N.E. 02/2024 – “El viènto”, poesia in dialetto fabrianese di Teseo Tesei

El viènto

Quante cose me cònfonne la mente.

Io cerco de sbrojàlle tutto el giorno

la mia dicènno ma l’altri non siente

e m’urla dall’orecchie tutt’attorno.


Allora sgappo via dal putiferio,

vo fori, do’ più forte tira el viènto,

fori, perché me sento el desiderio

de sentì la Tua voce. E so’ contento!


Contento perché non ci sta nigiùno

che ce se mette immezzo: io e Te.

Guardànno in alto pe’ mezz’ora bona

aspetto che, si voi, Tu parli a me


o pure che me fai ‘ncontrà qualcuno

che ‘n tròa la strada ed un aiudo ‘spetta

ché siènte freddo, ma ‘n ci sta nigiuno

che ‘l copra col mantello. È me ch’aspetta!


Traduzione: Il vento

Quante cose mi confondono la mente.

Io tutto il giorno tutto il giorno cerco di sbrogliarle

dicendo la mia ma gli altri non mi ascoltano

e mi urlano nelle orecchie tutt’intorno.


Allora fuggo via dal putiferio,

vado fuori, dove il vento soffia più forte,

fuori, perché sento in me il desiderio

di ascoltare la Tua voce. E sono contento!


Contento perché non c’è nessuno

che ci si pone in mezzo: io e Tu.

Guardando in alto per mezz’ora buona

attendo che, se vuoi, Tu mi parli

oppure che mi fai incontrare qualcuno

che non trova la strada ed aspetta un aiuto,

perché sente freddo, ma non c’è nessuno

che lo copra con il mantello. È me che attende!


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2025 – “fissavi quella scia”, poesia di Cinzia Demi

fissavi quella scia

di luce che s’involava sopra

le nubi   e una volta sparita

ne fissavi ancora l’impronta  

contavi le gemme di fumo

   del boato lontano gioivi

chiedevi clemenza al cielo

di dio   per quel sangue

lassù   per quel figlio

gettato oltre il filo spinato

   sulla riva le farfalle

avrebbero continuato i voli

si sarebbero ancora alzati

i soli e le lune   socchiuse

le palpebre di stelle

   avrebbe crepitato

il tuo sangue nella pioggia

fingendosi airone sui

prati   e sentendo vicina

la bava dei predatori

   avresti tolto le scarpe

correndo un’ultima volta

sulla vetta insensata del

destino   avresti visto

l’alba destarsi sui grembi

   immaginato il bambino

la bellezza del padre   i colori

di tua madre   e in un grido

avresti abdicato alla via

lanciato la fionda al tuo Golia


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Guardo”, poesia di Emanuele Marcuccio

guardo

per le strade

equoree figure


fluttuanti

defilate

e trafilate


osservo

indifferenza


passi fuggitivi

ignorano

il tempo

trascorso


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “POEVITÀSIA. Manifesto della Filosofia dell’Umafeminità”, a cura di Nadia Cavalera

La vita è il tempo che passa tra la nascita e la morte, è un passa-tempo nella semplice accezione denotativa, la più novile (niente di dispersivo, di negativo) e che ognuno imposta come meglio crede, senza dettami di specie, purché non offenda l’altrui fede.

La vita, in ottemperanza all’obbligo naturale inderogabile, avviato dal big ben iniziale, è un passa-tempo che impone il movimento, causa generata e generante da mantenere e reiterare.

La vita è azione, ma anche la poesia è azione, dunque vivere vuol dire poetare, esplicitare nel mondo una creazione sempre unica e irripetibile in ogni sua sfaccettatura, nei più svariati ambiti.

La vita/poesia e la poesia/vita si equivalgono. In un mix mutante di vasi comunicanti a volte castranti che mi piace chiamare POEVITÀSIA, dove la poesia, sulle ali della libertà seppur condizionata, è madre di tutte le arti, e ingloba la vita normale (che definisco COATTA) relegata alle comuni mansioni per garantire l’esistenza materiale, secondo il sistema economico-sociale-politico dato, e mai soddisfacente per la maggioranza (anche quando viene spacciato per tale col ricorso all’abusata e vuota parola di “democrazia” “una tecnica del potere, una tra le altre, niente di qualificante).

La Democrazia, nonostante l’emancipazione delle donne che, si sperava, lo scongiurasse, è rimasta un luogo di ipocrisia e menzogna.

POEVITÀSIA si conclude con la morte, suo completamento che apre a un nuovo ciclo infinito. Un eterno ritorno. Prima si barcamena tra un momento ludens e un momento moriens, gioca ogni sorta di giochi d’amore di successo di vizio e di virtù e TUTTO proprio per ammansire la morte. La fase successiva alla vita.

E se fosse il contrario? Se fosse la morte la vera protagonista, la dia ex machina di ogni esistenza? Veniamo dalla morte e ad essa ritorniamo. La vita è forse il sogno della morte che continua, che si perpetua nel movimento per sfuggire alla sua eternità con la nostra precarietà. Siamo fiori caduchi del male è vero. Siamo fiori della morte, la sua fervida immaginazione. La sua poesia. Consolatoria. Ma caduca. Non si può esaurire in nessuna interpretazione (e lo sapeva già Platone) perché rimanda all’agire, all’azione, a tutte le azioni in cui si produce l’umafemìno. E sono infinite.

La poesia coincide così con la vita in tutta la sua molteplicità e la vita è un gioco, in cui si impara imitando e dove non si scinde mai la realtà dall’immaginario. L’imitazione non è semplice riproduzione della realtà sulla base di una qualche tecnica facilmente assimilabile, ma è porsi in ascolto delle cose, percepire ciò che si nasconde al loro interno, coglierne il ritmo, il ritmo delle cose, afferrarlo e abbandonarvisi in un fare, in un poiéin sempre nuovo e diverso, come nuovo e diverso è ogni soggetto che si cimenta nell’operazione.

Nel mondo del gioco realtà e irrealtà trapassano di continuo una nell’altra sono inseparabili e indivisibili. E non si possono cogliere che in un unico movimento, quello dato nel LINGUAGGIO e dal LINGUAGGIO – più generalmente, nei segni e dai segni. Tant’è che è necessario che prima ci sia il gioco perché esista la realtà, e non viceversa.  Giocando col linguaggio si costruisce la realtà. Così che il gioco da eraclitea metafora cosmica, diventa simbolo del mondo. E «la lingua non solo manifesta ma anche condiziona il nostro modo di pensare: incorpora una visione del mondo e ce la impone». Quell’ attuale è maschia da sempre.

Il gioco è ricreazione della creazione, e il suo annullamento, per una ripresa continua.
Affidata al linguaggio che non va ingessato in una lingua morta e che dà oggi MORTE, ma va tenuto in un frullatore rigenerante che veda finalmente la partecipazione della donna, con la speranza che faccia man bassa della lingua che i maschi le hanno cucito addosso, e possa rinnovarne la vitalità. Orientarla al bene, alla giustizia, che latitano da tempo immemore.

POEVITÀSIA è fare agire attuare porgere attenzione alla realtà più profonda per testimoniarla, condividerla, contribuire per quanto possibile a comporre il puzzle di senso che a tutti sfugge.
È l’illusione che se tutti potessimo impegnarci a trovare la nostra piccola verità personale forse chissà finalmente ci si potrebbe avvicinare alla verità generale universale.
Ecco perché concordo con chi dice che la poesia è il gioco più serio che ci sia.
La poesia andrebbe affrontata con questo spirito di massima serietà, e da tutte e tutti. DICO Tutte e tutti.

Ecco il punctum dolens. Inaccettabile da chi fa della poesia solo uno status simbol di posizionamento sociale o di supposta superiorità morale, e di magnanima sensibilità. Da chi crede nell’ispirazione divina, dai cultori della poesia bella, orfica, infiocchettata, baciata, portatrice di successo, pratica di vanità.

A tutte e tutti dunque, secondo lo stile che meglio gli aggrada e li inquadra, la dignità iniziale di poete e poeti. Senza graduatoria alcuna, perché ciò che preme non è arrivare ai primi posti in classifica o scorrazzare ovunque nei festival, in vuoti protagonismi, ma condividere un progetto di impegno solidale nella catastrofe attuale. Anzi più che andare verso l’altro bisognerebbe assumere l’altro in sé, capire finalmente che ognuno è centro dell’universo.  Anche se non necessaria, la testimonianza di sé scritta sarebbe auspicabile per compilare quel libro unico che in un puzzle universale potrebbe aprire qualche spiraglio sul mistero dell’esistenza. Scongiurare intanto di farne SQUALLIDA sopravvivenza.

Tutti siamo poete e poeti, perché tutte e tutti agiamo nel gioco della vita e tutte e tutti abbiamo diritto di cercarci e raccontarci seppure non eccezionali (senza essere Ulisse, Enea, Orlando, Dante…). Dovremmo scavare in noi per recuperare l’orma della nostra esistenza.

Poesia è la vita di ogni donnuomo che, come l’arte, esiste a prescindere che piaccia o meno agli altri.  A prescindere che riesca a gettare ponti, che, essendo di parole, durerebbero come neve al sole. La poesia di ognuno esiste come le stelle nel cielo che non chiedono di certo la nostra approvazione per esserci. È la vita di ognuno la più bella poesia.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Dai capitoli del tempo”, poesia di Pasqualino Cinnirella

Volto ai dissesti ormai senili tu,

ancora taci anima stanca

nel chiuso torbido,

se pur non reggi mutola la pena

di un cuore dove impera solitudine,

dissonanze a vivere nell’oggi turbinoso

in cui la violenza spezza ali di colomba.

E’ tempo dei rimpianti, dei ricordi e timori,

di celate ansie al presto divenire

di giorni inoperosi e assente l’io.

Ancora la speranza regge appena

nei chiarori dell’alba senza nubi,

al ravvivarsi di quel sogno antico;

ma scemando ne scandisce l’ore

fino ammutolirsi col farsi delle ombre

in piena luna, che pur sempre ignara

questa, ancor più gaia mi sorride…fanciullo.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “La danza”, poesia di Irene Sabetta

La morte ha una sua coreografia

di acqua bevuta a piccoli sorsi

di piedi per terra

                           seduti

                                     sulla sponda del letto

di sguardi al soffitto

di labbra socchiuse

                      sorrisi tra i denti

 nascosti a metà

                         dal lembo di lenzuolo

                         rimboccato sudario

Minuscoli movimenti del capo

al ritmo spezzato della stessa musica

                                    Morire è meglio che soffrire

Arte impercettibile

sulla punta delle dita

                                    Morire è meglio che soffrire

a tempo di campana

senza rintocco

                       un ultimo passo di danza


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “La luna e il suo mistero”, poesia di Lucia Lo Bianco

Rimane vigile un’ultima parola

mentre accanto sospira il vento,

raccolgo i cocci dei miei giorni

ed accarezzo lenta i miei pensieri.

Si avvolgono le onde una ad una

e rimane solo un urlo morbido

e silente, solitudine al tramonto,

voce soffusa nel silenzio dei colori

al calare delle ombre. Rumori.

Mi chiedevi dei fruscii, singhiozzi

di mare verso sera. Ricordi?

Sembra ieri: sfioravi la mia anima

col soffice tocco fragile di vita.

Ora solo suoni, distanti e perduti

e mi ritrovo in questa cuna del tempo

ad attendere invano l’infrangersi

del mare sulla riva, moto infinito.

Attendo la luna e il suo mistero.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Liturgia del silenzio”, poesia di Gabriele Greco

Dalla sutura

della notte

rilucevano

spore.

Ceneri

disperse

dall’angelo

fuggito.

Un latte

d’ombra

sgorgava

dai solchi

delle mani.

Lo bevvi

a fior di labbra

prosternato

sulla faglia

di sabbia.

Ci fu

una luce

germinale:

e mi sembrò

mattino.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Mantra di Speranze”, poesia di Nicole Fiameni

Ho visto nel mare le rughe del tempo

trascritte su pelle da incognite brezze.

A nubi insicure e stagioni indecise

ho volto il mio sguardo per anni,

su pagine ondose ho esposto il mio cuore

e ora non posso che essere amante

del mantra che scorre tra i venti del fato.

A lungo ho consunto i miei giorni

sul bivio tra fuga e attesa

e quando mi son liberata

ho visto i miei sogni fiorire

e l’anima farsi leggera.

Rime piovose e alte maree

mondano gli occhi, annacquano i dubbi,

sciolgono nodi interiori

e allungano il fiele dei crucci –

io cullo i miei antichi dolori

e infine li lascio svanire

nell’aria lontano da me.

E risalendo sui sentieri

di una fervida visione

cerco vette di speranze,

compongo una scala di versi

che possa portarmi al tepore

del cielo paziente e immortale.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Christine Lavant, stella abbandonata da Dio”, saggio di Loretta Fusco

Basta guardarla nelle rare fotografie che la ritraggono, per capire chi fosse Christine Lavant, la grande poetessa austriaca, nata nel 1915, originaria di un paesino della valle della Lavant, in Carinzia, nome che adotterà come suo pseudonimo, perché in realtà lei si chiamava Christine Thonhauser.  Nona figlia di un povero minatore, bambina gracile, affetta da scrofola e problemi agli occhi, oltre che da regolari polmoniti che la prostrarono impedendole una vita regolare, frequentò comunque la scuola elementare, ma la sua fu un’esistenza segnata dalla povertà e dalla malattia. Crebbe in un ambiente rigido e cattolico col quale non riuscì mai a identificarsi. Anche se le sue poesie e opere in prosa sono caratterizzate da un linguaggio moderno e fortemente simbolico, il patrimonio culturale é quello cristiano, orientato verso una religiosità naturale contraddistinta dal desiderio di sicurezza e di riconoscimento.

Questi giorni non diventeranno vita.
Forse già nel ventre di mia madre il mio destino
s’è coraggiosamente separato da me
e se n’è andato – audace come io non sono mai stata –
sulla stella abbandonata da Dio
ed è rimasto là, s’è messo a dormire
e forse sogna ciò che mi deve accadere
con le tempie luccicanti.
Maliziosa mi lascio portare dal vento
vicino al focolare della realtà
mi lascio abbrustolire, mi lascio sbucciare
e da coloro che sono amaramente delusi
mi lascio risputare nel fuoco
o nell’acqua salata.
Là spesso rifletto e mi chiedo, se Dio sappia di me
se ci siano spiriti custodi anche per quelli come me
e se il sacro nucleo dell’anima
ce l’abbiano davvero solo i sani
che rompono le noci con i denti
e prendono il destino degli altri per il loro.
Nel fuoco e nell’acqua nessuno è lucido –
Perdonatemi Dio Padre, Figlio e Spirito Santo!
Voi siete una trinità e io sono così sola
e nessuno lassù risveglia il mio destino.

La poetessa e scrittrice austriaca Christine Lavant (1915-1973)

Thomas Bernhard, suo conterraneo, la porterà alla luce, e curerà personalmente un volumetto di sue poesie, 81 in tutto, scegliendole dalle sue quattro principali raccolte. Le consegnerà al suo editore nel 1987 avendo individuato in questa donna apparentemente fragile, un’interessantissima voce, isolata soltanto geograficamente entro i confini angusti di un’Austria nazionalsocialista, che lui stesso avversava. Nonostante il suo humus valligiano, la Lavant, sin dal suo primo volontario ricovero nel manicomio di Klagenfurt, dimostrò interessi culturali notevoli e una passione per Rilke, il poeta che ispirerà quasi tutta la sua opera. Bernhard, contrariamente all’immagine consolidata, la sottrae all’idea che fosse un Ligabue della poesia, esaltandone l’intelligente e raffinata espressività poetica, anche perché, nel tempo, la poetessa aveva intessuto una rete notevole di relazioni e contatti con i massimi esponenti dell’avanguardia viennese.

La sua poesia coniuga l’attaccamento alla terra, la tradizione, i riti liturgici, il folklore, a una sete inestinguibile di infinito. La sua è un’invocazione a un Dio sordo e cieco, verso cui inveisce con rabbia, nel dolore inascoltato che l’attanaglia. Rivendica con orgoglio il diritto a esistere come creatura di Dio, dimenticata e abbandonata a se stessa.

Dice Bernhard, nella prefazione al libro da lui curato: “Questo libro documenta la cronologia della vita di Christine Lavant che fino alla morte non ha trovato né pace né tranquillità e che nella sua esistenza si è flagellata attraverso la sua persona ed è stata distrutta e tradita dalla propria fede cristiano-cattolica; si tratta della testimonianza elementare di un essere umano strapazzato da tutti gli spiriti celesti, un essere umano, che altro non è se non grande letteratura, meno conosciuta nel mondo di quanto meriterebbe. La scelta qui proposta segue solo il mio intento e quello di nessun altro”.

Dimentica il tuo ciarpame, Creatore!

O sarai creatore

di ciò che è cadavere e lo rimane

e si unisce alla terra

ben più volentieri che al cielo.

Vai, continua ad ammantare i gigli

corrompi pure i passeri con il miele vergine –

io vivo di ruggine e muffa.

Tu dici che questo non mi sazia

e blateri della città di Dio

che molti conquistano con il digiuno.

Non io! Mi piace vivere nell’argilla

per diventare pietra e tuttavia

mai esserti di peso.

Le sue insicurezze risiedono nella sua fragilità fisica e psichica. Sin da piccola dovette rimanere a casa occupandosi di lavori domestici e cucito, cosa che lei fece con scrupolo anche per riuscire a mantenersi. Non disdegnava la lettura e la scrittura tanto che si rivolse a un editore di Graz per pubblicare il suo primo romanzo, che distrusse dopo che fu definitivamente respinto nel 1932, questo a testimoniare una personalità immatura, ma già provata dalle delusioni della vita. Nel 1935 si ricoverò spontaneamente al manicomio di Klagenfurt dal quale uscì dopo qualche tempo. Morti i genitori, si trovò in condizioni economiche disastrose sostenuta solo dal suo lavoro di cucito e dal supporto finanziario dei fratelli. Decise allora di sposare il pittore Josef Habernig, molto più vecchio di lei.

Le poesie della Lavant sono state definite preghiere blasfeme non solo perché si rivolge in modo irriverente a Dio ma soprattutto perché lo sfida. Emerge la sua natura semplice, franca, simile alla terra natia, dove nulla è concesso con generosità ma è la risultante di un lavoro duro e faticoso. La scrittura diventa elemento salvifico e testimonianza di vita subita, non agìta. Anche Ingeborg Bachman appartiene a quella terra ma da quella terra se n’è andata per trovare ispirazione e pace altrove. La malinconia che permea l’opera di entrambe si spande per quelle vallate dove il silenzio è rotto soltanto dal rimbombo dell’eco.

La Lavant sentiva ardere dentro di sé il fuoco dell’arte ma dovette soffocarlo perché la sua realtà oggettiva non le permetteva di realizzarlo e nessuno intorno lei, a partire dai medici dell’Ospedale psichiatrico in cui era stata ricoverata, erano riusciti a capire il suo desiderio di poetare, stroncando ogni sua velleità poetica, come denuncia nei suoi “Appunti da un manicomio”.

Sono nel reparto “Due”. E’ il reparto del’’osservazione per “i meno gravi” in cui di regola si arriva solo dopo essere passati dal”Tre”. Io non sono passata dal “Tre” e per questa ragione quasi tutti me ne vogliono. Ieri ho sentito dire dalla Regina a Renate: “Quella ci è piombata addosso con gli occhiali e la roba per scrivere. Che se la porti il diavolo! Che cosa è venuta a fare da noi? Probabilmente a spiarci, cosa altro sennò?!”… Renate si è limitata a risponderle: “Ah, eccola che riattacca con queste storie”. Ma poi a sera è venuta dirmi che aveva di nuovo bisogno dei suoi fermacapelli e che doveva riprenderseli. Peccato, non per i fermacapelli, ma per Renate perché credevo che avremmo potuto stringere una qualche amicizia. Fin dal primo giorno ho provato simpatia per lei, per questi suoi occhi muti e malinconici e per quel sorriso evanescente e dimesso che certo mette un po’ di tristezza, ma che non fa paura come la risata delle altre. Dall’altra parte ci si abitua incredibilmente presto ai visi e a discorsi più strani…]

Morte diffamata, per me sei così bella!Già di mattino ti penso come la mia capanna,dove la sera mi trasferirò,e penso che sopra la capanna brillerà una stella.Nemmeno del trasloco ho paura!Certo, prima bisognerà bruciare molto,prima di tutto il corpo con tutte le sue bramee dell’anima ciò che qui si è accumulatoin fatto di coraggio e di allegria.Solo il mio amore, morte, lo porterò con me!Per lui, se davvero sei il mio rifugio,dovrai preparare l’angolo migliore della mia capanna,e se possibile mettici anche una finestra,perché la stella, la buona stella di cui parlo,la possa colmare di tutta la consolazione,che qui non gli ho mai potuto dare.

Le sue invocazioni a Dio ricordano quelle di Rilke, il poeta che la Lavant sentì più di tutti. Lei grida a Dio la sua impotenza, con veemenza e spirito combattivo ben sapendo che il suo urlo disperato è un atto di rassegnazione.

Voglio condividere il pane con i pazzi,ogni giorno un pezzo di questo grande orrore,anche la campana nel cuore,là, dove il colombo fa il nidoe trova un minuscolo asilonella selva sulle acque.A lungo ho vissuto come pietrasul fondo delle cose.Ma ho sentito la campanaSussurrare il tuo segretonei pesci volanti.Imparerò a volare e a nuotaree lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietralascerò la malinconia coricata nella madreperla,ma solleverò in alto la rabbia e la miseria.Le mie ali sono più antiche della tua pazienza,le mie ali sono volate oltre il coraggio,che s’era fatto carico dell’errare.Voglio condividere il pane con i pazzilà, nella spaventosa selva del colombodove la capanna divide in tre parti il grande terroretrasformandolo nel suono tripartito del tuo nome.

***

Ti ho tuffato nella mia rabbia!

Ora sei d’acciaio sopra la terra

e sotto, mansuete, avanzano le tue radici

tra pietre scricchiolanti.

Non portarmi il grano! Non ti ho reso acciaio

per saziarmi o addormentarmi

a me spetta la metà di quella mela

che matura tra i rami dell’albero del serpente.

Spada o giglio – tu li sei entrambi a metà!

Voglio scagliare in alto la tua affilatezza

ed essere dolce sorella della terra

e indurre in tentazione Dio come lui ha fatto con me.

Ti ha tuffato tre volte nel mio cuore

e ti ha ordinato di rinunciare a lui

ma io ti ho immerso nell’acciaio della rabbia;

ora porta a suo figlio la mia metà della mela!

***

Mentre io, turbata, scrivo,

nel disco della luna piena brilla

la parola che osservo

da quando la colomba mi ha deriso

perché dallo specchio dell’acqua

senza nome, senza sigillo,

entravo nell’arido.

Non fosse cresciuta

la semina dell’osservazione

dovrei uccidere luna e colomba

che sempre m’ingannano

e fanno il nido sul mio albero del sonno

che per questo rinsecchisce.

Spesso una parola s’imprime a fuoco

da sé nella sua corteccia,

e allora mando quel cieco

messaggio, che inutilmente si rigira

aggredendo il tuo sonno

mentre nel disco della luna

è in salvo la risposta.

Christine Lavant morì a Wolfsberg nel 1973, all’età di 57 anni. Non lo sapeva allora che la sua voce sarebbe diventata alta e sarebbe uscita da quei confini che lei aveva sempre considerato un limite alla sua brama di libertà.


(Le poesie scelte appartengono al volumetto Christine Lavant, Poesie, scelte da Thomas Bernhard, nella traduzione di Anna Ruchat. Effigie Edizioni).


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Sei il verme della tristezza”, poesia di Emilio Paolo Taormina

il verme della tristezza

mi divora

ho perso

sulla tua fronte

la briglia della luna

nei tuoi occhi

il profumo dei gelsomini

se sei tu

il seme nel mio petto

sboccia

senza attendere la neve

se sei tu

la catena alle mie caviglie

dammi la chiave

senza attendere le piaghe

aspetto solo

le piogge di primavera

per scorrere

le acque del tuo fiume


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – Le “Poesie mistiche” di Rumi. Recensione di Laura Vargiu

Affrontando il discorso sull’affascinante connubio di poesia e spiritualità, il pensiero non può non correre alla tradizione poetica sufi di ambito islamico. Al suo interno spicca in particolare l’opera di Rumi, tra i massimi poeti mistici della letteratura persiana.

Una breve, ma necessaria premessa: il sufismo, la corrente mistica dell’Islam, affonda le sue radici in un’epoca assai lontana, man mano che prese a diffondersi la nuova fede a partire dalle grandi conquiste arabe; sufi è il mistico musulmano, così chiamato per via degli indumenti di lana ruvida indossati dai primi asceti (la parola araba sūf, infatti, significa “lana”). La poesia sufi si contraddistingue per il suo messaggio di pace universale, l’amore verso Dio, cui ci si rivolge in maniera incessante, e la sua contemplazione, lungo un percorso ascetico e spirituale che conduce l’uomo a prendere coscienza della propria dimensione cosmica. In generale, si tratta di un tema alquanto complesso, nonché di nicchia, ma ciò non impedisce di leggere con estremo piacere le importanti opere letterarie nate in seno appunto al sufismo. E tra queste, come anticipato sopra, non può mancare quella di Rumi.

“Dopo la morte, non cercare la tomba mia nella terra: nel petto degli uomini santi è il sepolcro mio!”

Nato in una famiglia di lingua persiana in territorio afghano agli inizi del nostro XIII secolo, Jalal ad-Din Muhammad Balkhi meglio noto con il nome di Rumi, fu teologo e poeta, nonché fondatore della confraternita sufi dei famosi dervisci danzanti. A parte una serie di spostamenti in varie località del mondo islamico in determinati periodi della sua esistenza, egli visse a Konya, nell’attuale Turchia, dove morì nel 1273. 

Due sono le sue opere principali, entrambe di notevoli dimensioni: il lungo poema a rime baciate denominato Masnavi e il Dīwān; un breve, ma significativo estratto di quest’ultimo titolo è rappresentato dalla raccolta antologica Poesie mistiche, pubblicata agli inizi degli anni Ottanta dalla casa editrice Rizzoli a cura e traduzione di Alessandro Bausani (1921-1988), nome senza dubbio tra i più importanti dell’orientalistica italiana.

Il Dīwān (Canzoniere) di Rumi è costituito da un numero impressionante di odi per un totale di circa cinquantamila distici distribuiti in numerosi volumi. L’opera, per forma e contenuti, rientra nei canoni classici della lirica persiana, riprendendo metri e simboli a essa tutt’altro che estranei. Un’emozione particolare, tuttavia, permea i versi del poeta che risuonano con pregevole originalità, mentre spezzano rigidità per così dire tecniche e conducono – come sottolinea il curatore dell’antologia – “a licenze poetiche non sempre perfettamente «canoniche»”.

“[…] O viandante! Non legare il cuore a nessuna dimora,/ perché soffrirai quando te ne strapperanno via./ E poi che tante dimore hai percorso/ da quando eri goccia di sperma fino all’adolescenza,/ prendile a scherzo, che a scherzo le possa lasciare:/ rinuncerai a poca cosa e alto compenso ne avrai!/ Prendi invece sul serio Colui che ti ha preso sul serio;/ Primo è Lui ed ultimo: cerca Lui solo! […]”.

L’Islam, cultura alla quale Rumi appartiene per nascita, in queste pagine è presenza certa e costante attraverso riferimenti espliciti (come alla Fātiha, sura aprente del Corano, alla qibla, la direzione verso cui il devoto musulmano prega ogni giorno, o ancora alla Ka’ba meccana stessa) che contribuiscono a dar vita a scenari orientali di notevole fascino in un intreccio di immagini variegate che abbracciano distese di cieli e deserti, colori di aurore e tramonti, ombre di carovane, voli di falco e profumi di giardini fioriti; quello di Rumi, popolato tanto da maestri spirituali quanto da cammellieri, è un mondo semplice dove l’anelito verso il divino si mostra quasi assillante. Le odi in questione, come del resto la poesia sufi in generale, fanno però propria anche la tolleranza in materia religiosa, tant’è che alla morte del poeta, secondo gli studiosi, presero parte ai funerali sia i musulmani che le comunità di ebrei e cristiani di Konya.

“Vieni, deh vieni! ché da quando partisti più non mi resta né ragione né fede,/ e ogni calma e ogni pace partirono da questo povero cuore.”

La scrittura di Rumi si rivela intrisa di una spiritualità profondissima; un senso di devozione autentica e sincera che, inoltre, si prodiga dispensando consigli: tra i vari, evitare l’attaccamento alle cose materiali, viaggiare anzitutto dentro se stessi, addirittura non intraprendere lunghi viaggi (all’epoca ancor più lunghi e rischiosi) per andare in pellegrinaggio nella lontana Arabia, malgrado l’hajj alla Mecca – da compiersi almeno una volta nella vita – sia uno dei pilastri fondamentali dell’Islam.

“O gente partita in pellegrinaggio! Dove mai siete, dove mai siete?/ L’Amato è qui, tornate, tornate!/ L’Amato è un tuo vicino, vivete muro a muro:/ che idea v’è venuta di vagare nel deserto d’Arabia?”

Nell’insieme, un’opera poetica antica che, grazie al lavoro di selezione e traduzione di Alessandro Bausani, riesce ancora a offrire un testo molto interessante e coinvolgente anche al lettore di oggi. Un classico della letteratura persiana (e mondiale) intramontabile!


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

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