N.E. 01/2023 – “Risonanze emotive e cognitive nel romanzo “Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli”. Saggio di Lucia Bonanni

                                                                           Se hai un dolore

                                                                           pensa alle stelle e al mare

                                                                           alla tenerezza dei petali  alla forza

                                                                           del germoglio minuscolo che rompe la scorza

                                                                           della ghianda e della castagna.

                                                                                                                                        Joyce Lussu

Daniele Mencarelli, poeta e romanziere, nasce a Roma nell’aprile del 1974. Attualmente vive ad Ariccia, nei Castelli Romani. Ha all’attivo diverse raccolte di poesia tra cui “Tempo circolare”, edita nel 2017 per i tipi di Pequod. Col suo primo romanzo “La casa degli sguardi”, Mondadori 2018, ha ricevuto i premi Paolo Volponi, Severino Cesari opera prima, John Forte opera prima e il Premio Strega Giovani con “Tutto chiede salvezza”, pubblicato da Mondadori nel 2020.

Il romanzo “Tutto chiede salvezza” é una storia vera, un cammino a rebours  fino al 1994, uno scritto autobiografico in cui l’autore narra l’internamento nel reparto di psichiatria per essere sottoposto a TSO, trattamento sanitario obbligatorio, per un’esplosione di rabbia “sui muri, sullo schermo del televisore, (e suo) padre come cosa morta a terra”[1]. “Una selva d’occhi” sono i suoi compagni di stanza. Cinque uomini emarginati, esclusi, reietti, non riconosciuti. Cinque individui strambi, bizzarri, stravaganti, ciascuno con la propria storia che insieme a lui dividono lo stanzone dell’ospedale. Sono Mario, Gianluca, Alessandro, Madonnina, Giorgio. “Maria ho perso l’anima! Aiutami Madonnina mia”. Daniele non ha fatto in tempo ad entrare nel reparto che un forte odore di bruciato insieme ad un fuoco che arde, si leva dai suoi capelli. Accanto a lui uno sconosciuto e per di più con un accendino in mano.  Madonnina é un quarantenne dall’aspetto “allucinato, sporco, secco da fare paura” non dice parola tranne che per implorare la Madonna. Le sue gambe assomigliano a rami secchi e le sue pupille sono inaccessibili, indecifrabili, vive di una “vita oscura”. Daniele ha paura, vorrebbe fuggire. Il ricordo della sera precedente lo assilla. I sensi di colpa  si annidano nella mente. Si addormenta, desiderando le lacrime  che non riescono a salire in superficie. In quel “contenitore di malattie e disperazione, di follia lucidissima” entra un “passo anziano” che si ferma davanti al letto del figlio. “Ciao Ma” le dice Gianluca mentre si ricompone e cerca di nascondere il tremito di paura.  La ferocia discorsiva della donna ancora si abbatte sul figlio, evoca un passato di  dolore con un presente di quanto lei ha prodotto sulla propria creatura per una forma di acredine, acuita nel tempo. “ ‘Sta stronza!”. Le lacrime, i sembianti sconvolti, gli occhi allucinati dicono tutto della sofferenza di Gianluca, un patire a cui viene  negato persino di poter amare. E questo perché, come  ripete la madre, tutto fa parte della malattia, anche il fatto di essere omosessuale. Il ragazzo che sta di fronte al letto di Daniele, si chiama Alessandro. Ha più o meno la sua età, lo sguardo assente, non smette di guardare “il vuoto assoluto”, mangia soltanto se é il padre a imboccarlo. L’uomo racconta di quando suo figlio gli faceva da manovale e di quella mattina che lui era andato allo smorzo e al suo ritorno aveva trovato il ragazzo in quelle condizioni. “Ma pe’ ‘n muro se po’ rimané così?”. Accanto alla grande finestra, il letto alla sinistra di Alessandro, é occupato da un uomo sulla sessantina. I suoi capelli sono ricci e canuti. La sua somiglianza con Brian May, il chitarrista dei Queen, ha qualcosa di incredibile. Un tempo faceva il maestro  e adesso si trova lì a causa delle sue stranezze. Gianluca va dicendo che Mario farnetica, che sull’albero vede un uccellino con gli occhietti di pece. Ma quell’animaletto esiste davvero! Gli occhi di Mario sono “campioni di dolcezza”, la violenza lo intimorisce, non riesce a mandare via il tormento dei suoi ricordi, sembra che affoghi nei suoi stessi pensieri e talvolta apapre come recluso in un recinto magico, invisibile. “Hai visto che me ‘so fatto?”. A interloquire é Giorgio, un “bestione” di circa trent’anni, dal torace enorme, i bicipiti possenti e un altezza notevole. Giorgio mostra a Daniele il braccio destro, segnato da una fitta teoria di linee. La piú remota si trova sul polso, poi le altre via via piú visibili fino all’ultima, quella sulla spalla, ancora fresca e con due punti di sbarramento al flusso di odio verso se stesso. Per questi uomini la pena da scontare non é quella del TSO, “magari fosse quella”. La condanna comminata dal fato é la “reiterazione del vissuto” ovvero la ripetizione di codici e significati emotivi e cognitivi. Una mattina la madre di Giorgio era uscita per andare al mercato e non era piú tornata. “Allora pure io vojo entrá” aveva urlato il bambino all’infermiere che lo aveva trattenuto perché voleva  seguire il nonno in quella stanza che sapeva di morte. A Giorgio viene negato  il diritto  di poter vedere la propria madre per un ultimo istante.  E cosí, tutte le volte che gli capita di reiterare l’eternitá di quel dolore, traccia una riga sul braccio, “come un cowboy col suo fucile”. Nella mente di Giorgio quella vicenda si trasforma in maledizione e, come tutti i soggetti che si trovano a vivere situazioni di forte disagio, lui si é sentito inadatto, inadeguato, escluso, reietto, indegno persino dell’amore della propria madre. I sensi di colpa si sono cristallizzati nella mente, portando tutto il suo essere, e a soli dieci anni, a restare come pietrificato accanto alla madre. Altre esclusioni, altre differenze, altre ostilità si  rovesciano  sulla testa di Giorgio. Gli viene pure impedito di fare la quinta elementare perché in classe o dava le botte o piangeva e l’insegnante aveva pensato bene di dire al nonno che il bambino doveva stare con quelli “come lui”. Ma come lui, come? Forse, quegli uomini con cui Daniele divide la stanza d’ospedale, ed anche una settimana della propria vita, sono la cosa che piú assomiglia alla sua vera natura che gli sia capitato di incontrare. “Salvezza”, la parola che Daniele si porta dietro sin dalla nascita, e non la dice a nessuno, tranne che a lui. La sua “malattia si chiama salvezza”. Il dubbio che spesso lo assale e lo fa tremare, non é tanto l’idea di essere malato, ma che “tutto sia una coincidenza del cosmo, l’essere umano come un rigurgido” di un atto cosmico. Da dentro l’armadietto Daniele prende il quadernone e la penna  che gli ha mandato la madre, sua prima ed unica lettrice. Per lui la scrittura é assai strana, per iniziare bisogna gettarsi a volo nel candore della  pagina bianca e poi si vorrebbe non fermarsi più fino a quando ogni cosa non é diventata parola. “Me l’hai portata la poesia?” gli chiede Cimaroli, il medico che lo ha preso in carico al pronto soccorso. Il giovane scrive poesie dalla terza media grazie all’intuizione della sua insegnante  di italiano. É in quel preciso momento che lui ha capito che scrivere non é un gioco, ma l’unico mezzo per raccontare ciò che lui vede, che gli esplode dentro. La stanza della televisione é deserta. Daniele si siede ad un tavolo ingombro di riviste, da sotto il braccio sfila il suo quadernone e nella prima pagina ritrova la sua “amante”, lasciata sul piú bello, e l’unico verso scritto: “Sei sempre tu che vieni a riprendermi”. Come in equilibrio su una corda tesa, Daniele ripensa agli amici che dalla cabina del papa si lanciavano nelle acque del lago. Ma perché tuffarsi? Perché sfidare la sorte, le incognite, i pericoli dei massi affioranti a pelo d’acqua? Perché dover rischiare la vita per una dimostrazione di pura follia? In quei ragazzi a prevalere non é la logica. Essi si tuffano, scoprono il senso del   passaggio alla vita adulta,  sfidano la morte, assumono  una nuova  consapevolezza di essere per e nella vita. Ma pure Daniele compie un tuffo spericolato, e lo fa nelle acque, a volte calme a volte tumultuose, della Poesia. Il suo quadernone é denso di scritture, parole vergate con la sua mano mancina, segni di cancellature, di versi amati e poi ripudiati, e nell’ultima pagina la lirica dedicata alla propria madre. “Cos’é?” gli chiede ad un tratto Mario che dal suo “recinto magico” lo ha visto col foglio in mano. “Niente. Cioé. Ogni tanto scrivo poesie”.  Il compagno di stanza lo esorta a leggere, ma Daniele dice che é meglio di no, che  si vergogna. “De noi, Danié?” adesso  a parlare é  Gianluca.  Al pari dei suoi amici dalla cabina del papa, malgrado l’affanno, Daniele si butta nella lettura. “Sei sempre tu che vieni a riprendermi/ne é piena la memoria/di te che spunti e mi porti via”. “É bella veramente. Grazie Daniele”. Ai complimenti di Mario si accordano anche quelli di Gianluca, nei suoi occhi, peró, c’é ben altro che il luccichio di quelli di Mario e neppure della risata di Giorgio a cui “piaceno (soltanto) i cartoni e i giornaletti zozzi”. É in questo momento di forte tensione emotiva che si cementa l’amicizia tra questi uomini,  si instaura un modo nuovo di relazionarsi con l’altro, si sperimenta il limite di ciascuno, si indulge a nuovi pensieri, é in questi attimi che  il niente diventa tutto, che il dolore e il pianto sono gemme dell’animo. Anche Mario ama la poesia, ne leggeva sempre ai suoi alunni. Per lui  “gli artisti hanno in comune con i matti una cosa: nessuno può dirgli cosa guardare e come guardarlo (e che) alcuni uomini scorgono nella bellezza il suo valore originario. Il paradiso”. Nella vita di Daniele sono entrate altre persone. Sono i “cinque pazzi” con cui ha condiviso quella settimana della propria vita. Sono i suoi fratelli, i “fratelli dati in dono dalla vita” in mezzo alla medesima tempesta che li accartoccia e li sballotta  come “l’osso  di seppia dalle ondate”. I nuclei tematici su cui é imperniata l’intera narrazione, sono la morte, la dissolvenza, il nichilismo, la solitudine, l’annullamento del proprio sé, il dolore, la paura, il senso della mancata libertà. Volendo tracciare una perimetrazione esegetica per ciascuno dei personaggi, si può affermare  che essi non sono niente altro la proiezione del “condominio” umano, presente nell’animo di Daniele. Madonnina, l’essere che “va in nessun luogo”, evoca la morte, e più che la morte l’oblio, la dimenticanza, l’abbandono, la sparizione del ricordo. Infatti nel capitolo che tanto si presta  ad essere interpretato come prologo al romanzo  l’autore scrive: “Nero e ancora nero. Questa deve essere la morte” e Madonnina con la sua magrezza spettrale fa pensare proprio alla morte, soprattutto a quella dell’anima. “Maria ho perso l’anima!Aiutami Madonnina mia!”. Perdere l’anima, sprofondare nell’abisso, non tornare mai più in superficie, essere assorbiti da quella  tempesta, eterna, implacabile, che scuote l’animo.  Il dipinto del pittore svizzero Arnold Böcklin, “L’isola dei morti”, molto si addice alla figura di Madonnina, un uomo inerme, indifeso e dimenticato, che rinuncia a se stesso per navigare verso un luogo-non luogo. Con la sua voce da ragazza Gianluca richiama il binomio Eros-Thanatos dove Eros rappresenta la forza generativa della sensualità, contrapposta alla componente distruttiva e all’impulso di morte. Alla figura di Alessandro, diventato insensibile, immobile, statico, sempre intento a fissare il nulla, si può attribuire il richiamo alla insorgenza degli sconfinamenti dell’ansia nella depressione. Guido impersona la parte umbratile di tutto il romanzo, il “bestione” rimasto bambino che  non riesce a pacificarsi con se stesso, che non  sa trovare la consonanza tra causa – effetto, che nel mistero insondabile del proprio dolore si mostra istintivo e irrazionale, aggiungendo patire al patire. Il suo “male di vivere” é visionario, sospeso, delirante, un male arcano, un soffrire  che lo fissa al ceppo antico della pena. Diversamente da tutti gli altri personaggi, Mario possiede una capacità percettiva dell’esistenza, libera, originale, critica e mai sfumata, una visone del mondo dalla portata simbolica,  rigorosa e attendibile. In quel “girone infernale”, che é l’ospedale psichiatrico, Mario é il Virgilio che rappresenta il pensiero umano quale immagine ed espressione del proprio sé con la precisa volontà di attrarre l’amore per la sapienza, la Phlóphia. Come potrebbe  sembrare, il personaggio cardine del romanzo non é Daniele e neppure il motivo della pazzia. La tematica intorno a cui si snoda tutto l’iter narrativo, é la Poesia, la creativitá artistica che porta salvezza. Ció si evince non soltanto dal fatto che l’autore  ha esordito con raccolte poetiche, da quanto dice a Mario dopo aver ascoltato la lettura del  componimento, ma anche dalla  forma grafica del testo nello stile del verso lungo novecentesco come pure in quello di Walt Witman di “Leaves of grass” con  spazi bianchi, l’alternanza di versi lunghi a versi corti, versi sfalsati, il testo della lirica e non ultima la fluidità  della scrittura in prosa poetica. 

“Qui dentro de mio non c’é più niente” e infatti  là dentro  di Daniele non c’é più niente! Gianluca é uscito poco prima di lui, dopo la caduta dalla finestra Mario é ricoverato al San Camillo e Giorgio é finito nel reparto psichiatrico del carcere di Velletri. Sarebbe bastato talmente poco. Sarebbe bastato concedere una sola volta, una volta soltanto. Giorgio non avrebbe corso il rischio di essere ingoiato dalla reiterazione del  proprio vissuto, non avrebbe aggredito medici e infermieri. Lui aveva chiesto,domandato, implorato  salvezza. “Stavòrta sì. Stavòrta me la fate vedé”. E invece niente. Non lo hanno  ascoltato e  adesso  si trova in quella stanza d’ospedale, consumato dalla solitudine.

Daniele non ha avvisato nessuno. Vuole tornare a casa da solo. Camminare a passo lento. Fermarsi per qualche attimo a guardare indietro. Lasciarsi conquistare dalla Bellezza mentre  tutto gli chiede salvezza.” Per i vivi e per i morti, salvezza”, per i suoi fratelli donati dalla vita, “per i pazzi, di tutti i  tempi, ingoiati dai manicomi della storia”.

Le citazioni presenti nel  saggio sono tratte dai testi inclusi nei riferimenti bibliografici

                    RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Mondadori, Milano,  2020

Walt Whitman, Foglie d’erba, BUR, Milano, 2004

Eugenio Montale, Ossi di seppia, Mondadori, Milano, 1994

Federica Trenti, Il novecento di Joyce Salvadori Lussu, Le Voci della luna, Bologna, 2009

Eugenio Borgna, Le figure dell’ansia, Feltrinelli, Milano, 2015


[1]     Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Mondadori, Milano, 2020, pag 14

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N.E. 01/2023 – “Tommaso Landolfi, l’odioso pronome e lo specchio opaco dell’autobiografismo”. Saggio di Giusi Manuela De Rosa

Dopo fiere lotte (avevo cominciato a scrivere Io, e mi son vergognato e ho corretto in Dopo: ancora e sempre, imperterrito benché furioso con me stesso, e come il mondo e l’anima mia fossero immobili, io seguito a piantare i miei Io in testa al drappello delle parole, quasi portabandiera!), dopo fiere lotte mi son rassegnato, ho detto, alla paternità sulla fede di Dostoevskij.[1]

Inizia così una pagina di Rien va, forse il diario landolfiano più conosciuto, e di fronte ad esso, come di fronte a tutta l’opera dello scrittore di Pico, ci si chiede quanto ci sia di maschera e quanto di reale, quanto la confessione nuda, schietta, spietata sia rimandata: l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un io che teme di far trapelare troppo, di andare troppo in fondo, di raggiungere il punto di non ritorno del rimosso; eppure la scrittura di Tommaso Landolfi cerca tale profondità indagativa, in un percorso tutto interiore che mira ad arrivare alle proprie ferite, perché, come scrive nella sua prima raccolta di poesie Viola di morte «dovunque la penna arriva, / si ritira il suicidio. / Così, dicesi, il cane / guarisce ogni sua piaga / se soltanto la arriva con la lingua».[2] Da qui il rapporto del tutto peculiare dello scrittore con il genere dell’autobiografia, evaso ma contemporaneamente onnipresente[3] nei suoi racconti: Landolfi non come maestro della dissimulazione, ma come autore radicalmente sincero a chi trova la giusta chiave di lettura, a chi sa strappare via la «maschera di ferro»[4].

L’io landolfiano, infatti, ritorna costantemente, ma è un ospite inatteso e non voluto, un’entità egoista, che piega ai suoi bisogni la prosa: un «portabandiera» delle parole, un io-soldato pieno di sé che, ignorando le fluttuazioni del mondo e della propria stessa anima, rende impossibile una confessione più diretta, una narrazione più efficace. Vi è in Rien va un secondo riferimento in tal senso:

Prendiamo la più semplice delle frasi, «Io sono», e gridiamola o diciamola appena, ma cercando di prenderne interamente coscienza: che avvilimento, che vergogna. Qui peraltro c’è un po’ di malafede: la più semplice delle frasi è anche la più compromettente. Altra più anodina allora, se però c’è una frase anodina. «Io ho»? – peggio! «Io mangio»? – che schifo! Le frasi che contengono l’odioso pronome non possono essere anodine, dice.[5]

Lo scrittore Tommaso Landolfi

Il pezzo citato parte da una riflessione dell’autore sulla falsità delle frasi una volta pronunciate, sul tradimento dell’espressione e della voce stessa nei confronti del loro punto di partenza: Landolfi, infatti, lamenta più volte l’impossibilità di risalire a una parola primigenia, non sfruttata, che esprima tutto ciò che serve sapere e che non invecchi mai pronunciandola (si legga, a questo proposito, la riflessione sul canto dell’assiuolo in Night must fall[6], ultimo racconto del Dialogo dei massimi sistemi). In particolare, le frasi che contengono il pronome io sono compromettenti e mai blande o neutre; portano con sé una sorta di colpa, e il soffermarvisi è motivo di vergogna. Sotteso alle allusioni landolfiane è il celebre passo della Cognizione del dolore dell’amico Carlo Emilio Gadda, in cui Gonzalo, protagonista e alter-ego gaddiano, scaglia una feroce invettiva contro la prima persona singolare, idolo per la cui affermazione si arriva alle piaghe dell’egoismo e del narcisismo, anticamere di atti distruttivi:

Il figlio dubitò, col volto: «la mamma non ne vorrà sapere, la conosco: non c’è nulla da fare con lei… […] bel modo di curarsi! …a dire: io non ho nulla. Io non ho mai avuto bisogno di nessuno! …io, più i dottori stanno alla larga, e meglio mi sento… Io mi riguardo da me, che son sicura di non sbagliare… io, io, io! […] Ah! il mondo delle idee! che bel mondo! …ah! l’io, io… tra i mandorli in fiore…poi tra le pere, e le Battistine, e il José! ….l’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!…»[7].

L’io è un pronome «lurido», uno dei «pidocchi del pensiero»[8], una debolezza ricorrente dell’uomo, che non riesce a far altro che focalizzarsi su se stesso, rischiando di perdere il quadro complessivo delle cose.

Ricordiamo un altro stralcio landolfiano che accenna al tema, tratto da Prefigurazioni: Prato, rara prosa di aperta, forte e sincera confessione autobiografica su un periodo dell’infanzia passato in collegio: «Io (ma quante volte ho scritto questo dannato pronome?), io ero un bambino che a un anno e mezzo avevano portato davanti a sua madre morta, colla vana speranza che i lineamenti di lei gli rimanessero impressi nella memoria; e che aveva detto: lasciamola stare, dorme»[9]. L’io, «questo dannato pronome», incontra la dimensione dolorosa e oscura della morte, le irrisolte ombre che aleggiano sulla scrittura di Landolfi, che rendono unico il suo fantastico svuotato; si legge qui il motivo più profondo della reticenza dell’autore verso l’io e allo stesso tempo il bisogno di non ignorarlo, l’imperativo di seguirlo, in un’indagine letteraria che fu definita da Giacomo Debenetti «illuminismo delle tenebre».

È allora possibile definire il libro landolfiano uno specchio dell’io, ma uno specchio opaco, che fatica a riportare un’immagine limpida, completa del sé; eppure capace di riflettere l’essenziale e di illuminare il lettore con improvvise rivelazioni, a volte apparentemente lontane dal percorso intrapreso, a volte riportate in superficie grazie al personaggio dell’inetto o del fool di memoria amletica; rivelazioni radicali, nude, da proteggere con una lingua-pelle[10], ricercata e preziosa, e con il magistero dell’arte[11]. Bisogna, perciò, essere capaci di leggere lavori come Cancroregina in quest’ottica, notando come la fantasiosa trama dell’astronauta, bloccato dentro una navicella-mostro che sembra aver assunto una propria coscienza e costretto a orbitare all’infinito intorno alla Terra, senza poter tornare a casa né allontanarsi, è funzionale a una disanima interiore autentica e sconvolgente, che confessa il cuore del sé e allontana solo il contingente: che non è, poi, sempre stato accessorio?

Bibliografia

T. Landolfi, Opere, a cura di I. Landolfi, con prefazione di Carlo Bo, vol I, Milano, Rizzoli, 1991.

T. Landolfi, Opere, a cura di I. Landolfi, vol. II, Milano, Rizzoli, 1991.

T. Landolfi, Viola di morte, Milano, Adelphi, 2011.

C.E. Gadda, La cognizione del dolore, a cura di P. Italia, G. Pinotti e C. Vela, Milano, Adelphi, 2017.

Gli ‘altrove’ di Tommaso Landolfi, Atti del convegno di studi, Firenze, 4-5 dicembre 2001, a cura di I. Landolfi e E. Pellegrini, Roma, Bulzoni, 2004.

La «liquida vertigine». Atti delle giornate di studio su Tommaso Landolfi (Prato, Convitto Nazionale Cicognini, 5-6 febbraio 1999), a cura di I. Landolfi, Olschki, Firenze, 2002.

G. Debenedetti, Il “rouge et noir” di Landolfi, in Id., Saggi, progetto editoriale e saggio introduttivo di A. Berardinelli, Milano, Mondadori, 1999.

P. Zublena, La lingua-pelle di Tommaso Landolfi, Firenze, Le Lettere, 2013.


[1] T. Landolfi, Rien va, in Id., Opere, a cura di I. Landolfi, vol. II, Milano, Rizzoli, 1991, p. 256.

[2] T. Landolfi, Viola di morte, Milano, Adelphi, 2011, p. 178.

[3] Vedi I. Landolfi, Nota introduttiva, in T. Landolfi, Opere II, cit., p.VIII.

[4] Scrive Landolfi sempre in Viola di morte, cit., p. 154: «La maschera è una forza / finché si dia qualcuno / che brami di strappartela; altrimenti / tu ci muori dentro / come la Maschera di Ferro».

[5] T. Landolfi, Rien va, cit., p. 298.

[6] T. Landolfi, Night must fall, in Id., Dialogo dei massimi sistemi, in Id., Opere, a cura di I. Landolfi, con prefazione di Carlo Bo, vol I, Milano, Rizzoli, 1991.

[7] C. E. Gadda, La cognizione del dolore, a cura di P. Italia, G. Pinotti e C. Vela, Milano, Adelphi, 2017, p.85.

[8] Ivi, p.86.

[9] T. Landolfi, Prefigurazioni: Prato, in Id., Opere II, cit., p. 743.

[10] P. Zublena, La lingua-pelle di Tommaso Landolfi, Firenze, Le lettere, 2013.

[11] Si legge ne LA BIERE DU PECHEUR, in T. Landolfi, Opere I, cit., p.575: «fatalmente la mia penna, cioè la mia matita, piega verso un magistero d’arte, intendo verso un modo di stesura e composizione che alla fine fa ai pugni con la libera redazione propostami, e di’ pure colla mia volontà di scansar la fatica. Non potrò dunque mai scrivere veramente a caso e senza disegno, sì da almeno sbirciare, traverso il subbuglio e il disordine, il fondo di me?»

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N.E. 01/2023 – “Lo sguardo nudo. Le novelle di Luigi Pirandello come specchio della vita”. Saggio di Cinzia Baldazzi

A Claudio e Adriano, pirandelliani come me

Non vorrei essere intesa in termini realistici se consiglio (un invito che formulo dall’adolescenza) di utilizzare le pirandelliane duecentoquarantasei Novelle per un anno da specchio della vita quotidiana, giorno per giorno, con il suo intricato contesto moltiplicato in un macrocosmo di fatto infinito, perché coinciderebbe con il ricordare quanto l’esistenza sia un travaglio, un’avventura faticosissima, una lotta ininterrotta. Tuttavia questa raccolta, tra i risultati più eminenti della narrativa, se percepita come proiezione metaforico-letteraria della dimensione reale, immanente, appare in grado di mostrare lo sconforto ma, al tempo stesso, le vie di uscita operative (non alludo, in tal senso, alla “follia”) alla realtà di per sé contraddittoria: comprensiva com’è di una famiglia succube di incombenze e responsabilità schiaccianti, hic et nunc preferito di finzioni, norme sociali, impegni di lavoro alienati, ciclici, deprimenti, poco apprezzati, mal retribuiti.

In un ambito del genere è corretto anche valutare l’input implicito nella catena della violenza, espressa in svariate manifestazioni: ad esempio in Cinci[1] (1932) – composta nella maturità, provvista di un impianto veristico – dove lo splendore della disperata vicenda conduce alla certezza ricavata dalla scoperta dell’Inconscio offerta dalla psicoanalisi (lo sappiamo bene: Luigi Pirandello la conosceva) nonché della sua aura onirica: ciò a cui assistiamo – non solo nel racconto – è vero o falso? È opera del Conscio o dell’oscurità dell’Inconscio inaccessibile? Una simile domanda, circa cento anni dopo, pur nelle diverse ipotesi create dalla scuola freudiana e dalla psicologia analitica junghiana, attende ancora risposta.

Proprio all’interno delle sue soluzioni aperte, dunque, scaturisce la proposta di percorrere un iter dell’οὐ-τόπος (utòpos) che consista nell’accogliere le metafore dell’angoscia esistenziale – tanto centrale in questi racconti – nella loro matrice cognitiva, liberatoria, all’altezza di smascherare in chiave maieutica la strategia fatale del teatro delle Maschere nude, le medesime da indossare in ogni luogo o nei confronti di chiunque sia. Come riuscire nell’intento? Svelando, in compagnia del Maestro, i messaggi principali – pericolosi, magari cruenti, attivi e ingombranti – nella dicotomia che separa la nostra concreta entità del Super-Io dalla relativa immagine impressa nello specchio della vita collettiva, pubblica e privata, sentimentale e razionale.

L’iterazione dei criteri regolativi, il ripetersi della norma a cui siamo abituati viene sconfitto dall’arte pirandelliana in quanto, spiega l’autore, «la singolarità vera e nuova, l’originalità, non è cosa che si procacci di fuori; si ha dentro o non si ha; e chi l’ha veramente non sa neppure di averla e la manifesta con la maggiore semplicità, ed è nuovo sempre»[2]. Di un analogo sguardo inedito, all’altezza di infrangere il confine tra la morte e la vita, rimane testimonianza esemplare il Colloquio con la madre (1915), inserito nella cornice dei Colloquii coi personaggi. Il brano è inaugurato e scandito da una sorta di “anafora in prosa”, dalla ripetizione della domanda «Ma come, Mamma? Tu qui?», quasi all’improvviso il figlio, con un’interiorità esclusiva, la scorgesse come in effetti non l’avesse mai veduta: «È seduta, piccola, sul seggiolone, non di qui, non di questa mia stanza, ma ancora su quello della casa lontana, ove pure gli altri ora non la vedono più seduta e donde neppur lei ora, qui, si vede attorno le cose che ha lasciato per sempre, la luce d’un sole caldo, luce sonora e fragrante di mare […] è voluta venire per dirmi quello che non poté per la mia lontananza, prima di staccarsi dalla vita». [3]

Se introduciamo lo specchio in un discorso – non solo critico, piuttosto associativo – sulla poetica pirandelliana, allora immediato appare il sistema referenziale del romanzo Uno, nessuno e centomila. Il main character Vitangelo Moscarda, rilevando un’insospettata autonomia della sua immagine riflessa, a parere dello studioso Francesco Baccega diventa campione modellare della suddivisione proposta dallo psicologo sociale Hugh Christopher Longuet-Higgins il quale parlava di una tripartizione interiore: il sé attuale (ciò che io penso di me stesso), il sé ideale (ciò che voglio essere in futuro), il sé imperativo (ciò che gli altri vogliono io sia e come mi rappresentano).

In aree semantiche analoghe, Pirandello espande con il romanzo l’intelaiatura logico-intuitiva della suddivisione del Sé (Es, Io o Semi-conscio, Super-Io): le loro discrepanze causano depressione e ansia sociale, ma si presentano unite a un’articolata metodica per oltrepassarle. Il protagonista, infatti, osservandosi continuamente allo specchio alla ricerca di difetti prima ignoti, cerca di distruggere le immagini che la gente ha di lui; sviluppa così un’altissima consapevolezza capace di persuaderlo a combattere l’austero relativismo presente in se stesso e negli altri: allontana la moglie Dida, vende la propria banca a dispetto degli avidi soci Firbo e Quantorzo, investe il denaro per fondare il suo “nuovo mondo” costruendo un «ospizio di mendicità» dove si ritira a vivere. Insomma, spiega Baccega: «Per combattere l’ansia sociale che scaturisce da questa pluralità di rappresentazioni di Vitangelo, il Moscarda decide di contraddire le stesse visioni di sé negli altri»[4]. Appagato infine in uno status spirituale di carità e rinascita, in un progress assiduo il protagonista dichiara: «Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo».[5]

Poiché Pirandello amava l’esoterismo, ricordiamo che tra i simboli di uno stato di cose assoluto è compreso l’albero della vita e dell’immortalità, all’orizzonte supremo: «Il centro è la zona del sacro per eccellenza, quella della realtà assoluta», spiega lo studioso rumeno Mircea Eliade: «Ugualmente, tutti gli altri simboli della realtà assoluta si trovano anch’essi in un centro. La via che conduce al centro è una “via difficile” (in sanscrito, dūrohaṇa) e questo si verifica a tutti i livelli del reale: […] smarrimenti nel labirinto, difficoltà di chi cerca il cammino verso il sé, verso il “centro” del suo essere, ecc».[6] Il bancario pirandelliano non sembra, di conseguenza, un fallito simile a tanti altri o un benestante irretito dalla noia al punto di smarrire di colpo la ragione convenzionale. Anche per lui, in analogia ai modelli delle società arcaiche studiate da Eliade nei loro riscontri attuali, sembra necessario un «rito di passaggio» capace di condurlo «dall’effimero e dall’illusorio alla realtà e all’eternità». Per l’anti-eroe di Pirandello la trasformazione radicale equivale (utilizzo ancora le parole di Eliade) «a una consacrazione, a un’iniziazione; a un’esistenza ieri profana e illusoria, succede ora una nuova esistenza, durevole ed efficace».[7]

E poiché, in questo sdoppiamento dell’arte rispetto alla vita nella poetica di Luigi Pirandello, ho fatto riferimento a un romanzo, ricordo che il plot di Uno, nessuno e centomila aveva avuto origine dalla novella Stefano Giogli, uno e due[8] (1909) presente nell’Appendice al secondo volume delle novelle. In un articolo uscito sul periodico “Le Grazie di Catania” nel 1897, Pirandello delineava con grande lucidità alcune funzioni tipiche dei diversi generi narrativi, spiegando come la novella sia vòlta a raffigurare il “grado zero”, cui la narrazione giunge nel suo sforzo designatorio di oggetti, personaggi e situazioni; ed essa si realizza solo quando tutti questi elementi non sono suscettibili di ulteriore sviluppo narrativo e devono essere mostrati in un Essere che sta diventando un Esserci. A differenza del romanzo, la novella non enfatizza le origini, gli stadi emotivi e le passioni, cioè «le relazioni di quelle con i molti oggetti che circondano l’uomo […], ma solo gli ultimi passi, l’eccesso insomma».[9] Lo scrittore organizzava la struttura semiologico-semiotica delle proprie short stories per proiettare all’estremo il significato dell’esserci.

Sono sempre stata convinta della misura in cui Pirandello stesso usufruisse per primo del principio di moltiplicazione conoscitiva e sentimentale della sua novellistica in termini, in senso lato, di intervalli quasi quotidiani, poiché ne scrisse poco meno di trecento nell’arco di mezzo secolo: dall’esordio adolescenziale con Capannetta (1884), pubblicata su “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, sino all’età matura con Effetti d’un sogno interrotto (1936), apparsa sul “Corriere della Sera” il giorno precedente alla morte.

Giovanni Macchia rimarcava come il nostro novelliere non disdegnasse in alcuni punti di collocare, accanto alla narrazione in sé, digressioni speculative, ragionamenti di ordine filosofico, ad esempio la riscrittura della gnoseologia bergsoniana rappresentata dalla figura di Socrate, il servitore di Leone Gala ne Il giuoco delle parti (1918): commedia tratta anch’essa, al pari di gran parte della produzione teatrale, da una novella, in particolare Quando s’è capito il giuoco[10] (1913). L’approccio speculativo non comportava però assiomi astratti, né teorici, bensì carichi di una ποιητική τέχνη (poietiké tècne) esplicita in atto. Macchia descrive «acquazzoni filosofici o pensieri polemici, temi insistenti e “concetti” che rimbalzano come palle elastiche da un’opera all’altra, a volte con le stesse parole e non sempre personali. Frasi di Binet, di Séailles, di Blondel vengono scaricate senza molti complimenti in pagine di romanzo, in battute di commedie, anche famose». [11]

All’interno di questa indubbia disinvoltura nel gestire al meglio dentro la propria Weltanschauung il pensiero e il volere artistico altrui, è lecito presupporre un’affinità dell’atmosfera esistenziale pirandelliana con la citata psicologia analitica di Carl Gustav Jung: «La vostra visione», scriveva il medico svizzero, «diventerà chiara solo quando guarderete nel vostro cuore. Chi guarda all’esterno, sogna. Chi guarda all’interno, apre gli occhi». Dunque, la τύχη (tiùche), la sorte benigna, parente stretta dal χάος (càos) dove le ceneri di Pirandello sono state disperse, potrebbe avvisare – con quella novella pubblicata il giorno prima della scomparsa – quanto la morte dello scrittore abbia coinciso con il perpetuare una imperitura visione terrena delle cose, sebbene proiettata e immersa nell’interminabile sviluppo della civiltà, nel continuo flusso della memoria.

In un tale campo referenziale, torniamo alle ricerche di Mircea Eliade, il quale evidenziava «l’impotenza della memoria collettiva a conservare gli avvenimenti e le individualità storiche, se non nella misura in cui essa le trasforma in archetipi».[12] La morte conclude la storia dell’individuo, ma il ricordo post mortem di questa “storia” è limitato: le passioni, gli avvenimenti, l’individualità propriamente detta, vengono a dissolversi insieme all’esistenza terrena. Quindi, spiega Eliade, «soltanto la possibilità e la memoria legata alla durata e alla storia possono essere chiamate una sopravvivenza».[13] Nel macrocosmo di Pirandello la θάνατος (thànatos) svolge un ruolo fondamentale nella funzione di verifica utopica dell’esistenza, di replay perenne, riproduzione continua: ma essa trattiene le “categorie” e disperde gli “avvenimenti”, tramanda gli “archetipi” e non i “personaggi”.

Tra le svariate novelle attinenti lo sdoppiamento consentito dal messaggio artistico alla vita attraverso l’alternativa metaforica della morte, rammento La vita nuda[14] (1907), posta all’inizio dell’omonima raccolta del 1910 e oggetto della mia tesi di laurea in Storia della Critica Letteraria dal titolo Organicità e dialettica nella poetica pirandelliana.[15] Lo sguardo esegetico contenuto nel titolo pirandelliano La vita nuda, nonché la vicenda raccontata, rievocano il Gorgia (Γοργίας-Gòrghias) di Platone, niente affatto ignoto a uno studioso del mondo classico come il Maestro: «Al tempo di Crono, e ancora nei primi anni del regno di Zeus, viventi giudicavano altri viventi ed emanavano la sentenza nel giorno stesso in cui ciascuno doveva morire. […]. Disse però Zeus: “Non giusti sono i giudizi e questo per il fatto che al momento del giudizio chi viene giudicato è vestito, essendo giudicati mentre sono ancora vivi. Molti, che posseggono un’anima malvagia, sono rivestiti di bei corpi, di nobiltà, di ricchezza […] Avviene che giudici si lascino impressionare da questo apparato; non solo, ma essi stessi si giudicano essendo vestiti, avendo l’anima velata dagli occhi, dagli orecchi, da tutto l’insieme del corpo”». Come superare l’ostacolo? La soluzione del Gorgia accomuna il filosofo greco allo scrittore siciliano: donne e uomini «dovranno essere giudicati da morti, cioè spogli da tutti questi ostacoli, e nudo, cioè morto, dovrà essere anche il giudice». [16]

Lascio la conclusione alle parole dello svizzero-francese Georges Piroué: «Come i maestri che si è dato, Pirandello ha lo sguardo nudo. Il mondo che gli si offriva, egli si è rifiutato di scoprirlo quale gli altri lo avevano modellato col potere dei loro discorsi. Appartenere a quegli uomini di cultura che per secoli hanno riposto nel guardaroba dell’eloquenza [N.d.R., titolo di una novella del 1909] di che abbigliare le loro sensazioni, gli ripugnò sempre. “Dove non c’è la cosa, ma le parole che la dicono; dove vogliamo esser noi per come le diciamo, c’è, non la creazione, ma la letteratura”».[17]

Un ringraziamento, che è anche un ricordo, ai professori della Facoltà di Lettere de “La Sapienza” che mi hanno seguito nella tesi di laurea: Mario Costanzo Beccaria, ordinario di Storia della Critica Letteraria, e Adriano Magli, ordinario di Storia del Teatro e dello Spettacolo.

Un pensiero affettuoso alla famiglia Devenuto-Mariti per l’immagine di copertina della mia tesi.


[1] Cinci, in “La lettura”, Milano, giugno 1932, ora in Novelle per un anno, vol. II, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, VI ed, 1966, pp. 807-812.

[2] “La camminante”, in “Gazzetta del Popolo”, Torino, 17 gennaio 1909, ora in Saggi, poesie, scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio-Musti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, IV ed. 1977, p. 992.

[3] Colloquio con la madre, in “Giornale di Sicilia”, Palermo, 11-12 settembre 1915, ora in Colloquii coi personaggi, II, in Novelle per un anno, vol. II, cit., pp. 1190-1191.

[4] Francesco Baccega, Guardarsi allo specchio e vedersi centomila può portare alla depressione o all’ansia sociale, 13 dicembre 2019, https://www.ilsuperuovo.it/guardarsi-allo-specchio-e-vedersi-centomila-puo-portare-alla-depressione-o-allansia-sociale/

[5] Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, in Tutti i romanzi, a cura di Corrado Alvaro, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, I ed., 1957, p. 1416.

[6] Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno. Archetipi e ripetizioni, trad. Giovanni Cantoni, Torino, Lindau, 2018, p. 31.

[7] Il mito dell’eterno ritorno, cit., p. 32.

[8] Stefano Giogli, uno e due, in “Il Marzocco”, Firenze, 18 aprile 1909, ora in Novelle per un anno, vol. II, cit., pp. 1166-1173

[9] Romanzo. Racconto. Novella, in “Le Grazie”, Catania, 6 novembre 1897.

[10] Quando s’è capito il giuoco, in “Corriere della sera”, 10 aprile 1913, ora in Novelle per un anno, vol. II, cit., pp. 839-846.

[11] Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1981, p. 27.

[12] Il mito dell’eterno ritorno, cit., p. 62.

[13] Il mito dell’eterno ritorno, cit., p. 63.

[14] La vita nuda, in “Novissima. Albo d’arti e lettere”, albo 1907, Roma, ora in Novelle per un anno, vol. I, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, VI ed. 1966, pp. 247-260.

[15] Cinzia Baldazzi, Organicità e dialettica nella poetica pirandelliana, relatore Mario Costanzo Beccaria, correlatore Adriano Magli, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, anno accademico 1977-1978.

[16] Platone, Gorgia, trad. Francesco Adorno, in Opere complete, vol. V, Bari, Laterza, 1975, pp. 249-250.

[17] Georges Piroué, Pirandello, trad. Alfonso Zaccaria, introduzione di Leonardo Sciascia, Palermo, Sellerio, 1975, p. 23.

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N.E. 01/2023 – “Follia e poesia”. Saggio di Dante Maffia

Mi sono sempre domandato, e continuo a farlo insistentemente, da dove arriva la poesia, da quale fonte scaturisce (il problema del che cos’è e a che serve si presenta dopo).

E’ depositata in qualche luogo segreto e c’è qualcuno predestinato a scovarla e a portarla all’umanità, oppure cammina nell’aria, invisibile, e soltanto alcuni eletti (o condannati) possono vederla, coglierne qualche petalo e offrirlo?

E’ un problema che non sarà mai risolto. Le ipotesi si sono succedute nel tempo e filosofi, critici, teologi e psicanalisti hanno tentato una strada e un’altra senza mai arrivare a una conclusione.

E sono convinto che non ci potrà essere conclusione, perché la poesia, tra le tante cose, è innanzi tutto mistero del senso, visione di un palpito che chiede ascolto nello stesso istante in cui si dissolve.

La verità è che appare, indica e diventa brezza di un annuncio rivolto quasi sempre all’immaginazione.

A cogliere questo annuncio è il poeta o il presunto tale. Ma il presunto tale s’investe da sé, si dà un ruolo da sé, assolve a una funzione per la quale non ha né ragioni, né inclinazioni, né meriti né vocazione, né fini.

Ed ecco che la categoria poeta (o come bisogna indicarlo?) si trova ad avere davanti un binomio terribilmente dispari: l’eletto, o l’imbecille presuntuoso che crede di essere eletto e si investe dell’alloro, convinto di avere trovato la chiave per entrare nel mistero, di essere il portatore di stelle e di arcobaleni “neniando” la mediocrità e la superficialità.

La poesia si concede soltanto alla follia, a quella vera, accertata, indissolubile, perché è attraverso la follia che può portare il lettore nei meandri del divino o del nulla, del divenire o delle perdite, delle acquisizioni impossibili o delle dissolvenze illuminanti. Se il poeta non fosse folle, almeno nell’istante in cui coglie le parole inimitabili che il mistero gli suggerisce, non potrebbe sopportare l’abbacinamento, il fuoco violento che forgia il nuovo senso.

Immagino lo scetticismo con cui possono essere valutate queste mie affermazioni, immagino l’accusa di esoterismo, di vaghezza, e di altro, ma se si fa attenzione ci si può rendere conto che nelle parole dei poeti veri non c’è mai vaghezza o esoterismo gratuito, non c’è mai approssimazione. Anzi, cito da Nelo Risi, il poeta è un supremo realista che ha la possibilità di leggere la realtà nei dettagli, nelle sfumature, nei rivoli laterali, oltre che nell’essenza. Il poeta è nella pienezza della realtà e nella sua marginalità  e dunque ha facoltà di entrare nell’immensità del finito e dell’infinito, nella briciola che si fa universo, nell’universo che si fa briciola.

E si badi che non si tratta di sillogismi, ma di esperienze vissute in prima persona e vissute e verificate attraverso migliaia e migliaia di altre esperienze.

Negli anni ho raccolto una infinità di “definizioni” della poesia e mi sono reso conto che, pur contraddicendosi, hanno tutte ragione. Ciò può soltanto significare che il mistero e il senso intimo delle cose hanno sfaccettature cangianti, perfino ibride, e che bisogna temprarsi alle ragioni incomprensibili dei messaggi della poesia. Che non sono messaggi da intendere nell’accezione usuale, ma messaggi che hanno la sostanza di input, che al momento del coagulo definitivo si spostano e deragliano in altro, a testimoniare che la vita stessa è deragliamento di senso, approdo non codificato e non codificabile, nonostante quel che dicono i benpensanti abitudinari e le religioni.

Dev’essere questa sfuggente materia incandescente di cui è fatta la poesia a causare a volte corti circuiti anche nei poeti veri che in alcune situazioni non riescono a tenere il passo degli scardinamenti, degli smarrimenti e delle sottrazioni e arrivano al suicidio.

Dentro la follia dunque nasce la poesia. Ma attenti, nessuno psichiatra sarà mai in grado di stabilire in che padiglione ricoverare il poeta. In tutti  e in nessuno, perché quella della poesia è malattia non definibile, non catalogabile, eppure infettiva in maniera pericolosa, perché crea epidemie che simulano alla perfezione la malattia e fa fiorire la banalità con un sussiego che ha forme perverse e stupide, cadute nel vuoto, nella sciatteria, nella miseria umana e nel sussiego più irritante.

Conosco una miriade di imbecilli che scrivendo “è spuntato il sole / e illumina” sono convinti di avere creato qualcosa di eterno. Certo, lo spuntare del sole è eterno, ma il fatto che qualcuno lo ribadisca è soltanto tautologia, notizia priva di emozione, di mistero, di implicazioni che portino oltre la sfera del risaputo.

Dicevo che poesia e follia sono una equazione perfetta. Dicevo anche che questo tipo di follia in rapporto con la poesia non è decifrabile o catalogabile. Allora come fare a cercare la fonte da cui scaturisce la parola che poi, se è poesia autentica, illuminerà il percorso umano?

In molte occasioni mi sono domandato se senza la poesia il mondo odierno sarebbe così com’è o peggiore o migliore. Non ho avuto mai nessun dubbio, peggiore, ancora felino e scompostamente acerbo, perfino disumano. Capisco le obiezioni di coloro i quali affermano che per secoli la maggior parte dell’umanità è stata analfabeta e quindi non ha mai letto un verso. Ma si tratta di obiezioni di parte, perché non è la divulgazione della poesia a determinare il fattore etico che s’insinua nelle organizzazioni sociali, ma arrivare nell’animo dei legislatori, dei politici, dei governanti.

La poesia non fa il gioco diretto, ma quello indiretto: illumina il senso e lo arricchisce di quello spessore che permette di alzarci al di sopra del senso comune.

Adorno non aveva ragione quando dopo la barbarie nazista affermò che ormai la poesia era morta e non aveva più motivo di esistere. Non ha pensato che forse se non ci fosse stato il “deterrente” della poesia ad aleggiare in qualche modo nelle scorie di qualche cervello, forse lo sterminio sarebbe stato più vasto, più feroce, più duraturo?

Il folle vede cose che gli altri non vedono; vede la luce nel buio, la bellezza nell’ombra, il dolore in un campo di girasoli, la gloria in una finestra spalancata, la felicità in una carezza, il lupo in una goccia di rugiada, la miseria in un sorriso… Cioè vede oltre, vede l’invisibile, e ce ne dà la misura se riesce a trovare le parole che possano addensare quel rapporto, quella visione, quella luce. E se ce ne dà la misura, vuol dire che è poeta, non è soltanto folle. Se invece non riesce ad andare oltre ed è chiuso nel limite della demenza, allora significa che quel  folle è folle soltanto, non ha il privilegio di  un ulteriore occhio, di un ulteriore cuore, di  saper entrare e uscire  dal nido di semenza che cresce alitando come un miracolo.

Attenti però ai finti folli, a coloro i quali hanno magari subito la follia per un certo periodo e poi sono ritornati nella normalità della vita quotidiana non riuscendo ad andare mai oltre la siepe. Ma consapevoli di una esperienza se ne ricordano e la utilizzano facendo credere agli altri di essere ancora al fondo dell’abisso.

La follia ha uno sguardo che non si può imitare nemmeno dopo averlo avuto e poi perduto, e il folle finto poeta, il poeta finto folle rimugina dolore e tristezza, negazioni e limiti con un vezzo che io ho trovato sempre comico. E’ il caso, per fare almeno un esempio, di Alda Merini, che ha spettacolarizzato la follia per imporre una poesia del patetismo a volte perfino becero e comunque abbastanza di maniera.

Chi invece ha subito le stimmate irreversibili della follia è Dino Campana, che con Canti orfici è riuscito a darci il ritratto di una condizione umana e poetica rara, in cui il crogiuolo delle contraddizioni e delle lacerazioni diventa inferno senza remissione fino a far credere che le immagini da lui usate siano prestiti dal surrealismo e sono invece magma incandescente delle metamorfosi che lo dilaniano e lo sbattono in terra ogni volta che tenta di rompere la catena delle tentazioni e perfino delle rinunce. Dino Campana è dentro ogni suo verso con anima e corpo, s’immola, muore, resuscita, ricade nel mulinello del vuoto e si ricrea in una immagine sapendo d’essere appena un seme marcio che non potrà fiorire se non nella parola.

Ed è questa parola che deve portare il lievito a chi legge (badate che non ho detto messaggio, ma lievito), deve sincronizzare l’assurdo verso la luce, l’intuizione verso la forma, quale che possa essere.

Un caso recente è quello di Maria Marchesi, sulla quale aleggia il dubbio addirittura della sua esistenza.

La Marchesi ha dissacrato tutto. Due libri in vita, uno postumo. In ogni pagina dei suoi tre volumi c’è la dannazione che avvampa, c’è il tripudio dell’indecenza come arma per tagliare con le consuetudini, c’è la dissacrazione della sacralità e delle assuefazioni, dei rituali e di tutto ciò che è considerato intoccabile. Perfino i miti della poesia vengono sconvolti e vivisezionati, non so, Beatrice, Laura e Silvia, in modo che attraverso il filo rosso della follia ogni arbitrio risulti verità del profondo e non accoglimento dello stato di fatto.

Eppure non è terroristica, la sua non è protesta politica e sociale, ma presa di coscienza di una condizione attraverso la quale la realtà si apre e gioca a nascondiglio offrendo al lettore la possibilità di entrare nelle verità dell’altro lato della medaglia.

Ma non vorrei fare l’elenco dei poeti dichiaratamente folli, di quelli che sono stati ricoverati nei manicomi, molti dei quali si sono suicidati. Vorrei fare intendere come la follia alberga silenziosa in tutti i grandi poeti, anche quando questi non hanno dato segni di squilibrio comportamentale, nel rapporto con gli altri, nelle azioni quotidiane.

Cominciamo da lontano. Dall’Alighieri. La sua follia è totale. Egli riesce ad entrare nella condizione del morto e riesce a visitare il regno dei morti con una naturalezza che soltanto chi è veramente morto (il corpo non c’entra) può descrivere con tanta naturalezza e verità. Egli è un tramite che dentro la follia trova la strada del cammino verso la Luce.

Non è da meno Petrarca. Laura c’è e non c’è. Ha poca importanza. C’è l’amore, che si espande, che bussa, che chiede, che inonda, che patisce e che grida da luoghi lontanissimi il suo dramma. Se non ci fosse la follia a sorreggere il poeta tutto si sfalderebbe in cerimoniose adesioni a un’idea di donna dentro la banalità di un desiderio, grande o piccolo che sia.

Ma dove la follia impera e gode fino alla esasperazione, fino a farsi incanto di voli senza protezioni, è L’Orlando Furioso. Ariosto ha ceduto il suo cervello all’ammasso e resta a guardare se stesso mentre ha a che fare con protagonisti così bizzarri. Gioca, ma è un gioco di riflessi che ci portano dentro la magia di sussulti avvertibili soltanto se si ha l’umiltà di mettersi in sintonia con il ritmo delle ottave.

Ritmo che si ha dolorosamente sincopato, solenne, imprevedibile ne La Gerusalemme Liberata.

Sulla follia del Tasso sono stati scritti tanti volumi, ma nessuno ha mai detto che il poeta riesce a cogliere la prepotenza della sua poesia da un’angolazione così particolare che ha fatto pensare a una ostinazione invece che a una scelta.

Scelta fatta dalla sua follia, punto di vista fatto dalla sua follia che perseguiva le vicende per poterle aprire nel laboratorio della sorpresa assidua. Sì, Tasso ha seguito le indicazioni di un laboratorio che lo ha spinto a guardare attentamente fino a rendersi conto che poteva vedere attraverso il muro, che poteva ascoltare le voci del passato, e poteva rinascere dai residui della civiltà dei padri. Si rileggano attentamente soprattutto le sue Rime immortali.

Poesia e follia!

Non è una formula inventata per parlarne a un convegno, ma la scoperta di una condizione imprescindibile, di una realtà esatta che però è stata da sempre negata o distorta. O volutamente o ingenuamente interpretata in modo approssimativo e tendenzioso.

Ho letto nel romanzo di un’autrice americana una frase che mi ha dato la conferma di come girano i luoghi comuni e si radicano: “Che cosa sono depressione e psicosi, in fondo, se non deviazioni dal realismo?… Un Dio insufficiente è meglio che nessun Dio”.

Soltanto l’ingenuità americana di Martha Cooley poteva trovare una formula così. Come dire che chiunque si allontana dal circuito si allontana dalla verità. Orribile! Semmai chiunque si allontana dal circuito può incorrere in un incidente, può perdersi, può scantonare, ma è comunque su una nuova strada e non è fuori da nessun realismo né tanto meno è deviazione dal realismo. Ecco, la poesia nasce quasi sempre dall’uscita del circuito e non per partito preso, per una sorta di incarico imperativo ricevuto da qualcuno, ma perché la poesia ha il compito di cercare l’insondabile, l’imprevisto e l’imprevedibile, l’ingranaggio che si muove lontano dalle abitudini. Certo, un simile comportamento, nelle varie società organizzate dentro regole precise e codificate, fa scandalo, preoccupa, indica una direzione non prevista. Ma la poesia deve fare sempre scandalo, o con la sua semplicità e la sua essenzialità, o con la sua valanga che deve rigenerare il vento flaccido del risaputo.

La poesia vera può risultare a prima lettura addirittura un paradosso, perché anticipa e mette davanti al futuro. E chi ne ha paura pensa subito alla follia. Ma certo, è frutto della follia, perché soltanto il folle riesce a vedere lontano, molto lontano, a percepire i mutamenti che verranno, perché necessari per la sopravvivenza dell’uomo.

Ha scritto Daniel Defoe che “Il Diavolo, condannato a vagabondare, girovagare, essere nomade, non ha una fissa dimora e pur avendo una sorta di impegno sulla distesa liquida o sull’aria, essendo la sua natura angelica, è sicuramente parte del castigo il suo non possedere uno spazio o un luogo su cui posare la pianta del piede”.

Ecco, il poeta è condannato a vagabondare, girovagare e guai se posasse la pianta del suo piede su qualche superficie. La sua parola sarebbe inchiodata a una data epoca e non all’universale, al tempo senza tempo. Naturale quindi che, non avendo mai sosta, non avendo casa, non avendo uno scopo pratico e immediato, egli si trovi nella condizione dello “sbandato”, del “clochard”, del “randagio” . In realtà egli è assolutamente libero, non legato da niente e da nessuno, ha la stessa natura del vento, cioè è folle. Folle dentro la saggezza del movimento, della forma che si rinnova, del tripudio del senso che si rincorre e di disfa, che si crea e si rinnova, mai sazio e mai pago del raggiungimento.

In questa accezione la follia si fa mano di poesia e ridisegna ogni giorno il colloquio necessario per non diventare biblioteca della morte.

Comunque poesia e follia è tema di cui si sono occupati i maggiori psichiatri e ognuno ha detto la sua con esempi presi in prestito sia dalle proprie esperienze e sia dai classici della poesia grazie al fatto che sia il poeta e sia il folle sono attraversati dalla dinamica del profondo. Da Basaglia a Borgna i riferimenti accurati si sono fatti seguendo passo dopo passo i versi di alcuni morti suicidi o isolati dal mondo per propria scelta. Ma io vorrei sottolineare che non c’è bisogno di ricorrere a Silvia Plath, a Cristina Campo, a Nietzesche, a Walser, a Milton, ad Antonia Pozzi, per rendersi conto che davvero e incontrovertibilmente “In ogni ombra c’è un po’ di grazia”, come diceva Simone Weil. Si può perfino ribaltare e dire che in ogni grazia c’è sempre un po’ di ombra.

E’ evidente comunque che ricorrere alle citazioni dei poeti aiuta a entrare nella pienezza del discorso senza alzare muri di dubbio, ma basterebbe ricordare quel che diceva Erasmo da Rotterdam sulle passioni (“In primo luogo è pacifico che tutte le passioni rientrino nella sfera della follia”) per essere certi che davvero “La follia è la sorella sfortunata della poesia”.

Potrei continuare all’infinito, ma mi pare che Clemens Brentano abbia colto in pieno il rapporto esistente tra poesia e follia.

Già nel Cinquecento un erudito inglese, un certo Burton, affermava che “Tutti i poeti sono matti” e comunque l’idea era mutuata da fonti greche, a dimostrazione del fatto che sul poeta anche la gente comune ha sempre avuto un atteggiamento sospetto. Già, un uomo che corre appresso alle parole come i bambini corrono appresso alle farfalle o come il vento corre appresso il polline che cosa può fare di concreto? Che può dare a se stesso e agli altri?

Riporto un aneddoto che altre volte mi è occorso di ricordare. In un paesino della Calabria, San Demetrio Corone, nel secolo scorso c’era un collegio tra i più importanti del sud, con un liceo di riguardo. Ma spesso i posti letto del collegio non bastavano e allora qualche studente doveva andare a pensione presso le famiglie del paese.

Tra questi studenti ci fu uno scrittore calabrese, un poeta, Sharo Gambino, di Serra San Bruno, che abitò presso una famiglia distinta. A distanza di anni la signora che l’aveva ospitato si ricordò del giovane e domandò sue notizie alla nipote studentessa universitaria. La nipote rispose: “Nonna, Sharo è diventato un poeta”. E lei, di rimando, facendosi il segno della croce: ”Dio mio! Eppure era un bravo ragazzo”.

Voglio dire che la follia, se si legge la filigrana degli scritti dei poeti, la si trova perfino in quelli che all’apparenza sembrano perfettamente normali secondo i canoni correnti. Giovanni Pascoli può essere un esempio probante. La sua vita è scorsa nei binari del perbenismo, nella routine di una quotidianità che non pare mai scossa da nessun terremoto, se non quello del dolore, ma se scaviamo in alcune sue liriche sentiamo che lui è dentro visioni che si sfaldano, sensazioni che hanno forme  astratte simili a fantasmi che mutano e gemono sull’orlo degli abissi.

Ma io, ovviamente, parlo da poeta e senza cognizione della psichiatria, e quando dico follia intendo l’andare controcorrente, non restare nelle norme, allontanarsi dall’acqua stagnante del risaputo e mettersi contro l’assiepamento del senso del finito.

Se un poeta invece si accoda, se accetta di restare nel cerchio del giardino concluso e profumato di passato, seppure perfetto, allora vuol dire che è soltanto un esecutore di forme vuote, un finto poeta, uno che ripete le onde imitando la vita interiore che non è mai ferma, mai paga, mai definita.

Non posso dunque schierarmi con nessuna scuola psicologica o psichiatrica, ma osservare quel che mi si è mosso dentro ogni volta che ho aperto un testo le cui parole sono frutto caldo del sangue e non versione scolastica.

Nell’Avvertenza a Psicologia e poesia di Carl G. Jung troviamo un riferimento a, Hermann Hesse:

“… il giovane Emil Sinclair, scopre su un banco un foglio sul quale si legge: ‘L’uccello si sforza di uscire dall’uovo. L’uovo è il mondo. Chi vuol nascere deve distruggere un mondo”.

L’esempio mi pare evidente. Il poeta vuole nascere e per farlo ogni volta deve distruggere il mondo, mettersi contro ogni regola, seguire “l’esperienza visionaria” consapevole o non, anticipando “mutamenti presenti e futuri” e additando “possibilità di rigenerazione a  tutta l’umanità”. Ci sono dei versi di Raffaele Carrieri che “spiegano” molto bene questa condizione: “Il poeta muore diciassette volte in una sola giornata, poi viene la morte e dice basta”.

Però forse è bene specificare che la poesia non è il frutto diretto della malattia. A volte i poeti si immedesimano così tanto e così tanto bene da essere ammalati soltanto per il periodo che occorre per essere veritieri, credibili, veri. Il poeta può, riesce a fingere fino a diventare vero. Non si tratta di credibilità o meno, né di finzione teatrale portata all’estremo limite, ma di vera e propria immersione nella follia in modo che nessun freno inibitorio, nessun condizionamento intervenga o possa avere diritto di modifica o di limitazione.

Ma a questo punto si apre un’altra voragine e Jung direbbe che al poeta “Non gli resta che obbedire e seguire questo impulso apparentemente estraneo, rendendosi conto che la sua opera è più grande di lui, e perciò ha su di lui un potere al quale non può sottrarsi”. Un fatto è certo: la poesia è frutto di un processo lungo che macera all’interno dell’anima e nell’indeterminatezza dell’inconscio e la conoscenza umana può poco o niente per analizzarla nelle scaturigini. Non sapremo mai da che cosa si genera la parola che accende i lumi dell’indeterminatezza e si fa lucida determinatezza spiegando l’indecifrabile attraverso le lenti del sogno. Un sogno che naviga naturalmente, che si forma, cresce e si espande alla stessa maniera in cui lo fa un fiore. Meccanismi imprendibili nel loro farsi e disfarsi, nel loro alitare a volte parole che aprono ferite, che fanno sanguinare, che costruiscono interi mondi o li demoliscono, che sono melodie ch’erano perdute, recuperi di verità affondate nei baluginii di un dissesto che anelava alla perfezione e alla compiutezza.

Forse è tutta una illusione?

O è soltanto una maniera che consapevolmente o inconsapevolmente ci avvicina a Dio, ai disegni segreti dell’essere e del divenire? Per dirla con Celan “E’ come porsi fuori dell’umano, un trasferirsi, uscendo da se stessi. In un dominio che converge sull’umano ed è arcano”.

Dopo tutto ciò che ho detto però alla fine mi sono ricordato di quel che diceva Sant’Agostino sul tempo:
“ Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”.

Jorge Luis Borgese propone di applicare la stessa domanda alla poesia. Io propongo di applicarla anche alla follia.

*

Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

“Ricordo dell’editore e promotore culturale Guido Miano a un anno dalla sua dipartita”

A cura di LORENZO SPURIO

Ricevo con grande piacere dai fratelli Carmelo e Michele Miano il volume 16 (anno 2022) del repertorio letterario “Alcyone 2000 – Quaderni di poesia e di studi letterari” che dà in apertura la notizia della morte del loro genitore, il poeta ed editore Guido Miano[1], che, nel corso del tempo, ha pubblicato numerosi e pregevoli libri, volumi di poesia, saggistica, antologie, repertori letterari e non solo.

Al padre sono dedicate un cospicuo numero di pagine della prima parte che si apre con l’accorata e affettuosa lettera del figlio Michele che dal genitore ha ricevuto gli influssi positivi non solo dell’amore filiale e dell’affetto intimo, anche l’amore per la poesia e la letteratura in genere, divenendo anche lui un apprezzato “promotore culturale” (definizione che lo stesso Guido Miano impiegava per definirsi) oltre che poeta (ricordo la sua opera Deltaplano del 2014 di cui alle pagine 84-86 sono riproposti dei testi poetici oltre che un mio – ormai datato – intervento critico su questa sua plaquette). Alla pari è testamento culturale che Guido Miano ha lasciato all’altro figlio, Carmelo, che da anni cura l’attività redazionale, di stampa, di grafica e di divulgazione delle opere.

Michele Miano nella lettera mescola il dato bibliografico del padre ai ricordi di vita vissuta in sua presenza: la fondazione di una rivista letteraria importante (eppure colpevolmente dimenticata nella manualistica della letteratura italiana) dal titolo “Davide, rivista sociale di lettere e arti”[2], dal taglio tradizionalista d’impronta cattolica[3], fondata da Alessandro Miano (1920-1994)[4] nel 1951 e alla quale il fratello Guido, giovanissimo, prese a collaborare attivamente. Su questa rivista trovarono pubblicazione inediti di poeti e scrittori di primo piano della nostra letteratura nazionale (alcuni di loro allora ancora alle primissime armi e non ancora affermati nell’ambiente). Per ricordare solo qualche nome di autore, ricordiamo: Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Giorgio La Pira e Mario Luzi[5]. Dopo aver curato alcuni volumi monografici, Guido Miano fondò la casa editrice omonima nel 1955 (esattamente il 18 giugno di quell’anno) specializzata in filosofia, poesia e critica letteraria (la sede iniziale di Catania sarebbe stata ben presto sostituita per quella canonica e ancora attiva nel capoluogo meneghino). Le collane editoriali e le pubblicazioni (in particolare per la poesia e il giornalismo[6]) esplosero in quantità e accuratezza formale e contenutistica oltre che pregio e autorevolezza degli autori da allora sin ai nostri giorni, grazie al suo importante “magistero” reso possibile da scelte editoriali rigorose e vincenti che hanno saputo fare la differenza e imprimere anche nell’attualità il vero senso del “fare editoria”.

Guido Miano (dx) con Maurizio Cucchi (sx) durante un evento culturale negli anni ‘90

Tra i maggiori autori che hanno visto pubblicate le loro opere con la Casa Editrice Guido Miano vanno senz’altro citati Lina Montessori, Franco Loi, Marco Danese, Cristanziano Serricchio, e, tra i più recenti, Nazario Pardini, Francesca Luzzio, Floriano Romboli, Sergio Camellini (ma la lista sarebbe oltremodo lunga, non adatta per un articolo di pochi paragrafi come questo).

A completare il ricco ricordo sulla figura di Guido Miano sono due contributi critici di due intellettuali e saggisti: Enzo Concardi (presente con un intervento dal titolo “Storia di un’amicizia e di un feeling culturale ed umano”) e Franco Lanza (presente con la premessa che scrisse per il libro Lamento dell’emigrante di Guido Miano pubblicato nel 2017[7]). Entrambi i contributi, pervasi da un’intuizione volta all’approfondimento, si prestano a conoscere ancor meglio la versatile e poderosa statura di Guido Miano quale uomo di lettere propriamente inteso.

Da sinistra il prof. Bruno Maier, n.d., il prof. Franco Lanza e Guido Miano

In Lamento dell’emigrante, che è strutturato in cinque sotto-sezioni, ritroviamo una scelta di testi lirici dedicati al ricordo soave e saporito degli aromi e dei colori vividi della sua terra natale, la Sicilia tanto amata, come avviene nel pregevole testo “Isola sempreverde”, due strofe di cinque versi l’una, in cui nella prima stanza, con una nettezza visiva senza pari e grande partecipazione dell’io lirico (come un piacevole viaggio a ritroso, “alle origini”), leggiamo: “Cogli un ramo d’ulivo saraceno, / il gelsomino bianco d’Arabia, / il mirto umile e sereno / nei giardini d’infanzia sempreverde / nella ridente isola del sole”.

LORENZO SPURIO

NOTE – E’ severamente vietato pubblicare questo articolo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.


[1] Guido Miano era nato a Palazzolo Acreide (SR) nel 1931 ed è venuto a mancare a Milano il 18 giugno 2022.

[2] Il repertorio letterario “Alcyone 2000” al quale ci riferiamo nel presente articolo è da considerarsi come la naturale prosecuzione della pionieristica rivista “Davide” degli anni ‘50.

[3] Di quel cattolicesimo lucido e onesto, lontano da dogmatismi e intransigenze di sorta, in grado (e saggiamente abile) nell’accogliere anche idee e considerazioni dal “fronte” laico, dando spazio anche a esponenti di questa tendenza.

[4] Il sottoscritto ha avuto modo di occuparsi della figura di Alessandro Miano (Noto, SR, 1920 – Milano, 1994), poeta, scrittore, giornalista ed editore, avendo deciso di attribuire alla sua figura e impegno un Premio Speciale “Alla memoria” in seno alla VI edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” organizzato dall’Associazione Euterpe di Jesi (AN) nel 2017. La motivazione di questo conferimento è stata pubblicata, oltre che nell’antologia contenente le opere dei vincitori al concorso, sul sito dedicato al Premio: https://premiodipoesialarteinversi.blogspot.com/2023/09/alessandro-miano.html

[5] Il poeta ermetico fiorentino dedicò all’amico ed editore Guido Miano la poesia “Cosmografia improvvisa” che si apre con i versi “La purità dell’essere – ne aveva / e non ne aveva / lui barlumi / di prereminiscenza…”, pubblicata all’interno di questo numero della rivista “Alcyone 2000” a pagina 11.

[6] Non secondaria né collaterale all’attività editoriale fu quella dell’impegno giornalistico che nel 1957 lo portò a istituire il Corso Biennale di Orientamento Professionale di Giornalismo presso il Centro Sperimentale italiano di giornalismo. Da quell’intuizione i corsi, le lezioni, le conferenze, i convegni e le pubblicazioni curate sulla storia e gli arnesi del giornalismo (tra cui i ricchi manuali a firma di Giorgio Mottana, divenuti testi d’adozione anche in ambito accademico) mai vennero meno.

[7] Ricordiamo, altresì, che il professore Gualtiero De Santi, docente dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” e saggista, collaboratore assiduo di iniziative della Casa Editrice Miano editore, in quell’occasione scrisse la prefazione al volume Lamento dell’emigrante.

“Pirandello nell’era digitale: riflessioni sull’identità, la realtà e la comunicazione nell’epoca della tecnologia”, saggio di Francesco Scatigno

Di Francesco Scatigno

Luigi Pirandello, nato nel 1867 e morto nel 1936, è uno dei più importanti drammaturghi e scrittori italiani del XX secolo. La sua opera è caratterizzata da una profonda riflessione sulla natura dell’identità e della realtà soggettiva. Un elemento distintivo del suo lavoro è la concezione dell’umorismo[1] di Pirandello, inteso come un modo per esplorare la complessità della condizione umana. Attraverso i suoi lavori, Pirandello ha esplorato le complesse dinamiche dell’individuo nella società e le sfide legate alla comunicazione e alla comprensione reciproca.

Identità e realtà

La riflessione di Luigi Pirandello sull’identità e la realtà soggettiva costituisce uno dei pilastri centrali della sua opera. Pirandello sottolinea che l’identità di un individuo è fluida e mutevole, spesso influenzata da molteplici fattori come il contesto sociale, le aspettative degli altri e le maschere che ognuno indossa nella vita quotidiana.

Nelle sue opere, come ad esempio nell’opera teatrale “Sei personaggi in cerca d’autore” Pirandello esplora il concetto che ciascun individuo ha molteplici sfaccettature e che la sua identità può variare a seconda del ruolo che assume in una data situazione. Questa prospettiva è particolarmente rilevante nella società contemporanea, in cui le persone sono spesso chiamate a interpretare diversi ruoli nella vita di tutti i giorni, sia online che offline.

La realtà soggettiva, secondo Pirandello, è altrettanto complessa. Egli suggerisce che ogni individuo percepisce il mondo in modo unico, influenzato dalle proprie esperienze, emozioni e convinzioni. Questa idea può essere collegata all’era moderna in cui le informazioni vengono filtrate attraverso le lenti personali dei social media e delle narrazioni digitali, creando realtà soggettive diverse per ciascun individuo.

In sintesi, l’analisi di Pirandello sull’identità e la realtà soggettiva ci invita a riflettere su come le persone si definiscono e interpretano il mondo che le circonda. Questi concetti sono ancora oggi rilevanti per comprendere la complessità delle identità individuali e delle prospettive nella società contemporanea.

Crisi della comunicazione

La “crisi della comunicazione” è un tema fondamentale nell’opera di Luigi Pirandello, che risuona in modo significativo nell’attuale panorama mediatico e sociale. Pirandello riflette su come la comunicazione tra individui spesso sia compromessa dalla difficoltà di comprensione reciproca, dall’uso di maschere sociali e dalla mancanza di comunicazione autentica.

Nelle sue opere, come nel romanzo “Uno, Nessuno e Centomila” Pirandello mette in scena situazioni in cui i personaggi non riescono a comunicare le loro vere emozioni e intenzioni. Questo problema è oggi amplificato dalla crescente dipendenza dalle piattaforme digitali e dai social media, dove spesso si comunicano versioni idealizzate o distorte di sé stessi.

La “crisi della comunicazione” di Pirandello riflette anche il concetto di “fake news” e di disinformazione che affligge la società moderna. La difficoltà nel distinguere la verità dalla finzione è una sfida crescente, con importanti implicazioni per la società e la politica contemporanea.

Inoltre, la sua analisi sulla comunicazione mette in luce quanto sia complesso per gli individui comprendere veramente gli altri e se stessi, un tema che rimane estremamente rilevante nell’era dell’iper-connessione e della sovrabbondanza di informazioni.

La “crisi della comunicazione” di Pirandello è un richiamo a riflettere sulla qualità e l’autenticità della nostra comunicazione in un mondo sempre più dominato dalla superficialità e dalla complessità delle interazioni sociali e digitali.

Identità e maschere sociali

Nelle opere di Luigi Pirandello, la questione dell’identità e delle maschere sociali è un tema centrale. Pirandello osserva come gli individui siano spesso costretti a indossare maschere sociali per adattarsi alle aspettative e alle convenzioni della società, nascondendo spesso la loro vera identità dietro queste facciate.

Questo tema è particolarmente rilevante oggi, dove la pressione sociale e l’omologazione sono molto presenti nelle dinamiche sociali. Molte persone si sentono obbligate a conformarsi a ideali o standard imposti dalla società, dai media o dai social media, spesso a scapito della loro autenticità. Questo può portare a una sensazione di alienazione e insoddisfazione.

Le maschere sociali, come quelle rappresentate da Pirandello, sono visibili anche nell’era digitale, dove le persone possono creare identità virtuali che differiscono dalla loro vita reale. Questo solleva domande sulla genuinità delle interazioni online e sulla difficoltà di distinguere ciò che è autentico da ciò che è costruito.

Inoltre, l’opera di Pirandello suggerisce che le maschere sociali possono portare a conflitti interiori e dissonanza cognitiva. Questa dissonanza può essere ancora più pronunciata in un mondo in cui le aspettative sociali possono essere in conflitto con i valori personali o le convinzioni.

Crisi esistenziale

Nelle opere di Luigi Pirandello, emerge spesso un profondo senso di crisi esistenziale nei personaggi, una sensazione di smarrimento e alienazione rispetto al mondo che li circonda. Questa tematica della crisi esistenziale è straordinariamente importante nell’attuale contesto sociale.

La modernità ha portato con sé una serie di cambiamenti rapidi e una crescente complessità nella vita quotidiana. Questo può portare a una profonda riflessione sul significato della vita, sul proprio posto nel mondo e sul senso della propria esistenza. La sensazione di essere intrappolati in una realtà che sembra priva di senso o di autenticità è una sfida con cui molti si confrontano oggi.

Secondo Pirandello, la crisi esistenziale spesso deriva dalla mancanza di una “verità” oggettiva o di un significato stabile nella vita. Questa idea può essere interpretata in vari modi nella società contemporanea, dove le convinzioni tradizionali spesso vengono messe in discussione, e le persone cercano di trovare un senso in un mondo in rapido cambiamento.

La crisi esistenziale può anche essere vista come una conseguenza delle sfide dell’individualismo moderno. Mentre la società offre un maggiore spazio per l’autonomia individuale, questo può anche portare a una sensazione di isolamento e alla necessità di definire il proprio scopo senza il supporto di norme sociali rigide.

Questi interrogativi rimangono al centro del dibattito filosofico e culturale contemporaneo, mentre le persone cercano di dare significato alle loro vite in un mondo in costante evoluzione.

L’Influenza dell’individualismo

L’influenza dell’individualismo è un tema centrale nelle opere di Luigi Pirandello e ha rilevanza continua nell’attuale panorama culturale e sociale. Pirandello esplora l’individualismo attraverso personaggi che si scontrano con la società e cercano di affermare la propria individualità, spesso in modi radicali o estremi. Questo tema può essere analizzato in relazione al mondo contemporaneo in vari modi.

Nella società attuale, l’individualismo è una forza motrice significativa. Le persone cercano sempre più di affermare la propria unicità e autonomia, spingendosi a sfidare norme sociali tradizionali e a perseguire i propri obiettivi personali. Questo può portare sia a una maggiore libertà che a una maggiore alienazione. Alcuni individui possono sentirsi isolati o in conflitto con la società mentre cercano di trovare il proprio cammino.

Inoltre, l’avvento della tecnologia e dei social media ha amplificato ulteriormente l’individualismo. Le persone possono creare e curare le proprie identità online, esplorare interessi di nicchia e collegarsi con altri individui che condividono le loro passioni. Tuttavia, questo può anche portare a una sorta di isolamento digitale, in cui le interazioni faccia a faccia e le relazioni reali sono spesso trascurate.

Pirandello mette in guardia contro gli eccessi dell’individualismo, sottolineando come la totale autonomia possa portare all’alienazione e alla perdita del contatto con la realtà. Questo richiama l’importanza di trovare un equilibrio tra l’affermazione dell’individualità e l’appartenenza a una comunità più ampia.

Le maschere nell’era dei social media

Il concetto delle maschere, così dominante nelle opere di Luigi Pirandello, trova un terreno fertile nell’era dei social media, dove la rappresentazione di sé e l’identità digitale sono diventate parte integrante della vita quotidiana. Pirandello ha come le persone indossino maschere sociali per adattarsi alle aspettative della società, nascondendo spesso la loro vera natura. Questo tema è estremamente rilevante nel contesto dei social media moderni.

I social media offrono un palcoscenico virtuale dove le persone possono creare e proiettare le proprie identità secondo il desiderio. Ogni profilo sui social media è una sorta di maschera, mostrando solo ciò che l’utente vuole che gli altri vedano. Questo può portare a una distorsione della realtà, in cui le vite delle persone sembrano più perfette, felici o interessanti di quanto non siano in realtà. Le maschere digitali possono nascondere le sfide personali, creando una percezione distorta della vita degli altri.

Inoltre, i social media hanno introdotto il fenomeno della “comparazione sociale”, in cui le persone valutano se stesse in base a ciò che vedono online negli altri. Questo può portare a una pressione costante per apparire migliori, più attraenti e di successo di quanto si è realmente. Le maschere digitali possono quindi creare un ciclo di insicurezza e competizione.

Tuttavia, l’uso delle maschere digitali può anche avere un aspetto positivo. Possono essere uno strumento di espressione creativa e di connessione con persone che condividono interessi simili. Può essere importante ricordare che ciò che vediamo online spesso rappresenta solo una parte della storia.

Comunicazione nell’epoca digitale

Nell’epoca digitale, la comunicazione ha subito una trasformazione senza precedenti, e questo fenomeno richiama in modo evidente alcune delle tematiche affrontate da Luigi Pirandello nei suoi lavori, in particolare quelle legate all’ambiguità dell’identità e all’illusione della realtà.

Le nuove tecnologie digitali, come internet e i social media, hanno reso la comunicazione più accessibile, ma allo stesso tempo più complessa. Gli individui possono ora comunicare con chiunque, ovunque nel mondo, in tempo reale, ma questa accessibilità ha anche portato a una sovrabbondanza di informazioni e a una frammentazione dell’attenzione. La distinzione tra realtà fisica e virtuale è diventata più sfumata, e le persone possono creare identità digitali multiple attraverso avatar, nickname e profili online.

Questo scenario richiama le opere di Pirandello, dove i personaggi spesso indossano maschere sociali per adattarsi alle aspettative degli altri. Nel mondo digitale, le persone creano maschere digitali attraverso i loro profili sui social media, proiettando immagini selezionate di sé stesse. Queste rappresentazioni digitali possono essere parziali, distorti o idealizzati, e talvolta nascondono la complessità della realtà umana.

Inoltre, la comunicazione digitale è stata spesso criticata per la sua superficialità e la mancanza di approfondimento. La rapidità delle interazioni online e la tendenza a condividere informazioni superficiali possono portare a una percezione distorta della realtà, dove il contenuto viene semplificato per adattarsi agli algoritmi dei social media.

In sintesi, nell’era digitale, la comunicazione è diventata un terreno fertile per esplorare le maschere, l’identità e la complessità della realtà, temi cari a Pirandello. È importante sviluppare una consapevolezza critica quando si naviga in questo ambiente, riconoscendo che ciò che vediamo online può essere solo una parte della storia e che la realtà è spesso molto più sfaccettata di quanto appaia in un feed di social media.

L’influenza della tecnologia

L’influenza della tecnologia nell’opera di Luigi Pirandello e nella comprensione della realtà contemporanea è un aspetto di notevole rilevanza. La tecnologia, in particolare l’era digitale, ha introdotto una serie di dinamiche che richiamano le tematiche pirandelliane, sfidando e ridefinendo la nostra percezione della realtà.

Una delle principali influenze della tecnologia è la creazione di identità multiple. Pirandello esplorava l’idea che ogni individuo può avere molteplici “maschere” sociali e identità che emergono in diverse situazioni. Nell’era digitale, le persone gestiscono spesso profili online su diverse piattaforme, ciascuno dei quali può rappresentare una sfaccettatura diversa della loro personalità. Questo concetto di identità frammentata è profondamente radicato nell’opera di Pirandello e si riflette nelle nostre interazioni online.

Inoltre, la tecnologia ha reso possibile l’accesso istantaneo a una quantità straordinaria di informazioni. Questo accesso illimitato alla conoscenza può creare una sensazione di “sovraccarico informativo”, simile all’ansia che Pirandello ha descritto nei suoi personaggi. Le persone si trovano spesso a dover discernere tra informazioni veritiere e false, simili al tema della realtà soggettiva nell’opera di Pirandello.

Nell’era della comunicazione digitale, caratterizzata dalla velocità delle interazioni su piattaforme di messaggistica istantanea e social media, le comunicazioni possono apparire più rapide, ma talvolta risultano anche più superficiali. Questa sfida nella comunicazione online rispecchia in modo sorprendente le tematiche affrontate nelle opere di Luigi Pirandello, dove i personaggi spesso si scontrano nel tentativo di comunicare in modo efficace tra loro.

Infine, la tecnologia ha dato vita alla realtà virtuale e alla realtà aumentata, dove le linee tra il mondo fisico e quello digitale si fondono. Questo solleva domande sulla natura stessa della realtà, richiamando il concetto di realtà soggettiva di Pirandello.

Conclusioni

In conclusione, l’opera di Luigi Pirandello continua a essere di straordinaria rilevanza nell’analisi e nella comprensione del mondo contemporaneo, in particolare nell’era digitale. Le sue riflessioni sulla natura dell’identità, della realtà soggettiva e della comunicazione hanno acquisito nuovi livelli di complessità e rilevanza nell’epoca moderna, in cui la tecnologia ha trasformato radicalmente la nostra percezione del mondo e di noi stessi.

La tecnologia ha reso possibile la creazione di molteplici identità online, richiamando il concetto di “maschere sociali” pirandelliane. Inoltre, l’accesso illimitato alla conoscenza e la diffusione delle informazioni attraverso la rete richiamano il tema della realtà soggettiva, poiché dobbiamo costantemente discernere tra verità e falsità in un mondo digitale ricco di informazioni contrastanti.

La comunicazione digitale ha introdotto nuove dinamiche nelle nostre interazioni sociali, spesso creando sfide simili a quelle affrontate dai personaggi pirandelliani nella loro lotta per comunicare efficacemente. Infine, l’avvento della realtà virtuale e aumentata solleva domande fondamentali sulla natura stessa della realtà, richiamando il tema centrale della realtà soggettiva nell’opera di Pirandello.

FRANCESCO SCATIGNO

L’Autore del presente testo ha liberamente autorizzato la pubblicazione su questo sito senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in seguito.

È severamente vietato riprodurre il presente testo in formato integrale e/o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.


[1] Per un maggior approfondimento su questo tema si rimanda al saggio del medesimo autore dal titolo “L’umorismo di Luigi Pirandello e differenza con comicità e ironia” pubblicato sul sito “Il Mago di Oz” il 25/01/2023, link: https://www.magozine.it/lumorismo-di-luigi-pirandello-e-differenza-con-comicita-e-ironia/

Mark Twain e Kurt Vonnegut a confronto. Articolo di Francesco Scatigno

Cosa hanno in comune Mark Twain e Kurt Vonnegut?

Mark Twain e Kurt Vonnegut sono famosi per i loro contributi incomparabili alla letteratura. Nel tessuto della storia letteraria, essi si ergono come figure iconiche, ognuna tessendo una narrazione distinta che ha lasciato un’impronta indelebile nei lettori di ogni generazione. Twain, con il suo ingegno e saggezza, e Vonnegut, con le sue esplorazioni irriverenti e allo stesso tempo profonde, ci hanno donato non solo storie, ma anche specchi che riflettono le complessità dell’esperienza umana.

Sebbene i loro stili di scrittura possano differire, il genio di Twain e Vonnegut risiede nella loro capacità di coinvolgere i lettori in un dialogo avvincente sulla società, sull’umanità e sul misterioso viaggio dell’esistenza.

I contesti storici e culturali

Mark Twain e Kurt Vonnegut sono entrambi figli del loro tempo, autori che hanno saputo catturare e riflettere l’atmosfera e lo spirito dei rispettivi periodi storici. Mark Twain, il cui vero nome era Samuel Langhorne Clemens, visse nel XIX secolo, un’epoca caratterizzata dal fervore dell’espansione verso l’ovest, dalla guerra civile americana e dai cambiamenti sociali. La sua narrativa spesso tocca temi come l’ingiustizia, la schiavitù e la corruzione, offrendo una critica acuta della società dell’epoca.

Kurt Vonnegut, d’altra parte, emergendo nella seconda metà del XX secolo, portò la sua voce letteraria in un’era segnata dalla Guerra Fredda, dalla minaccia nucleare e da un crescente scetticismo verso le istituzioni tradizionali. La sua scrittura è intrisa di un tono anti-autoritario e di un umorismo nero che riflette la complessità e l’incertezza del mondo moderno.

Entrambi gli autori si sono confrontati con i problemi e le preoccupazioni del loro tempo, utilizzando la narrativa come uno strumento per dar voce alle sfide sociali, politiche e culturali. La profonda consapevolezza di questi contesti storici ha permesso loro di creare opere intrinsecamente collegate alle realtà della loro epoca, mentre al tempo stesso hanno saputo affrontare temi universali che continuano a essere rilevanti oggi.

Stile e linguaggio peculiari

Una delle caratteristiche distintive di entrambi gli scrittori è il loro stile di scrittura unico e riconoscibile, che ha contribuito a plasmare le loro opere e a renderle memorabili. Mark Twain è noto per il suo linguaggio vivace e colloquiale, che cattura l’essenza dell’America dell’Ovest e dei suoi personaggi. Il suo uso sapiente del dialetto regionale e delle espressioni vernacolari dà vita alle sue storie e rende i personaggi autentici e tridimensionali.

Dall’altra parte, Kurt Vonnegut ha sviluppato uno stile narrativo distinto caratterizzato dalla sua prosa chiara e incisiva, spesso arricchita da sarcasmo e ironia. Vonnegut è famoso per l’uso di strutture narrative non convenzionali e per la sua abilità nel giocare con il tempo e la prospettiva. Questi elementi non solo rendono le sue opere interessanti da leggere, ma contribuiscono anche a enfatizzare i temi profondi e complessi trattati nei suoi romanzi.

Entrambi gli autori sperimentano con il linguaggio e la struttura in modo audace, creando un’impronta caratteristica che rende le loro opere immediatamente riconoscibili. Questo stile unico è parte integrante della loro eredità letteraria e ha influenzato generazioni successive di scrittori che cercano di catturare lo spirito dei loro tempi in modo altrettanto originale e coinvolgente.

Uso dell’umorismo e della satira

Sia Mark Twain che Kurt Vonnegut sono maestri nell’uso dell’umorismo e della satira per indagare temi profondi e spesso controversi. Twain, con il suo spirito schietto e la sua critica sociale, è noto per aver affrontato questioni come la razza, la religione e la politica attraverso una interpretazione satirica. Le sue opere, come “Le avventure di Huckleberry Finn” e “Il Principe e il Povero”, affrontano temi di ingiustizia sociale e pregiudizio con una combinazione unica di sarcasmo e umorismo pungente.

Dall’altra parte, Kurt Vonnegut è celebre per la sua satira sottile e la sua ironia tagliente. I suoi romanzi, come “Mattatoio n. 5” e “Ghiaccio-nove”, utilizzano l’umorismo nero per esplorare argomenti complessi come la guerra, la tecnologia e la condizione umana. Vonnegut crea mondi surreali in cui la realtà viene distorta attraverso l’occhio critico dell’umorismo, offrendo così una visione straordinaria dei problemi della società contemporanea.

Entrambi gli autori dimostrano che l’umorismo e la satira possono essere potenti strumenti letterari per affrontare questioni serie e far riflettere il lettore su temi profondi. La loro abilità nel bilanciare l’ilarità con la riflessione critica permette loro di creare opere che sono al contempo divertenti e stimolanti, invitando i lettori a esaminare da vicino le convenzioni sociali e i paradossi dell’esistenza umana.

Scetticismo verso l’autorità

Un tratto distintivo che accomuna Mark Twain e Kurt Vonnegut è il loro profondo scetticismo nei confronti dell’autorità, che emerge in modo accattivante nelle loro opere letterarie.

Mark Twain, attraverso i suoi personaggi ribelli e anticonformisti, ha spesso messo in discussione le istituzioni sociali e politiche dell’America del XIX secolo. In opere come “Le avventure di Huckleberry Finn” e “Il principe e il povero”, Twain esplora i temi della giustizia, dell’uguaglianza e della corruzione, mettendo in luce le disuguaglianze sociali e le ingiustizie presenti nella società. Il suo approccio critico e ironico verso il potere e l’autorità ha reso i suoi romanzi non solo divertenti, ma anche strumenti per la riflessione su questioni sociali ed etiche.

Anche Kurt Vonnegut condivide questo scetticismo verso l’autorità e spesso lo amplifica con un tocco satirico. Nei suoi romanzi, le figure di autorità vengono spesso rappresentate in modo grottesco o ridicolo, svelando le ipocrisie e le debolezze del potere. In “Mattatoio n. 5”, ad esempio, Vonnegut esplora gli orrori della guerra e critica aspramente le decisioni dei leader politici. La sua scrittura ironica e provocatoria mette in luce l’assurdità delle strutture di potere e invita il lettore a interrogarsi sulle dinamiche del potere.

Attraverso il loro scetticismo condiviso verso l’autorità, Twain e Vonnegut sfidano il lettore a esaminare criticamente le istituzioni e i leader che influenzano la società. La loro capacità di trasporre questo scetticismo nella narrazione crea opere letterarie che non solo intrattengono, ma anche spingono alla riflessione su questioni di potere, controllo e responsabilità.

L’influenza letteraria

L’eredità di Mark Twain e Kurt Vonnegut nell’ambito letterario è notevole e continua ad esercitare un’influenza duratura sulle generazioni successive di scrittori e lettori.

Le opere di Mark Twain sono considerate pietre miliari della letteratura americana e hanno contribuito a definire il genere del romanzo moderno. Il suo stile di scrittura vivace, l’uso distintivo del dialetto e la profonda analisi sociale hanno ispirato numerosi autori nel corso degli anni. Scrittori come J.D. Salinger, John Steinbeck e Toni Morrison hanno ammirato la capacità di Twain di esplorare tematiche universali attraverso personaggi e storie coinvolgenti. Inoltre, il suo spirito critico e il suo approccio satirico al contesto sociale sono diventati un punto di riferimento per gli scrittori impegnati nell’analisi della vita sociale e politica.

Analogamente, l’influenza di Kurt Vonnegut si estende ben oltre le pagine dei suoi romanzi. La sua combinazione unica di satira, fantascienza e umorismo nero ha aperto nuove strade nella narrativa contemporanea. Scrittori come Douglas Adams e Dave Eggers hanno abbracciato l’approccio audace di Vonnegut nel trattare argomenti seri attraverso l’umorismo e l’ironia. In particolare, la sua capacità di esplorare i dilemmi umani in un mondo sempre più complesso ha ispirato autori che cercano di sondare le profondità della psiche umana e della società moderna.

Riflessioni filosofiche

Tanto Mark Twain quanto Kurt Vonnegut hanno lasciato un’impronta indelebile nel panorama letterario per le loro profonde riflessioni filosofiche che spesso si intrecciano con l’umorismo e l’ironia.

Mark Twain ha esplorato temi filosofici complessi attraverso personaggi e situazioni a volte surreali. Nelle sue opere, come “Lo straniero misterioso” e “Wilson lo zuccone”, ha affrontato concetti di moralità, libero arbitrio e natura umana. Attraverso trame avvincenti e dialoghi taglienti, Twain ha invitato i lettori a interrogarsi sulle ambiguità etiche della vita e sulla natura spesso contraddittoria degli esseri umani.

Kurt Vonnegut ha intrapreso un approccio simile, mescolando filosofia e fantascienza con una dose di sarcasmo. Opere come “Benvenuta nella gabbia delle scimmie” e “Sirene” hanno offerto riflessioni su temi come la guerra, la religione e l’esistenza umana. Vonnegut ha spesso giocato con l’assurdità della condizione umana, mettendo in luce le contraddizioni delle credenze culturali e delle istituzioni sociali. Le sue storie ricche di simbolismo hanno ispirato lettori a esaminare la loro visione del mondo e a considerare la complessità delle questioni esistenziali.

In entrambi i casi, sia Twain che Vonnegut hanno sfidato gli stereotipi convenzionali e le idee preconfezionate, spingendo i lettori a esplorare questioni profonde attraverso delle lenti umoristiche e creative. Le loro opere hanno costituito un punto di partenza per l’analisi filosofica e hanno dimostrato che la letteratura può essere un mezzo potente per ripensare la società.


FRANCESCO SCATIGNO

L’autore dell’articolo:

Francesco Scatigno, classe 1983, pubblica nel 2007 Lo Scarabeo con Bastogi Editrice. Nel 2008 fonda il blog Magozine.it che diventa poi spazio collettivo di controinformazione e controcultura. Nel gennaio 2016 è autore del manifesto di Cucina Sovversiva. Nel maggio 2016 pubblica il saggio Mezza Rivoluzione o La Rivoluzione Integrale, testo autopubblicato sulle buone pratiche economiche e politiche di mutuo appoggio e collettivismo. Su Magozine.it cura la Newsletter Umoristica con raccontibrevi di satira politica e umorismo. Sullo stesso blog recensisce saggi politici e narrativa sociale e fantascientifica.

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L’Autore del testo ha acconsentito alla pubblicazione di questo testo su questo blog senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in seguito. La pubblicazione di questo testo in forma integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto, non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’autore.

Franz Kafka a centoquaranta anni dalla nascita. Con un’interpretazione del “tema natale” dello scrittore boemo

A cura di Isabella Michela Affinito

Senza voler ostentare emulazione nei riguardi del filosofo e storico greco, Plutarco di Cheronea (46 circa – 120 d.C. circa) che redasse le famose Vite parallele ponendo a confronto esistenze di personaggi illustri quali, ad esempio, Cesare con Alessandro Magno, Teseo con Romolo, Aristide con Catone, Cicerone con Demostene, etc., ebbene, il profilo, dalla sottoscritta elaborato anche a livello astrologico, dello scrittore di Praga, Franz Kafka, s’interseca in maniera impensata con quello del coevo artista livornese Amedeo Clemente Modigliani, pur non essendosi mai conosciuti in vita, e vediamone i motivi.

Ambedue le personalità maschili nacquero sotto il Segno d’Acqua del Cancro con l’Ascendente nel Segno di Fuoco del Leone per Kafka e nel Segno della Vergine per Modigliani – sottolineo che nella mia precedente compilazione del tema natale di Modigliani avevo ricavato il suo Ascendente nel Segno del Leone, perché basatami su calcoli estratti da effemeridi sul finire del secolo scorso, mentre l’artista nacque verso la fine dell’Ottocento e indagando meglio il suo Ascendente è risultato nel Segno di Terra della Vergine.

Vissero poco, ossia trentasei anni Modigliani e quaranta Kafka (più grande di un anno dell’artista toscano) e morirono per l’eguale malattia all’epoca incurabile, la tubercolosi; non si sposarono mai ma ebbero diverse compagne e fintantoché furono vivi non conobbero alcuna fortuna attraverso le loro fatiche artistiche per l’uno e letterarie per l’altro; furono degli insoddisfatti e incompresi nel medesimo tempo storico a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento e per loro, in un certo senso, fu un dono morire prima dell’ascesa al potere in Germania di Adolf Hitler nel 1933 poiché entrambi d’origine ebrea; invero, le tre sorelle di Kafka nei successivi anni ’40 del secolo scorso restarono vittime della Shoah.

Per dettagli maggiori di comparazione fra i due personaggi, sono da aggiungere il medesimo Mercurio in Casa Undicesima; la stessa Venere in Casa Undicesima; Giove in Casa Undicesima; il medesimo Saturno in Gemelli in Casa Decima; Urano nel Segno della Vergine e Nettuno in quello del Toro, di cui la reiterazione della Casa Undicesima asserisce numerosi viaggi all’insegna dello scambio d’idee con persone dagli interessi comuni, proficue collaborazioni, aiuti provenienti dagli amici e Kafka ebbe la fortuna d’incontrare al suo primo anno universitario in giurisprudenza, Max Brod, il quale, dopo la prematura morte di Franz, fu il suo primo editore ed erede universale dei suoi lavori editi e inediti anche non finiti, portati coraggiosamente da lui fino a Tel Aviv all’indomani dell’invasione tedesca di Praga, e da lui pazientemente riordinati come il celebre romanzo Il Processo pubblicato nel 1925.

Il tentativo d’evasione escogitato dallo scrittore boemo per eludere la realtà fu quello di dedicarsi alla scrittura, oltre a svolgere nel quotidiano il lavoro impiegatizio in un’agenzia per infortuni, ma scappare da chi e da che cosa?

Il pianeta kafkiano si presenta a tutt’oggi asfittico, castigante, buio, irrazionale, capzioso, contraddittorio, inospitale e quanto mai inaccettabile; all’esordio questa realtà allucinata fece da cassa di risonanza alla corrente artistica, letteraria, musicale, teatrale, cinematografica europea dell’Espressionismo, grondante valenze estreme ed inspiegabili.

Volendo ulteriormente associare Franz Kafka a un particolare oggetto della nostra realtà concomitante, potremmo citare l’astruso “Cubo di Rubik o magico” in base al rocambolesco suo (di Kafka) metodo di scrittura che s’avviava non dall’inizio della storia, bensì in mezzo o partendo dalla conclusione, perciò molte sue opere sono rimaste manchevoli di parti.

«[…] Nel suo mondo ossessivo si ripetono certe situazioni. Qualcuno viene svegliato bruscamente e da lì comincia la svolta nella sua vita. O semplicemente si sveglia trovando che tutto è cambiato (è diventato un insetto oppure è in arresto) mentre tutto resta uguale (la stanza è sempre quella della sera prima). Debolmente, anzi velleitariamente si vorrebbero apportare delle riforme nel processo, nell’esecuzione della pena, addirittura nell’amministrazione del castello, per rendersi conto, prima o poi, che una volta dato retta “al menzognero squillo del campanello notturno non c’è più rimedio possibile”. Si ripetono gli ambienti oppressivi: sottoscala, soffitte, gallerie e pulpiti nei quali non si può stare in piedi, divani da cui si viene schiacciati, stanze soffocanti in cui inspiegabilmente si intrattengono donne malaticce. E costante resta il fatto che un inspiegabile evento iniziale porta alla morte finale.» (Dal volume monografico Franz Kafka – Romanzi e racconti, Collana L’espresso Grandi Opere, Edizione abbinata ad una testata del Gruppo Editoriale l’Espresso S.p.A. di Roma, Anno 2005, pagg. XII-XIII).

Franz Kafka non è stato di bell’aspetto: magro, dal viso plasmato di cupezza, poco incline al sorriso, le orecchie sporgenti quasi appuntite, gli occhi elettrizzati ed elettrizzanti. Schivo, ombroso, si sentiva, s’è sempre sentito in ‘prigione’ che può essere stata la sua famiglia, la stessa Praga con le convenzioni della società dell’epoca, l’appartenenza alla cultura ebraica, il suo non facile adattamento nell’ambientazioni altrui. In realtà, l’ipotetica ‘gabbia’ di Kafka è riconducibile alla rara situazione planetaria del suo oroscopo natale, dove i dieci pianeti invece di stare sparpagliati nelle canoniche Dodici Case zodiacali, si sono ritrovati al momento della sua nascita, il 3 luglio 1883, concentrati (ammassati) in solamente due Case formate dai Segni del Toro, del Gemelli e del Cancro: la Decima e l’Undicesima, che sono rispettivamente il settore dell’Amicizia e quello della possibilità di riuscita nella vita sociale e professionale. Per cui l’aver avvertito un senso claustrofobico è stato per lo scrittore più che ovvio, perché la vicinanza stretta di più pianeti in una precisa porzione zodiacale provoca ineluttabilmente disagio, esasperazione, malessere interiore e quant’altro.

Franz Kafka fu l’unico figlio maschio, primogenito, nella famiglia composta dai genitori e sei figli, di cui tre sorelle più piccole e due fratelli morti quando Franz era bambino, e questo l’ha penalizzato dal punto di vista virile, probabilmente è stato omosessuale.

Il rapporto con la figura paterna fu un dissesto: suo padre, Hermann Kafka (1852-1931), ex-macellaio poi commesso viaggiatore e, infine, gestore d’un negozio d’abbigliamento e oggettistica con diversi aiutanti alle sue dipendenze, era provvisto d’un carattere ed una corporatura completamente all’inverso del figlio, il quale, ad un certo punto, scelse di mangiare vegetariano al cospetto del padre scandalizzato e fra i due s’instaurò l’incomunicabilità proprio per l’inesistente traccia d’affinità, tanto che Franz arrivò a redigere la chilometrica Lettera al padre (di cento pagine, pubblicata da Max Brod nel 1952 come opera letteraria) per esporre quella spaccatura incolmabile.

«[…] Ancora anni dopo mi opprimeva la tormentosa immagine dell’uomo gigantesco, mio padre, l’ultima istanza, che poteva piombare nella notte, quasi senza motivo, sul mio letto e portarmi sul ballatoio, perché tanto io per lui ero un puro nulla. Questo fu, allora, soltanto un primo inizio, ma la sensazione di nullità che spesso domina (sensazione da altri punti di vista anche nobile e feconda) deriva in gran parte dalla tua influenza.» (Dal volume Kafka – Come non educare i figli, Lettere sulla famiglia e altre mostruosità, Collana dei tascabili I Pacchetti, L’orma editore srl di Roma, Anno 2018 III ristampa, pag.51).

Nella Casa Decima, tra il Toro e il Gemelli, Kafka ebbe i pianeti forti di Marte, Saturno, Nettuno e Plutone a significare che lui è stato abbastanza testardo, con una volontà spiccata procurante sovente e volentieri conflittualità negli ambienti dove si svolgeva la sua esistenza, specialmente in famiglia. Fu dotato d’una grande ambizione tanto da desiderare di stagliarsi dalla massa ma venne impedito e questi impedimenti di sicuro sono stati il cattivo suo stato di salute, l’ambiente praghese chiuso e retrogrado, le limitazioni vere o presunte insite nel suo carattere propenso a ‘spegnere’ con l’acqua tiepida cancerina il dirompente fuoco leonino dell’Ascendente. Comunque, il voler diventare qualcuno non era inteso da lui di percorrere la via maestra come avviene di solito, ma una ‘strada altra’ che si dischiuse davanti a lui tanto tortuosa quanto corta per la sopraggiunta morte prematura.

Nell’agosto 1912 Franz incontrò ad una cena amicale per la prima volta Felice Bauer, una signorina che lavorava come dattilografa a Berlino e se ne innamorò. Lei sembrava, dall’aspetto, molto più grande di lui – forse perché i nativi del Segno del Cancro sono attirati da donne rievocanti l’immagine rassicurante della madre – e non aveva una bellezza particolare; il loro fu un rapporto altalenante durato un po’ di anni e ricchissimo di corrispondenza da parte dello scrittore indeciso se sposarla o meno, poiché il matrimonio lo terrorizzava riguardo alla fine della sua libertà e perché la sua Venere in Gemelli non prometteva stabilità affettiva a lungo termine. Le scrisse anche lettere di disappunto sulla possibile loro unione matrimoniale, quasi un ‘avvocato del diavolo’ (Franz si laureò in Giurisprudenza il 18 luglio 1906) contro sé stesso, affinché partisse da lei il proposito di lasciarlo in maniera definitiva.

«[…] Considera ora, Felice, quale mutamento comporterebbe per le nostre esistenze il matrimonio, che cosa ciascuno perderebbe e che cosa guadagnerebbe. Io perderei la mia solitudine, per me quasi sempre insopportabile, e acquisterei te che amo sopra tutte le creature. Tu invece perderesti la vita che hai condotto finora, della quale eri tutto sommato alquanto soddisfatta: perderesti Berlino, l’ufficio che ti piace, le amiche, i piccoli divertimenti, la prospettiva di sposare un uomo sano, allegro, buono, di avere figli sani e belli che è una cosa – se ci rifletti un attimo – che ti manca già ora. In cambio di questa perdita tutt’altro che trascurabile otterresti un uomo malato, debole, poco socievole, taciturno, triste, rigido, quasi senza più speranze, la cui forse unica virtù consiste nell’amarti.» (Dal volume Kafka – Come non educare i figli, Lettere sulla famiglia e altre mostruosità, Collana dei tascabili I Pacchetti, L’orma editore srl di Roma, Anno 2018 III ristampa, pagg.38-39).

Concernente la Casa Undicesima, di cui Franz ebbe i pianeti Sole, Luna, Mercurio, Venere e Giove, è inutile ribadire che la breve distanza l’uno dall’altro non ha fatto altro che aumentare il loro ‘chiasso’ disturbandosi a vicenda, perciò lo scrittore non è stato mai in pace con sé stesso, né con gli altri. Kafka ha ricevuto moltissimo dalle amicizie e spesso le sue amiche diventavano amanti – come le modelle-muse che posavano per i ritratti eseguiti da Modigliani – talché il concetto dell’amicizia per lui assunse il valore di sacralità. Il successo e gli agi gli sarebbero giunti grazie al suo Giove in Cancro (salvo morte prematura), ma è stato soprattutto il suo Mercurio in Gemelli che gli ha fornito quelle prerogative connaturate allo scrittore dinamico e ricco di estro seppure nello scomodo recinto psicologico e storico in cui visse, imbevuto d’espressionismo (incubo), di surrealismo (sogno) e di vicende bellicose come la Prima guerra mondiale che mise tragicamente fine alla leggendaria e plurisecolare dinastia europea absburgica capeggiata dall’ultimo imperatore Francesco Giuseppe, nel 1916, e nel cui territorio austriaco da lui governato faceva parte anche Praga capitale del Regno di Boemia.

ISABELLA MICHELA AFFINITO

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XI Premio Naz.le di Poesia “L’arte in versi”: il verbale di Giuria

VERBALE DI GIURIA

L’undicesima edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, bandita nel mese di maggio 2022 e con scadenza di partecipazione fissata al 31/12/2022 ha visto l’ottenimento dei patrocini morali dei seguenti enti istituzionali: Regione Marche, Assemblea Legislativa della Regione Marche, Provincia di Ancona, Comuni di Ancona, Jesi e Senigallia, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Finanche – in relazione all’assegnazione di alcuni Premi Speciali (fuori concorso) – sono stati ottenuti i Patrocini Morali della Regione Veneto, delle Provincie di Verona, Lecce e Modena e del Dipartimento di Culture e Civiltà dell’Università di Verona.

L’organizzazione del Premio, in sinergia e mutua collaborazione con alcune associazioni culturali che perseguono finalità comuni, ha deciso di attribuire alcuni premi speciali che vengono offerti dai seguenti enti: Movimento Internazionale “Donne e Poesia” di Bari, Centro Culturale “Vittoriano Esposito” di Avezzano (AQ), Consulta Giovanile di Bonorva (SS), Associazione di Promozione Sociale “Le Ragunanze” di Roma, Associazione Siciliana Arte e Scienza (ASAS) di Messina, Associazione Culturale “L’Oceano nell’anima” di Bari, Associazione Culturale “Il Faro” di Cologna Spiaggia (TE), Associazione Culturale “Africa Solidarietà” Onlus di Arcore (MB), Club per l’Unesco di Cerignola (FG).

Ha collaborato esternamente provvedendo a riconoscere alcuni contratti editoriali a opere ritenute meritevoli la casa editrice Ivvi Editore – Nuovi autori del Gruppo Solone s.r.l. di Battipaglia (SA).

Hanno patrocinato questa edizione del Premio anche i seguenti enti culturali: Centro Studi “Sara Valesio” di Bologna, Wikipoesia, Quotidiano online «Il Graffio».

Le Commissioni di Giuria, differenziate per le varie sezioni a concorso, erano costituite da poeti, scrittori, critici letterari, giornalisti, promotori culturali (in ordine alfabetico): Stefano Baldinu, Fabia Binci, Lucia Cupertino, Valtero Curzi, Mario De Rosa, Graziella Enna, Zairo Ferrante, Rosa Elisa Giangoia, Fabio Grimaldi, Giuseppe Guidolin, Francesca Innocenzi, Antonio Maddamma, Simone Magli, Emanuele Marcuccio, Francesco Martillotto, Vincenzo Monfregola, Morena Oro, Rita Stanzione, Laura Vargiu e sono state presiedute da Michela Zanarella.

Il Presidente del Premio, dott. Lorenzo Spurio, a conclusione delle operazioni di lettura, valutazione e vaglio da parte delle Commissioni di Giuria della XI edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” indetto e organizzato da Euterpe APS di Jesi (AN), rende note le graduatorie per le varie sezioni.

Sono giunte alla segreteria del Premio 1.695 opere. Espletate le operazioni di segreteria, che ha provveduto all’eliminazione preventiva di tutti quei testi che, per le ragioni indicate nel bando di partecipazione, non erano conformi ai parametri richiesti (tot. 32), la partecipazione complessiva è stata di 1.663 opere.[1]

I parametri considerati dalle Commissioni di Giuria nel corso delle operazioni di lettura e valutazione sono stati:

  • Rispondenza di genere (congruità alla sezione);
  • Correttezza sintattico-grammaticale;
  • Forma espositiva e stile impiegato;
  • Intensità comunicativa (forza espressiva);
  • Originalità ed elaborazione;
  • Musicalità.

In relazione alla sezione G (Libro edito di poesia) i parametri valutativi sono stati:

I – Contenuto

  • Stile e linguaggio;
  • Originalità e creatività;
  • Varietà tematica;
  • Compattezza della silloge (stilistico-formale, concettuale);
  • Utilizzo di forme metriche, retoriche;
  • Musicalità e sonorità del verso;
  • Comprensibilità delle costruzioni poetiche;
  • Forza delle immagini;
  • Presa e suscettibilità sul lettore (criteri soggettivi);
  • Congruità delle versioni tradotte (dal dialetto o lingua straniera), se presenti

II – Veste grafica

  • Linea grafico-editoriale;
  • Qualità della carta/inchiostro;
  • Praticità del volume (dimensioni, peso, etc.);
  • Leggibilità/ Facilità di lettura (in termini visivi e non di ermeneusi);
  • Copertina;
  • Cura negli apparati esterni (quarta, alette, etc.)

III – Materiali aggiuntivi e altro

  • Presenza di testi critici d’accompagnamento (introduzione, prefazione, postfazione, nota di lettura) e autorevolezza degli autori terzi in questi testi;
  • Presenza di materiale iconografico: foto, pitture, disegni, fumetti, etc.;
  • Eventuale compresenza di comparti separati per narrativa o altro;
  • Congruità delle letture critiche d’accompagnamento;
  • Pertinenza del titolo;
  • Sintonia e legame tra i vari apparati della silloge;
  • Sintonia e legame tra i contenuti poetici e grafici.

Tenuto conto di tutte queste indicazioni, che costituiscono parte integrante del verbale di giuria, la graduatoria finale e definitiva dei vincitori è così stabilita:

SEZIONE A – POESIA IN ITALIANO

Premi da podio

1° Premio Assoluto – TIZIANA MONARI (A148) di Prato con l’opera “I passi nell’erba”.

2° Premio Assoluto – DAVIDE ROCCO COLACRAI (A187) di Terranuova Bracciolini (AR) con l’opera “Gli interrogativi che l’amore mi fa piangere / Bambino Gesù”.

3° Premio Assoluto – MARCO PEZZINI (A128) di San Giuliano Milanese (MI) con l’opera “Scrivi di me”.

Premi Speciali

Premio Speciale “Picus Poeticum” – Assegnato alla migliore poesia di un autore marchigianoSILVIA GELOSI (A741) di Sarnano (MC) con l’opera “Questo tempo”.

Premio Speciale “Donne e Poesia” – Donato dal Movimento Internazionale Donne e Poesia di Bari ORNELLA VALLINO (A643) di Pavone Canavese (TO) con l’opera “Ora, forse”.

Premio Speciale “Africa Solidarietà” – Donato dall’Associazione Africa Solidarietà Onlus di Arcore (MB) VITTORIO DI RUOCCO (A649) di Pontecagnano (SA) con l’opera “Il treno per l’inferno”.

Premio Speciale “Il Faro” – Donato dall’Associazione Il Faro di Cologna Spiaggia (TE) ANNALENA CIMINO (A062) di Anacapri (NA) con l’opera “L’angelo dalle ali dorate”.

Premio Speciale “L’Oceano nell’anima” – Donato dall’Associazione L’Oceano nell’anima di BariGRAZIA CASTIGLIONI (A663) di Cuneo con l’opera “Notturno ad Auschwitz”.

Menzioni d’Onore

FEDERICO AGNELLINI (A646) di Milano con l’opera “L’avversario”.

SANTINA ALBICINI (A535) di Fiorano Modenese (MO) con l’opera “Nel vento”.

MARCO DE CAMILLIS (A627) di Ortona (CH) con l’opera “Scarpata del San Marco”.

JONATHAN LAZZINI (A690) di Castelnuovo Magra (SP) con l’opera “lettera al prossimo me”.

ERIKA SIGNORATO (A653) di Treviso con l’opera “Sopra una stella alpina”.

ELISABETTA VATIELLI (A530) di Folignano (AP) con l’opera “Luce”.

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SEZIONE B – POESIA IN DIALETTO

Premi da podio

1° Premio Assoluto – ALESSIO BAROFFIO (B041) di Rescaldina (MI) con l’opera “Senza teciu”.

2° Premio Assoluto – MICHELA RINAUDO LA MATTINA (B052)di Palermo con l’opera “D’unni eri”.

3° Premio Assoluto – ELENA MANEO (B038)di Mestre (VE) con l’opera “El fantoin de Irpin”.

Premi Speciali

Premio Speciale ASAS – Donato dall’Associazione Siciliana Arte e Scienza di Messina e assegnato alla migliore poesia in dialetto siciliano GIUSEPPE MODICA (B113)di Modica (RG) con l’opera “Ma’ patri ‘nun fumàva”.

Premio Speciale “Peppe Sozu” Donato dalla Consulta Giovanile di Bonorva (SS)– LIDIA BASAGLIA (B035)di Poggio Rusco (MN) con l’opera “La par ad védar”.

Menzioni d’Onore

ANTONIO BARRACATO (B020) di Cefalù (PA) con l’opera “’Nta facci d’un vecchiu”.

DIANA BRODOLONI (B119) di Porto Recanati (MC) con l’opera “Derìa noa”.

FRANCESCO GEMITO (B093) di Afragola (NA) con l’opera “Ammore mio carnale”.

ELVIO GRILLI (B104) di Fano (PU) con l’opera “Cum i curiàndul”.

MARTINO RICUPERO (B025) di Siderno (RC) con l’opera “A…passijata”.

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SEZIONE C – POESIA IN LINGUA STRANIERA

Premi da podio

1° Premio Assoluto – GIUSEPPE BERTON (C022) di Conegliano (TV) con l’opera “Brother”

2° Premio Assoluto – ANDREINA TRUSGNACH (C033) di San Leonardo (UD) con l’opera “Počitek liscja”.

3° Premio Assoluto – LUCIA LO BIANCO (C029) di Palermo con l’opera “Those clear Irish skies”.

Menzioni d’Onore

SIMONE CIGNI (C030) di Voghera (PV) con l’opera “Impréssions”.

PASQUALE D’AMORE (C011) di Fonte Nuova (RM) con l’opera “Passion”.

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SEZIONE D – POESIA RELIGIOSA

Premi da podio

1° Premio Assoluto – ROSITA MATERA (D050) di Cerignola (FG) con l’opera “Piccolezza. Notti di speranza”.

2° Premio Assoluto – ANTONIO AFFINITO (D119) di Ferentino (FR) con l’opera “Paradiso”.

3° Premio Ex Aequo – FIORENZA PEROTTO (D073) di Prato con l’opera “Kramatorsk”.

3° Premio Ex Aequo – ANTONELLA BRUGIATELLI (D023) di Senigallia (AN) con l’opera “Madre di Lourdes”.

Menzioni d’Onore

LUIGI DI NICOLANTONIO (D002) di Falconara Marittima (AN) con l’opera “Ave Maria”.

TINA FERRERI TIBERIO (D052) di San Ferdinando di Puglia (BAT) con l’opera “Domande su Dio”.

ANTONIO MARI (D008) di Napoli con l’opera “Trasfigurazione”.

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SEZIONE E – POESIA D’AMORE

Premi da podio

1° Premio Assoluto – SILVIO STRANEO (E025) di Savona con l’opera “Le mie mani”.

2° Premio Assoluto – RACHELE ROMANO (E180) di Aversa (CE) con l’opera “La quiete dentro di noi”.

3° Premio Assoluto – ELISABETTA LIBERATORE (E067) di Pratola Peligna (AQ) con l’opera “Mia madre”.

Premi Speciali

Premio Speciale “Le Ragunanze” – Donato dall’Associazione Le Ragunanze di RomaFRANCO CASADEI (E100) di Cesena (FC) con l’opera “La lontananza”.

Premio Speciale “Cerignola Città d’Arte” – Donato dal Club per l’Unesco di Cerignola (FG)STEFANIA SIANI (E138) di Cava de’ Tirreni (SA) con l’opera “Il fuoco di uno spento tramonto”.

Menzioni d’Onore

FELICE DI BENGA (E036) di Roma con l’opera “E se”.

MARCO FAVALORO (E042) di Costarainera (IM) con l’opera “Nella moltitudine dei cieli”.

ALBERTO PEDRAZZINI (E236) di Luzzara (RE) con l’opera “Con mio figlio”.

CARLOTTA SEGONI (E130) di Montemurlo (PO) con l’opera “Ti ho scelta”.

MADDALENA STERPETTI (E207) di Viterbo con l’opera “La danza dell’anima”.

LUISA TRIMARCHI (E009) di Cremona con l’opera “L’amore – a piene mani”.

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SEZIONE F – PROSA POETICA

Premi da podio

1° Premio Assoluto – RITA GRECO (F015) di Mesagne (BR) con l’opera “Il dio della crepa”.

2° Premio Assoluto – GABRIELE ANDREANI (F003) di Pesaro con l’opera “Un triste clic”.

3° Premio Ex Aequo – RENZO MALTONI (F004) di Ravenna con l’opera “Ode al cardellino”.

3° Premio Ex Aequo – GIULIA VANNUCCHI (F013) di Viareggio (LU) con l’opera “Piove”.

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SEZIONE G – LIBRO EDITO DI POESIA

Premi da podio

1° Premio Assoluto – GABRIELLA CINTI (G001)di Jesi (AN) con il libro Prima, puntoacapo, Pasturana, 2022.

2° Premio Assoluto – LORETTA FUSCO (G045)di Pradamano (UD) con il libro La misura del tempo e dello spazio, VJ, Milano, 2022.

3° Premio Assoluto – EMANUELA DALLA LIBERA (G046) di Suvereto (LU) con il libro Infinito andare, Il Convivio, Castiglione di Sicilia, 2022.

Premi speciali

Premio Speciale del Presidente del Premio – MARGHERITA PARRELLI (G007) di Roma con il libro Incontro, La Vita Felice, Milano, 2022.

Premio Speciale della Critica – GIUSEPPE SETTANNI (G003) di Fano (PU) con il libro Affreschi strappati, Ensemble, Roma, 2022.

Premio Speciale “Trofeo Euterpe” – LUCIANA RAGGI (G059)di Roma con il libro La cruna della notte, Ensemble, Roma, 2022.

Menzioni d’onore

BARTOLOMEO BELLANOVA (G040)di Bologna con il libro Perdite, puntoacapo, Pasturana, 2022.

GIANCARMINE FIUME (G044) di Rovellasca (CO) con il libro Reliquario carnale, Fallone, Taranto, 2022.

ALESSANDRA PENNETTA (G022) di Cadoneghe (PD) con il libro Imeros, VJ, Milano, 2022.

LETIZIA POLINI (G065) di Bologna con il libro Macula, Ensemble, Roma, 2022.

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SEZIONE H – HAIKU

Premio da podio

1° Premio Assoluto – PAOLA ERCOLE (H007) di Roma con lo haiku “cerchi nell’acqua- / al cadere di un fiore / sorge la luna”.

2° Premio Assoluto – ALBERTO BARONI (H017) di Viadana (MN) con lo haiku “inginocchiate / sul muro di una chiesa- / ombre al tramonto”.

3° Premio Assoluto – ALBERTO ANGELO TOMASINI (H026) di Besnate (VA) con lo haiku “vento d’oriente – / così lento il risveglio / di una camelia”.

Menzioni d’Onore

ANGELA CAVIGLIA (H118) di Arenzano (GE) con lo haiku“viole di campo / lacrime di profumo / sotto la falce”.

CASALI FANNÌ (H116) di Arenzano (GE) con lo haiku“la nonna inferma / coccola le bambole / -sorrisi vuoti”.

LOREDANA FALETTI (H059) di Aosta con lo haiku “Il ragno attende. / Nella tela un petalo / che il vento scuote”.

MARINA FILIPUTTI (H021) di Thiene (VI) con lo haiku “Solo un barbone / coperto di cartone / conta le stelle”.

MARIA TERESA PIRAS (H073) di Serrenti (SU) con lo haiku “alba d’ottobre – / una stella riflessa / sulla rugiada”.

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SEZIONE I – VIDEOPOESIA

Premi da podio

1° Premio Assoluto – VALERIA D’AMICO (I031) di Foggia con l’opera “Mi siedo accanto”.

2° Premio Assoluto – GIANLUCA REGONDI (I007) di Bovisio Masciago (MB) con l’opera “Stagioni di pane”.

3° Premio Assoluto – SARA FRANCUCCI (I006) di Cingoli (MC) con l’opera “Sentinella di speranza”

Premio Speciale

Premio Speciale del Presidente di Giuria – SEBASTIANO IMPALÀ (I004) di Reggio Calabria con l’opera “Ci sono giorni”.

Menzioni d’Onore

MARGHERITA FLORE SATTA (I016) di Atzara (NU) con l’opera “Grappoli nel tempo che è e che sarà il nostro passare”.

ADRIANA TASIN (I011) di Madonna di Campiglio (TN) con l’opera “Ecografia”.

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SEZIONE L – SPERIMENTAZIONI POETICHE

Premi da podio

1° Premio Assoluto – GRAZIA DOTTORE (L043) di Messina – sotto-sezione corto poesia – con l’opera “Abbandono”.

2° Premio Assoluto – FABIO VOLPI (L011) di Varzi (PV) – sotto-sezione corto poesia – con l’opera “Izyum”.

3° Premio Assoluto – EUGENIO GRIFFONI e GIULIA BOLOGNA (L012) di Jesi (AN) – sotto-sezione dittico poetico – con le opere “Oltre confine” e “La genesi dell’orizzonte”.

Menzioni d’Onore

CARLA BARIFFI (L005) di Bellano (LC) – sotto-sezione corto poesia – con l’opera “Ricordi”.

ANTONIO BIANCOLILLO (L023) di Trani (BT) – sotto-sezione poesia dinanimista – con l’opera “Nuvole smarrite”.

MARZIA VENTURELLI e FRANCESCA TOTARO (L010) di Modena – sotto-sezione dittico poetico – con le opere “Madre” e “Resta”.

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SEZIONE M – CRITICA POETICA

Premi da podio

1° Premio Assoluto – ANGELA AMBROSINI (M005) di Città di Castello (PG) con la recensione al libro Assolvenze… dissolvenze (Edizioni dell’Erba, Fucecchio, 2020) di Augusta Romoli.

2° Premio Assoluto – FRANCESCA FAVARO (M002) di Padova con il saggio “Un manipolo di papaveri rossi”.

3° Premio Assoluto – LUCIA BONANNI (M004) di Scarperia / San Piero a Sieve (FI) con il saggio “Dati memoriali, visionarietà e surrealismo nelle opere di Alfonso Gatto”.

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SEZIONE N – PREFAZIONE DI LIBRO DI POESIA

Premi da podio

1° Premio Assoluto – VELIA AIELLO (N006) di Rogliano (CS) con la prefazione al libro Ascolto pregare il silenzio (Il Convivio, Castiglione di Sicilia, 2022) di Pier Giorgio Francia.

2° Premio Assoluto – RAFFAELE PICCOLINI (N004) di Avezzano (AQ) con la prefazione al libro La misura del tempo e dello spazio (VJ, Milano, 2022) di Loretta Fusco.

3° Premio Assoluto – LUIGI MARIA PIARULLI (N011) di Padova con la postfazione al libro Nei fili nudi di pioggia (Raffaelli, Rimini, 2021) di Lorena Bianchi.

Premio speciale

Premio Speciale “Vittoriano Esposito” – Donato dal Centro Culturale “Vittoriano Esposito” di Avezzano (AQ) CARMEN DE STASIO (N009) di Brindisi con la prefazione al libro Stupori tardivi (Cultura e Dintorni, Roma, 2019) di Alfonso Cardamone.

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SEZIONE O – LIBRO EDITO DI SAGGISTICA SULLA POESIA

Premi da podio

1° Premio Assoluto – FLAVIA NOVELLI (O001) di Roma con l’opera Amori diVersi. Le grandi storie d’amore tra poeti raccontate attraverso scambi epistolari, diari e poesie, Porto Seguro, Firenze, 2022.

2° Premio Assoluto – SONIA GIOVANNETTI (O003) di Roma con l’opera La poesia, malgrado tutto, Castelvecchi, Roma, 2022.

3° Premio Assoluto – SALVATORE LA MOGLIE (O002) di Amendolara (CS) con l’opera Conoscere la poesia di Corrado Calabrò. Quinta dimensione, Edizioni Setteponti, Castelfranco Piandiscò, 2022.

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PREMI SPECIALI – FUORI CONCORSO

PREMIO ALLA CARRIERA – NADIA CAVALERA di Galatone (LE)

PREMIO ALLA MEMORIA – ARNALDO EDERLE (Padova, 1936-2019)

PREMIO ALLE MEMORIA – GIUSEPPE GIOVANNI BATTAGLIA (Aliminusa, PA, 1951-1995)

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CONSISTENZA DEI PREMI

Come da bando si rammenta che i premi consisteranno in:

1° Premio: targa, diploma, motivazione della giuria e tessera socio ordinario Euterpe APS anno 2023. Ai primi vincitori delle sezioni A, B, C, D ed E verrà inoltre offerto un contratto di pubblicazione gratuito per un volume di poesie da parte della casa editrice Ivvi Editore – Nuovi autori del Gruppo Solone s.r.l. i cui dettagli saranno contenuti nel contratto che verrà consegnato assieme al premio;

2° e 3° Premio: targa, diploma e motivazione della giuria;

Premi Speciali: targa, diploma e motivazione della giuria;

Menzione d’Onore: medaglia e diploma;

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Premio Speciale (Fuori Concorso) “Alla Carriera”: targa placcata in oro 24 kt, diploma, motivazione della giuria e nomina Socio Onorario Euterpe APS. L’accoglienza, inoltre, prevede la copertura dei costi per la cena conviviale, il pernottamento della sera della premiazione e la colazione per il giorno successivo per il premiato e un accompagnatore.

Premi Speciali (Fuori Concorso) “Alla Memoria”: targa, diploma e motivazione della giuria.

Tutti i premiati riceveranno, a titolo gratuito una copia dell’antologia contenente le opere premiate.

CERIMONIA DI PREMIAZIONE

La cerimonia di premiazione si terrà a Senigallia (AN) in un fine settimana entro la fine del mese di Giugno 2023. La data e il luogo preciso verranno forniti per tempo con una successiva comunicazione che sarà inoltrata solo ai premiati a vario titolo, ai membri di giuria, ai presidenti e referenti delle Associazioni collaboratrici e partner. La notizia verrà altresì diffusa sul sito e sulla pagina ufficiale di Euterpe APS e quella dedicata al Premio.

Si anticipa che, in linea con quanto contenuto nel bando, i premiati sono tenuti a presenziare alla cerimonia per ritirare il premio; qualora non possano intervenire hanno facoltà di inviare un delegato. In questo caso, la delega va annunciata a mezzo mail, all’attenzione del Presidente del Premio almeno 7 giorni prima dalla cerimonia di premiazione all’indirizzo presidente.euterpe@gmail.com Non sarà possibile delegare membri della Giuria e familiari diretti degli stessi. Un delegato non potrà avere più di due deleghe da altrettanti autori premiati assenti. Non verranno considerate le deleghe annunciate in via informale a mezzo messaggistica privata di Social Networks né per via telefonica.

I premi non ritirati personalmente né per delega potranno essere spediti a domicilio unicamente mediante Corriere TNT a un indirizzo sul solo territorio nazionale, previo pagamento delle relative spese di spedizione a carico dell’interessato. In nessuna maniera si spedirà in contrassegno.

Nel caso in cui per motivi di forza maggiore la cerimonia di premiazione non potrà tenersi in presenza, l’organizzazione, a sua unica discrezione, ha la facoltà d’individuare, qualora lo ritenga opportuno, altre modalità quali quella “a distanza” su piattaforma digitale.

ANTOLOGIA

Secondo quanto previsto dal bando di partecipazione, tutte le opere risultate premiate a vario titolo verranno pubblicate nell’antologia del Premio, disponibile gratuitamente il giorno della premiazione (per le sezioni G e O l’organizzazione provvederà a selezionare a sua unica discrezione dei brani dai volumi), volume senza codice ISBN e non in commercio, pubblicato a cura di Euterpe APS di Jesi (AN), che verrà donato a ciascun premiato durante l’evento. Come avvenuto per le edizioni precedenti, ulteriori copie del volume verranno donate e depositate in varie biblioteche comunali, provinciali, regionali, nazionali e universitarie del territorio nazionale.

I premiati della sezione I (video poesia) sono tenuti a inviare in tempi brevi il testo della loro poesia in formato Word a premiodipoesialarteinversi@gmail.com affinché possa essere pubblicato in antologia.

Il volume conterrà altresì una selezione di liriche dei Premi Speciali “Alla Carriera” e “Alla Memoria” accompagnati da relativi profili bio-bibliografici e tutte le motivazioni stilate dalla Commissione di Giuria.

ULTIME

Il presente verbale, costituito da nr. 10 (DIECI) pagine numerate e integrato di ulteriori nr. 3 (TRE) pagine a seguire contenenti l’Albo d’oro dei vincitori del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, sarà pubblicato sui siti www.associazioneeuterpe.com, www.concorsiletterari.com, www.blogletteratura.com, www.literary.it e dato a conoscere mediante stampa locale e nazionale cartacea e digitale.

La presente comunicazione ha valore di notifica a tutti gli effetti.

Letto, firmato e sottoscritto

Jesi, 28/02/2023

Lorenzo Spurio – Presidente del Premio / Presidente Euterpe APS

Gioia Casale – Vice Presidente Euterpe APS

Stefano Vignaroli – Segretario Euterpe APS

Michela Zanarella – Presidente di Giuria

Albo d’oro dei Premiati

al Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”

Ideato, fondato e presieduto da Lorenzo Spurio

Organizzato da Euterpe APS di Jesi (AN)

I EDIZIONE (2012)

La Giuria non ha provveduto a individuare una graduatoria da podio ma ha selezionato una rosa di opere che sono state pubblicate nell’antologia.

II EDIZIONE (2013)

La Giuria non ha provveduto a individuare una graduatoria da podio ma ha selezionato una rosa di opere che sono state pubblicate nell’antologia.

III EDIZIONE (2014)

1° Premio Poesia Italiana – ANNA BARZAGHI di Seveso (MB)

1° Premio Poesia Dialetto – LUCIANO GENTILETTI di Rocca Priora (RM)

Premio alla Carriera – SANDRA CARRESI di Bagno a Ripoli (FI)

IV EDIZIONE (2015)

1° Premio Poesia Italiana – ALDO TEI di Latina

1° Premio Poesia Dialetto – GAETANO CATALANI di Ardore (RC)

Premio Speciale del Presidente di Giuria – FRANCO PATONICO di Senigallia (AN)

Trofeo “Euterpe” – GABRIELE GALDELLI di Castelbellino (AN)

Premio alla Carriera – MARISA PROVENZANO di Catanzaro

Premio alla Memoria – NOVELLA TORREGIANI (Porto Recanati, MC, 1935-2015)

Premio alla Memoria – BRUNO EPIFANI (Novoli, LE, 1935-1984)

V EDIZIONE (2016)

1° Premio Poesia Italiana – LUCIA BONANNI di Scarperia/S. Piero a Sieve (FI)

1° Premio Poesia Dialetto – LUCA TALEVI di Ancona

1° Premio Haiku – NUNZIO INDUSTRIA di Napoli

Premio Speciale del Presidente di Giuria – ASSUNTA DE MAGLIE di Cingoli (MC)

Trofeo “Euterpe” – SABRINA VALENTINI di Jesi (AN)

Premio alla Carriera – DONATELLA BISUTTI di Milano

Premio alla Memoria – GIUSI VERBARO (Catanzaro, 1938 – Soverato, CZ, 2015)

Premio alla Memoria – PASQUALE SCARPITTI (Castel di Sangro, AQ, 1923 – Pescara, 1973)

VI EDIZIONE (2017)

1° Premio Poesia Italiana – VALERIA D’AMICO di Foggia

1° Premio Poesia Dialetto – LUCIANO GENTILETTI di Rocca Priora (RM)

1° Premio Haiku – EUGENIA GRIFFO di Settimo Milanese (MI)

1° Premio Critica poetica – LUCIA BONANNI di Scarperia/S. Piero a Sieve (FI)

Premio Speciale del Presidente di Giuria – RITA MUSCARDIN di Savona

“Trofeo Euterpe” – ANGELO CANINO di Acri (CS)

Premio alla Carriera – DANTE MAFFIA di Roseto Capo Spulico (CS)

Premo alla Memoria – ALESSANDRO MIANO (Noto, SR, 1920 – Milano, 1994)

Premio alla Memoria – MARIA COSTA (Messina, 1926-2016).

VII EDIZIONE (2018)

1° Premio Poesia Italiana – ANTONIO DAMIANO di Latina

1° Premio Poesia Dialetto / Lingua straniera: VALERIA D’AMICO di Foggia

1° Premio Haiku: ALBERTO BARONI di Viadana (MT)

1° Premio Libro edito di poesia: GIANFRANCO ISETTA di Castelnuovo Scrivia (AL)

1° Premio Video-poesia: ROSY GALLACE di Rescaldina (MI)

1° Premio Critica letteraria: CARMELO CONSOLI di Firenze

1° Premio Prefazione di libro di poesia: FABIA BALDI di Piombino (LI)

Premio Speciale del Presidente di Giuria – SARA FRANCUCCI di Cingoli (MC)

“Trofeo Euterpe” – MARIO DE ROSA di Morano Calabro (CS)

Premio alla Carriera – ANNA SANTOLIQUIDO di Bari

Premio alla Memoria – GIAN MARIO MAULO (Montecosaro, MC, 1943 – Macerata, 2014)

Premio alla Memoria – AMERIGO IANNACONE (Venafro, IS, 1950-2017)

VIII EDIZIONE (2019)

1° Premio Poesia Italiana – DAVIDE ROCCO COLACRAI di Terranuova Bracciolini (AR)

1° Premio Poesia Dialetto – ELANA MANEO di Mestre (VE)

1° Premio Poesia in lingua straniera – LUCA CIPOLLA di Cesano Boscone (MI)

1° Premio Libro edito di poesia – MARISA COSSU di Taranto

1° Premio Haiku – NAZARENA RAMPINI di Pogliano Milanese (MI)

1° Premio Videopoesia – NUNZIO BUONO di Rovello Porro (PV)

1° Premio Critica letteraria – GRAZIELLA ENNA di Oristano

Premio Speciale Presidente di Giuria – EVARISTO SEGHETTA ANDREOLI di Montegabbione (TR)

“Trofeo Euterpe” – VELIA BALDUCCI di Ancona

Premio alla Cultura – ROSANNA DI IORIO di Chieti

Premio alla Carriera – MARCÍA THEÓPHILO di Fortaleza (Brasile)

Premio alla Memoria – MARIA ERMEGILDA FUXA (Alia, PA, 1913-2004)

Premio alla Memoria – SALVATORE TOMA (Maglie, LE 1951-1987)

Premio alla Memoria – SILVIO BELLEZZA (Lanzo Torinese, TO, 1941-2000)

IX EDIZIONE (2020)

1° Premio Poesia Italiana – MAURO CORONA di Roma

1° Premio Poesia Dialetto – LORENZO SCARPONI di Igea Marina (RN)

1° Premio Poesia in Lingua straniera – VALERIA D’AMICO di Foggia

1° Premio Poesia religiosa – GIAN PIERO STEFANONI di Roma

1° Premio Prosa poetica – ANNA MARIA FERRARI di Cagliari

1° Premio Libro edito di poesia – LORENZO POGGI di Roma

1° Premio Haiku – ENZA PEZZIMENTI di Gioia Tauro (RC)

1° Premio Videopoesia PAOLO ZANELLI di Finale Ligure (SV)

1° Premio Critica letteraria – FRANCESCA FAVARO di Padova

Premio Speciale del Presidente del Premio – ANNALENA CIMINO di Anacapri (NA)

Premio Speciale del Presidente di Giuria – IRMA KURTI di Bergamo

“Trofeo Euterpe” – AA.VV., Antologia “Tredici. I poeti del Bandino” (2019)

Premio alla Cultura – FRANCESCA LUZZIO di Palermo

Premio alla Carriera – MATTEO BONSANTE di Polignano a Mare (BA)

Premio alla Memoria – BIAGIA MARNITI (Ruvo di Puglia, BA, 1921 – Roma, 2006)

Premio alla Memoria – SIMONE CATTANEO (Saronno, VA, 1974-2009)

X EDIZIONE (2021/2022)

1° Premio Poesia Italiana – ELISABETTA LIBERATORE di Pratola Peligna (AQ)

1° Premio Poesia Dialetto – DANIELA GREGORINI di Ponte Sasso di Fano (PU)

1° Premio Poesia in lingua straniera – IRMA KURTI di Bergamo

1° Premio Poesia religiosa – FRANCO CASADEI di Cesena (FC)

1° Premio Poesia d’amore – LUISA DI FRANCESCO di Taranto

1° Premio Prosa poetica – VERDIANA MAGGIORELLI di Vigolzone (PC)

1° Premio Libro edito di poesia – LORETTA MENEGON di Montebelluna (TV)

1° Premio Haiku – CARLA BARIFFI di Bellano (LC)

1° Premio Videopoesia – VALERIO DI PAOLO di Scafa (PE)

1° Premio Sperimentazioni poetiche e nuovi linguaggi – VALERIO CASTRIGNANO di Monopoli (BA)

1° Premio Critica letteraria – FILOMENA GAGLIARDI di Colli del Tronto (AP)

1° Premio Prefazione di libro di poesia – ANGELA AMBROSINI di Perugia

1° Premio Libro edito di saggistica sulla poesia – EZIO SETTEMBRI di Macerata

Premio Speciale del Presidente del Premio – GIUSEPPE LA ROCCA di Palermo

Premio Speciale del Presidente di Giuria – FRANCA CANAPINI di Arezzo

“Trofeo Euterpe” – ALFONSO OTTOBRE di Roma

Premio alla Cultura – ANNA MANNA di Roma

Premio alla Carriera – GUIDO OLDANI di Milano

Premio alla Memoria – VENIERO SCARSELLI (Firenze, 1931 – Pratovecchio Stia, AR, 2015)

Premio alla Memoria – DOMENICO CARRARA (Atripalda, AV, 1987 – Bienno, BS, 2021)

XI EDIZIONE (2022/2023)

1° Premio Poesia Italiana – TIZIANA MONARI di Prato

1° Premio Poesia Dialetto – ALESSIO BAROFFIO di Rescaldina (MI)

1° Premio Poesia in lingua straniera – GIUSEPPE BERTON di Conegliano (TV)

1° Premio Poesia religiosa – ROSITA MATERA di Cerignola (FG)

1° Premio Poesia d’amore – SILVIO STRANEO di Savona

1° Premio Prosa poetica – RITA GRECO di Mesagne (BR)

1° Premio Libro edito di poesia – GABRIELLA CINTI di Jesi (AN)

1° Premio Haiku – PAOLA ERCOLE di Roma

1° Premio Videopoesia – VALERIA D’AMICO di Foggia

1° Premio Sperimentazioni poetiche e nuovi linguaggi – GRAZIA DOTTORE di Messina

1° Premio Critica letteraria – ANGELA AMBROSINI di Città di Castello (PG)

1° Premio Prefazione di libro di poesia – VELIA AIELLO di Rogliano (CS)

1° Premio Libro edito di saggistica sulla poesia – FLAVIA NOVELLI di Roma

Premio Speciale del Presidente del Premio – MARGHERITA PARRELLI di Roma

Premio Speciale del Presidente di Giuria – SEBASTIANO IMPALÀ di Reggio Calabria

“Trofeo Euterpe” – LUCIANA RAGGI di Roma

Premio alla Carriera – NADIA CAVALERA di Galatone (LE)

Premio alla Memoria – ARNALDO EDERLE (Padova, 1936-2019)

Premio alla Memoria – GIUSEPPE GIOVANNI BATTAGLIA (Aliminusa, PA, 1951-1995)


[1] La Giuria, non avendo contrassegnato opere di particolare qualità all’interno dei partecipanti minorenni, ha deciso di non attribuire il Premio Speciale “Miglior Giovane Poeta”. Parimenti i premi speciali donati da Associazioni esterne (tranne quello conferito dal Movimento Internazionale “Donne e Poesia” e dall’Associazione Siciliana Arte e Scienza), di cui nel bando venivano fornite indicazioni vincolanti per la relativa attribuzione, vengono conferiti a opere di particolare pregio che, per punteggio, non sono giunte alla posizione di podio, prive del vincolo tematico.

“Sono figlio di nebbie e di primi autotreni”. Pubblicata una riedizione dei testi poetici giovanili del poeta beat Aldo Piromalli

È uscito da pochi giorni il volume di poesie Sono figlio di nebbie e di primi autotreni del poeta e artista romano Aldo Piromalli, protagonista indiscusso della scena letteraria beat della Capitale negli anni della Contestazione e non solo. Il volume, voluto e interamente curato dal sottoscritto e da Alessandro Manca, entrambi da anni in costante rapporto epistolare con Piromalli (residente in pianta fissa ormai da qualche decennio ad Amsterdam), è stato pubblicato dalla romana Sensibili alle Foglie all’interno della pregiata collana dell’archivio di scritture, scrizioni e arte ir-ritata “Scrizioni Ir-ritate”.

Il volume, che conta ben 255 pagine, prende in esame l’intera produzione poetica edita di Piromalli localizzata nel periodo 1957-1979, come ben esplicitato in copertina dove – in una riduzione bicromatica di b/n – campeggia un suo disegno geometrico con linee più o meno nette e campiture di tratteggi diagonali a definire volumi compenetranti. Vi troviamo le sillogi e i volumi – in realtà dei piccoli pamphlet – che, com’era la moda dell’epoca, vennero pubblicati in ciclostile a tiratura limitatissima e i cui originali, oggi, sono difficilmente trovabili, se non grazie alle copie conservate in qualche biblioteca (anche estera) che nel tempo le ha acquisite.

Piromalli – classe 1946 – è un artista a tutto tondo, non solo poeta ma anche artista visivo e performativo, amante di lingue e culture straniere, di filosofie lontane, bibliofilo accanito, traduttore e, ancora, presenza assidua, per lo meno sino a una decina di anni fa, della scena della cultura alternativa contemporanea.

Nel libro che viene ora dato alle stampe si ritrovano i suoi lavori della fase giovanile, che contraddistinsero la sua permanenza e le “scorribande” nella Capitale (l’autore partecipò anche al rumoroso e psichedelico Festival di Castelporziano nel 1979, rimembrato come “la Woodstock italiana”) ma anche parte dei suoi frenetici viaggi a piedi, in autostop, per nave o su mezzi di fortuna che lo portarono a lungo a errare in vari paesi dell’Europa (fervidi ancora i suoi ricordi del passaggio in Albania e dell’esperienza in Grecia) e fuori dall’Europa. Il libro fornisce un concentrato di esperienze che hanno caratterizzato la sua natura di uomo (finanche la parentesi di reclusione a Regina Coeli) e reso nota la sua vena di poeta flâneur, errabondo ed estatico, forse uno dei veri ultimi “maledetti” della nostra letteratura. Sono confluite in questo libro le sillogi di poesie e di prose poetiche Uccello nel guscio (1971), Viaggio. 1967 (1976), Un quartiere nel cielo (1978) e Uccello libero. Poemetto (1979) pubblicate nella loro forma originale, senza rimaneggiamenti di sorta né interpunzioni anche, laddove – piccoli errori di battitura e sviste dell’autore – avrebbero consentito un intervento, rifiutato dai curatori per mantenere massima fedeltà al testo originario. Vi compaiono anche i contributi critici accessori originari quale la fine testimonianza critica vergata da Bruno Corà per Uccello nel guscio (1971) in cui esordiva con un esergo dai Canti pisani di Ezra Pound.

Sulla vasta opera di Piromalli – con un particolare occhio alla sua dimensione artistica – si è espressa la studiosa Giulia Girardello, che lo ha anche incontrato nella capitale olandese. Insieme a Mattia Pellegrini la Girardello, per la medesima casa editrice, nel 2013 ha dato alle stampe Se io sono la lingua. Aldo Piromalli e la scrittura dell’esilio. L’attenzione verso la poliedrica e in-catalogabile persona di Piromalli, artista geniale e imprevedibile, ha visto anche l’assegnazione del noto Premio “Pietro Ciampi”[1] (su segnalazione dell’artista Dora García) nella sua ventesima edizione celebrata nel 2020, riconoscimento ritirato alla Villa Mimbelli di Livorno dalla sorella Nicla Piromalli, dal cognato Mattia Camellini, da Alessandro Manca e da Giulia Girardello.

Aldo Piromalli qualche anno fa. Scatto di Giulia Girardello.

Alessandro Manca (nato a Lecco nel 1985, vive a Casatenovo) – col quale ho felicemente lavorato in continuo contatto per la curatela di questo volume – è libero ricercatore e apprezzato studioso del movimento underground di poesia in Italia negli anni ’60, della Beat Generation americana e dello scrittore Pier Vittorio Tondelli. Ha dato alle stampe I figli dello stupore. La Beat Generation italiana (2018), volume al quale è annesso un cd-documentario, strumenti che aiutano a far chiarezza e approfondiscono la (trascurata e criticamente in-investigata) stagione della poesia beat italiana. Ha curato la riedizione de I fiori chiari. Il romanzo della Beat Generation a Milano dal ’66 al ’69 (2019) di Silla Ferradini, romanzo autobiografico che rappresenta una documentazione fedele della storia e dei sentimenti di quei ragazzi che formavano un gruppo di Contestazione non politicizzato attivo a Milano. Ha curato, altresì, la riedizione del romanzo Il paradiso delle Urì (2020)di Andrea D’Anna la cui prima edizione risale al 1967 per Feltrinelli.

In relazione a questo filone di studi – per altro particolarmente lacunosi e raminghi all’interno della letteratura nazionale – ho avuto modo di dedicare un ampio saggio a Piromalli dal titolo “Aldo Piromalli, controverso poeta beat italiano, tra la Contestazione degli anni ‘60/’70 e la più recente esperienza della mail art” apparso sulla rivista «Euterpe» n°29 nel giugno 2019 e riproposto nel volume nell’appendice finale. Sempre sulla rivista «Euterpe» (n°23, giugno 2017) era apparsa una mia intervista fatta al poeta qualche anno prima. Tra gli altri esponenti della Contestazione giovanile italiana il cui impegno si è rivolto anche alla scrittura con la pubblicazione di volumi, mi sono occupato del maestro-poeta “capellone” torinese Gianni Milano con un saggio dal titolo “Nuove e vecchie battaglie: la Contestazione di Gianni Milano, il “Ginsberg italiano” che oggi si batte contro la TAV” («Euterpe» n°30, gennaio 2020) e dello scrittore e saggista interculturale Gianni De Martino, direttore di «Mandala. Quaderni d’oriente e d’occidente», autore del romanzo (più volte ripubblicato, la cui prima edizione è del 1988) Hotel Oasis, con prefazione di Alberto Moravia e di numerosi altri testi di prosa d’ambientazione esotica e imperniati sull’esperienza del viaggio. A lui ho dedicato un’interessante intervista uscita su «Leggere Poesia» il 25/10/2020.

LORENZO SPURIO

Jesi, 19/02/2023


[1] Il Premio “Pietro Ciampi”, nel nome dell’artista livornese Pietro Ciampi ricordato per aver “rotto” con una certa tradizione, annualmente viene attribuito a insigni esponenti del mondo cantautorale e non solo, fino a toccare varie sezioni artistiche del campo visivo come il teatro, il cinema, la letteratura, aspetti che contraddistinsero la passione dello stesso Ciampi.


La pubblicazione di questo testo in forma integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto, non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’autore.

Esce “Con semplicità e candore. Nove recensioni per Fabio Grimaldi” a cura di Lorenzo Spurio

In questi giorni è stato pubblicato il volume Con semplicità e candore. Nove recensioni per Fabio Grimaldi che contiene testi critici scritti dal poeta partenopeo Antonio Spagnuolo sull’opera poetica del poeta maceratese Fabio Grimaldi. Il volume, edito in pregiata carta dalle Grafiche Fioroni di Casette d’Ete (FM), è stato curato dal poeta e critico Lorenzo Spurio che, in apertura, ha dedicato un lungo saggio introduttivo e di approfondimento all’opera di Grimaldi e alla raccolta di recensioni di Spagnuolo qui proposte dal titolo “Fabio Grimaldi, una vita in versi”.

L’opera, frutto del lavoro costante e assai partecipato, è nata e si è sviluppata a partire da maggio di quest’anno e porta, quale collaborazione, anche quella dell’Associazione Culturale Euterpe APS di Jesi (AN) che, per l’occasione, ha fornito il suo Patrocinio Morale.

Nelle cinquanta pagine che compongono il volume, oltre al testo critico di Spurio e alle nove recensioni di Spagnuolo su altrettante opere di Grimaldi è possibile consultare, in posizione finale, una bibliografia minima della produzione di Grimaldi (non solo poeta “maturo” ma anche per l’infanzia nonché critico e studioso di Mario Luzi) unitamente a una bibliografia essenziale di interventi critici, tra recensioni e saggi, sulla sua attività letteraria.

Nella quarta di copertina compare un estratto del testo di Spurio nel quale è possibile leggere: “Si sono dette tante cose sulla produzione poetica di Fabio Grimaldi e tante rimarrebbero da dire ancora. Questo volume, dall’avvincente titolo Con semplicità e candore (tratto da un pezzo della nota critica di Spagnuolo su Via Dolorosa Via Gloriosa del 2008), raccoglie con precisione tutti gli interventi critici che Antonio Spagnuolo – poeta di lungo corso e critico glabro ma raffinato – ha scritto nel corso delle varie pubblicazioni di Grimaldi. C’è una fedeltà autentica, oltre che un’amicizia importante, tra Fabio e Antonio Spagnuolo che ha consentito questo scambio continuo, nel tempo non tempo della poesia, di raccogliere commenti, giudizi spassionati, riflessioni sui suoi versi che, come osservato da tanta critica, sono andati cambiando, irrobustendosi, prendendo vie diverse che non erano certo pronosticabili a partire dall’esordio nel solco ermetico”.

III Premio Letterario “Paesaggio Interiore” (presieduto da Francesca Innocenzi): come partecipare fino al 06/04/2023

Si bandisce la terza edizione del Premio di poesia Paesaggio interiore, con il patrocinio della Regione Marche, del Comune di Cerreto d’Esi e la collaborazione dell’APS Euterpe di Jesi (An), della libreria Pandora di Fabriano (An), dell’Associazione Il battito che unisce Onlus di Maiolati Spontini (An). Finalità del premio è incentivare la produzione poetica, intesa in special modo come ricerca interiore. Uno spazio particolare è dedicato alle civiltà classiche nel loro patrimonio culturale e umano, che rischia sempre più di andare perduto.

REGOLAMENTO

Possono partecipare testi di autori che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età alla data di scadenza del bando.

Non saranno accettate opere che presentino elementi razzisti, offensivi o di incitamento all’odio e alla violenza o fungano da proclami ideologici e politici.

Art 1- Il premio si articola nelle seguenti sezioni:

Sez. A – Poesie singole inedite: si partecipa con un numero massimo di tre poesie a tema libero, inedite, in formato Word (carattere Times New Roman 12), ciascuna di lunghezza non superiore a 30 versi. I testi da inviare dovranno essere privi dei dati personali dell’autore, pena la squalifica. È da intendersi inedito il testo mai precedentemente pubblicato in volumi dotati di codice ISBN e in riviste cartacee o digitali dotate di codice ISSN. Non si considera edito ciò che è stato pubblicato su blog, siti o social networks.

Sez. B – Libro edito di poesia: si partecipa con un singolo libro di poesia pubblicato a partire dal 2019, da inviare in pdf.

Sez. C – Saggio breve, articolo, monografia sulla poesia nel mondo classico: si partecipa con un singolo studio concernente la produzione poetica nel mondo greco o romano, in formato Word (carattere Times New Roman 12) di lunghezza non superiore alle 18000 battute (spazi inclusi). I testi da inviare dovranno essere privi dei dati personali dell’autore, pena la squalifica dal concorso.

Art 2- Le opere non verranno restituite; i concorrenti ne resteranno tuttavia unici proprietari.

Art 3 – Ai sensi del DLGS 196/2003 e del Regolamento generale sulla protezione dei dati personali 2016/679 (GDPR), i partecipanti acconsentono al trattamento, diffusione ed utilizzazione dei dati personali da parte dell’organizzazione per le sole finalità connesse al premio.

Art 4 – Presidente del premio: Francesca Innocenzi.

Presidente onoraria: Annamaria Ferramosca

Presidente di giuria: Lorenzo Spurio

Commissione di giuria:

Sez. A (poesie singole inedite): Candido Meardi, Sergio Soldani, Lorenzo Spurio, Antonietta Tiberia, Laura Vargiu

Sez. B (libro edito di poesia): Ida Di Ianni, Loredana Magazzeni, Giuseppe Napolitano, Luciana Raggi, Lorenzo Spurio

Sez. C: Gabriella Cinti, Luciano Innocenzi, Patrizia Morelli.

L’operato della giuria è insindacabile e inappellabile. La giuria potrà anche decidere di non assegnare premi, nonché attribuire premi speciali (alla Carriera, alla Memoria, ecc.).

Art. 5- Tutti gli autori selezionati riceveranno un diploma di partecipazione e verranno invitati al Festival Paesaggio Interiore, che avrà luogo a Cerreto d’Esi (An) nel primo fine settimana di settembre 2023. Per i primi tre classificati e per i premi speciali sono previsti spazi dedicati all’interno del Festival, motivazione della giuria e pubblicazione nella rivista letteraria Il Mangiaparole (per le sezioni A e B) o in un volume di carattere saggistico (per la sezione C).

Per i primi classificati delle sezioni A e B è inoltre previsto un premio in denaro di 200 euro.

I diritti dei testi rimarranno di proprietà degli autori, che potranno quindi disporre liberamente degli stessi.

Art. 6 – I risultati verranno pubblicati con debito preavviso sul sito dell’Associazione Culturale Euterpe (www.associazioneeuterpe.com), su Concorsi Letterari (www.concorsiletterari.it), Literary (www.literary.it) e sulla pagina facebook del premio (Premio letterario Paesaggio interiore). Gli autori selezionati verranno contattati a mezzo e-mail e riceveranno ogni informazione utile in merito alla partecipazione al Festival.

In caso di assenza dei vincitori, i premi potranno essere ritirati da delegati o, in alternativa, spediti a carico del destinatario.

Art 7 – Per prendere parte al premio è richiesto un contributo di 10 euro a sezione per spese organizzative. È possibile partecipare a più sezioni con un contributo aggiuntivo di 5 euro a sezione.

Pagamento tramite bonifico su c/c bancario (Intesa San Paolo) Iban IT03C0306937312100000001164

Intestato a Francesca Innocenzi

Causale: nome e cognome autore 

Art. 8 – Il materiale dovrà essere inviato entro e non oltre il 6 aprile 2023, unicamente a mezzo e-mail, all’indirizzo paesaggioint@libero.it, insieme alla scheda di partecipazione, compilata in ogni sua parte in stampatello e firmata, e all’attestazione del contributo di partecipazione.

Art. 9 – La partecipazione al premio implica l’accettazione incondizionata di tutte le norme contenute nel bando. L’autore dà piena assicurazione che l’eventuale pubblicazione dell’opera non violerà, né in tutto, né in parte, diritti di terzi. Il comitato organizzatore si riterrà sollevato da eventuali rivalse di terzi, di cui risponderà esclusivamente e personalmente l’autore.

Francesca Innocenzi – Presidente del Premio

Lorenzo Spurio – Presidente di giuria, Presidente Euterpe APS

Contatti:

Segreteria del Premio: paesaggioint@libero.it

https://www.facebook.com/premiopaesaggiointeriore

Un sito WordPress.com.

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