“Concepibili combinazioni nella figura di Aracoeli nell’omonimo romanzo di Elsa Morante”, saggio di Carmen De Stasio

Ricondurre Elsa Morante e la sua penna, la donna e l’artefice delle sue parole, a una condensazione pressoché esplicabile sollecita l’immagine di un’identitaria personalità che, nel confluire nell’unicità di immaginazione e di condizioni di memoria, si predispone nell’audace autonomia di un mosaico di alterazioni elaborate fino a comprendere – possibilmente – la gran parte delle fasi di un tempo di contemporaneità. E queste fasi complesse vengono da Elsa Morante continuamente interrogate in un’articolata vicenda che ripaga avverso la rassegnazione.

Io fui pronto a servirla, ammirato della sua bruttezza meravigliosa, che irradiava su di me un potere d’incantesimo, tanto più malioso perché mi sapeva di paura[1].

Giustappunto in questo modo è possibile individuare nella fenice e nella cenere le espressioni di fine e di recupero dei versanti intrapresi nel tentativo di riunire le idee molteplici al termine della nuova lettura di Aracoeli, romanzo sofferto e ultimo di Elsa Morante (fu, infatti, pubblicato nel 1983, vale a dire poco prima della morte dell’autrice, avvenuta nel 1985); un’eroica impresa[2] (come il poeta Attilio Bertolucci definì il romanzo) assimilabile a un’eredità sociale e culturale sulla quale Elsa Morante poggia  la sua attenzione, trattando di un tempo proiettato nel carico di illusorie speranze, le stesse che ritroviamo avversate, infine, dalle ombre che invadono lo scenario esistenziale.

Riservata e intimamente partecipe, la scrittura di Aracoeli affonda in un ambiente che è mentale e aggrovigliato con il realismo del dolore nascosto, laddove le asprezze non riescono a soffocare la cruda ambivalenza di un esserci logorato tanto da attese, che da un convulso disorientamento a cui pure si assomma un tracciato familiare che alita nel sospetto di qualcosa di irrimediabilmente irrisolto. D’altronde – ancora una volta riprendendo quel che scriveva A. Bertolucci – l’autrice non dissimula la sua attitudine di spietato critico dell’istituzione famigliare[3]. Difatti, più che nei precedenti romanzi, qui la prospettiva autorale penetra i caratteri di instabilità delle relazioni alle quali accede intraprendendo una rotta che tocca la singolarità identitaria, le tappe del divenire, il circuito di famiglia, fino a richiamare una storia condivisa e plurima nelle sue sfaccettature. Ciascun momento diviene pertanto occasione per un ritorno e una comprensione di amplificazione oppure di dirottamento, in un incessante manifestarsi-eclissarsi nella prospettiva inattesa della dilagante irregolarità che investe il dentro-fuori del tempo (siamo nel pieno della seconda e finale fase del secolo breve); nel turbamento che il significato di essere e di agire in forma di famiglia provoca. Realistico e originale, pertanto, Aracoeli vive la consapevolezza della difformità esiziale alla quale la stessa Morante partecipa, sempre in bilico tra l’emozione dei mezzi e le complessità che identificano lei-autrice e lei-donna critica di un tempo (il suo) scansionato e revisionato, in un’azione incrociata di avvicinamento-distanziamento.

Potrebbe essere questo motivo alla base della sofferta gestazione del romanzo, nel quale vicende cruciali della storia contemporanea (gli anni trenta, gli anni della Guerra Civile in Spagna e del Secondo Conflitto Mondiale; anni di cambiamenti dalle scomposte conseguenze a carattere sociale, di costume, della cultura) sono riportate al contemporaneo 1975, l’anno, cioè, da cui evolve l’intera narrazione nel rituale di una nenia, segnando passi di apprendimento, di comprensione, di alternative e di risposte che tardano ad arrivare, nell’intuizione di un disfacimento inarrestabile di ideali, che pure investe di dissenso l’orizzonte di un progresso fatuo. I protagonisti e la storia stessa di Aracoeli mimetizzano il disfacimento e nella prevalenza turbinosa di dentro-fuori l’epica dei protagonisti prende forma: un’Aracoeli (dalla quale il romanzo prende il titolo o, quant’è più efficace, l’intestazione assimilabile a una segnaletica dispensatrice di obliquità, quanto di inafferrabili ovvietà) allusiva di una storia umana in disgregazione; e poi, sull’altro versante, il di lei figlio Manuele: ed è nel progetto di viaggio che la vicenda si compie; un viaggio inteso a interpretare la rivelazione delle radici di Aracoeli, per giungere a risolvere il male esistenziale che strazia il giovane uomo e nel quale egli ravvisa gli effetti del disfacimento. Sua è la voce che gestisce le situazioni del rammemorare, e sua è la voce che accompagna a conoscere la madre-Aracoeli. E nella sua voce risuona l’eco meditante della voce straziata dell’autrice. Penetriamo così le parole di Aracoeli: nel vagare all’interno degli impercettibili segni, quel che individuiamo da subito – e che dispone la diatesi di un tracciato che via via si ramifica e s’irrobustisce delineando la configurazione di sentimenti lancinanti dall’inizio alla fine – è il vorticoso andare avanti e indietro per flashback dalla sonorità disarmonica, nella quale la raffinata malinconia di esclusivi momenti convoglia l’ispirazione alla crudezza percepita da un Manuele avvinto nell’impegno di ricostruire il proprio tracciato nel resoconto esistenziale. Non sfugge il modo in cui la sua voce s’imprima nella tessitura scritturale, laddove insiste la lettura di un tempo che scorre in simultaneità, addensandosi nel presente rammemorante di sé-quarantatreenne – nel 1975 – in una Milano che egli vive e non vive (lavora da pochi mesi in una casa editrice): nell’immediatezza del rammemorare, il tempo disperde la linearità civica e assume la sagoma di un avvenimento quale occasione di riflessioni sovente intorpidite da divagazioni, quanto rimestate in un disegno immateriale, che egli ricostruisce in un’attualità vissuta con distacco, prigioniero nella nicchia in cui i suoi sé si amalgamano in uno straniamento avvinto in un particolare sortilegio. E quale, se non il sortilegio declinato in quel 4 novembre 1975, allorquando decide che l’emancipazione dalla sua ossessione-Aracoeli (io mi domando perfino se con questo viaggio, sotto il folle pretesto di ritrovare Aracoeli, io non voglia piuttosto tentare un’ultima, sballata terapia per guarire di lei. Frugare nelle sue radici finché s’inaridiscano sotto le mie mani, poiché di estirparle non sono capace[4]) si adatti al progetto di viaggio che lo condurrà verso l’Andalusia – luogo natio di Aracoeli – El Almendral l’unica stazione terrestre che indicasse una direzione al mio corpo disorientato[5] –. Là egli si propone di attendere risposte ai suoi quesiti – portato dai suoi sensi acuti, in un cammino all’indietro, verso il punto del principio (forse a una agnizione?)[6]. Quello il luogo in cui egli ritiene possa istruire l’immagine integrale di Aracoeli quando, fanciulla, ancora non prefigurava la svolta nell’incontro travolgente con un ufficiale di Marina (Eugenio, padre di Manuele, torinese e borghese). Descritta in forma di fulminante amore, quella svolta è per Manuele l’inizio della sua non-vita (o vita bistratta nelle aspettative). Nella progressione, quel tempo non viene mai meno.

Empirico e simbolico in un sol tempo, il disegno che Manuele configura nella sua mente permette alla figura di Aracoeli di prendere una sagomatura le cui proporzioni, quanto le prospettive e gli sfondi, emergono in un’in-presenza che annulla le sequenzialità e si affida a un equilibrio del tutto personale, sincronico ed enigmatico, affidato alle interferenze principalmente riconducibili all’impressione personale di chi parla, di chi giunge a ritenere il suo pensiero l’unico spazio possibile [<le apparenze del mondo> (scrive H. Arendt) <sono divenute un semplice simbolo delle esperienze interiori, con la conseguenza che la metafora, destinata originariamente a colmare la frattura tra l’io che pensa o che vuole e il mondo delle apparenze, va in sfacelo. Lo sfacelo si produce non perché agli «oggetti» (…) venga conferito un peso superiore, ma, piuttosto, a causa della parzialità con cui si guarda l’apparato psichico dell’uomo, le cui esperienze sono intese come detentrici di un primato assoluto>[7]]. Non basta e non è soltanto questo: in Aracoeli prende corpo l’ossessiva angoscia di un futuro in cedimento, pari allo strappo significativo che la storia subisce: eterea e altra, la storia diviene meccanismo di difesa e di protezione; strumento per intercettare le potenzialità, ma anche versante sul quale relegare manchevolezze e sottomissioni.  

In tal senso la stesura di Aracoeli è un’esperienza straziante e pone in una luce di dissolvenza il credo di Elsa Morante, la sua fede nel cambiamento – una fede nel crogiolo di un’invariabilità che pure viene a disorientare la protagonista Aracoeli. Così, dunque, mentre incontriamo Manuele nel tentativo di raccogliere frammenti per ricostruire, per il tramite di Aracoeli, i pezzi della sua vita e ricostruirsi infine, in simultaneità, percepiamo un’Aracoeli intenta a raccogliere tutto, a salvare tutto in un’unicità fresca a sé, ma tanto sfingea all’esterno. Per lei nulla è nel disvalore dell’effimero. Ed è forse quell’incessante avvicinarsi alle sezioni invisibili e non-dette, né mai rivelate, che il panorama di Aracoeli sembra dilatarsi, malgrado la sua posizione vada sempre più a restringersi e restare, infine, intrapresa nel turbine di una solitudine assoluta. A lei nessun quesito viene posto e, anzi, i quesiti mancanti sono anche causa di una probabile non-mutevolezza. Viepiù, se da un verso Manuele va lentamente emancipandosi in virtù di un’intelligenza ritrovata (L’intelligenza si dà per capire[8] – la Morante affida alla voce di Manuele) attraverso viaggi che si svolgono nella sincronicità di ricordi recuperati e di esperienze cadenzate dalla spiegazione concessa da quegli stessi ricordi, quel che ad Aracoeli si concede è l’amaro incanto di ritrovarsi in un’irrecuperabilità che traduciamo come dissoluzione di un’antica speranza. Lo scenario possibile di Aracoeli è quindi l’oscurità, un’oscurità in cui converge l’intera storia del Novecento; una storia sottintesa e pure conclamata nei continui deragliamenti; maestra e guida e, simultaneamente, storia di disgregazione nell’epica polimorfica dai segmenti anti-costruttivi, di rinuncia e di sorpassi, tant’è che a segnare la svolta è la complessità intuita in una completezza che si realizza allorquando non resta che visualizzare la misurazione di spazi che non più interloquiscono, di spazi che si ammutoliscono e che destinano la provvisorietà a totale chiusura. In quel momento Aracoeli si raccorda con la «sua» vita. Scomparsa alla vista, ella procede verso l’assoluto della sua integrità in un’in-presenza ricomposta. Presente e passato orfani del futuro, stretti in un’invisibilità priva di accesso, ma probabilmente, nemmeno tanto ricercata: Per i sani la memoria è quello che la Storia è per i popoli: maestra di vita. Ma per i malati, che non la distinguono dalla fantasia, essa è concausa di turbe e traviamenti fatali[9] – leggiamo nell’icastica sentenza che Elsa Morante esplicita per voce di Manuele. È questo a riportare sul piano allusivo una storia di trascorsi che la mente disgrega in mille scampoli, e che però, d’altro canto, dà pure misura di un lascito ereditario nell’atto di tradire per sempre le aspettative. Più e più volte Manuele lo ribadisce con parole ferali all’indirizzo della madre (E diamoci qua, stasera, la malanotte. Malanotte a te, Aracoeli, che hai ricevuto il seme di me come una grazia, e l’hai covato nel tuo calduccio ventre come un tesoro,  e poi ti sei sgravata di me con gioia per consegnarmi, nudo, ai tuoi sicari[10] – Manuele afferma con un sentimento che nell’intrico dolce-amaro richiama un moto di amore ininterrotto), lasciando che dall’affollamento di impressioni provenienti dai fatti si raggiunga la coscienza di una realtà composita di mito, di sogni e di strappi, di ir-realizzazioni, infine. In tal senso, la figura di Aracoeli esula dalla rotta del dominio esterno, e consente ai propri segni di fluire all’interno delle mutevoli complessità con un linguaggio che è a un tempo simbolico, tormentato, quanto variabile e sfuggente, in una luce che appare e scompare, dissolvendosi senza tregua. Come dire: tutto turbina in un ristagno ingrigito dall’improbabilità di ascesi e così quell’altare che ella stessa rappresenta si scardina, tendendo a disporre piani di inseparabilità non senza sofferenza.

Di fatto, su Aracoeli sembra ricadere la potenza di un impegno demiurgico che, nella gestione delle immagini percepite nel quadro di «equivalenze», Manuele adotta torcendo perifrasi iconiche di quel che è, passando da controverso inquisitore irrigidito nell’intuizione (ma, al contempo, anche flebile nell’incapacità di disfarsi dell’egemonia di un’ossessione) all’astrazione di una memoria addensata, come leggiamo in anaforico squarcio più e più volte nel libro, laddove egli rigenera Aracoeli in una figura in bilico tra picchi di esaltazione, pause attardate di isolamento, fughe e riprese, durante le quali Aracoeli accorre a me (egli rivela se stesso) dalle sue longitudini. Acquista la velocità della luce. Ha già sorpassato all’indietro il muro del suono. E non mi resta che inventare il nostro incontro. Essa ha preso forma.[11]

Lentamente, l’aniconicità di Aracoeli si presenta nel tempo narrato in mutevole cromia: in una simbiosi di iridescenza e di oscurità (per sé, innanzi tutto, e per Manuele), la sua esistenza sembra fondarsi sul principio machiavellico della norma e della forza. Così ella è norma nella comprensività diegetica del viaggio di ascesa che la conduce – per amore – dalla spontaneità avita alla nuova dislocazione (del tutto allusiva del cambiamento), componendosi in un ambiente assai distante dal proprio (laddove il pathos declina sia in tormento che in coinvolgimento) e che la coglie negli echi delle vicende mondiali, ancor più penetrando la sua esistenza quando il fratello tanto amato, Manuel, colpito a morte nel corso della Guerra Civile in Spagna, diviene forma dominante sulla sua vita di dentro. Tuttavia, se lo spostamento tra due mondi non dissuade un’Aracoeli trattenuta nell’integrità di vissuto e di intima realtà, la perdita di Manuel si soffonde di speranza (forse per via dell’abbraccio in una genuinità adolescenziale) ed ella si avvinghia al suo lutto inondandolo di metamorfosi. In fondo, ancorché nella dimensione borghese, ella resta un’immagine sacra che Manuele declina quale staffetta encantadora[12] al di là di qualsiasi distinzione tra bene e male, nemmeno quando precipita – nel secondo capitolo di vita – nelle spire del suo stesso mondo solitario a seguito dell’inspiegabile morte della secondogenita Carina poco tempo dopo la nascita: una trafittura non ambita ad alcun sacrificio, né ad alcuna intelligibile motivazione.

Refrattario al ridimensionamento della visione, dunque, il romanzo Aracoeli diviene il romanzo «di» Aracoeli, laddove una sorta di storicizzazione del carattere immaginale intraprende una vera e propria sfida alle regole di linearità: in tal senso, l’operazione culturale condotta dalla Morante (per certi aspetti di natura analitica) colloca con Aracoeli l’alternativa non solo a un’idea pressante derivata dall’esperienza personale (e, pertanto di stampo neo-realistico) in contrapposizione all’istituzione familiare – come già riportato da A. Bertolucci: il sovvertimento procede anche – se non in maniera più marcata – a contrastare, con una risposta di recupero dell’autonomia individuale, la presa di posizione che vede – in antitesi all’equilibrio ricercato della Morante – l’ispessimento di una situazione sociale temprata da un ideale pervasivo, e i cui effetti non fanno che contrarre anche il tipo di cultura a cui, invece, l’autrice affida la funzione di superare una perversa prevedibilità. In questi termini, in considerazione di una struttura tanto semantica, che affidata a un avanguardistico panorama di tipo surreale o, meglio ancora, surrealista, in una forma che, quindi, insedia l’evocatività di rimando nello sviluppo degli eventi, Aracoeli – quanto l’Aracoeli-donna – appare confermare il principio secondo il quale a consolidarsi è l’intento di scoprire una pur diversificante immagine dinamica che integra – tra le maglie del misconosciuto, quanto del dis-conosciuto – la vaporosa parvenza di un relativo tracciato. Così, la riflessione si acutizza con una coesione del tutto originale, aderendo a deviazioni rispetto a qualsiasi aspettativa. Vero è pure che la Morante scriva in un tempo in cui i pensieri esorbitano da un familismo glabro, distinguendosi con un lessico creativo certo, ma anche sovversivo, per il quale le ore, i giorni e gli anni si allungano, per poi filtrare la spirale spinta in accelerazione e ricomporre la miniatura degli eventi in una corrente di giravolte e trascinamenti, in una difformità di tipo psichedelico di tale rilevanza, da concimare un nuovo ordine anacronistico che si riscatti dai turbamenti di un tempo sconsiderato, per dire, nella perentorietà di una bugia che traghetta il nonsense di un’intera vita. Sono queste le riflessioni al termine della lettura metalogica di Aracoeli: qui, l’esperienza del lutto assoluto si concentra nella coerenza delle parole; qui, pure, l’audacia di una pennellata calibrata di vero su quella che, da (ri)conoscimento individuale, giunge a prevalere sul tutto, traslando l’icona-Aracoeli da contemplare ad un’intrepida condizione da creare. Di pari passo, ciascun’espressione infittisce un impegno che vede figurarsi nel libro lo stravolgimento del rapporto tra l’autrice e la sua vita, con uno stile che permette di sporgersi tra le spire di un’umanità imbrigliata in un Vivere percepito nel momento capitale di strappo (riprendo le parole nel libro), nel cui significato è impressa l’esperienza della separazione[13]. Da una siffatta concomitanza non si può prescindere: Aracoeli è storia di un’ambizione d’amore svincolata da qualsiasi interpretazione letterale, nella ricerca incessante di un approdo che storicizzi contesti più ampi ed indicativi di una pronunciatio da decodificare oltre la semplice descrizione; tela comprensiva di incontri tra parti controverse in una varietà depositaria di frammenti indivisi; scenario di ri-unione, di esplorazione di anfratti che soltanto se disposti al pari di un’opera artistica possono esser letti in sincrono attraverso la fuga, l’uscita di scena e i balzi spazio-temporali nel bilico di avanti e indietro, nei silenzi fruscianti e nelle ombre caleidoscopiche della tela imbrattata, nel tentativo di riconciliare le assenze, quanto i fulgori deittici di una dissolvenza. Ecco, dunque, che l’impatto potrebbe tradurre un gravido scenario impressionista, laddove, nella distanza, la vista accompagna la sagomatura per poi ravvedersi e, nell’accostamento, aver contezza che si tratti di gocce in continuo spostamento, malgrado restino per consuetudine, per effetto protettivo o per inerzia, afflitte nella tela di una predestinazione. Un luogo, per dire, la predestinazione, dal quale non sfuggono nemmeno i personaggi ivi presenti e tutt’altro che disposti a far da corollario; anzi, esistenti attraverso recuperi sferzanti, sottintesi, allucinati, sussurrati in nostalgia, in risentimento, quant’anche in struggente affezione e resi credibili nella prevalente voce dei ricordi di Manuele, ai quali costoro partecipano con una proiezione spinta in un ritroso a suo modo non proprio labirintico, per via di gradienti riversati in una presenzialità dedita allo scoprimento. Di fatti, in uno scenario pluriforme in cui i sentimenti, le sensazioni, le proiezioni, vagano prescindendo dalla centralità, seppur in una cornice vettoriale decisa e al contempo distraente, lo spartito di Aracoeli si presta quale occasione di frattura risentita dal proprio tempo e dalle sue consuetudini ed è su queste condizioni che l’autrice incide la propria disillusione: di quel tempo fitto di avvenimenti in Aracoeli v’è una traccia che, sebbene oscurata da situazioni del tutto incisive, riesce a raccogliere la memoria degli anni con uno scuotimento che rimanda ad un’altra grande regista di scrittura, Virginia Woolf, alla quale la Morante sembra legarsi per la densità sostanziale di un mondo di intuizioni, per il rifiuto a qualsiasi interferenza. Ma andiamo in ordine e il nuovo ordine (di tipo epitomico per il fatto di stringere le variabilità dei possibili dire in strettoie celate dietro espressioni misteriose originali; per il fatto di condensare nella crucialità delle parole il riflesso di grevi momenti) rimanda alla combinazione pleocroica delle espressioni nelle quali insiste il riverbero di emancipazione dall’invasivo immobilismo fondato dall’assioma simbiotico di un prologo e di un epilogo a senso unico, e che varca in permanenza la doppia direzione del passato e dello spazio[14].

La scrittrice Elsa Morante

Risalendo la corrente, tutte le conoscenze consolidano così una geografia emozionale, quanto epistemica, di relazioni diffuse in un paesaggio di cui divengono primaria intonazione attraverso una lettura che, dalla concretizzazione delle circostanze si sposta a delineare l’inquietudine di quel territorio complesso che è la protagonista parlata, muta, raffinata e, a un tempo, spavalda e, soprattutto, coesa: Aracoeli-donna nei suoi tempi e nei suoi spazi, e per la quale prende forma, appunto, la doppia direzione del passato e dello spazio. Alla luce delle scarne notizie che la propongono, e consistente di una complessità nevralgica, Aracoeli si espande al pari di «una letteratura» che – recuperando una riflessione del poeta P. Bigongiari – «è una scienza nutrita di stupori». E, in effetti, Aracoeli appare figura di integrati stupori: distante da qualsiasi tipicità, in sua vece le parole «altre da sé» edificano una memoria del tutto connaturata all’etimologia del vivere nell’atto di convogliare l’unità maieutica di materialità e di sottintesi; nell’incessante deviazione rispetto a situazioni altrimenti talora intransigenti (un segno di diversità, un titolo unico: in cui Aracoeli rimane separata e rinchiusa, come dentro una cornice tortile e massiccia, dipinta d’oro[15]). Figurando tanto quanto come «esperienza» da superare e cancellare, Aracoeli è l’encantadora in grado di dominare le polarità, quant’anche le proprie abilità intellettive nel tempo in cui (è sempre di Manuele la voce) l’intelligenza contamina i misteri: violentarli è un lavoro disgraziato, che si conclude nel guasto e nella degradazione[16]. Ad Aracoeli, dunque, è attribuito il senso di asfissia solitaria della personalità di Manuele: Manuele il solitario, Manuele il più bel bambino del mondo che rammenta l’eroico Manuel, fratello scomparso di Aracoeli, a sua volta da Aracoeli elevato all’altare della gloria. Nell’incrocio costante dei passaggi da Manuele-nel presente e da Manuel-nel suo essere eterno presente, quest’ultimo è l’enigma serafico ed eroe mai ricomposto, il cui mito esiste attraverso le fasi di una memoria accrescitiva e consolatoria che liberamente accostiamo allo sprezzante Percival – l’amico-eroicizzato al quale le sei personalità protagoniste del romanzo Le Onde[17] di V. Woolf si riferiscono e che mai in scena si presenta – ritenendo che la frattura investa non semplicemente il passato e le sue riserve, quanto il principio dell’inesattezza (ivi comprendendo l’inesattezza degli sfoggi di memoria), principio che in Aracoeli dilaga a più riprese. Tutto sembra risiedere in questo presupposto come un destino forgiato su un famelico, quanto abulico, impianto di amore; un amore raccolto in una stretta claustrofobica e che nel dettaglio è rigoroso declinare verso orizzonti indisponenti. Esaltata e demolita, la figura di Aracoeli è il centro intermittente di luce e di oscurità; figlia e madre e complice del proprio affetto rilanciato nella catena invisibile che tiene metaforicamente unito il ministrante all’incensiere. Quali le colpe, se non di un abbraccio soffocante e soffocato e che distrae dal compiere altre vite: lo stesso compagno di vita di Aracoeli, Eugenio, ne viene trafitto. La piccola Carina muore e nulla più esiste. In quello che pertanto si dispone come romanzo degli archetipi e degli antonimi in simultanea vicenda, ciascun nome s’investe di una singolare lettura docimologica; toponimo senza alcuna affatazione a legittimare l’increscioso avvedimento che nulla possa cambiare e, nonostante tutto, il tutto stesso nell’allucinata invariabilità di un’esistenza mortale predestinata al deterioramento.

In effetti, sul versante diretto a raggrumare la propria esistenza, le due individualità di Aracoeli e di Manuele affrontano la propria realtà accomunati da un essere sempre in bilico a segnare il dramma in una liturgia che va e viene in un misto di intimità e miti reverenziali[18] che accompagna (o insegue, potremmo anche osare) Manuele fino ai suoi 43 anni quando L’essere già stato complice e depositario d’altri suoi segreti era il [suo] vanto nascosto, a me tanto più prezioso perché quei segreti [gli] rimanevano, tutti, in figura di enigmi[19]. Via via quella complicità innervata di un’assolutezza filiale e materna in costante sincronia si disgrega, lasciando la desolazione di un auto-inflitto isolamento e di una solitudine refrattaria a qualsiasi ricostruzione, fors’anche per via di un’incombente e distruttiva potenza speculare, quanto speculativa, di una situazione multiforme prestata agli specchi delle parole quegli stessi specchi che Secondo certi negromanti, (è Manuele a parlare) sarebbero delle voragini senza fondo, che inghiottono, per non consumarle mai, le luci del passato (e forse anche del futuro)[20]. In una siffatta oscillazione bustrofedica concepiamo Aracoeli nell’assemblage delle sue tante vite speculari nell’ennesima assenza, l’assenza di una volontà di mascherare la direzione del suo sguardo: una spirale ottenebrata da un volgersi a ritroso non tanto per nostalgia, quanto per afferrare la causa di un dolore che si trascina e si amalgama ai nuovi dolori fino all’epilogo. Da questa immagine codificata soprattutto nel nitore iconico, pur mai comparendo di sua voce, di suoi pensieri, di sue riflessioni spontanee, Aracoeli promana nel carattere proprio del romanzo, nel suo linguaggio fetale, fortemente cromatizzato da un’empatia prepotente, malgrado la solidità dei riferimenti, anche allorquando quei riferimenti si stagliano tra infingimenti immaginari e distrazioni ricondotte a una sorta di maieutica che trasla l’azione del rammemorare a una verità, invero, solo parziale: presenza sbilanciata di solitudini in una temporalità frantumata. È in un siffatto quadro che il luogo della scrittura incide l’evocazione di una ricerca di interezza; iscrive un progetto perché si confronti con un essere vocato a volere più che a chiamarsi (ed essere) vita. Ragioniamo per assurdo: se fosse pregno di elucubrazioni, il volume Aracoeli sarebbe confortevole luogo di formazione ed invece esso aspira a farsi territorio di esplorazione fuori dall’alveo di un linguaggio provocatorio. Inoltre, laddove le parole non possono adeguatamente disporre l’immagine mentale, ecco che l’estro della Morante – creatrice di versi mai disgiunta dalla Morante-scrittrice – esilia da sé qualsiasi tentativo di assommare rassegnazione e provocazione ed è in quell’immagine riportata che il rapporto con la scrittura si fa più intenso ed intimistico: policentrica e onnicentrica in un sol tempo, l’autrice si esplicita – come Aracoeli – nelle ombreggiature interdette degli eventi; si rende presenza di una quotidianità che è trasparente e che, insieme, l’avvolge in una nube di opacità.

Quali le sospensioni, se non quelle volubili di un fronte totalmente disallineato dalle consuetudini, laddove la figura di Aracoeli si diffonde su sponde biforcate in modo da congelare un essere nei raccordi di fanciulla giammai interrotta e di un essere donna in situazioni attuali, allorquando per una decisione d’amore si ritrova in un’insormontabile distanza dalla sua religiosità, una religiosità geomorfica spontanea. In questo modo, l’inscindibilità tra le figure di Manuele e di Aracoeli ancor più rende inquieta la tela degli eventi: su una sponda è Manuele. Incatenato alle sue domande, vive la presenza di Aracoeli in un amore sfuggente; altare sacrificale e faro vitale di Woolfiana memoria e pure in questo caso intinta nella sacralità di una vita da re-imbastire in un’immedesimazione con tutti i suoi tempi, all’interno dei quali tentare di ricomporsi (Io cerco oggi di nascondere a me stesso che questa seconda Aracoeli è anch’essa mia madre, la stessa che mi aveva portato nell’utero; e che lei pure sta insediata in ogni mio tempo, schernendo la mia ridicola pretesa di ricostruirmi, di là da lei, un nido «normale»[21]); sull’altra sponda è l’Aracoeli incatenata alla presenzialità dei ricordi fatti storia di sé in uno svelamento trasferito in tempi sublunari.

A questo punto non è difficile porre l’accento su quella che ci appare l’idea portante del romanzo, un’idea che riunisce invenzione e rielaborazione esperienziale nell’organicità prestata alla vista come sintesi estrema, seguendo la concomitanza di reale e immaginale pur nelle diversità che accompagnano la semantica del pensiero. Di tal specie si carica l’impianto, che scena e proscenio (il detto relazionato a fatti di individuale percezione nella “vaganza” e nell’immediatezza temporale) coincidono in una centralità che, per i motivi addotti, si priva di richiami analogici: infatti, se da un lato attraversiamo le pagine adottando un metaforico incontro con un protagonista a sé stante quale il libro è nell’intrico gnoseologico di elementi e situazioni che conferiscono una composizione per flashback a loro modo esplicativi, possibile è altresì aprire non già un percorso realizzato a vantaggio di una comprensione per sequenze simmetriche, quanto un territorio di tracce che – rilevabili e discrete – animano un movimento ritmico da inter-leggere nella trama del territorio abitato.Non solo: la dialettica delle circostanze declina la logica preservata dalle singole parole in un’abbreviazione fuor da retorica, esulando dalla litania dei suoni attendibili nel momento in cui lo sguardo-mente si volge nel tentativo di recuperare motivazioni e accadimenti che hanno cucito a maglie strette la rotta. Il momento giunge inatteso: oramai fuori dal campo visivo, Aracoeli si trattiene nell’oscuro miracolo di una preghiera (Non lasciarmi sola più e più volte ripetuto): in quella preghiera si manifesta l’incontro dei tempi di Aracoeli; i suoi fantasmi nelle segrete della sua storia, le ostilità di recenti strappi, i mutamenti e le sensazioni, tutti si rincorrono in un presente momento di universali silenzi che stralcia la sensazione di abbandono e di confortevole passività, ubbidendo al richiamo che innesta sensazioni. E nelle parole un furore aleggia, trattenendo il desiderio amaro di recuperare i resti di una coscienza che spinge a provare più un sentimento di distacco che di avvicinamento e che, sul fronte sconnesso delle indecisioni, dell’impervio e avito dubbio, provoca un penetrante senso del tutto tattile di frantumazione perenne («mi rendo conto» – scriveva V. Woolf – «con maggior chiarezza come la vita di ciascuno sia un mosaico di pezzi e come per capire una persona occorra considerare come un pezzo sia compresso e l’altro incavato e un terzo si espanda, e nessuno sia realmente isolato»[22]). Aracoeli si ritrova ad essere investita di siffatta e ancor più disorientante instabilità: condannata al disfacimento di un’identità scolpita nella perdita, ella appare dea da adorare e adorante dentro il suo mondo animato da una storia continuamente irradiata di leggenda e di paesaggi liberi; una storia che scavalca i confini della realtà condivisa e interloquisce con lo spazio indelebile di tensioni, di dis-cromiche effusioni, di mute posture, culminando in un’alterazione che ella fronteggia, pur in apparente vulnerabilità. Dove la sua voce e la sua sensibilità – ci chiediamo. Dove sono nascoste le sue parole in quella situazione difficilissima nella quale le parole riflesse di Manuele scatenano il tracciato per lei, lo fanno in sua vece, così che Aracoeli compare senza mai appartenersi: sbilanciata pronuncia nell’altrove di una memoria critica. Ed è a questo punto che i due fronti si dissuadono: Manuele va verso una conciliazione di sé; Aracoeli non va da nessuna parte, malgrado i tentativi («Per riprendere possesso di noi stessi e delle cose in modo autentico, si deve compiere una sorta di esperimento, in solitudine e in silenzio: riprodurre la durata pura, sgretolando le resistenti concrezioni del presente, intuendo al di là del pensiero immobilizzante e del linguaggio classificatorio»[23]– leggiamo con il filosofo R. Bodei): In tal senso, il romanzo Aracoeli può esser letto come svolgimento animato da un’intuizione estesa su varie prospettive al fine di superare – fin dall’esodio, coi fili dell’equivoco e dell’impostura[24] – l’imbastitura  tra pensiero immobilizzante e qualsiasi linguaggio classificatorio. Di par suo, dunque, l’opera della Morante contiene entrambi i livelli di scompaginazione emozional-intuitiva in una situazione che, nel momento in cui la parola propositiva si accinge a segnare una rotta, d’improvviso reclama autonomia finché antinomica appare, portandosi alla sospensione sulfurea di una sosia sfigurata[25]. La prospettiva è là prima ancora che il viaggio di ricerca (o il viaggio della speranza di vita) abbia inizio, sfacciata e disturbante, dapprima in forma di una corsa per recuperare frammenti da un tempo distratto da un altrove incomprensibile (E corro dietro alla mia fedele madre-ragazza, e alla sua icona musicante, ricacciando come un’intrusa quell’altra Aracoeli fatta donna, che in realtà mi ha lasciato laidamente orfano ancor prima di esser morta[26]), e poi nella forma di una sua sosia sfigurata. L’una Aracoeli mi ruba l’altra; e si trasmutano e si raddoppiano e si sdoppiano l’una nell’altra[27]. In questa lunga fase, la narrazione procede in una dualità capricciosa: realtà e irrealtà procedono indistintamente e Aracoeli si scompone e si ricompone in un irrisolvibile processo di perdita di portata cosmica. Quel che avviene nel frattempo rimanda a uno «spazio concreto estrapolato (…) dalle cose. Queste non sono in esso, è lui ad essere in loro. Soltanto, non appena il nostro pensiero ragiona sulla realtà, fa dello spazio un ricettacolo»[28]. Orbene, nel bergsoniano ricettacolo includiamo sia lo spazio vissuto che lo spazio irreale e figurativo di cui la mente di Aracoeli si tinge, espandendosi in un’irregolarità irraggiungibile e «vera» in quella misteriosa ambiguità[29] che l’ha resa immortale[30]. Di riflesso, tanto la postura di Manuele, che l’inesprimibile variabilità di Aracoeli si confrontano negli opposti a dispetto di una simbiosi pronunciata da parole significative, quanto più scoscese nella visceralità della simbologia. Così, mentre Manuele sembra converso a rintracciare la base concreta della storia che lo avviluppa nell’astrazione materna, dagli effetti oscuri, quanto ravvisabili come predestinazione in parvenze nelle quali si cela il rituale famelico del sarto notturno, (…) che di giorno dorme appollaiato su un albero come i gufi, e di notte va in giro per le camere  di certi mortali da lui prescelti, ai quali cuce addosso, nel sonno, una camicia invisibile, tessuta coi fili del loro destino[31],  Aracoeli vive una condensazione di somiglianze, malgrado la sua interezza non venga del tutto calpestata, giacché ben peggiore è la condanna dell’invisibilità mediata da un dettato delle relazioni – (…) fatto di voce fisica (…) col suo sapore tenero di gola e di saliva[32]. Il resto di lei – Quando lei si scosta i capelli dal viso, scoprendo la fronte[33], – rimane schermato dietro una fisionomia diversa, di strana intelligenza e di inconsapevole, congenita malinconia[34]. Una malinconia intima che – non sottraendosi a un dolore (s)travolgente, sfigurando e devastando[35] la solidità del rituale – si irrigidisce su fronti connessi, ma pure distintivi: l’uno conferito nell’interezza visuale, quindi frontale e unitiva; l’altro sedimentato nell’interezza visiva, simbiotica dell’io nei suoi molteplici strati convergenti, ai quali sentiamo che corrisponda Aracoeli in una valorialità indivisa, rintracciabile in un ritmo poetico per il fatto di trovarsi composizione di più piani paradigmatici e semiotici in un’atemporalità di forze che spingono ad essere tutte le dimensioni dell’esistere nel tutt’uno del tempo, il suo.

Da tutto questo l’esaltazione finalizzata a un circuito chiuso si annulla: di fatto, la Morante dà forma a un linguaggio tutt’altro che mutilato da asprezza, anzi, proprio in Aracoeli ella matura un linguaggio ricercato tra gli squarci di una profusione che parla di sé, adagiandosi su quella che può essere considerata come alfabetizzazione di un’attitudine, un’alfabetizzazione che prende in esame le diverse età dei tempi individuali e dei tempi relazionali su binari concretizzati in maniera fluttuante e talora apparentemente – e solo apparentemente – in forma di incontro. E l’autrice annulla le fratture che potrebbero rivelare quella sua realtà interiore, quel ribollimento che si propone come verità del suo essere non già mascherandolo, quanto andando alla ricerca, ella stessa, di una parola che sia artefice di un registro sinecistico allungato a sfuggire dalla banalità. Di questo registro abbiamo traccia nell’intonazione ciclica di Aracoeli-romanzo: un piano denso di sconfitte e di lacerazioni dalla gianica espressione che – potremmo dire – sia finalizzata a ricostruire gli anelli di una catena che metta al proprio posto le cose e che, nel percorso impervio della ricostruzione, si trovi spinto – e a un tempo frenato – su una strada a senso unico, ai bordi della quale non manca tuttavia la segnaletica, malgrado si tratti di una segnaletica che però non sortisce attenzione alcuna. Epperò è qui che l’essenza di Aracoeli trasmuta in un’assenza. Ed è un’assenza che tempra l’andare controverso (e controvento, aggiungo), scorrendo in una realtà virtualizzata indispensabile alla continuità e che – sempre in continuità – si scontra con lo specchio orizzontale delle cose. Una pur inesaurita risposta potrebbe giungere da quanto scriveva W. Benjamin: «Quando il pensiero si ferma all’improvviso in una costellazione satura di tensioni, provoca a essa una scossa cristallizzandosi come monade[36]». Decise e caustiche, le parole di W. Benjamin si prestano a gestire l’intera intelaiatura della figura di Aracoeli. In essa risuona il quadro maieutico che, nel configurare la donna, lascia di lei filtrare (senza opporre alcuna rinuncia, pur al limite di una materialità etonima) le alterazioni di una geografia concepita nella dimensione del sogno surrettizio, febbrilmente impenetrabile, integrandosi nella pronuncia capitale di Elsa Morante e che si diffonde tra le pagine del libro nella voce di Manuele:

Si direbbe, in realtà, all’epilogo di certi destini, che noi stessi, per una nostra legge organica, fin dall’inizio, insieme con la vita, abbiamo scelto anche il modo della nostra morte. Solo a quest’atto finale il disegno, che ciascuno di noi va tracciando col proprio vivere quotidiano, prenderà una forma coerente e compiuta, nella quale ogni atto precedente avrà spiegazione. E sarà stata quella scelta – anche se nascosta a noi stessi, o mascherata, o equivoca – a determinare le altre nostre scelte, a consegnarci agli eventi, e a segnare in ogni movimento i nostri corpi, conformandoli a sé. Noi la portiamo scritta, indelebilmente, fin dentro ogni nostra cellula[37]

Nella dimensione tanto ergonomica, che cinestetica del romanzo, trova quindi un equilibrio la formula metonimica di un’Aracoeli persistente ad eludere il senso dell’incompiuto nell’intensità di «un universo che» – afferma E. Morin – «sfugge ai canoni della realtà»[38]. In questo modo, vediamo Aracoeli procedere nell’assunto Woolfiano di un’arte – o di una vita artistica – che si stacca dalla materialità per aspirare a una totalità invero mai raggiunta (o forse raggiunta quando non più «parlata»).  Nessuna risoluzione, se non nell’”epoca” in cui il territorio asceso si frantuma in particelle minimali, in nessi interspaziali che vive nell’incessante oscillare tra i suoi dentro e i suoi esclusivi fuori nel bisogno di sfuggire a qualsiasi cancellazione, pur essa presenza per sé e presenza di un mito persistente (Me lo insegnò Aracoeli: che non era il sole, come sembrava, a girare per il cielo; ma il mondo. Il quale era mosso da un’aria circolare perpetua, così che girava sempre, giorno e notte[39]  ̶  è la riflessione di Manuele). Prospettate in un’identità eudemonica, le emozioni si ramificano nei fatti, pur mantenendosi nell’attrazione di un incantesimo. Qui l’eudemonico movimento di Aracoeli si condensa nella pluralità dei suoi resoconti immaginali. E ancora: qui il suo essere si contrae in un’appartenenza che è richiamo e legame, condanna e desiderio lacerato, sicché il processo di emancipazione che la riguarda in intimità appare sempre più risucchiato in una sorta di auto-riduzione progressiva, simile a un cero accantonato in una cattedrale oramai chiusa.

CARMEN DE STASIO


[1] E. Morante, Aracoeli (1982), Einaudi, Torino, 2015, p. 295

[2] A. Bertolucci, Elsa in «Aritmie», Garzanti, Milano, 1991, p. 150

[3] Ibi, p. 149

[4] Aracoeli, p. 27

[5] Ibi, p. 10

[6] Ibi, p. 11

[7] H. Arendt, La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna, 2009, p. 489

[8] Aracoeli, p. 359

[9] Ibi, p. 133

[10] Ibi, p. 117

[11] Ibi, p. 358

[12] Ibi, p. 25

[13] Ibi, p. 20

[14] Ibi, p. 10

[15] Ibi, pp. 11 – 12

[16] Ibi, p. 337

[17] Cfr. V. Woolf, Le Onde, 1931

[18] Aracoeli, p. 139

[19] Ibi, p. 337

[20] Ibi, p. 12

[21] Ibi, pp. 28 – 29

[22] V. Woolf, Momenti di essere – scritti autobiografici (1976, pubblicazione postuma), La Tartaruga Edizioni, Baldini & Castoldi S.p.A., Milano, 2003, p. 38

[23] R. Bodei, La filosofia del Novecento (e oltre) (1997), Feltrinelli, Milano, 2016, p. 16

[24] Aracoeli, p. 28

[25] Ibi, p. 29

[26] Ibi, p. 28

[27] Ibi, p. 29

[28] H. Bergson, Il possibile e il reale (Saggio pubblicato in rivista svedese «Nordisk Tdskrift» nel novembre 1930) – a cura di A. Branca, Edizioni AlboVersorio, Milano, 2014, p. 19

[29] Aracoeli, p. 34

[30] Ibi

[31] Ibi, p. 52

[32] Ibi, p. 11

[33] Ibi, p. 14

[34] Ibi

[35] Ibi, p. 350

[36] W. Benjamin, Sul concetto di storia – Il manoscritto affidato a Hannah Arendt delle Tesi di filosofia della storia (1940) – in «Hannah Arendt Walter Benjamin – L’angelo della storia – Testi, lettere, documenti», a cura di D. Schöttker e E. Wizisla, Giuntina, Firenze, 2017, pp. 149 – 150

[37] Aracoeli, p. 19

[38] E. Morin, Sull’Estetica (2016), Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, p. 55

[39] Aracoeli, p. 137


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“Carlo Botta non solo storico ma anche narratore e poeta”. Saggio di Dario Pasero

Noi siamo abituati a pensare a Carlo Botta, nato a San Giorgio Canavese, in provincia di Torino, nel 1766 e morto a Parigi nel 1837, come ad un uomo politico e ad uno storico, autore della Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1809), della Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (1824) e della Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789 (1832), oltre che di altre opere storiche minori. In realtà egli fu anche scrittore di romanzi e novelle, e poeta, autore di un poema epico in endecasillabi sciolti.

Nel 1796, mentre in attesa di passare in Francia si trova in Svizzera, e precisamente a Knutwiel (nel cantone di Lucerna), dove si è recato per evitare di essere nuovamente arrestato dal re di Sardegna in quanto cospiratore giacobino, scrive un romanzo epistolare, sul modello di La nouvelle Héloïse (1761) di J. J. Rousseau, dedicato al suo amore per Teresa Paroletti. Questo romanzo è rimasto inedito per quasi 200 anni, venendo poi scoperto e pubblicato nel 1986, col titolo di Per questi dilettosi monti (sono in realtà le parole con cui si inizia il manoscritto), da Luca Badini Confalonieri.

Carlo Botta

Cambiata la situazione politica in Piemonte con l’arrivo di Napoleone e la sua prima campagna d’Italia, il Botta rientra in patria e nel febbraio del 1799 la Repubblica Piemontese, dopo aver votato a favore dell’annessione alla Francia e volendo avvalorare questa sua decisione anche con una sorta di referendum, invia in Canavese ed in Valle d’Aosta, per raccogliere voti di adesione, proprio Carlo Botta, che nello stesso mese (il 19) viene anche nominato Segretario per l’Istruzione Pubblica.

Nel mese di marzo il governo provvisorio viene sciolto per lasciar posto ad una singola Amministrazione, ma gli Austro-Russi entrano a Torino il 26 maggio e Botta viene inviato col Robert a Parigi, dove resterà fino a settembre. Subito dopo chiede di rientrare in servizio nell’esercito francese, venendo assegnato come medico militare a Grenoble, dove era già stato nel 1796 e dove resterà fino almeno al mese di giugno del 1800. Il 9 giugno ad Aix sposa Antoinette Viervil e fa poi ritorno in Italia dopo la vittoria napoleonica a Marengo (14 giugno), diventando membro della Consulta piemontese.

A Grenoble Botta vive un’esperienza amorosa di cui ci lascia memoria in una novella[1], della quale il commediografo e suo grande amico Stanislao Marchisio (1774-1859), all’inizio di una serie di “schede” lessicali riportanti passi linguisticamente interessanti della Novella stessa, ci dice «questa novella è tutta sul fare del Boccaccio, vuoi per purità ed eleganza di lingua, vuoi per oscenità incomportabili. La scrisse il Botta a Grenoble, dove si era rifuggito nel 1799 quando i francesi furono scacciati d’Italia dagli austro-russi, nella sua giovine età di trentatre anni. Sotto il nome di Simplicio de’ Simplicj dipinse la propria bonarietà e dabbenaggine». È questa la novella che a quel tempo «rimasta inedita, dovette però circolare manoscritta tra gli amici», come ipotizza Luca Badini Gonfalonieri nella sua introduzione al romanzo bottiano Per questi dilettosi monti di cui abbiamo appena sopra accennato.

Presso la Biblioteca Civica di Torino è conservata, con la segnatura ms. 79, una miscellanea manoscritta contenente vari scritti di Carlo Botta. Si tratta di un volume rilegato, appartenente alla biblioteca torinese almeno dal 1912, data che si legge, scritta a matita, sull’etichetta presente in 2ª di copertina. Tranne i pochi testi di cui nell’indice si legge essere autografi del Botta, gli altri, tra cui due novelle, non sono sicuramente di mano dello storico canavesano.

Il nostro testo (Novella piacevole. Sotto lo pseudonimo Semplicio de’ Semplici da Roverbella[2]) è il testo che reca il numero 1 della raccolta ed è chiaramente, anche se non esplicitamente, autobiografico. Il contenuto della novella è così brevemente riassumibile: si inizia descrivendo la figura del protagonista, medico (proprio come Botta), e narrando il suo arrivo a Grenoble, dove incontra l’altro protagonista (Totolo), pure lui esule in Francia. I due amici conoscono due donne romane con le quali tentano dei primi approcci amorosi, che culminano, durante la notte di Natale, in una serie di vicende erotiche. A questo punto fa la sua comparsa la figura del “muscadeno” (cioè un “moscardino”), vale a dire una sorta di bellimbusto che tenta anch’egli un approccio amoroso con le due ragazze; da tutto ciò sorgono i primi dubbi dei due uomini sulla vera condizione delle donne. Si arriva quindi all’equivoco ed alla catastrofe: Totolo, trovate le donne in compagnia del moscardino francese, rivela la verità a Simplicio. I due amici incontrano un saggio personaggio originario di Bologna, cotal Assennucci che, dopo la scoperta della verità avvenuta spiando le due donne a banchetto con degli ufficiali francesi, riesce a consolare Simplicio distrutto dal dolore e dalla disperazione.

Passano gli anni e il Botta, che si è trasferito a Parigi in seguito alla sua elezione a deputato, pubblica nel 1809 la prima edizione della Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America, iniziando nello stesso anno anche la stesura del poema eroico in 12 canti in endecasillabi sciolti, Camillo o Vejo conquistata, che sarà terminato nel 1814, anche se il primo canto, nella sua prima stesura e col titolo di Camilleide, era già stato letto nel 1813 all’Accademia delle Scienze di Torino. Se ne avrà poi una seconda edizione nel 1833 (presso lo stampatore Giuseppe Pomba di Torino) arricchita di “note dall’Autore” e “con gli argomenti a ciascun canto” opera del vercellese professor Cristoforo Baggiolini e preceduta inoltre da una lettera di dedica all’antico suo compagno di studi e compaesano don Giuseppe Gallo, professore emerito di Retorica e di Filosofia e Prefetto degli Studi a Vercelli, che aveva insistito perché egli stampasse la nuova edizione del poema. Il motivo della scelta dell’argomento, la conquista di Veio da parte dei Romani guidati da Furio Camillo avvenuta nel 396 a. C., è spiegato dall’autore nel suo Avvertimento: egli si è sempre meravigliato del fatto che gli autori epici italiani, a differenza dei greci, dei latini e dei francesi, abbiano sempre scelto come argomento dei loro poemi vicende ed imprese straniere; egli invece ha voluto raccontare una vicenda che ha avuto come protagonisti, seppur come avversari, gli Etruschi ed i Romani, «due popoli dei più famosi non solo dell’Italia medesima, ma ancora di tutto il mondo».

Non stiamo ora a dilungarci sull’opera e sul suo contenuto, ma soffermiamoci solamente un attimo su di un episodio del canto XI, proprio il passo in cui il poeta fa il catalogo e la descrizione delle forze italiche giunte in soccorso degli assediati di Veio. Ai versi 1149-1162 egli descrive quelli che possono essere considerati i suoi (e nostri) antenati, i Taurini, di cui ci dice

E qui Tirreno ad Anfideno volto

così gli parla: “O buon Sannite, dimmi,

chi son costor, che con sì snelle piante

battono il calle e l’erta? Oh qual fidanza

portano in volto, e qual guerriera possa!”

“Questi, rispose, son color, che in riva

a l’alme Dore e ad Eridan superbo

di toro nati anticamente, al toro

alzan gli altari, ed han dal toro il nome.

Guardan d’Italia i passi: ora sforzati

da la romana peste accorron quivi

d’Italia a scampo, e gli vedrai ben tosto

fulminar con le spade e coi sembianti.”

Tacque; ed intanto la Taurina prole

altera trapassava e trionfante.

Poi, nei cinque versi seguenti (1163-1167), il nostro autore, con accenti che ricordano vagamente il Tasso della Canzone al Metauro, aggiunge parole tristi e dolorose per la sua condizione, quella di chi ha dovuto scegliere di vivere lontano dal suo paese

Oh dolce nido, o mia cuna diletta,

fera tempesta da te mi divelse:

or queto è ’l turbo; e pur non so, se fia

(tal mi volge destin) ch’io lasci quivi

questa vita infelice, ov’io me l’ebbi!

DARIO PASERO


[1] In una lettera scritta all’incirca nel medesimo periodo di redazione della Novella il Botta scrive: «[…] Quellapoi, ch’ebbe ad innamorarmi, e da farmi ammalato non è la francese, ma una certa testa venuta da Roma, e che par venuta dall’isola di Scio, con certi occhi, i quali pajono il fuoco,o la luce, o s’altro v’ha al mondo di più bello, di più vivace, e raggiante. Il bello poi si è, ch’essa non mi ama, e parte per Parigi fra pochi giorni. Quando adunque vedrai arrivare costà una testa romana col viso bruno, i capelli-neri, e ricciuti, una testa, dico, che dovrebbe servir di modello al più gran scultore del mondo, dì, è questa che innamorò un uomo, nel quale l’amore non dovrebbe più capire […]» (presso la Biblioteca Civica di Torino, lettera del 17Nevoso anno 8° (7/1/1800), da Grenoble, all’amico Giulio Robert).

[2] Roverbella è una località del mantovano dove sappiamo che il Botta aveva soggiornato nel 1797.


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“Il piano inclinato” di Roberto Alajmo. Recensione di Gabriella Maggio

Il titolo dell’opera, Il piano inclinato (Sellerio), immette il lettore, attraverso una metonimia, nell’universo diegetico dell’opera, evidenziato anche dall’immagine di copertina di Markenzy Julius Cesar connotata di forte espressività. Il piano inclinato su cui si muove il giovane Ousmane costituisce anche un fondale di palcoscenico, una delimitazione drammaturgica che dà corpo all’allegoria sottesa alla narrazione, alla quale rimanda la prima frase del testo: “Chiamiamolo Ousmane”. È un avviso al lettore, la comunicazione esplicita del patto narrativo che dà al protagonista Ousmane il ruolo di rappresentante di tutti gli altri minori non accompagnati che compiono lo stesso itinerario di migrazione.

Ousmane ha deciso di lasciare Kalabougou, nel Mali, per cercare fortuna altrove, in quello che chiamerà il “nuovo mondo”, secondo il consiglio che gli ha dato il padre in punto di morte: “aprire una finestra”. Ousmane sa di affrontare una grande avventura, di stare su un piano inclinato, ma non riesce a immaginare se sarà in salita o in discesa: “Ousma aveva sedici anni, e a sedici anni si ha una percezione abbastanza confusa dei fatti che accadono, anche quando accadono molto vicino.”.

Il romanzo è duro e rivendicativo. Roberto Alajmo racconta il fallito percorso di formazione on the road dell’ingenuo Ousmane nella spietata società odierna, nell’amara consapevolezza delle “occasioni mancate” della politica nei confronti degli immigrati, lasciati in un vuoto disperante dopo l’accoglienza iniziale.

Nel nuovo mondo in cui arriva, Ousmane non riesce a dare le risposte “giuste” alle domande che gli sono poste, a volte neppure riesce a rispondere, soltanto dopo molte delusioni e amarezze, oltrepassa, senza accorgersene “la soglia di consapevolezza… che marca la differenza fra quello che prima no e adesso invece sì… Ancora ha un’idea abbastanza vaga di cosa fare, ma è molto deciso a farlo.”. Trovandosi nella terra di nessuno, in attesa che la Commissione gli conceda il permesso di soggiorno, il ragazzo avrà il coraggio di rivendicare la propria dignità e dare un senso alla sua vita. Alajmo narra con vigore, alterna il ritmo lento, a quello concitato, la terza persona, all’indiretto libero. Senza facili cedimenti sentimentali dà vita a un personaggio fragile, combattuto: “Se ci riflette sopra si vergogna di certi suoi pensieri egoistici, cerca di scacciarli. Poi però pensa che finché prova vergogna è autorizzato a credere che il ragazzo ingenuo che era non è stato del tutto cancellato…”. Il piano inclinato è certamente un libro oggi necessario, aderente alla realtà, affronta, senza gli abusati cliché pietistici, il tema dei migranti, dà voce alla loro rivendicazione della propria dignità umana, non tace sulle mancanze e sulle ipocrisie del “nuovo mondo”.

GABRIELLA MAGGIO


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“Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini. Recensione di Gabriella Maggio

Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, 2024) di Antonio Franchini è un romanzo che affronta diversi temi così intimamente legati da richiedere un lettore molto attento. La storia si svolge tra Napoli e Milano, viste attraverso le impressioni e le esperienze dei protagonisti. Il tema dominante è il racconto della vita e del carattere della madre dello scrittore-narratore, Angela Izzo, orgogliosamente “sgherra “e “sannita” e per questo violenta e volgare nel linguaggio, piena di pregiudizi, avversa a tutto e a tutti: “Non concede mai al vento della sua avversione un rifugio, ma gli lascia davanti una prateria dove soffiare senza requie. Ha bisogno di odiare come di respirare, sente di non esistere se non si contrappone”.

Angela è rappresentata attraverso i ricordi e le emozioni negative che suscita nel figlio: “Mi ha dato un’educazione a rovescio: i valori ai quali si ispira o li esprime in una forma riprovevole o sono disvalori veri e propri. Detestare è il verbo preciso…”. Ma nel romanzo non c’è soltanto l’emotività propria del memoir, lente deformante dei fatti realmente vissuti dal figlio-narratore. Attraverso l’espressionismo del linguaggio napoletano, intrecciato ad un uso sobrio dell’italiano, il lettore trova una riflessione sul mondo contemporaneo.

Attraverso il comportamento di Angela lo scrittore analizza le relazioni familiari, prive di manifestazioni d’affetto e di comprensione. La madre e la nonna stabiliscono rapporti di sopraffazione sugli altri familiari simili a quelli della malavita. Il padre, estraneo alla violenza femminile, vive in un mondo suo, tranquillo e silenzioso, segnato dai lutti familiari.

La famiglia di Angela si può definire borghese, ma rivela la crisi della borghesia cittadina nell’imitazione del linguaggio e degli atteggiamenti della “plebe”, come per esorcizzarne la paura, rinunciando ad un ruolo sociale progressista. Emblematico è il dialogo tra Angela e la vicina che le chiede: “Tuo marito ti picchia? E mentre lei (Angela) mormora un no confuso, quell’altra ribadisce: “E allora vò dicere ca   nun te vò bene!”. Ed anche l’analisi di Zappatore di Mario Merola: “In realtà, l’ingratitudine filiale è solo il tema apparente di Zappatore, perché ciò che la canzone ostenta è soprattutto la fierezza del contadino, la sua superiorità morale sul signore, una  supremazia ribadita dalla posa guappesca (“senza cercà ‘o permesso abballoi’ pure), dall’imposizione di sé e del suo mezzo, dal rovesciamento per cui “Vossignuria se mette scuorno’e nuje/Pur ‘i’ me metto scuorno ’e’ ossignuria”, che è la stessa cosa del “loro schifano a  me, io schifo a loro” di Angela….Questo senso d’inferiorità dello zappatore, che si rovescia nel suo contrario, è lo stesso di tutto il Sud”.

Dal racconto risulta evidente che Angela è sì spontaneamente se stessa, con tutte le sue contraddizioni, ma è anche il “personaggio” che lei stessa s’è cucito addosso, forse per la simpatia che le sue espressioni suscitano negli amici e nei conoscenti o forse per ritagliarsi un ruolo autonomo e non succubo nel rapporto con gli altri.  Tuttavia la simpatia non riesce a conservarla a lungo perché prima o poi prevale la sua indole di “sgherra”. In fondo non le interessa quello che di lei pensano gli altri, tanto è concentrata su se stessa, sul suo risentimento: “Angela si aggira in questo magma combustibile con uno stoppino sempre acceso in mano e solo con l’imbarazzo della scelta su dove innescarlo”. Eppure Angela è un punto fermo nella vita dei familiari, soprattutto dei figli che le saranno vicini quando si trasferisce a Milano: “Eppure non sappiamo che cos’è, in realtà, questo lungo, occulto bisogno dell’approvazione di un genitore, fosse pure un mostro, avvinto a noi più strettamente proprio in ragione della sua mostruosità…”. Il soggiorno milanese dei personaggi offre l’occasione per affrontare il tema del rapporto sud nord. Angela naturalmente rifiuta di accettare il diverso modo di relazionarsi con gli altri, ostinandosi a non comprendere il modo altrui di concepire la vita. Però, sebbene continuino le incomprensioni, il rapporto tra madre e figlio in qualche modo si addolcisce.  Romanzo complesso e stratificato, dunque, è “Il fuoco che ti porti dentro” scritto con grande abilità nel comporre e intrecciare i temi e i piani temporali, nel tenere vigile l’attenzione del lettore, che pure rintracciando qualche aspetto di sé (in fondo de nobis fabula narratur) non riesce ad abbandonarsi alla storia narrata, ma resta sempre vigile e attento.

GABRIELLA MAGGIO


L’autrice ha autorizzato la pubblicazione del suo scritto su questo spazio senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. La riproduzione del presente scritto, in formato di stralci o integrale e su qualsiasi tipo di supporto, non è autorizzata senza il permesso scritto da parte dell’autrice. La citazione, con opportuni riferimenti (sito, data, link) è consentita.

“La biblioteca dei fisici scomparsi” di Barbara Bellomo. Recensione di Gabriella Maggio

Il mitico cenacolo dei fisici di via Panisperna, la misteriosa scomparsa di Ettore Majorana, una storia d’amore contrastato dalla famiglia, ma invincibile, un padre tiranno, nel contesto della storia italiana tra la fine degli anni ‘20 e gli anni ‘50 costituiscono i temi dell’avvincente romanzo di Barbara Bellomo La biblioteca dei fisici scomparsi, edito da Garzanti.

Un romanzo storico che mescola microstoria e Storia, invenzione e fatti, mette Barbara Bellomo sulla linea segnata da altre scrittrici siciliane come Goliarda Sapienza, Maria Attanasio e Simona lo Iacono. Il romanzo si sviluppa tra passato e presente, quasi un diario dei fatti essenziali che segnano la vita di Ida Clementi, la bibliotecaria di via Panisperna.

Contravvenendo al divieto paterno di lavorare, grazie all’incontro con l’illustre Orso Maria Corbino, amico del padre, Ida ottiene il posto di bibliotecaria che la mette al fianco dei più grandi fisici italiani del tempo. In particolare diventa amica di Ettore Majorana con cui condivide l’origine siciliana e la passione per la letteratura: “Signorina Clementi, lo sa che mi piace parlare con lei di letteratura?”.

Majorana farà da tramite con Alberto Guarneri, suo collega quando frequentava la facoltà di ingegneria e amico sincero. Tra Ida e Alberto è amore a prima vista, assoluto: “Come ferro e calamita”. Ma il severo avvocato Clementi impedisce con la complicità della moglie e del figlio che quest’amore possa continuare e impone a Ida il matrimonio con Raffaele Braschi. Ida cede affranta, convinta che Alberto si sia innamorato di Giulia.

Nel 1938, quando Ida sta per lasciare Roma e trasferirsi col marito a Torino, apprende dalla stampa la misteriosa scomparsa di Ettore Majorana. La notizia la rattrista molto e le fa sentire più vivo l’amore per Alberto, di cui non ha avuto più notizie.

Dopo la parentesi della Seconda Guerra mondiale negli anni ’50 a Torino Ida incontra per caso Giulia, la promettente studentessa di via Panisperna di cui era stata tanto gelosa da ritenerla responsabile dell’allontanamento di Alberto. Il colloquio con la donna la rassicura: “Credevi davvero  avessi sposato Alberto?… nella sua testa c’eri tu… mi sembrava di competere con un fantasma”. Giulia continua accennando al fatto che probabilmente Majorana e Alberto vivono a Buenos Aires e frequentano il salotto culturale delle sorelle Cometta Manzoni.

Ida comincia le sue ricerche con determinazione e nello stesso tempo conduce un’analisi interiore rigorosa che la porta allo svelamento di sé e dell’inganno perpetrato dalla sua famiglia.  Riacquista il coraggio e lo spirito libero di quando era la giovanissima bibliotecaria di via Panisperna.

I luoghi sono molto importanti secondo Fernand Braudel e nella narrazione di Barbara Bellomo hanno un ruolo fondamentale, non sono soltanto una scenografia della vita di Ida, ma tappe fondamentali e significative delle sue attese e speranze deluse a Roma, spente a Torino, rinate con ostinazione ribelle a Catania, realizzate a Buenos Aires. I luoghi sono memoria, identità, relazioni orizzontali tra viventi e relazioni verticali con i morti.

La biblioteca dei fisici scomparsi vuole esprimere anche o soprattutto che le scoperte della meccanica quantistica, realizzate in via Panisperna, dimostrano la perdita di oggettività nell’interpretazione dei fenomeni fisici e l’inquietudine per la destabilizzazione gnoseologica che ne deriva. Per questo l’opera, pur dialogando con la tradizione italiana del romanzo storico, chiama in causa i grandi autori siciliani: L. Pirandello, V. Brancati, L. Sciascia dotati di una particolare intelligenza sensibile che ha permesso loro di vedere oltre i dubbi, le paure, le incertezze degli uomini. Nel tessuto linguistico chiaro ed essenziale della narrazione s’inseriscono espressioni dialettali come lessico familiare.

GABRIELLA MAGGIO


Questo testo viene pubblicato dietro autorizzazione da parte dell’Autrice senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

X Ragunanza di poesia, narrativa e pittura: il verbale di giuria

L’ A.P. S. Le Ragunanze con i patrocini morali del Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia a Roma, Accademia Nazionale D’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, Vivere D’Arte, Leggere Tutti, LATIUM di Madrid, ACTAS Tuscania, WikiPoesia, Coordinamento Difendiamo i pini di Roma Comitato Villa Glori, comunica i nominativi di tutti gli autori e artisti premiati ai quali vanno i complimenti della Giuria composta da: Virgilio Violo (Presidente di Giuria), Michela Zanarella (Presidente del Premio), Giuseppe Lorin (Vice Presidente del Premio Le Ragunanze), Elisabetta Bagli (Presidente Latium), Antonio Corona (Vivere D’Arte), Fiorella Cappelli (Leggere Tutti), Lorenzo Spurio, Serena Maffia.

Sezione poesia a tema natura:

1° classificato: “Sine nomine” di Roberto Costantini (Roma)

2° classificato: “Senza titolo” di Fabio Romano (Roma)

3° classificato: “Il mio amico albero” di Alessandro Porri (Roma)

Menzione d’onore:

“Simboli del tempo” di Antonella Ariosto (Roma)

“Il pino e il parrocchetto” di Giovanni Battista Quinto (Matera)

“Non sanno niente” di Fadi Nasr (Milano)

“Custodi di segreti” di Carla Abenante (Napoli)

“Una quercia e un pino” di Rossana Bonadonna (Roma)

“Il viale dei venti alberi di pino” di Lucia Izzo (Roma)

“Patria” di Sofia Skleida (Grecia)

“Los pinos de Roma” di Anja Granjo (Spagna)

“Los pinos de Roma” di Veli Bogoeva (Spagna)

“Solitario pino mediterraneo” di Loli Garcia (Spagna)

“Inseguito dal sole” di Gianni Servadio (Roma)

*

Sezione libro edito poesia

1° classificato: “Luce del tempo” di Marco Onofrio (Roma)

2° classificato: “A corpo libero” di Doris Bellomusto (Lucca)

3°classificato: “La croce di carta” di Luciano Giovannini (Roma)

Menzione d’onore:

“Apophoreta” di Stefano Baldinu (Bologna)

“Il prigioniero della luce” di Danilo Poggiogalli (Roma)

“Fiorisce il mandorlo a Natale” di Gianni Pallaro (Padova)

“Lettere da quarantena” di Guido Tracanna (Roma)

“Sbalzi d’amore” di Fra Gilé (Messina)

“Poesie minuscole” di Colomba di Pasquale (Macerata)

“Se lo sguardo è da un oblò” di Ornella Gatti (Roma)

“Con gli occhi e con l’anima” di Isabella Petrucci (Ancona)

“Vivremo tutto il resto” di Loretta Liberati (Roma)

“Parliamo finché la luce non si spenga” di Stefania di Leo (Messina)

“Gabbiani sanguinanti” di Raed Anis Al-Jishi (Arabia Saudita)

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Sezione libro edito narrativa

1° classificato: “Dea contadina” di Elvira Delmonaco Roll (Caserta)

2° classificato: “L’uomo che parlava con le stelle” di Gianluca Galotta (Roma)

3° classificato: “Archeologia di un danzatore” di Claudiano Sironi (Milano)

Menzione d’onore:

“Ius sanguinis” di Maria Laura Antonini (Perugia)

“Raggi di sole” di Nadia Buonomo (Ferrara)

“Nel vicolo stretto” di Manuela Magi (Macerata)

“Senza fatica niente” di Pasquale Fierro (Novara)

“Voci dal tempo indicibile” di Francesca Innocenzi (Macerata)

“Spirespiro storie di rinascita” di Simona Maiucci (Viterbo)

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Sezione pittura:

1° classificato: “Roma: i pini e il Tevere” di Loredana Manciati (Roma)

2° classificato: “Intelligenza naturale” di Tatyana Zaytseva (Roma)

3° classificato: “Pini sparsi” di Giuseppe Galati (Vibo Valentia)

Menzione d’onore:

“Cortecce” di Bruna Milani (Roma)

“Lacrime leggere” di Samia Peroni (Roma)

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PREMI SPECIALI

Targa Anastasia Sciuto – Vera Dragone (Roma)

Targa Latium – “Il viaggio” di Stefania Raschillà (Genova)

Targa Vivere D’Arte – “Luminescenze” di Flavio Dall’Amico (Vicenza)

Targa Speciale Le Ragunanze – “Trecento anni di Giovan Battista Casti” di Quinto Ficari (Viterbo)

Targa Actas Tuscania – “Il dominio della penna” di Piko Cordis (Ascoli Piceno)

“Virdimura” di Simona Lo Iacono, recensione di Gabriella Maggio

Ciò che rende la Sicilia una dimora letteraria unica e veramente speciale è il racconto ininterrotto e serrato che i suoi scrittori ne hanno fatto con maggiore intensità e con una pronuncia sempre più riconoscibile, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento per arrivare ai giorni nostri. Una realtà di frontiera, a cavallo di culture diverse, che è un crogiuolo di esperienze esistenziali e storiche, è stata proposta, per forza di scrittura, come metafora del mondo attraverso una varietà di voci e di sguardi acuminati e dolenti costituendo una tradizione forte e vitale. (Domenica Perrone- “In un mare d’inchiostro- ed. Bonanno).

In questa dimora letteraria si colloca l’opera di Simona Lo Iacono, voce intensa e originale della narrativa contemporanea non soltanto siciliana. Da Le Streghe di Lenzavacche del 2016 a Il morsodel2017, al Mistero di Anna del 2022 fino al recentissimo Virdimura la scrittrice siracusana narra la Sicilia attraverso la storia di donne “contro corrente” dotate di uno sguardo divergente sul mondo, fedeli alle storie et alla fantasia et alla pietate, seguendo la strada tracciata da Corrada Assennato. “Forte come le mura che cingono Catania. Verde come il muschio che affiora dal duro… ti chiamerai Virdimura” con queste parole il medico Urìa dà il nome a sua figlia dopo una lunga ricerca del “segno” propizio alla scelta di un nome non casuale, legato alla sacra liturgia della natura. Insegna alla figlia, come ha promesso alla madre, morta nel partorirla, le cose che “reputava importanti nella vita, stare con le persone che leggono, che amano, che hanno compassione”. Virdimura è nata nella Catania nel XIV sec. da una donna ebrea impura  e con coraggiosa determinazione   comprende che deve   dedicarsi come il padre Urìa  a  curare i diseredati,  creature fraterne, cariche di mistero, consapevole che  l’arte medica non cura soltanto il corpo ma anche l’anima con l’ascolto  e la compassione. Non c’erano solo le piante a fornire la cura, le insegnava Urìa, ma la musica. Il ritmo. Il bagno in mare. La conversazione con i poeti. L’osservazione delle stelle.

Nel 1376 Virdimura  è  la prima donna ad ottenere “ licencia praticandi in scientia medicine circa curas phisicas corporum humanorum, maxime pauperum” davanti alla Commissione di giudici presieduta dal Dienchelele. Di questa antica donna medico l’Archivio di Stato di Palermo conserva  un documento assai scarno, quello  in cui  le si conferisce la licencia.  

Simona Lo Iacono ricrea con fine sensibilità ed empatia la storia di Virdimura dall’epilogo, dal racconto di sé che la donna fa ai giudici che l’esamineranno nell’arte medica. Virdimura, come Urìa  ed il marito Pasquale, vive in armonia con la natura e gli uomini, lontana dalla città  talvolta ostile, dove regnano l’avidità ed i pregiudizi. Tutti e tre avvertono lo grido degli ultimi che sale dalla terra, e si mettono al loro servizio.

La Catania di Virdimura era la più bella delle città. Popolosa. Gloglottante. Colma di ebrei, musulmani, arabi, cristiani. Nessuno parlava una sola lingua, masticavamo un po’ tutti i dialetti…non diversa dalle città d’oggi multietniche. Da quel tempo antico a noi moderni giunge un messaggio, un invito a considerare preziosa la nostra vita, a viverla con consapevolezza attraverso lo studio, l’amore, la compassione, prendendoci cura dell’altro soprattutto se è debole, senza dimenticare “la sacra liturgia della natura”.

La frase di Veronica Roth, in limine, è emblematica e guida il lettore nell’interpretazione attualizzante: “Ma ora ho imparato un’altra cosa. Possiamo guarire, se ci curiamo a vicenda”. Nel  romanzo Virdimura  senza fratture né conflitti conquista la propria identità e la sua reale  parità con gli uomini. Mentre intorno a lei le altre donne sono succube di pregiudizi di uomini autoritari. Il convincimento che l’uomo è un essere confinato che cerca eternamente di sconfinare  è la filosofia  sottesa  alla storia  e fa da freno e da guida al comportamento dei personaggi principali.  Un alone di favola avvolge la narrazione per la continua allusione a un sapere antico e saggio che lega l’uomo all’uomo e  alla natura; per il senso del viaggio che con le diverse esperienze che offre ai personaggi maschili, Urìa, Josef, Pasquale, li forma e ne mette in luce la tempra che oggi possiamo definire eroica;  per il luogo separato dalla città  dove  vive la  protagonista sulla riva del mare, presso  una saia, e organizza nella sua  casa –laboratorio-ospedale-biblioteca, un asilo per chi ne ha bisogno, offrendo in maniera disinteressata le sue cure, frutto di  un sapere armonioso e vitale acquisito  studiando  le piante e  le pietre; per la lingua poetica  con intarsi dialettali e di italiano antico.

GABRIELLA MAGGIO


L’Autrice ha autorizzato alla pubblicazione del presente testo su questo sito senza nulla avere a pretendere al gestore all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 01/2023 – “Quando una lingua non basta: Beppe Fenoglio e “La malora””. Saggio di Dario Pasero

Il 1° di marzo del 1922 nacque ad Alba (Cuneo) Beppe Fenoglio, il quale, nella seconda metà degli anni ’30, frequentò il locale ginnasio-liceo classico[1], dove, tra gli altri insegnanti, si trovò particolarmente a suo agio con la docente di inglese Maria Lucia Marchiaro. Delle lezioni di letteratura inglese durante gli anni ginnasiali egli ricavò non solo modelli linguistici, ma anche morali, così come possiamo ricavare dalle sue stesse opere, in cui uno dei riferimenti a lui più congeniali è la storia inglese del secolo XVII, rinvenibile in filigrana sia nella scelta del soprannome partigiano di Milton, che egli scelse per il protagonista di vari suoi racconti, sia nella figura emblematica di un round-head[2], cioè un soldato dell’esercito repubblicano di Oliver Cromwell, cui egli si paragona spesso[3].

Dal punto di vista linguistico, invece, l’eredità più evidente lasciatagli dallo studio dell’inglese è – come si sa – la presenza, massiccia ed invasiva talora fino al parossismo, di termini inglesi intercalati, con estrema nonchalance dovuta alla padronanza assoluta dello strumento linguistico, nel tessuto lessicale italiano del testo del romanzo Il partigiano Johnny[4], in cui la presenza di una sorta appunto di “sostrato” inglese ha fatto sì che l’attenzione sulla lingua dell’autore si concentrasse sui rapporti italiano-inglese, tralasciando (almeno in parte) il rapporto tra quella che doveva essere la lingua materna fenogliana, cioè il piemontese (sia la koinè che nella sua variante langarola)[5], e quella imparata sui banchi di scuola, cioè l’italiano.

La lettura dei testi fenogliani[6] ci presenta infatti una presenza continuativa di piemontesismi, sia (soprattutto) lessicali sia sintattici e fonetici, oltre ad un discreto numero di forme idiomatiche, presenti in maggior misura nelle parti dialogate, ma tuttavia non del tutto assenti anche in quelle narrative o descrittive. Certamente troviamo una maggior quantità di voci piemontesizzanti in testi ambientati nell’alta Langa e narrati in prima persona e/o con molte parti dialogate, come La malora[7], mentre più rare tali voci sono in testi o ambientati ad Alba (o con protagonisti comunque cittadini) oppure – dal punto di vista narratologico – che prevedano un narratore esterno.

1. Fonetica

Un solo esempio, nella Malora, di fenomeno fonetico piemontese: bei stupidi (406), adattamento del piemontese bej stùpid[8].

2. Lessico

Si collocano in questa categoria sia a) prestiti o calchi di parole piemontesi, solamente traslitterati in italiano, sia b) termini che, pur esistenti anche in italiano, sono tuttavia da Fenoglio usati in un’accezione peculiare del piemontese, differente rispetto al loro uso in lingua.

a)

bricco (brich): collina, altura, anche in senso metaforico “gran quantità” (cfr. it. “montagna di…”), un bricco di cose (397); cabalizzare (gabolisé): ipotizzare, indovinare (393); cadreghino (cadreghin, diminutivo di cadrega, “seggiola”): seggiolina (410); cascinai (cassiné): proprietario o conduttore di cascina (419); censa (censa): privativa di tabacchi (372); chiabotto (ciabòt): casetta rustica (407); corba (còrba/gòrba): cestino (381); diffizioso (difissios): diffidente, difficile da accontentare (398); disgenato (dësgenà): non imbarazzato (400) e, al contrario, genato (genà: imbarazzato; 412) e genava (dal verbo gené; 419); droganti (drogant): imbroglioni (392); frusto (frust): consumato (410) e sono frustato (sono consumato, dal verbo frusté; 425); lingeria (lingerìa): biancheria (423); macello gentile (masel gentil): macelleria, specificamente di vitelli (372); paglione (pajon): pagliericcio (379); partitante (partitant): compagno di gioco, di partita (405); paste dolci (paste dosse): pasticcini (405); pelandracce (plandrasse): sfaticate (usato come peggiorativo di plandra, pelandrona) stroppo di pelandracce (374); penduto (pendù): appeso (420); piumarli (piumé): spennarli, usato in senso metaforico (392); porrata (porà): termine di cui l’autore stesso dà nel testo la spiegazione[9] (434); rubarizio (robarissi): furto (409); sbardati (sbardà/sbardlà): dispersi (421); schiavenze (s-ciavensa): cura di un podere d’altri (431); schivare/schiviare (schivié, ed anche nella forma riflessiva schiviesse): mettere da parte, farsi da parte (riflessivo) schivarmeli (“mettermeli da parte”; 371) schivai un po’ di soldi (“misi da parte”; 429) oppure ancora “evitare, tenere lontano” se potevo schivarlo lo schivavo (419); sfisonomiata (nell’espressione “la voce… sfisonomiata”; [dë]sfusumià): alterata (425) ed allo stesso modo lo sfisonomiava (“gli storceva i lineamenti”, dal verbo dësfusumié; 405); smangiate (smangé): corrose, sfilacciate (410); stanchità (stanchità/strachità): stanchezza (408); si stortagnavano (stortagnesse): si contorcevano (408); stracco (strach): stanco (374); stroppo (strop): gregge, mandria (e per traslato: gruppo) stroppo di pelandracce (374); svegliarino (dësvijarin): sveglia (410); sversa (nell’espressione “anima sversa”; svers): sconvolta (399); tiretto (tirèt): cassetto (423); travata (travà): trave centrale (378).

b)

abbrancata (brancà): attaccata (401); andare (nel nesso “far andare”; fé andé): lavorare la terra far andare la terra (398); arrangiare (nell’espressione: “t’arrangia lo stomaco”; rangé): sistemare, mettere a posto (401); arrembarsi (arambesse): avvicinarsi ci si arrembarono (396); ascoltare (scoté): ubbidire (392); avanzare (vansé): evitare o risparmiare avanzare lo zolfino (373); battere (nell’espressione “battere i mercati”; bate ij mërcà): vendere al mercato (372 e 376); i bracci (ij brass): le braccia (375); budelle (buele): budella (380); buon’ora (bonora): presto (383); cimentarsi (cimentesse): stuzzicarsi, darsi fastidio si cimentavano (396); comandare (comandé): ordinare (usato in genere all’osteria) comandai una bottiglia (436); comprare (caté [na masnà]): partorire (423); contentare (contenté): accontentare mi contenta (377); cuciniera (cusinera): cuoca (389); fardello (fardel): corredo da sposa (387); figlio (specialmente nella formula “un bravo figlio”; fieul/brav fieul): ragazzo[10] (400), oltre che anche “figlio”; forgiare (forgé), usato come intransitivo: essere fatto in certo modo, pensarla in un certo modo ero forgiato (383); garretti (nell’espressione: “giù fino ai garretti”; garèt): talloni (395); gesto (gest): azione, fatto (specialmente in senso negativo) che gesto (395); giornata (giornà): misura terriera piemontese, equivalente a 3.810 m2 (379); giuntare (gionteje): rimetterci ci avrei giuntato (402); governare, solo nell’espressione “governare le bestie” (goerné le bes-ce): accudire alle vacche (430); incamminare (ancaminé), usato in forma transitiva: cominciare incamminargli il discorso (402); incontrare, usato in forma intransitiva assoluta (ancontré): avere fortuna non incontriamo (418); mancare (manché): (eufemistico) morire era mancato (371); mischiare (mës-cé): nell’espressione “mischiare un mazzo di carte” lo mischiava (404); naturale (natural): carattere (388); onta (onta): vergogna non ti piglia l’onta? (381) si lasciò prender dall’onta (432) e così l’aggettivo ontosa: vergognosa (405); originale (original): strambo (417); particolare (particolar): piccolo proprietario agricolo (387); partita (partìa [’d gent]): gran quantità, numero; nell’espressione “una partita di…” una partita di gente (404); pastura: il pascolare in pastura (374); perdonare (përdoné): condonare, lasciar perdere stasera ci perdonate il lume (405); pertugio (përtus): buco (386); pilone (pilon): edicola votiva campestre (407 e 428); ramazzare (ramassé): letteralmente scopare, ma usato col valore traslato di raccogliere, prendere tutto, far piazza pulita ramazzava la posta (404); riva: costa, fianco (di una collina) la riva da legna (373); rocca (ròch/ròca): masso, macigno (401); scorciare (scursé): accorciare scorciato i capelli (377); scuro (scur): sera (nella locuzione a scur: a sera) a scuro (372); servente (serventa): serva, domestica (383); servire (serve/servì): essere servitore (in campagna) avevano già servito (377); slargare (slarghé/slarghesse): spargere si slarga la voce (410); soffrire, transitivo e in espressioni in genere negative (sufrì/seufre): sopportare non poteva soffrirlo (419); solette (nell’espressione “far solette”; fé solëtte): fare la calza (426); spesso, come sostantivo: l’insieme ammassato di qualcosa lo spesso delle case (382); spogliare, nell’espressione “spogliare la meliga” ([dë]speujé): sfogliare il granoturco (dëspeujé la melia; 419); studiare (studié): pensare attentamente, riflettere o cercare una soluzione lasciami studiare (399); svariare, usato come intransitivo pronominale (svariesse): divertirsi (412); taglie (taje): tasse pagare le taglie (373 e 378); tempesta (tampesta): grandine (378); tirare, nell’espressione “mi sentivo tirato verso”; essere attratto (406); tossico (tòssich/tòssi): veleno (380); uomini (òm/òmini): mariti (389); inoltre l’espressione buonuomo per “sempliciotto, ingenuo, poco furbo” (407); vegliare (vijé): nel senso specifico di “si faceva la vijà (veglia) nella stalla” (398); verga (vërga): fede nuziale (387).

Sintassi

In particolare notiamo l’uso dei pronomi, quello delle reggenze verbali, ed alcune costruzioni sintatticamente diverse da quelle italiane, alcune delle quali – invero – potrebbero anche essere registrate nell’elenco, successivo, delle forme idiomatiche.

da me solo: da me (372; da mi sol); non me ne sarebbe fatto niente: importato (380; a sarìa famne gnente); mentre che ero: mentre ero (382; mentre ch’i j’era); tanta di quella gente: così tanta gente (383; tanta ’d cola gent); della meglio: della migliore (387; dla mej); niente del tutto: assolutamente niente (390; nen d’autut); con tutto che: per quanto, benché (394; contut che); con più niente da dire: senza nulla più da dire (398; con pì nen da dì); né di sì né di no: né sì né no (400; che ’d si e che ’d nò); guardava di storto: guardava storto (400; dë stòrt); da raro: raramente, di rado (402; da ràir); dirmelo amico: considerarlo amico (404; dimlo amis); lungo questa settimana: durante (405; arlongh costa sman-a); discorrergli insieme: parlargli (407; ciaciareje ’nsema); ce n’è almeno mezzi più indietro di me: c’è almeno la metà meno bravi di me (412; a-i n’j’é almanch mesi); per nostro conto: per conto nostro (416; për nòst cont); né più né meno che te: di te (417); aveva solo fatto che prendere: non aveva fatto altro che… (419; a l’avìa mach fàit che); non si sentiva più che chiamare: si sentiva solamente chiamare (420; as sentìa mach pì ciamé); esserci al caso: essere nel caso in cui (420; esse al cas); fin passato: fin oltre (420; fin-a passà); il più su che arrivai: il punto più alto a cui… (421; ël pì sù ch’i son rivaje); a mio povero figlio: usato senza l’articolo determinativo (438; a me pòvr fieul).

Forme idiomatiche ovvero modi di dire tipici del parlato quotidiano

sia scesa alla mira di: sia arrivata al punto di (372) e siamo a una buona mira: siamo ad un buon punto (379); in mira ai figli: di fronte ai (380) e alla mira degli altri, all’altezza degli altri (383); si viene a una mira che: si arriva ad un punto che (409)[11]; col cuore in bocca: col cuore in gola (373); Braida: uso del cognome, da parte della moglie, per indicare il proprio marito (374 e 423: Rabino); con del buon tempo: tempo da perdere (374; ëd bontemp); tirò un numero: andare di leva (374; tiré ’l nùmer); in paga: in contraccambio, in ringraziamento (375 e 421; an paga); il mazzo ce l’aveva sempre lui: era sempre al centro dell’attenzione, teneva sempre banco (375; avèj ël mass an man); uno scudo: moneta da 5 lire (375); le dava dei nomi: la insultava (376, dé dij nòm/nomass) e mi caricavi di nomi: di improperi (423); alla larga nel bosco: libero (377), mi diede la larga: mi lasciò libero (384) e diede la larga: liberò (420; dé la larga); bestemmiare un’esagerazione: moltissimo (381); sotto il grano e sotto l’uve: al tempo del raccolto del… (381); c’è posto che: può darsi che (381); alzargli gli occhi in faccia: guardarlo in faccia, negli occhi, sfidarlo (384); o assassino: disgraziato, usato come insulto (384, ah sassin!); per quattr’ore: per le quattro (384; quatr ore); allungato le gambe sotto una tavola: mettersi a pranzo, in genere nelle feste (387; slonghé le gambe sota la tàula); cos’aveva visto: cosa le era capitato (390; cò a l’avìa vist); ci faceva basta: ci bastava (392; a fà basta); gli aveva dato sul cuore: danneggiato il cuore (394; dé an sël cheur); il tempo s’era girato: era cambiato (396; ël temp a l’era virasse); dare i due botti: suonare le due (398; dé ij doi bòt); le case in faccia: di fronte (398); le disse tutto attaccato: tutto di seguito (399; tut tacà); parlato del vento e della pioggia: del più e del meno (400; dël vent e dla pieuva); m’aveva attaccato una festa: aveva parlato male di me (404; taché na festa); non c’è nessun confronto: non c’è paragone (405; pa gnun confront); della mia leva: mio coscritto, coetaneo (406); assaggiarlo bagnato nell’olio: averci a che fare sempre (407; tastelo bagna ’nt l’euli); con la pancia lunga: dover attendere quando si ha fame (411; avèj la pansa longa); di sua scienza: di testa sua, con la sua esperienza (414; ëd soa siensa); toccarlo nei soldi: toccare negli affari o costringere a pagare o ancora chiedere un prestito (415; tochelo ant ij sòld); allegro: modo di salutare (415; alégher!); una faccia mezzo e mezzo: così così (417; mes e mes); madame di cascine: signore cascine (418); avevano più caro: preferivano (419; avèj pì car) e ho più caro (427); venivo su a once (probabilmente altra grafia per a onge, cioè “a unghie”): a piedi (421); passata sul raspo: alla meno peggio, alla lontana (426; calco per passà sla rapa); che metà bastavano: che erano fin troppe (427; la metà a vansava); non era fuori del caso: non era impossibile, strano (428; pa fòra dël cas); mi tiravano le satire: mi prendevano in giro (434; am tiravo ’d sàtire).


[1] Intitolato al generale e uomo politico Giuseppe Govone (1825-1872).

[2] Letteralmente “testa rotonda”: così erano popolarmente chiamati i soldati di Cromwell in quanto, in opposizione alla monarchia ed alla nobiltà, non portavano la parrucca.

[3] Sappiamo che Fenoglio tradusse alcune parti, per proprio interesse, della biografia di Cromwell dall’edizione inglese di Charles Firth (1857-1936), edita nel 1900. Inoltre, acutamente Davide Lajolo intitolò proprio Un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe la sua biografia dello scrittore albese, che avrebbe certo voluto essere «un soldato di Cromwell con la Bibbia nello zaino e il fucile a tracolla», come ci rivela il suo amico e maestro Pietro Chiodi, suo professore di filosofia al liceo.

[4] La presenza di termini inglesi inseriti nel fluire della narrazione aveva fatto ipotizzare ad alcuni critici che tale romanzo, nella sua interezza o almeno in molte sue parti, fosse stato concepito direttamente in inglese, e poi tradotto in italiano, lasciando tuttavia alcuni relitti inglesi al suo interno. Tale ipotesi è stata poi confermata da un frammento, edito col titolo di Ur-Partigiano Johnny, di alcuni capitoli del romanzo scritti direttamente in inglese.

[5] Le vicende storiche e socio-linguistiche del Piemonte hanno fatto sì che nella regione, oltre alle varie forme dialettali locali (nel caso di Fenoglio il langarolo), si costituisse una koinè sovraregionale, in pratica coincidente pressoché del tutto col torinese. Tale koinè era, almeno fino a circa 70/80 anni orsono, compresa (e spesso anche usata) anche da coloro che normalmente usavano nel loro parlare quotidiano la loro forma dialettale locale. Questo doveva essere il caso di Fenoglio, così come di quasi tutti gli abitanti borghesi delle principali città e cittadine (come Alba) del Piemonte.

[6] L’opera omnia di Fenoglio è stata edita in Opere (ed. critica diretta da M. Corti); Torino (Einaudi) 1978. Vol. Primo (Tomo i): Ur-Partigiano Johnny [Ur] (a cura di J. Meddemmen); (Tomo ii): Il partigiano Johnny [PJ] (a cura di M. A. Grignani); (Tomo iii): Primavera di bellezza [PB]; Frammenti di romanzo [FrR]; Una questione privata [QP] (a cura di M. A. Grignani); Vol. Secondo: Racconti della guerra civile [RGC i-vii]; La paga del sabato [PS]; I ventitré giorni della città di Alba [VGA i-xii]; La malora [M]; Un giorno di fuoco [GF i-xii] (a cura di P. Tomasoni); Vol. Terzo: Racconti sparsi editi e inediti [RS]; [Quaderno Bonalumi; QB]; [Diario; D]; Testi teatrali [T]; Progetto di sceneggiatura cinematografica [Sc]; Favole [F] (a cura di P. Tomasoni); Epigrammi [Ep] (a cura di C. M. Sanfilippo). Le citazioni in questo nostro lavoro sono fatte seguendo tale edizione.

[7] Proprio per tale motivo ci siamo limitati, per ora ed in questa sede, ad affrontare, segnalando sempre la pagina secondo l’edizione einaudiana di riferimento, il testo della Malora, quale opera più fortemente “piemontesizzante”, rimandando ad altro momento l’analisi di altri testi narrativi fenogliani. Sulla lingua di questo breve romanzo si veda anche B. Villata, La langue de la malora, in “L’Arvista dl’Academia” vii (Luglio-Settembre 1997), pp. 29-46.

[8] Anche nelle altre opere i casi sono rarissimi. Segnaliamo solamente, a mo’ d’esempio, dei zolfini (RGC I [I 23 giorni della città di Alba], pag. 13): non esistendo in piemontese il suono della z italiana, esso viene sostituito da quello della s sonora.

[9] «che è una traccia di porri e meliga che si semina verso la porta di chi è stato lasciato da una donna nel giorno che lei si sposa con un altro». Il dizionario di G. F. Gribaudo (Dissionari piemontèis; Torino 19963) alla voce porà recita “minestra di porri”, mentre alla voce povrà (facendola derivare però da póver, “polvere”) ci dice “striscia di crusca che si spingeva fin sulla porta di chi era stato rifiutato in matrimonio”.

[10] Lo stesso per il femminile fija: “ragazza” oltre che “figlia”.

[11] Tutte queste forme originano dal valore del termine mira: “punto, altezza, riferimento, segno” (cfr. Gribaudo, cit., s. v.).

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N.E. 01/2023 – “I libri: lo specchio dell’Io. Guido Morselli e l’ultimo romanzo “Dissipatio H.G.””. Saggio di Maria Grazia Ferraris

“Hegel ha sognato una realtà in sé per sé, io sognavo una realtà con me e per me.

Dove gli altri non hanno luogo, perché non ci sono” (G. Morselli.)

I libri rispecchiano sempre l’autore, qualsiasi sia il genere letterario in cui si inseriscono. Giustamente C. Pavese affermava: “Ogni autentico scrittore è splendidamente monotono, in quanto nelle sue pagine vige uno stampo ricorrente, una legge formale di fantasia, che trasforma il più diverso materiale in figure e in situazioni che sono sempre press’a poco le stesse.”

In modo esemplare questo avviene in un autore geniale come Guido Morselli[1]  che ne è autorevolmente consapevole (basta leggere le sue  prefazioni, i paratesti ai saggi e ai romanzi autoriali oltre che i suoi romanzi) in cui narratore e protagonista coincidono, facendo del narratore-protagonista, onnipresente nell’opera, il proprio alter-ego, in un dialogo dell’io con se stesso, che si costruisce  per mezzo della scrittura e la sfrutta mediandola, come un Giano bifronte, in una prospettiva drammaticamente solipsistica, dove l’autobiografia implicita non è solo solipsismo, ma io straripante, oggetto di una vera e propria narrazione che  assume una cifra del tutto particolare, di dialogo con personaggi scomparsi, specialmente nell’ultimo suo romanzo: Dissipatio H.G.( l’ultimo romanzo prima del suicidio dell’Autore). Tutta la produzione di Morselli del resto- dai saggi ai racconti, ai romanzi, al Diario- vanta una componente fortemente legata e condizionata al vissuto personale dell’autore varesino.

Dissipatio H.G. è un’opera originalmente e definitivamente autobiografica, che rispecchia l’Autore al punto tale che il suo protagonista, che parla in prima persona, finisce con l’indentificarsi con l’autore, e non lascia spazio a fraintendimenti.  È insieme una cronaca memorialistica e un denso resoconto di un passato incancellabile, fallimentare, che continua a riaffiorare ossessivamente.

Il romanzo  scritto tra il 1972 e ’73, ( Dissipatio Humani Generis, titolo desunto dal tardolatino  Giambico, è composto da 20 capitoli brevi  e composto nella forma di un quadernetto di appunti che occupano la durata di un mese (giugno)circa). Non ha trama. I vari personaggi vivono solo in correlazione con  l’autore. Non avendo genere non è etichettabile. È figlio di una mente alta e altra mai pacificamente catalogabile. Può essere questo il motivo principale  per il quale è stato clamorosamente rifiutato dagli editori, salvo essere ripetutamente omaggiato dopo la morte dell’Autore.

Due sono i tempi delle azioni. La prima è la scoperta che il mondo è vuoto dalla presenza degli umani, la seconda dalla scoperta devastante che il  vuoto dei altri è l’altra faccia del vuoto dentro il proprio io. In ognuno di questi tempi assisteremo al  tentativo del narratore di suicidarsi, il suicidio infatti, come per la storia umana di Morselli, è il centro dell’opera: “gli uomini ubbidiscono alla chiamata della morte. Io, per esempio, non ho ubbidito. Ero refrattario alle chiamate, evidentemente; virtù o viltà, sopravvivo” fa dire all’io narrante ancora indeciso.

Il protagonista di “Dissipatio H.G.”, uomo lucidissimo, ironico, ipocondriaco, e soprattutto ‘fobantropo’, attirato da un feroce solipsismo, decide-  già all’inizio del racconto-  di annegarsi in uno strano laghetto in fondo a una caverna, in montagna. Ma all’ultimo momento cambia idea e torna indietro. Il genere umano proprio in quel breve intervallo, è scomparso, volatilizzato. Per il resto tutto è rimasto intatto.

Così paradossalmente l’umanità è ora rappresentata da un singolo che era sul punto di abbandonarla e che comunque non si sente adatto a rappresentare alcunché; neppure a tratti se stesso.

La volontà di suicidio del protagonista  che desidera annegarsi in un laghetto è fortemente sociale ed è legata alla collettività, perché a sparire non sarà lui, che cambierà idea e non si getterà nel lago, ma l’intera umanità che evapora nel nulla, mentre lui rimane l’ultimo essere umano presente sulla faccia della terra, trovandosi un mondo silenziosamente mutato, senza nessun evento catastrofico. L’uomo che voleva morire è l’unico a sopravvivere.

È l’elaborazione narrativa di una fantasia di angoscia- la scomparsa del genere umano- “ Io sono ormai l’Umanità, io sono la Società”.. Nessuno dispone di me, io dispongo di tutto. ..Non c’è più che l’Io, e l’Io non è più che mio. Sono io.”

Morselli espone ed indaga  la triplice liberazione: dall’uomo, dal tempo e dalla proprietà. La scomparsa dell’uomo dalla faccia della terra si trascina dietro la scomparsa del concetto del tempo (chiaro elemento soggettivo) e della proprietà, con conseguente fine delle guerre e delle distruzioni. Cosa resta dunque dopo la scomparsa del genere umano? Rimane una natura che riavrà finalmente se stessa. La fine dell’uomo non è affatto la fine del mondo.

“La fine del mondo? Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi. […] Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro.”

Le caratteristiche del protagonista sono quelle di Morselli-uomo. Ama la solitudine, è in fuga da se stesso e dagli altri, vive, ecologista ante-litteram, appartato e solo  in una dimora alpina nel cuore privilegiato dei luoghi morselliani, la Svizzera, di cui pur disprezza l’opulenza borghese e i suoi rituali perbenistici, incapace di voli pindarici fantastici e dell’illusione del meraviglioso, consapevole  del suo lucido raziocinare nichilistico, autoironico, ma condannato alla mediocrità.

Comincia allora un appassionante monologo, sullo sfondo della solitudine assoluta e di un silenzio rotto soltanto da qualche voce di animale o dal ronzio di macchine che continuano a funzionare. Ed è un monologo che presto si trasforma in un dialogo con tutti i morti, tenuto da un unico vivo che a momenti pensa di essere anch’egli morto.

Riaffiorano spezzoni di ricordi, particolari sepolti riemergono come decisivi e, mentre i pensieri si affollano, cerca dappertutto un qualche altro sopravvissuto, vaga tra luoghi odiati e amati, tra le sue montagne e Crisopoli (chiaramente Zurigo). Tutto è uguale, eppure tutto è per sempre trasformato.

“Eppure  il  silenzio  gravava  e  io  lo  registravo  con  un  senso  diverso  da  quello  uditivo, forse  emozionale,  forse  riflesso  e  ragionante. Ciò  che  fa  il  silenzio  e  il  suo  contrario,  in  ultima  analisi  è  la  presenza umana,  gradita  o  sgradita;  e  la  sua  mancanza.  Nulla  le  sostituisce,  in questo  loro  effetto. E il  silenzio  da  assenza  umana,  mi  accorgevo, è  un  silenzio  che non scorre. Si  accumula.” Una summa di sé. Una continua ricerca e  ridefinizione che il narratore dà di se stesso e della relazione con gli altri che non ci sono più. “ Il pensiero  è stato quasi sempre solitario, fine a se stesso, asociale. Secreto da monadi senza finestre, o che non si curavano di mettersi alla finestra. L’idolatria della comunicazione era un vizio recente. E  la società, dopotutto,era semplicemente una cattiva abitudine”.

Non può comunicare, solo scrivere. Scrivere è diventato nella struttura che regge il romanzo la unica comunicazione con il proprio sé:  l’altro non esiste nel romanzo, come non è presente nella vita dell’autore.

“Lo faccio, e sono contento di farlo, soltanto per me. Io sono il destinatario, non il provvisorio consegnatario.” Lo spazio di scrittura quindi è senza interlocutori, come è avvenuto del resto nella vita di Morselli, in attesa di essere riconosciuto come romanziere, scrittore, l’unico superstite che attende che qualche fantasma si renda visibile.

 Eppure Morselli sa per esperienza  che narrare è una finzione, un falso, e che ormai non è rimasto più niente da narrare…, è consapevole che tutto ciò che un narratore narra non sono altro che preconcetti,  le proprie ubbie, le proprie emozioni, i propri ricordi, perché «l’esserci ha una tendenza essenziale alla vicinanza». “Oggi noi non possiamo narrare che tutto ciò che ci è «vicino» e quindi incomprensibile; ciò che è «lontano» ormai non fa più parte del demanio del «romanzo» è desiderio irrealizzabile.”

Morselli ci fa attraversare con mirabile sottigliezza tutte le reazioni del sopravvissuto, che vanno da una sinistra ironia e, quasi, euforia, alla «superbia solipsistica», finché a poco a poco si fa strada in lui la paura, un’angoscia senza confini.

“Io sopravvivo. Dunque sono stato prescelto, o sono stato escluso. Niente caso: volontà. Che spetta a me  interpretare, questo  sì. Concluderò che sono il  prescelto, se suppongo che nella notte del 2 giugno  l’umanità ha meritato di finire, e la dissipatio è stata un castigo. Concluderò che sono l’escluso se  suppongo che è stata un mistero glorioso, assunzione all’empireo, angelicazione della Specie, eccetera. È un’alternativa assoluta, ma mi si concede di scegliere. Io, l’eletto o il  dannato. Con la curiosa  caratteristica che sta in me eleggermi o dannarmi. E bisognerà che mi decida.”

“La memoria involontaria non ha altro, e questi ricordi vi fluttuano insistenti e vaghi. Relitti inconsistenti, e ormai reliquie. Un lungo panico, in principio. E poi, ma tramontata subito, incredulità, e poi di nuovo paura. Adesso l’adattamento.”

“Se c’è stata l’umanità e ora ci sono io, solo io, decido di assumermi i compiti che ‘loro’ hanno dovuto abbandonare. Che cosa facevano ‘loro’ in sostanza? Che cosa facevano? Beh, è abbastanza semplice: agivano in vista di utilità. Inoltre, ragionavano sulle cose che si vedevano intorno, o che credevano di vedersi dentro. Poi, le rappresentavano, parole, segni, suoni. Altro non facevano. Sarò un riduttivo (un semplificatore), ma ho idea di non avere tralasciato nulla. Continuarli, o sostituirli, non è un’impresa da farmi tremare, non farebbe tremare nessuno. In fin dei conti non avevano troppe pretese, né ambizioni”.

E, mentre il delirio corrompe ogni residua certezza, il protagonista si abbandona a cercare le improbabili tracce di un amico dimenticato, unico ricordo di rapporto reale che gli resti della sua vita precedente.

C’è qualcosa di disperato e, insieme di sereno in queste pagine, fra le più belle di tutto Morselli – e certo le sole in cui accetti di far trasparire la sua dura pena personale. E c’è, alla fine, una grande immagine in cui convivono, pacificati, tutto e il contrario di tutto: nelle strade deserte di Crisopoli-Zurigo, coperte ormai da uno strato leggero di terriccio, crescono piantine selvatiche. Nel Mercato dei Mercati spuntano, ignari, i ranuncoli e la cicoria. E l’ultimo uomo, che già era stato del tutto solitario fra gli uomini, siede e aspetta.

“Fatemi morire, nel bene o nel male li devo raggiungere. Non ero diverso da loro, mi assomigliavano tutti. Ignoranza e superbia incluse”. Dichiara il disagio personale del non-riconoscimento, del vuoto:

“È che sono solo. Il mondo sono io, e io sono stanco di questo mondo, di questo io”.

Il finale di questa opera colpisce profondamente, concentrato in una visione idillica e disperata contemporaneamente: “ Rivoli  d’acqua  piovana  (saranno  guasti  gli  scoli nella  parte  alta  della  città)  confluiscono  nel  viale,  e  hanno  steso sull’asfalto,  giorno  dopo  giorno,  uno  strato  leggero  di  terriccio.  Poco più di un  velo,  eppure  qualche  cosa  verdeggia  e  cresce,  e  non  la  solita erbetta  municipale;  sono  piantine  selvatiche. Il mercato dei Mercati si cambierà in campagna. Con i ranuncoli, la cicoria in fiore. In tasca tengo, per lui,(l’amico Karpinsky, di cui prova nostalgia, l’unico che rimpiange)  un pacchetto di gauloises”

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[1] Morselli  (Guido), scrittore italiano (Bologna 1912 – Varese 1973). Trascurato in vita dall’attenzione degli editori, riuscì a pubblicare solo due saggi, Proust o del sentimento(1943) e Realismo e fantasia (1947); mentre, dopo la tragica morte per suicidio, scoppiò il suo “caso letterario”, che lo segnalò come romanziere di lucida ironia e disincantata intelligenza. Tra i suoi romanzi, qui elencati secondo la data di pubblicazione, Roma senza papa (1974), Contro passato prossimo (1975), Divertimento 1889 (1975), Il comunista (1976), Dissipatio H. G. (1977), Un dramma borghese (1978). A essi va aggiunto, tra i saggi, Fede e critica (1977), imperniato sull’inconciliabilità fra la perfezione di Dio e il male nel mondo. Nel 1987 è apparso, a cura di G. Pontiggia, il suo Diario.

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N.E. 01/2023 – “La lacrima e il sorriso: Ortis e Didimo Chierico”. Saggio di Graziella Enna

Molte notizie relative al periodo veneziano di Foscolo, che precedono direttamente la stagione dell’Ortis, ci giungono dalle sue epistole. L’autore mostra un ritratto di sé da cui emergono tratti di ascendenza alfieriana caratterizzati da un’indole sdegnosa, corrucciata e incline alla malinconia. In altre, inviate al Cesarotti, affiorano temi come le sventure familiari, la solitudine, l’amicizia, la vita perseguitata e la morte. Da tutti questi elementi si palesa uno spirito dibattuto tra speranze, illusioni, passioni forti, momenti di estrosa vivacità alternati ad altri, opposti, impregnati di angoscia esistenziale, lamento elegiaco, profonda tristezza, prefigurazioni del personaggio appassionato dell’Ortis. Quando Foscolo, in giovane età, approda alla stesura del romanzo epistolare, ha già illustri antecedenti. La storia dell’infelice e giovane Jacopo, ardente di passioni patriottiche e consumato da una divorante passione amorosa, non è certo una mera imitazione né di Goethe ne“I dolori del giovane Werther”, né di Rousseaunella “Novelle Héloïse”, dai quali certamente ricavò alcune suggestioni ed elementi legati soprattutto alla struttura ma da cui si distacca ampiamente. Solo nella premessa alla sua ultima edizione spende alcune parole sul raffronto con il Werther goethiano, dalle quali possiamo evincere lo spirito tutto foscoliano. Mentre il Goethe meditò a lungo sull’opera e poi la stese di getto, l’Ortis è il diario delle sue angosciose passioni proprio come lui le provava di giorno in giorno. Nel Werther la molla dell’azione dall’inizio alla catastrofe è soltanto l’amore, in lui invece è rappresentata una gamma variegata di sentimenti umani rapportata alle condizioni storiche e alle delusioni politiche: desideri, illusioni e disinganni si rincorrono. Se Goethe riversa nel suo personaggio solo qualche aspetto della sua vita, Jacopo Ortis invece è il Foscolo stesso al cui nome egli è indissolubilmente legato. Tutto ciò si può facilmente dimostrare analizzando la storia delle vicende per le quali l’opera passò. A diciotto anni Foscolo concepisce, mentre si trovava nei colli euganei, l’idea di un romanzo epistolare, “Laura, lettere”, che compendiava le sue prime delusioni d’amore. Due anni dopo a Bologna, dopo il trattato di Campoformio e la bruciante passione per Teresa Monti, diede all’opera il titolo che conosciamo amalgamandovi suggestioni di matrice roussoiana, (come emerge dal nome Jean Jaques che Foscolo traduceva Gian Jacopo), ma anche a un fatto di cronaca: Ortis era infatti il cognome di uno studente morto suicida a Padova. Mentre il Foscolo combatteva in varie parti d’Italia con gli eserciti rivoluzionari dopo aver lasciato Bologna, nel 1800 si innamorò di Isabella Roncioni, promessa sposa ad un altro, traendo da quest’esperienza l’ispirazione per proseguire la sua opera giovanile (pubblicata arbitrariamente, come è noto, da un certo Sassoli con il titolo di “Storia di due amanti infelici”). Nel 1802, a Milano, integrò le pagine già scritte ma si accorse che la vicenda del giovane suicida non esprimeva più interamente il suo stato d’animo. Vagheggiò così la stesura di un’altra opera in cui poter rispecchiare più fedelmente se stesso senza però indossare la maschera tragica del suicida. Voleva intitolarla “Sesto tomo dell’io”, storia di un anno intenso della sua vita, il 1799-1800, fatto di amori, battaglie, un ferimento nell’assedio di Genova, le peregrinazioni nell’Italia invasa da eserciti stranieri. E’evidente che Foscolo volesse riportare toni ben diversi da quelli dell’Ortis, arricchendoli con l’ironia e la mutevolezza di impressioni e opinioni per mostrare il suo processo di maturazione. L’opera non fu portata a termine, ma le pagine stese non risultarono inutili nella prosecuzione dell’Ortis a cui egli tornò dopo la caduta del Regno italico e il ritorno a una situazione simile a quella degli anni di Campoformio. Foscolo abbandonò l’Italia per affermare la sua libertà di scrittore, divenne esule come Jacopo e gli affidò i suoi pensieri, in particolare quelli presenti in un’opera polemica di carattere politico rimasta senza compimento, “Della servitù dell’Italia”. Nell’Ortis entrarono questi discorsi come risulta chiarissimo nella lunga lettera del 17 marzo in cui afferma con veemenza l’incapacità degli Italiani a trovare la motivazione per ribellarsi dall’asservimento straniero.

Gridano d’essere stati venduti e traditi: ma se si fossero armati, sarebbero stati vinti forse, non mai traditi; e se si fossero difesi sino all’ultimo sangue, né i vincitori avrebbero potuto venderli, né i vinti si sarebbero attentati di comperarli. Se non che moltissimi de’ nostri presumono che la libertà si possa comperare a danaro; presumono che le nazioni straniere vengano per amore dell’equità a trucidarsi scambievolmente su’ nostri campi onde liberare l’Italia!

Ancora si veda questo passo in cui evidenzia l’inerzia delle classi dirigenti e dell’intellighenzia.

L’Italia ha de’ titolati quanti ne vuoi;[…] I medici, gli avvocati, i professori d’Università, i letterati, i ricchi mercatanti, l’innumerabile schiera degl’ impiegati fanno arti gentili, essi dicono, e cittadinesche; non però hanno nerbo e diritto cittadinesco.

Questo passaggio sarà ripreso nel passo dei “Sepolcri” (vv.142-145)

Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,/Decoro e mente al bello Italo regno,/Nelle adulate reggie ha sepoltura/Già vivo, e i stemmi unica laude. 

Gli esempi dimostrano che, rispetto alla compattezza dei suoi capolavori, forse l’Ortis può apparire caotico ma in realtà contiene in nuce tutti i motivi topici foscoliani senza i quali forse non si potrebbero comprendere le opere maggiori. Dietro questa forma imperfetta e abbozzata della sua poetica il protagonista è un tutt’uno con l’autore che prorompe dalle pagine con il suo potente individualismo, con la sua passionalità, con un’enfasi retorica arricchita di riferimenti culturali classici, proponendo al lettore un ritratto che può amare o odiare. L’Ortis ha una grande complessità di relazioni con la vita dell’autore che si compendia nella famosa affermazione nell’epistola al Cesarotti del 12 settembre 1802:

«fra un mese avrai in nitida edizione pari a questa una mia fatica di due anni, ch’io chiamo il libro del mio cuore. Posso dire di averlo scritto col mio sangue; tu ergo ut mea viscera suscipe. Da quello conoscerai le mie opinioni, i miei casi, le mie virtù, le mie passioni, i miei vizi, e la mia fisionomia».

Lo scrittore Ugo Foscolo

Parte integrante del nuovo Ortis fu poi la Notizia bibliografica in cui tentò di spiegare l’opera e il suo significato. In buona sostanza l’Ortis ci rappresenta lo specchio della vita foscoliana non in un solo momento della sua esistenza relegata all’età giovanile. Il fatto che l’opera sia continuamente in fieri, palesa chiaramente la necessità da parte dell’autore di rivederla, di correggerla, di completarla. La critica moderna ha poi analizzato le lettere d’amore rivolte a Antonietta Fagnani Arese e vi ha riscontrato una perfetta e fittissima corrispondenza con i sentimenti espressi da Jacopo nei confronti di Teresa, nel romanzo. Ecco alcuni esempi:

Epistola:   “Non ho niun soccorso negli uomini, niuna consolazione in me stesso. Ormai non so che ricorrere al Cielo e pregarlo con le mie lacrime, e cercare conforto fuori di questo mondo dove tutto ci perseguita e ci abbandona. Credimi, mia Antonietta, se il mio pianto, se le mie preghiere, se i miei rimorsi, se il dolore profondo che è fatto carnefice ormai di questo povero cuore, fossero rimedi bastanti per te, tu saresti risanata, ed io ringrazierei i miei tormenti”

 Ortis :  “Non abbiamo piú niun soccorso dagli uomini, niuna consolazione in noi stessi. Omai non so che supplicare il sommo Iddio, e supplicarlo co’ miei gemiti, e cercare qualche aiuto fuori di questo mondo, dove tutto ci perseguita o ci abbandona. E se gli spasimi e le preghiere e il rimorso, ch’è fatto giá mio carnefice, fossero offerte accolte dal cielo, ah! tu non saresti cosí infelice, ed io benedirei tutti i miei tormenti”.

Epistola:  “Mi sono gettato su quel letto, e mi sembrava ancora caldo dell’orma del tuo corpo divino…mi sembrava ancora odoroso. Oh primo giorno! Come tu sei stampato nel mio petto!”

Ortis:   “Mi sono prostrato, o mia Teresa, presso a quel tronco, e quell’erba ha dianzi bevute le più dolci lagrime ch’io abbia versato mai; mi pareva ancora calda dell’orma del tuo corpo divino; mi pareva ancora odorosa. Beata sera! come tu sei stampata nel mio petto!”

Epistola: “Tutto è follia, mia tenera amante, tutto purtroppo! E quando anche il soave sogno de’nostri amori terminerà, credimi, io calerò il sipario; la gloria, il sapere, l’ amicizia, le ricchezze, tutti i fantasmi che hanno recitato fino ad ora nella mia commedia, non fanno più per me”

Ortis: “Tutto è follia mia dolce amica; tutto pur tropp! E quando il mio sogno soave terminerà, quando gli uomini, e la fortuna ti rapiranno a questi occhi, io calerò il sipario: la gloria, il sapere, la gioventù, le ricchezze, tutti fantasmi che hanno recitato fino ad ora nella mia commedia, non fanno più per me”.

 È evidente una deliberata scelta di Foscolo di trasferire completamente la propria vita nell’arte che dal punto di vista tematico si traduce nei motivi essenziali della sua poetica. Anche lo stile è variegato e composito, passa dai toni drammatici e patetici a quelli espositivi e distesi, come se lo scrittore trovasse la soluzione dei suoi conflitti in questi elementi apparentemente discordanti. La continua revisione di Foscolo ha trovato un sostegno notevole sia nel suo esercizio epistolare, sia nella lettura e traduzione di Sterne, di cui conosce le opere intorno ai vent’anni. Mentre si trova a Calais al seguito dell’esercito napoleonico fu a stretto contatto con dei prigionieri inglesi da cui ricevette l’originale del romanzo “La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo”. Sterne è un  autore è molto diverso da lui proprio per la comicità e l’ironia intrinseche alla sua poetica. Stranamente Foscolo conosce anche l’inglese, (mentre tutti gli intellettuali all’epoca conoscevano solo il francese), così decide di tradurre Sterne. Non sceglie il Tristram, ma un altro libretto, il “Viaggio sentimentale” che era, come dice il titolo, un diario di viaggio fatto dall’autore tra Francia e Italia. Foscolo inizia la sua traduzione nel 1805 a Calais, ma poi l’abbandona e la rifà da cima a fondo a Firenze, poi la pubblica a Pisa nel 1813 con il titolo “Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, traduzione di Didimo Chierico”. Quando Sterne aveva pubblicato l’opera, l’aveva attribuita ad un personaggio fittizio di nome Yorick, come il buffone di una famosa scena dell’Amleto di Shakespeare. Foscolo è molto attratto dall’umorismo di Sterne e dall’atteggiamento di Yorick, che si contrappone all’immagine stereotipata del viaggiatore settecentesco e guarda al comportamento degli uomini evidenziandone l’incoerenza. Foscolo, imitando Sterne, attribuisce la traduzione ad un fantomatico letterato chiamato Didimo Chierico, eccentrico personaggio che vestiva da prete senza aver assunto gli ordini sacri, aggiungendo in fondo alla traduzione la “Notizia intorno a Didimo Chierico”. Sostiene di aver ricevuto da lui il manoscritto con la preghiera di pubblicarlo. In realtà Didimo è l’autoritratto di Foscolo maturo, mentre l’Ortis era stato il suo ritratto giovanile. Dall’epistolario di Foscolo è possibile estrapolare dei riferimenti alle difficoltà che incontrò nel tradurre, che gli pareva un’impresa servile. A suo parere, la traduzione non doveva essere un atto puramente meccanico ma possedere qualcosa di originale, essere una cosa sua propria, l’aspira a comporre una figura in cui riconoscersi e farsi riconoscere. Non ha ancora terminato l’Ortis e già nasce in lui l’idea di un secondo alter ego, (che non aveva portato a compimento nel “Sesto tomo”), più maturo e più savio. Questa nuova maschera foscoliana acquista il suo senso posta in relazione all’Ortis. Didimo è infatti l’anti Ortis o meglio, l’Ortis sopravissuto, divenuto letterato, traduttore, commentatore, con lo stesso animo di un tempo ma totalmente disincantato. È un personaggio che si mostra estraneo ai tempi, eppure ne vive le contraddizioni, ha vissuto la durezza della vita militare, ha conosciuto la vanità e la supponenza di intellettuali eruditi, ma a sua volta recita la parte del pedante esprimendosi ironicamente con un linguaggio dotto e obsoleto, ha vissuto una giovinezza appassionata ma col tempo ha ridimensionato le sue pulsioni come testimoniano queste parole nella “Notizia”:

Dissi che teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana.

Esiste poi un differente punto di vista in cui si pone l’autore: Ortis è Foscolo in prima persona, Didimo, (questo è l’elemento caratterizzante dello scritto autobiografico), parla come un’altra persona. Didimo viene tenuto a distanza come se lo scrittore volesse fare ammenda della sua intemperanza giovanile per dare una nuova immagine di sé, lucida, disincantata e verace.In luogo della scrittura delle passioni tristi di Jacopo il nuovo scritto contiene l’osservazione delle cose del mondo, un nuovo tipo di ironia che è il patrimonio di Yorick trasmesso a Didimo che adotta un punto di vista meno doloroso e tragico della realtà sostituendo i giudizi perentori, l’intransigente moralismo, i toni oratori e ampollosi a una visione mite velata di ironia. Alcuni stralci della “Notizia” presentano così Didimo:

 Insomma pareva uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall’indole sua naturale, s’accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana. E forse aveva più amore che stima per gli uomini;

Ma pareva, quando io lo vidi, più disingannato che rinsavito; e che senza dar noia agli altri, se ne andasse quietissimo e sicuro di sé medesimo per la sua strada, e sostandosi spesso, quasi avesse più a cuore di non deviare che di toccare la meta.

Jacopo vive nell’aspirazione continua ai miti di perfezione, nell’esasperazione di sentimenti e passione politica. Didimo, in una sua personale autarkeia, accetta la felicità modesta e relativa che si può ricavare dalle proprie esperienze quotidiane. Non sono però che due aspetti che convivono nella personalità foscoliana, da una parte la ricerca dell’ideale, dall’altra l’accettazione intelligente e saggia della quotidianità.

  • Caretti Lanfranco, Ugo Foscolo, Milano, Garzanti 1969
  • Fubini Mario, Ortis e Didimo, Milano Feltrinelli 1963
  • Barbarisi Gennaro, Le postille di Didimo Chierico al “Viaggio sentimentale”, in Giornale Storico della Letteratura Italiana; Torino Vol. 135, Fasc. 409, 1958
  • Matteo Palumbo, Jacopo Ortis, Didimo Chierico e gli avvertimenti di Foscolo “Al lettore” Source: MLN , Jan., Vol. 105, No. 1, pp. 50-73 Published by: The Johns Hopkins University Press, 1990
  • Ferroni Giulio, Storia della letteratura italiana, dall’Ottocento al Novecento, Einaudi, Milano 1991
  • Foscolo Ugo, Notizia intorno a Didimo Chierico,  CURATORE: M. Fubini http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/  2001 TRATTO DA: “Opere” di Ugo Foscolo Edizione nazionale sotto gli auspici del Ministero della P. I. Firenze, Le Monnier, Vol. V: Prose varie d’arte
  • Foscolo Ugo, “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, Milano, Bur Rizzoli 1999

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Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

N.E. 01/2023 – “Tommaso Landolfi, l’odioso pronome e lo specchio opaco dell’autobiografismo”. Saggio di Giusi Manuela De Rosa

Dopo fiere lotte (avevo cominciato a scrivere Io, e mi son vergognato e ho corretto in Dopo: ancora e sempre, imperterrito benché furioso con me stesso, e come il mondo e l’anima mia fossero immobili, io seguito a piantare i miei Io in testa al drappello delle parole, quasi portabandiera!), dopo fiere lotte mi son rassegnato, ho detto, alla paternità sulla fede di Dostoevskij.[1]

Inizia così una pagina di Rien va, forse il diario landolfiano più conosciuto, e di fronte ad esso, come di fronte a tutta l’opera dello scrittore di Pico, ci si chiede quanto ci sia di maschera e quanto di reale, quanto la confessione nuda, schietta, spietata sia rimandata: l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un io che teme di far trapelare troppo, di andare troppo in fondo, di raggiungere il punto di non ritorno del rimosso; eppure la scrittura di Tommaso Landolfi cerca tale profondità indagativa, in un percorso tutto interiore che mira ad arrivare alle proprie ferite, perché, come scrive nella sua prima raccolta di poesie Viola di morte «dovunque la penna arriva, / si ritira il suicidio. / Così, dicesi, il cane / guarisce ogni sua piaga / se soltanto la arriva con la lingua».[2] Da qui il rapporto del tutto peculiare dello scrittore con il genere dell’autobiografia, evaso ma contemporaneamente onnipresente[3] nei suoi racconti: Landolfi non come maestro della dissimulazione, ma come autore radicalmente sincero a chi trova la giusta chiave di lettura, a chi sa strappare via la «maschera di ferro»[4].

L’io landolfiano, infatti, ritorna costantemente, ma è un ospite inatteso e non voluto, un’entità egoista, che piega ai suoi bisogni la prosa: un «portabandiera» delle parole, un io-soldato pieno di sé che, ignorando le fluttuazioni del mondo e della propria stessa anima, rende impossibile una confessione più diretta, una narrazione più efficace. Vi è in Rien va un secondo riferimento in tal senso:

Prendiamo la più semplice delle frasi, «Io sono», e gridiamola o diciamola appena, ma cercando di prenderne interamente coscienza: che avvilimento, che vergogna. Qui peraltro c’è un po’ di malafede: la più semplice delle frasi è anche la più compromettente. Altra più anodina allora, se però c’è una frase anodina. «Io ho»? – peggio! «Io mangio»? – che schifo! Le frasi che contengono l’odioso pronome non possono essere anodine, dice.[5]

Lo scrittore Tommaso Landolfi

Il pezzo citato parte da una riflessione dell’autore sulla falsità delle frasi una volta pronunciate, sul tradimento dell’espressione e della voce stessa nei confronti del loro punto di partenza: Landolfi, infatti, lamenta più volte l’impossibilità di risalire a una parola primigenia, non sfruttata, che esprima tutto ciò che serve sapere e che non invecchi mai pronunciandola (si legga, a questo proposito, la riflessione sul canto dell’assiuolo in Night must fall[6], ultimo racconto del Dialogo dei massimi sistemi). In particolare, le frasi che contengono il pronome io sono compromettenti e mai blande o neutre; portano con sé una sorta di colpa, e il soffermarvisi è motivo di vergogna. Sotteso alle allusioni landolfiane è il celebre passo della Cognizione del dolore dell’amico Carlo Emilio Gadda, in cui Gonzalo, protagonista e alter-ego gaddiano, scaglia una feroce invettiva contro la prima persona singolare, idolo per la cui affermazione si arriva alle piaghe dell’egoismo e del narcisismo, anticamere di atti distruttivi:

Il figlio dubitò, col volto: «la mamma non ne vorrà sapere, la conosco: non c’è nulla da fare con lei… […] bel modo di curarsi! …a dire: io non ho nulla. Io non ho mai avuto bisogno di nessuno! …io, più i dottori stanno alla larga, e meglio mi sento… Io mi riguardo da me, che son sicura di non sbagliare… io, io, io! […] Ah! il mondo delle idee! che bel mondo! …ah! l’io, io… tra i mandorli in fiore…poi tra le pere, e le Battistine, e il José! ….l’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!…»[7].

L’io è un pronome «lurido», uno dei «pidocchi del pensiero»[8], una debolezza ricorrente dell’uomo, che non riesce a far altro che focalizzarsi su se stesso, rischiando di perdere il quadro complessivo delle cose.

Ricordiamo un altro stralcio landolfiano che accenna al tema, tratto da Prefigurazioni: Prato, rara prosa di aperta, forte e sincera confessione autobiografica su un periodo dell’infanzia passato in collegio: «Io (ma quante volte ho scritto questo dannato pronome?), io ero un bambino che a un anno e mezzo avevano portato davanti a sua madre morta, colla vana speranza che i lineamenti di lei gli rimanessero impressi nella memoria; e che aveva detto: lasciamola stare, dorme»[9]. L’io, «questo dannato pronome», incontra la dimensione dolorosa e oscura della morte, le irrisolte ombre che aleggiano sulla scrittura di Landolfi, che rendono unico il suo fantastico svuotato; si legge qui il motivo più profondo della reticenza dell’autore verso l’io e allo stesso tempo il bisogno di non ignorarlo, l’imperativo di seguirlo, in un’indagine letteraria che fu definita da Giacomo Debenetti «illuminismo delle tenebre».

È allora possibile definire il libro landolfiano uno specchio dell’io, ma uno specchio opaco, che fatica a riportare un’immagine limpida, completa del sé; eppure capace di riflettere l’essenziale e di illuminare il lettore con improvvise rivelazioni, a volte apparentemente lontane dal percorso intrapreso, a volte riportate in superficie grazie al personaggio dell’inetto o del fool di memoria amletica; rivelazioni radicali, nude, da proteggere con una lingua-pelle[10], ricercata e preziosa, e con il magistero dell’arte[11]. Bisogna, perciò, essere capaci di leggere lavori come Cancroregina in quest’ottica, notando come la fantasiosa trama dell’astronauta, bloccato dentro una navicella-mostro che sembra aver assunto una propria coscienza e costretto a orbitare all’infinito intorno alla Terra, senza poter tornare a casa né allontanarsi, è funzionale a una disanima interiore autentica e sconvolgente, che confessa il cuore del sé e allontana solo il contingente: che non è, poi, sempre stato accessorio?

Bibliografia

T. Landolfi, Opere, a cura di I. Landolfi, con prefazione di Carlo Bo, vol I, Milano, Rizzoli, 1991.

T. Landolfi, Opere, a cura di I. Landolfi, vol. II, Milano, Rizzoli, 1991.

T. Landolfi, Viola di morte, Milano, Adelphi, 2011.

C.E. Gadda, La cognizione del dolore, a cura di P. Italia, G. Pinotti e C. Vela, Milano, Adelphi, 2017.

Gli ‘altrove’ di Tommaso Landolfi, Atti del convegno di studi, Firenze, 4-5 dicembre 2001, a cura di I. Landolfi e E. Pellegrini, Roma, Bulzoni, 2004.

La «liquida vertigine». Atti delle giornate di studio su Tommaso Landolfi (Prato, Convitto Nazionale Cicognini, 5-6 febbraio 1999), a cura di I. Landolfi, Olschki, Firenze, 2002.

G. Debenedetti, Il “rouge et noir” di Landolfi, in Id., Saggi, progetto editoriale e saggio introduttivo di A. Berardinelli, Milano, Mondadori, 1999.

P. Zublena, La lingua-pelle di Tommaso Landolfi, Firenze, Le Lettere, 2013.


[1] T. Landolfi, Rien va, in Id., Opere, a cura di I. Landolfi, vol. II, Milano, Rizzoli, 1991, p. 256.

[2] T. Landolfi, Viola di morte, Milano, Adelphi, 2011, p. 178.

[3] Vedi I. Landolfi, Nota introduttiva, in T. Landolfi, Opere II, cit., p.VIII.

[4] Scrive Landolfi sempre in Viola di morte, cit., p. 154: «La maschera è una forza / finché si dia qualcuno / che brami di strappartela; altrimenti / tu ci muori dentro / come la Maschera di Ferro».

[5] T. Landolfi, Rien va, cit., p. 298.

[6] T. Landolfi, Night must fall, in Id., Dialogo dei massimi sistemi, in Id., Opere, a cura di I. Landolfi, con prefazione di Carlo Bo, vol I, Milano, Rizzoli, 1991.

[7] C. E. Gadda, La cognizione del dolore, a cura di P. Italia, G. Pinotti e C. Vela, Milano, Adelphi, 2017, p.85.

[8] Ivi, p.86.

[9] T. Landolfi, Prefigurazioni: Prato, in Id., Opere II, cit., p. 743.

[10] P. Zublena, La lingua-pelle di Tommaso Landolfi, Firenze, Le lettere, 2013.

[11] Si legge ne LA BIERE DU PECHEUR, in T. Landolfi, Opere I, cit., p.575: «fatalmente la mia penna, cioè la mia matita, piega verso un magistero d’arte, intendo verso un modo di stesura e composizione che alla fine fa ai pugni con la libera redazione propostami, e di’ pure colla mia volontà di scansar la fatica. Non potrò dunque mai scrivere veramente a caso e senza disegno, sì da almeno sbirciare, traverso il subbuglio e il disordine, il fondo di me?»

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Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

N.E. 01/2023 – “Lo sguardo nudo. Le novelle di Luigi Pirandello come specchio della vita”. Saggio di Cinzia Baldazzi

A Claudio e Adriano, pirandelliani come me

Non vorrei essere intesa in termini realistici se consiglio (un invito che formulo dall’adolescenza) di utilizzare le pirandelliane duecentoquarantasei Novelle per un anno da specchio della vita quotidiana, giorno per giorno, con il suo intricato contesto moltiplicato in un macrocosmo di fatto infinito, perché coinciderebbe con il ricordare quanto l’esistenza sia un travaglio, un’avventura faticosissima, una lotta ininterrotta. Tuttavia questa raccolta, tra i risultati più eminenti della narrativa, se percepita come proiezione metaforico-letteraria della dimensione reale, immanente, appare in grado di mostrare lo sconforto ma, al tempo stesso, le vie di uscita operative (non alludo, in tal senso, alla “follia”) alla realtà di per sé contraddittoria: comprensiva com’è di una famiglia succube di incombenze e responsabilità schiaccianti, hic et nunc preferito di finzioni, norme sociali, impegni di lavoro alienati, ciclici, deprimenti, poco apprezzati, mal retribuiti.

In un ambito del genere è corretto anche valutare l’input implicito nella catena della violenza, espressa in svariate manifestazioni: ad esempio in Cinci[1] (1932) – composta nella maturità, provvista di un impianto veristico – dove lo splendore della disperata vicenda conduce alla certezza ricavata dalla scoperta dell’Inconscio offerta dalla psicoanalisi (lo sappiamo bene: Luigi Pirandello la conosceva) nonché della sua aura onirica: ciò a cui assistiamo – non solo nel racconto – è vero o falso? È opera del Conscio o dell’oscurità dell’Inconscio inaccessibile? Una simile domanda, circa cento anni dopo, pur nelle diverse ipotesi create dalla scuola freudiana e dalla psicologia analitica junghiana, attende ancora risposta.

Proprio all’interno delle sue soluzioni aperte, dunque, scaturisce la proposta di percorrere un iter dell’οὐ-τόπος (utòpos) che consista nell’accogliere le metafore dell’angoscia esistenziale – tanto centrale in questi racconti – nella loro matrice cognitiva, liberatoria, all’altezza di smascherare in chiave maieutica la strategia fatale del teatro delle Maschere nude, le medesime da indossare in ogni luogo o nei confronti di chiunque sia. Come riuscire nell’intento? Svelando, in compagnia del Maestro, i messaggi principali – pericolosi, magari cruenti, attivi e ingombranti – nella dicotomia che separa la nostra concreta entità del Super-Io dalla relativa immagine impressa nello specchio della vita collettiva, pubblica e privata, sentimentale e razionale.

L’iterazione dei criteri regolativi, il ripetersi della norma a cui siamo abituati viene sconfitto dall’arte pirandelliana in quanto, spiega l’autore, «la singolarità vera e nuova, l’originalità, non è cosa che si procacci di fuori; si ha dentro o non si ha; e chi l’ha veramente non sa neppure di averla e la manifesta con la maggiore semplicità, ed è nuovo sempre»[2]. Di un analogo sguardo inedito, all’altezza di infrangere il confine tra la morte e la vita, rimane testimonianza esemplare il Colloquio con la madre (1915), inserito nella cornice dei Colloquii coi personaggi. Il brano è inaugurato e scandito da una sorta di “anafora in prosa”, dalla ripetizione della domanda «Ma come, Mamma? Tu qui?», quasi all’improvviso il figlio, con un’interiorità esclusiva, la scorgesse come in effetti non l’avesse mai veduta: «È seduta, piccola, sul seggiolone, non di qui, non di questa mia stanza, ma ancora su quello della casa lontana, ove pure gli altri ora non la vedono più seduta e donde neppur lei ora, qui, si vede attorno le cose che ha lasciato per sempre, la luce d’un sole caldo, luce sonora e fragrante di mare […] è voluta venire per dirmi quello che non poté per la mia lontananza, prima di staccarsi dalla vita». [3]

Se introduciamo lo specchio in un discorso – non solo critico, piuttosto associativo – sulla poetica pirandelliana, allora immediato appare il sistema referenziale del romanzo Uno, nessuno e centomila. Il main character Vitangelo Moscarda, rilevando un’insospettata autonomia della sua immagine riflessa, a parere dello studioso Francesco Baccega diventa campione modellare della suddivisione proposta dallo psicologo sociale Hugh Christopher Longuet-Higgins il quale parlava di una tripartizione interiore: il sé attuale (ciò che io penso di me stesso), il sé ideale (ciò che voglio essere in futuro), il sé imperativo (ciò che gli altri vogliono io sia e come mi rappresentano).

In aree semantiche analoghe, Pirandello espande con il romanzo l’intelaiatura logico-intuitiva della suddivisione del Sé (Es, Io o Semi-conscio, Super-Io): le loro discrepanze causano depressione e ansia sociale, ma si presentano unite a un’articolata metodica per oltrepassarle. Il protagonista, infatti, osservandosi continuamente allo specchio alla ricerca di difetti prima ignoti, cerca di distruggere le immagini che la gente ha di lui; sviluppa così un’altissima consapevolezza capace di persuaderlo a combattere l’austero relativismo presente in se stesso e negli altri: allontana la moglie Dida, vende la propria banca a dispetto degli avidi soci Firbo e Quantorzo, investe il denaro per fondare il suo “nuovo mondo” costruendo un «ospizio di mendicità» dove si ritira a vivere. Insomma, spiega Baccega: «Per combattere l’ansia sociale che scaturisce da questa pluralità di rappresentazioni di Vitangelo, il Moscarda decide di contraddire le stesse visioni di sé negli altri»[4]. Appagato infine in uno status spirituale di carità e rinascita, in un progress assiduo il protagonista dichiara: «Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo».[5]

Poiché Pirandello amava l’esoterismo, ricordiamo che tra i simboli di uno stato di cose assoluto è compreso l’albero della vita e dell’immortalità, all’orizzonte supremo: «Il centro è la zona del sacro per eccellenza, quella della realtà assoluta», spiega lo studioso rumeno Mircea Eliade: «Ugualmente, tutti gli altri simboli della realtà assoluta si trovano anch’essi in un centro. La via che conduce al centro è una “via difficile” (in sanscrito, dūrohaṇa) e questo si verifica a tutti i livelli del reale: […] smarrimenti nel labirinto, difficoltà di chi cerca il cammino verso il sé, verso il “centro” del suo essere, ecc».[6] Il bancario pirandelliano non sembra, di conseguenza, un fallito simile a tanti altri o un benestante irretito dalla noia al punto di smarrire di colpo la ragione convenzionale. Anche per lui, in analogia ai modelli delle società arcaiche studiate da Eliade nei loro riscontri attuali, sembra necessario un «rito di passaggio» capace di condurlo «dall’effimero e dall’illusorio alla realtà e all’eternità». Per l’anti-eroe di Pirandello la trasformazione radicale equivale (utilizzo ancora le parole di Eliade) «a una consacrazione, a un’iniziazione; a un’esistenza ieri profana e illusoria, succede ora una nuova esistenza, durevole ed efficace».[7]

E poiché, in questo sdoppiamento dell’arte rispetto alla vita nella poetica di Luigi Pirandello, ho fatto riferimento a un romanzo, ricordo che il plot di Uno, nessuno e centomila aveva avuto origine dalla novella Stefano Giogli, uno e due[8] (1909) presente nell’Appendice al secondo volume delle novelle. In un articolo uscito sul periodico “Le Grazie di Catania” nel 1897, Pirandello delineava con grande lucidità alcune funzioni tipiche dei diversi generi narrativi, spiegando come la novella sia vòlta a raffigurare il “grado zero”, cui la narrazione giunge nel suo sforzo designatorio di oggetti, personaggi e situazioni; ed essa si realizza solo quando tutti questi elementi non sono suscettibili di ulteriore sviluppo narrativo e devono essere mostrati in un Essere che sta diventando un Esserci. A differenza del romanzo, la novella non enfatizza le origini, gli stadi emotivi e le passioni, cioè «le relazioni di quelle con i molti oggetti che circondano l’uomo […], ma solo gli ultimi passi, l’eccesso insomma».[9] Lo scrittore organizzava la struttura semiologico-semiotica delle proprie short stories per proiettare all’estremo il significato dell’esserci.

Sono sempre stata convinta della misura in cui Pirandello stesso usufruisse per primo del principio di moltiplicazione conoscitiva e sentimentale della sua novellistica in termini, in senso lato, di intervalli quasi quotidiani, poiché ne scrisse poco meno di trecento nell’arco di mezzo secolo: dall’esordio adolescenziale con Capannetta (1884), pubblicata su “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, sino all’età matura con Effetti d’un sogno interrotto (1936), apparsa sul “Corriere della Sera” il giorno precedente alla morte.

Giovanni Macchia rimarcava come il nostro novelliere non disdegnasse in alcuni punti di collocare, accanto alla narrazione in sé, digressioni speculative, ragionamenti di ordine filosofico, ad esempio la riscrittura della gnoseologia bergsoniana rappresentata dalla figura di Socrate, il servitore di Leone Gala ne Il giuoco delle parti (1918): commedia tratta anch’essa, al pari di gran parte della produzione teatrale, da una novella, in particolare Quando s’è capito il giuoco[10] (1913). L’approccio speculativo non comportava però assiomi astratti, né teorici, bensì carichi di una ποιητική τέχνη (poietiké tècne) esplicita in atto. Macchia descrive «acquazzoni filosofici o pensieri polemici, temi insistenti e “concetti” che rimbalzano come palle elastiche da un’opera all’altra, a volte con le stesse parole e non sempre personali. Frasi di Binet, di Séailles, di Blondel vengono scaricate senza molti complimenti in pagine di romanzo, in battute di commedie, anche famose». [11]

All’interno di questa indubbia disinvoltura nel gestire al meglio dentro la propria Weltanschauung il pensiero e il volere artistico altrui, è lecito presupporre un’affinità dell’atmosfera esistenziale pirandelliana con la citata psicologia analitica di Carl Gustav Jung: «La vostra visione», scriveva il medico svizzero, «diventerà chiara solo quando guarderete nel vostro cuore. Chi guarda all’esterno, sogna. Chi guarda all’interno, apre gli occhi». Dunque, la τύχη (tiùche), la sorte benigna, parente stretta dal χάος (càos) dove le ceneri di Pirandello sono state disperse, potrebbe avvisare – con quella novella pubblicata il giorno prima della scomparsa – quanto la morte dello scrittore abbia coinciso con il perpetuare una imperitura visione terrena delle cose, sebbene proiettata e immersa nell’interminabile sviluppo della civiltà, nel continuo flusso della memoria.

In un tale campo referenziale, torniamo alle ricerche di Mircea Eliade, il quale evidenziava «l’impotenza della memoria collettiva a conservare gli avvenimenti e le individualità storiche, se non nella misura in cui essa le trasforma in archetipi».[12] La morte conclude la storia dell’individuo, ma il ricordo post mortem di questa “storia” è limitato: le passioni, gli avvenimenti, l’individualità propriamente detta, vengono a dissolversi insieme all’esistenza terrena. Quindi, spiega Eliade, «soltanto la possibilità e la memoria legata alla durata e alla storia possono essere chiamate una sopravvivenza».[13] Nel macrocosmo di Pirandello la θάνατος (thànatos) svolge un ruolo fondamentale nella funzione di verifica utopica dell’esistenza, di replay perenne, riproduzione continua: ma essa trattiene le “categorie” e disperde gli “avvenimenti”, tramanda gli “archetipi” e non i “personaggi”.

Tra le svariate novelle attinenti lo sdoppiamento consentito dal messaggio artistico alla vita attraverso l’alternativa metaforica della morte, rammento La vita nuda[14] (1907), posta all’inizio dell’omonima raccolta del 1910 e oggetto della mia tesi di laurea in Storia della Critica Letteraria dal titolo Organicità e dialettica nella poetica pirandelliana.[15] Lo sguardo esegetico contenuto nel titolo pirandelliano La vita nuda, nonché la vicenda raccontata, rievocano il Gorgia (Γοργίας-Gòrghias) di Platone, niente affatto ignoto a uno studioso del mondo classico come il Maestro: «Al tempo di Crono, e ancora nei primi anni del regno di Zeus, viventi giudicavano altri viventi ed emanavano la sentenza nel giorno stesso in cui ciascuno doveva morire. […]. Disse però Zeus: “Non giusti sono i giudizi e questo per il fatto che al momento del giudizio chi viene giudicato è vestito, essendo giudicati mentre sono ancora vivi. Molti, che posseggono un’anima malvagia, sono rivestiti di bei corpi, di nobiltà, di ricchezza […] Avviene che giudici si lascino impressionare da questo apparato; non solo, ma essi stessi si giudicano essendo vestiti, avendo l’anima velata dagli occhi, dagli orecchi, da tutto l’insieme del corpo”». Come superare l’ostacolo? La soluzione del Gorgia accomuna il filosofo greco allo scrittore siciliano: donne e uomini «dovranno essere giudicati da morti, cioè spogli da tutti questi ostacoli, e nudo, cioè morto, dovrà essere anche il giudice». [16]

Lascio la conclusione alle parole dello svizzero-francese Georges Piroué: «Come i maestri che si è dato, Pirandello ha lo sguardo nudo. Il mondo che gli si offriva, egli si è rifiutato di scoprirlo quale gli altri lo avevano modellato col potere dei loro discorsi. Appartenere a quegli uomini di cultura che per secoli hanno riposto nel guardaroba dell’eloquenza [N.d.R., titolo di una novella del 1909] di che abbigliare le loro sensazioni, gli ripugnò sempre. “Dove non c’è la cosa, ma le parole che la dicono; dove vogliamo esser noi per come le diciamo, c’è, non la creazione, ma la letteratura”».[17]

Un ringraziamento, che è anche un ricordo, ai professori della Facoltà di Lettere de “La Sapienza” che mi hanno seguito nella tesi di laurea: Mario Costanzo Beccaria, ordinario di Storia della Critica Letteraria, e Adriano Magli, ordinario di Storia del Teatro e dello Spettacolo.

Un pensiero affettuoso alla famiglia Devenuto-Mariti per l’immagine di copertina della mia tesi.


[1] Cinci, in “La lettura”, Milano, giugno 1932, ora in Novelle per un anno, vol. II, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, VI ed, 1966, pp. 807-812.

[2] “La camminante”, in “Gazzetta del Popolo”, Torino, 17 gennaio 1909, ora in Saggi, poesie, scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio-Musti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, IV ed. 1977, p. 992.

[3] Colloquio con la madre, in “Giornale di Sicilia”, Palermo, 11-12 settembre 1915, ora in Colloquii coi personaggi, II, in Novelle per un anno, vol. II, cit., pp. 1190-1191.

[4] Francesco Baccega, Guardarsi allo specchio e vedersi centomila può portare alla depressione o all’ansia sociale, 13 dicembre 2019, https://www.ilsuperuovo.it/guardarsi-allo-specchio-e-vedersi-centomila-puo-portare-alla-depressione-o-allansia-sociale/

[5] Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, in Tutti i romanzi, a cura di Corrado Alvaro, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, I ed., 1957, p. 1416.

[6] Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno. Archetipi e ripetizioni, trad. Giovanni Cantoni, Torino, Lindau, 2018, p. 31.

[7] Il mito dell’eterno ritorno, cit., p. 32.

[8] Stefano Giogli, uno e due, in “Il Marzocco”, Firenze, 18 aprile 1909, ora in Novelle per un anno, vol. II, cit., pp. 1166-1173

[9] Romanzo. Racconto. Novella, in “Le Grazie”, Catania, 6 novembre 1897.

[10] Quando s’è capito il giuoco, in “Corriere della sera”, 10 aprile 1913, ora in Novelle per un anno, vol. II, cit., pp. 839-846.

[11] Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1981, p. 27.

[12] Il mito dell’eterno ritorno, cit., p. 62.

[13] Il mito dell’eterno ritorno, cit., p. 63.

[14] La vita nuda, in “Novissima. Albo d’arti e lettere”, albo 1907, Roma, ora in Novelle per un anno, vol. I, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, VI ed. 1966, pp. 247-260.

[15] Cinzia Baldazzi, Organicità e dialettica nella poetica pirandelliana, relatore Mario Costanzo Beccaria, correlatore Adriano Magli, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, anno accademico 1977-1978.

[16] Platone, Gorgia, trad. Francesco Adorno, in Opere complete, vol. V, Bari, Laterza, 1975, pp. 249-250.

[17] Georges Piroué, Pirandello, trad. Alfonso Zaccaria, introduzione di Leonardo Sciascia, Palermo, Sellerio, 1975, p. 23.

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