnalazioni che hanno permesso di evidenziare il suo ampio e lucente percorso letterario.
Tra le opere più recenti vi è Eresia per un giorno perso pubblicata nell’ottobre del 2021 dai Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno, realtà editoriale che ha sede a Sannicola nella provincia salentina. L’opera, della quale il generoso autore mi ha recentemente fatto dono, è interamene in lingua italiana e si apre con una curiosa e al contempo pertinente nota di introduzione di Andrea Tavernati. Il lavoro di traduzione è stato eseguito, invece, da Simona Stancu.
Compone l’opera un numero consistente di liriche che l’autore ha deciso di stampare in un’edizione il cui formato non è il canonico A5, ma in una struttura editoriale più ampia che fa pensare a qualche catalogo fotografico. In realtà il lettore, predisponendosi alla lettura del volume, ben presto scopre che questo formato, e la relativa disposizione del dettato poetico nelle pagine, ben si sposa al respiro che la vena poematica del Nostro sembra in continua ricerca.
L’immagine di copertina, non meglio riconducibile a una realtà a noi unanimamente nota, crea qualche dubbio e, comunque, è capace di far interloquire il lettore con i reconditi pensieri che, in base alla suggestione visiva, possono prendere il via nel suo cervello. Le tinte appassite fanno pensare a uno scatto d’antan sulle scelte cromatiche di un filtro seppia; l’immagine ritratta, una donna con occhi chiusi con una benda (forse per dormire meglio?) alzata in prossimità della fronte, di certo dà da pensare. Si tratta, come viene evidenziato all’interno del volume, di un’illustrazione di Paola Scialpi. Vengono alla mente tanto immagini di vecchie cartoline stile Liberty di gusto francese, ritraenti uno squarcio domestico dell’alta classe, ma anche la pittura raffinata e di grande pregio di Amedeo Modigliani che dipinse la donna instancabilmente, sempre con particolare attenzione all’universo dello sguardo.
Durante la lettura ho notato degli elementi del lessico che, a varie altezze e nel corso dell’intero volume, ritornano e che, se non è possibile dire che rappresentino delle vere isotopie o delle chiavi di volta per poter accedere al testo – e al pensiero sotteso del poeta – senz’altro si configurano come elementi dominanti proprio per la loro reiteratività e multipla occorrenza. Si condensano attorno alle parole “eresia” e “cecità”, due condizioni particolarissime che coinvolgono l’umana specie (ma non solo, se pensiamo che vi sono forme di cecità anche nell’universo animale) che attengono tanto a una condizione meramente socio-ideologica dell’uomo (l’eretico è colui che non si uniforma, si ribella, ha un suo credo da difendere che non si allinea al pensiero dominante) e quella fisico-patologica rappresentata proprio dal fenomeno della condizione di ipovisione. Stancu parla spesso di impossibilità di vedere, di sguardo celato o impossibile, di mancanza di visione, di cecità e di occlusione della percezione visiva. Questo comporta, di riflesso, la formazione d’immagine sfocate, non ben realizzate, frutto di un’immaginazione fruttuosa più che di un mero dato empirico. L’autore rumeno, che mette in scena il tema della cecità non vuole però che esso venga individuato in maniera basica, quale semplice intendimento a riferirsi a una realtà sfocata, difficile da visualizzare, impossibile da delineare e, dunque, da conoscere e descrivere. In maniera allegorica richiama quell’attitudine dell’uomo contemporaneo che sempre più s’identifica con forme di disattenzione, inascolto e distanza nei confronti dell’altro. La cecità verrebbe a rappresentare sia il non poter vedere, che è un dato oggettivo, che il non voler vedere (o il non essere in grado di vedere) che, invece, è un dato soggettivo, dettato dalla percezione e dalla coscienza dell’individuo.
Credo che una buona lettura dell’opera del nuovo libro di Stancu nel nostro Paese non possa esimersi dal relazionarsi con questi due topoi – l’eresia e la cecità – sui quali l’autore vuole condurci per farci riflettere. Non tanto sul mero dato interpretativo dei suoi singoli testi ma verso un campo di realtà, esperienziale, conoscitivo, sociale e relazionale ben più ampio, che attiene alla nostra presenza nella società odierna.
Valeriu Stancu (Iaşi, Romania, 1950) è poeta, prosatore, saggista, editore e traduttore. Dopo gli studi secondari, si è iscritto all’Università, dove ha completato gli studi superiori di Filologia con una tesi su “Bacovia e Rimbaud”. Nel suo paese ha pubblicato più di sessanta libri tra raccolte di poesie, poesie in prosa, romanzi, racconti, saggi, interviste, appunti di viaggio. Numerose sue opere sono state tradotte e pubblicate all’estero nei paesi: Belgio, Francia, Germania, Italia, Croazia, Turcia, Moldavia, Messico e Canada. È stato tradotto, oltre che in francese, inglese e italiano (da Gerardo Vacana e Simona Stancu), in tedesco, spagnolo, catalano, russo, neerlandese, serbo, arabo, albanese, macedone, giapponese, croato e turco. Suoi testi poetici figurano in varie antologie e riviste letterarie sia rumene che straniere. Ha partecipato a svariati Festival Internazionali di Poesia in Europa e in sud America, oltre che in Algeria, Egitto e Vietnam. Dirige la casa editrice Cronedit di Iaşi, direttore del Festival Internazionale “Europoesia” e caporedattore della rivista «Cronica» con la quale si è occupato di traduzione e ha pubblicato vari autori italiani dandoli a conoscere in Romania tra cui Dante Maffia, Marco Onofrio, Claudio Pozzani, Laura Garavaglia. Numerosi i premi letterari che gli sono stati attribuiti per la sua insigne e intensa attività letteraria e culturale, tra di essi citiamo: il “Lucian Blaga” (1993), il “Poesis 96” (1996), il “George Bacovia” (2000), il “Liviu Rebreanu” (2011), il “Naji Naaman” (Libano, 2014), il “Lyra” (Kischinev, Moldavia, 2010), finanche l’onorificenza “Cavaliere delle Lettere” da parte dell’Ordine dei Cavalieri del Danubio (2003) e quella di “Ufficiale al Merito Culturale” dal Presidente della Repubblica Rumena (2004). Nel nostro Paese ha ricevuto il Premio Europeo di Letteratura “Capo Circeo” (2017), ambito riconoscimento che venne attribuito, tra gli altri, anche a Mario Luzi, Herta Müller, Arturo Pérez-Reverte e il drammatugo nonché ex Presidente della Repubblica Ceca Vaclav Havel e il Premio Internazionale di Poesia “Roberto Farina” (2018). La Francia gli ha concesso l’onorificenza di Cavaliere all’Ordine delle Arti e delle Lettere.
Lorenzo Spurio
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