“Concepibili combinazioni nella figura di Aracoeli nell’omonimo romanzo di Elsa Morante”, saggio di Carmen De Stasio

Ricondurre Elsa Morante e la sua penna, la donna e l’artefice delle sue parole, a una condensazione pressoché esplicabile sollecita l’immagine di un’identitaria personalità che, nel confluire nell’unicità di immaginazione e di condizioni di memoria, si predispone nell’audace autonomia di un mosaico di alterazioni elaborate fino a comprendere – possibilmente – la gran parte delle fasi di un tempo di contemporaneità. E queste fasi complesse vengono da Elsa Morante continuamente interrogate in un’articolata vicenda che ripaga avverso la rassegnazione.

Io fui pronto a servirla, ammirato della sua bruttezza meravigliosa, che irradiava su di me un potere d’incantesimo, tanto più malioso perché mi sapeva di paura[1].

Giustappunto in questo modo è possibile individuare nella fenice e nella cenere le espressioni di fine e di recupero dei versanti intrapresi nel tentativo di riunire le idee molteplici al termine della nuova lettura di Aracoeli, romanzo sofferto e ultimo di Elsa Morante (fu, infatti, pubblicato nel 1983, vale a dire poco prima della morte dell’autrice, avvenuta nel 1985); un’eroica impresa[2] (come il poeta Attilio Bertolucci definì il romanzo) assimilabile a un’eredità sociale e culturale sulla quale Elsa Morante poggia  la sua attenzione, trattando di un tempo proiettato nel carico di illusorie speranze, le stesse che ritroviamo avversate, infine, dalle ombre che invadono lo scenario esistenziale.

Riservata e intimamente partecipe, la scrittura di Aracoeli affonda in un ambiente che è mentale e aggrovigliato con il realismo del dolore nascosto, laddove le asprezze non riescono a soffocare la cruda ambivalenza di un esserci logorato tanto da attese, che da un convulso disorientamento a cui pure si assomma un tracciato familiare che alita nel sospetto di qualcosa di irrimediabilmente irrisolto. D’altronde – ancora una volta riprendendo quel che scriveva A. Bertolucci – l’autrice non dissimula la sua attitudine di spietato critico dell’istituzione famigliare[3]. Difatti, più che nei precedenti romanzi, qui la prospettiva autorale penetra i caratteri di instabilità delle relazioni alle quali accede intraprendendo una rotta che tocca la singolarità identitaria, le tappe del divenire, il circuito di famiglia, fino a richiamare una storia condivisa e plurima nelle sue sfaccettature. Ciascun momento diviene pertanto occasione per un ritorno e una comprensione di amplificazione oppure di dirottamento, in un incessante manifestarsi-eclissarsi nella prospettiva inattesa della dilagante irregolarità che investe il dentro-fuori del tempo (siamo nel pieno della seconda e finale fase del secolo breve); nel turbamento che il significato di essere e di agire in forma di famiglia provoca. Realistico e originale, pertanto, Aracoeli vive la consapevolezza della difformità esiziale alla quale la stessa Morante partecipa, sempre in bilico tra l’emozione dei mezzi e le complessità che identificano lei-autrice e lei-donna critica di un tempo (il suo) scansionato e revisionato, in un’azione incrociata di avvicinamento-distanziamento.

Potrebbe essere questo motivo alla base della sofferta gestazione del romanzo, nel quale vicende cruciali della storia contemporanea (gli anni trenta, gli anni della Guerra Civile in Spagna e del Secondo Conflitto Mondiale; anni di cambiamenti dalle scomposte conseguenze a carattere sociale, di costume, della cultura) sono riportate al contemporaneo 1975, l’anno, cioè, da cui evolve l’intera narrazione nel rituale di una nenia, segnando passi di apprendimento, di comprensione, di alternative e di risposte che tardano ad arrivare, nell’intuizione di un disfacimento inarrestabile di ideali, che pure investe di dissenso l’orizzonte di un progresso fatuo. I protagonisti e la storia stessa di Aracoeli mimetizzano il disfacimento e nella prevalenza turbinosa di dentro-fuori l’epica dei protagonisti prende forma: un’Aracoeli (dalla quale il romanzo prende il titolo o, quant’è più efficace, l’intestazione assimilabile a una segnaletica dispensatrice di obliquità, quanto di inafferrabili ovvietà) allusiva di una storia umana in disgregazione; e poi, sull’altro versante, il di lei figlio Manuele: ed è nel progetto di viaggio che la vicenda si compie; un viaggio inteso a interpretare la rivelazione delle radici di Aracoeli, per giungere a risolvere il male esistenziale che strazia il giovane uomo e nel quale egli ravvisa gli effetti del disfacimento. Sua è la voce che gestisce le situazioni del rammemorare, e sua è la voce che accompagna a conoscere la madre-Aracoeli. E nella sua voce risuona l’eco meditante della voce straziata dell’autrice. Penetriamo così le parole di Aracoeli: nel vagare all’interno degli impercettibili segni, quel che individuiamo da subito – e che dispone la diatesi di un tracciato che via via si ramifica e s’irrobustisce delineando la configurazione di sentimenti lancinanti dall’inizio alla fine – è il vorticoso andare avanti e indietro per flashback dalla sonorità disarmonica, nella quale la raffinata malinconia di esclusivi momenti convoglia l’ispirazione alla crudezza percepita da un Manuele avvinto nell’impegno di ricostruire il proprio tracciato nel resoconto esistenziale. Non sfugge il modo in cui la sua voce s’imprima nella tessitura scritturale, laddove insiste la lettura di un tempo che scorre in simultaneità, addensandosi nel presente rammemorante di sé-quarantatreenne – nel 1975 – in una Milano che egli vive e non vive (lavora da pochi mesi in una casa editrice): nell’immediatezza del rammemorare, il tempo disperde la linearità civica e assume la sagoma di un avvenimento quale occasione di riflessioni sovente intorpidite da divagazioni, quanto rimestate in un disegno immateriale, che egli ricostruisce in un’attualità vissuta con distacco, prigioniero nella nicchia in cui i suoi sé si amalgamano in uno straniamento avvinto in un particolare sortilegio. E quale, se non il sortilegio declinato in quel 4 novembre 1975, allorquando decide che l’emancipazione dalla sua ossessione-Aracoeli (io mi domando perfino se con questo viaggio, sotto il folle pretesto di ritrovare Aracoeli, io non voglia piuttosto tentare un’ultima, sballata terapia per guarire di lei. Frugare nelle sue radici finché s’inaridiscano sotto le mie mani, poiché di estirparle non sono capace[4]) si adatti al progetto di viaggio che lo condurrà verso l’Andalusia – luogo natio di Aracoeli – El Almendral l’unica stazione terrestre che indicasse una direzione al mio corpo disorientato[5] –. Là egli si propone di attendere risposte ai suoi quesiti – portato dai suoi sensi acuti, in un cammino all’indietro, verso il punto del principio (forse a una agnizione?)[6]. Quello il luogo in cui egli ritiene possa istruire l’immagine integrale di Aracoeli quando, fanciulla, ancora non prefigurava la svolta nell’incontro travolgente con un ufficiale di Marina (Eugenio, padre di Manuele, torinese e borghese). Descritta in forma di fulminante amore, quella svolta è per Manuele l’inizio della sua non-vita (o vita bistratta nelle aspettative). Nella progressione, quel tempo non viene mai meno.

Empirico e simbolico in un sol tempo, il disegno che Manuele configura nella sua mente permette alla figura di Aracoeli di prendere una sagomatura le cui proporzioni, quanto le prospettive e gli sfondi, emergono in un’in-presenza che annulla le sequenzialità e si affida a un equilibrio del tutto personale, sincronico ed enigmatico, affidato alle interferenze principalmente riconducibili all’impressione personale di chi parla, di chi giunge a ritenere il suo pensiero l’unico spazio possibile [<le apparenze del mondo> (scrive H. Arendt) <sono divenute un semplice simbolo delle esperienze interiori, con la conseguenza che la metafora, destinata originariamente a colmare la frattura tra l’io che pensa o che vuole e il mondo delle apparenze, va in sfacelo. Lo sfacelo si produce non perché agli «oggetti» (…) venga conferito un peso superiore, ma, piuttosto, a causa della parzialità con cui si guarda l’apparato psichico dell’uomo, le cui esperienze sono intese come detentrici di un primato assoluto>[7]]. Non basta e non è soltanto questo: in Aracoeli prende corpo l’ossessiva angoscia di un futuro in cedimento, pari allo strappo significativo che la storia subisce: eterea e altra, la storia diviene meccanismo di difesa e di protezione; strumento per intercettare le potenzialità, ma anche versante sul quale relegare manchevolezze e sottomissioni.  

In tal senso la stesura di Aracoeli è un’esperienza straziante e pone in una luce di dissolvenza il credo di Elsa Morante, la sua fede nel cambiamento – una fede nel crogiolo di un’invariabilità che pure viene a disorientare la protagonista Aracoeli. Così, dunque, mentre incontriamo Manuele nel tentativo di raccogliere frammenti per ricostruire, per il tramite di Aracoeli, i pezzi della sua vita e ricostruirsi infine, in simultaneità, percepiamo un’Aracoeli intenta a raccogliere tutto, a salvare tutto in un’unicità fresca a sé, ma tanto sfingea all’esterno. Per lei nulla è nel disvalore dell’effimero. Ed è forse quell’incessante avvicinarsi alle sezioni invisibili e non-dette, né mai rivelate, che il panorama di Aracoeli sembra dilatarsi, malgrado la sua posizione vada sempre più a restringersi e restare, infine, intrapresa nel turbine di una solitudine assoluta. A lei nessun quesito viene posto e, anzi, i quesiti mancanti sono anche causa di una probabile non-mutevolezza. Viepiù, se da un verso Manuele va lentamente emancipandosi in virtù di un’intelligenza ritrovata (L’intelligenza si dà per capire[8] – la Morante affida alla voce di Manuele) attraverso viaggi che si svolgono nella sincronicità di ricordi recuperati e di esperienze cadenzate dalla spiegazione concessa da quegli stessi ricordi, quel che ad Aracoeli si concede è l’amaro incanto di ritrovarsi in un’irrecuperabilità che traduciamo come dissoluzione di un’antica speranza. Lo scenario possibile di Aracoeli è quindi l’oscurità, un’oscurità in cui converge l’intera storia del Novecento; una storia sottintesa e pure conclamata nei continui deragliamenti; maestra e guida e, simultaneamente, storia di disgregazione nell’epica polimorfica dai segmenti anti-costruttivi, di rinuncia e di sorpassi, tant’è che a segnare la svolta è la complessità intuita in una completezza che si realizza allorquando non resta che visualizzare la misurazione di spazi che non più interloquiscono, di spazi che si ammutoliscono e che destinano la provvisorietà a totale chiusura. In quel momento Aracoeli si raccorda con la «sua» vita. Scomparsa alla vista, ella procede verso l’assoluto della sua integrità in un’in-presenza ricomposta. Presente e passato orfani del futuro, stretti in un’invisibilità priva di accesso, ma probabilmente, nemmeno tanto ricercata: Per i sani la memoria è quello che la Storia è per i popoli: maestra di vita. Ma per i malati, che non la distinguono dalla fantasia, essa è concausa di turbe e traviamenti fatali[9] – leggiamo nell’icastica sentenza che Elsa Morante esplicita per voce di Manuele. È questo a riportare sul piano allusivo una storia di trascorsi che la mente disgrega in mille scampoli, e che però, d’altro canto, dà pure misura di un lascito ereditario nell’atto di tradire per sempre le aspettative. Più e più volte Manuele lo ribadisce con parole ferali all’indirizzo della madre (E diamoci qua, stasera, la malanotte. Malanotte a te, Aracoeli, che hai ricevuto il seme di me come una grazia, e l’hai covato nel tuo calduccio ventre come un tesoro,  e poi ti sei sgravata di me con gioia per consegnarmi, nudo, ai tuoi sicari[10] – Manuele afferma con un sentimento che nell’intrico dolce-amaro richiama un moto di amore ininterrotto), lasciando che dall’affollamento di impressioni provenienti dai fatti si raggiunga la coscienza di una realtà composita di mito, di sogni e di strappi, di ir-realizzazioni, infine. In tal senso, la figura di Aracoeli esula dalla rotta del dominio esterno, e consente ai propri segni di fluire all’interno delle mutevoli complessità con un linguaggio che è a un tempo simbolico, tormentato, quanto variabile e sfuggente, in una luce che appare e scompare, dissolvendosi senza tregua. Come dire: tutto turbina in un ristagno ingrigito dall’improbabilità di ascesi e così quell’altare che ella stessa rappresenta si scardina, tendendo a disporre piani di inseparabilità non senza sofferenza.

Di fatto, su Aracoeli sembra ricadere la potenza di un impegno demiurgico che, nella gestione delle immagini percepite nel quadro di «equivalenze», Manuele adotta torcendo perifrasi iconiche di quel che è, passando da controverso inquisitore irrigidito nell’intuizione (ma, al contempo, anche flebile nell’incapacità di disfarsi dell’egemonia di un’ossessione) all’astrazione di una memoria addensata, come leggiamo in anaforico squarcio più e più volte nel libro, laddove egli rigenera Aracoeli in una figura in bilico tra picchi di esaltazione, pause attardate di isolamento, fughe e riprese, durante le quali Aracoeli accorre a me (egli rivela se stesso) dalle sue longitudini. Acquista la velocità della luce. Ha già sorpassato all’indietro il muro del suono. E non mi resta che inventare il nostro incontro. Essa ha preso forma.[11]

Lentamente, l’aniconicità di Aracoeli si presenta nel tempo narrato in mutevole cromia: in una simbiosi di iridescenza e di oscurità (per sé, innanzi tutto, e per Manuele), la sua esistenza sembra fondarsi sul principio machiavellico della norma e della forza. Così ella è norma nella comprensività diegetica del viaggio di ascesa che la conduce – per amore – dalla spontaneità avita alla nuova dislocazione (del tutto allusiva del cambiamento), componendosi in un ambiente assai distante dal proprio (laddove il pathos declina sia in tormento che in coinvolgimento) e che la coglie negli echi delle vicende mondiali, ancor più penetrando la sua esistenza quando il fratello tanto amato, Manuel, colpito a morte nel corso della Guerra Civile in Spagna, diviene forma dominante sulla sua vita di dentro. Tuttavia, se lo spostamento tra due mondi non dissuade un’Aracoeli trattenuta nell’integrità di vissuto e di intima realtà, la perdita di Manuel si soffonde di speranza (forse per via dell’abbraccio in una genuinità adolescenziale) ed ella si avvinghia al suo lutto inondandolo di metamorfosi. In fondo, ancorché nella dimensione borghese, ella resta un’immagine sacra che Manuele declina quale staffetta encantadora[12] al di là di qualsiasi distinzione tra bene e male, nemmeno quando precipita – nel secondo capitolo di vita – nelle spire del suo stesso mondo solitario a seguito dell’inspiegabile morte della secondogenita Carina poco tempo dopo la nascita: una trafittura non ambita ad alcun sacrificio, né ad alcuna intelligibile motivazione.

Refrattario al ridimensionamento della visione, dunque, il romanzo Aracoeli diviene il romanzo «di» Aracoeli, laddove una sorta di storicizzazione del carattere immaginale intraprende una vera e propria sfida alle regole di linearità: in tal senso, l’operazione culturale condotta dalla Morante (per certi aspetti di natura analitica) colloca con Aracoeli l’alternativa non solo a un’idea pressante derivata dall’esperienza personale (e, pertanto di stampo neo-realistico) in contrapposizione all’istituzione familiare – come già riportato da A. Bertolucci: il sovvertimento procede anche – se non in maniera più marcata – a contrastare, con una risposta di recupero dell’autonomia individuale, la presa di posizione che vede – in antitesi all’equilibrio ricercato della Morante – l’ispessimento di una situazione sociale temprata da un ideale pervasivo, e i cui effetti non fanno che contrarre anche il tipo di cultura a cui, invece, l’autrice affida la funzione di superare una perversa prevedibilità. In questi termini, in considerazione di una struttura tanto semantica, che affidata a un avanguardistico panorama di tipo surreale o, meglio ancora, surrealista, in una forma che, quindi, insedia l’evocatività di rimando nello sviluppo degli eventi, Aracoeli – quanto l’Aracoeli-donna – appare confermare il principio secondo il quale a consolidarsi è l’intento di scoprire una pur diversificante immagine dinamica che integra – tra le maglie del misconosciuto, quanto del dis-conosciuto – la vaporosa parvenza di un relativo tracciato. Così, la riflessione si acutizza con una coesione del tutto originale, aderendo a deviazioni rispetto a qualsiasi aspettativa. Vero è pure che la Morante scriva in un tempo in cui i pensieri esorbitano da un familismo glabro, distinguendosi con un lessico creativo certo, ma anche sovversivo, per il quale le ore, i giorni e gli anni si allungano, per poi filtrare la spirale spinta in accelerazione e ricomporre la miniatura degli eventi in una corrente di giravolte e trascinamenti, in una difformità di tipo psichedelico di tale rilevanza, da concimare un nuovo ordine anacronistico che si riscatti dai turbamenti di un tempo sconsiderato, per dire, nella perentorietà di una bugia che traghetta il nonsense di un’intera vita. Sono queste le riflessioni al termine della lettura metalogica di Aracoeli: qui, l’esperienza del lutto assoluto si concentra nella coerenza delle parole; qui, pure, l’audacia di una pennellata calibrata di vero su quella che, da (ri)conoscimento individuale, giunge a prevalere sul tutto, traslando l’icona-Aracoeli da contemplare ad un’intrepida condizione da creare. Di pari passo, ciascun’espressione infittisce un impegno che vede figurarsi nel libro lo stravolgimento del rapporto tra l’autrice e la sua vita, con uno stile che permette di sporgersi tra le spire di un’umanità imbrigliata in un Vivere percepito nel momento capitale di strappo (riprendo le parole nel libro), nel cui significato è impressa l’esperienza della separazione[13]. Da una siffatta concomitanza non si può prescindere: Aracoeli è storia di un’ambizione d’amore svincolata da qualsiasi interpretazione letterale, nella ricerca incessante di un approdo che storicizzi contesti più ampi ed indicativi di una pronunciatio da decodificare oltre la semplice descrizione; tela comprensiva di incontri tra parti controverse in una varietà depositaria di frammenti indivisi; scenario di ri-unione, di esplorazione di anfratti che soltanto se disposti al pari di un’opera artistica possono esser letti in sincrono attraverso la fuga, l’uscita di scena e i balzi spazio-temporali nel bilico di avanti e indietro, nei silenzi fruscianti e nelle ombre caleidoscopiche della tela imbrattata, nel tentativo di riconciliare le assenze, quanto i fulgori deittici di una dissolvenza. Ecco, dunque, che l’impatto potrebbe tradurre un gravido scenario impressionista, laddove, nella distanza, la vista accompagna la sagomatura per poi ravvedersi e, nell’accostamento, aver contezza che si tratti di gocce in continuo spostamento, malgrado restino per consuetudine, per effetto protettivo o per inerzia, afflitte nella tela di una predestinazione. Un luogo, per dire, la predestinazione, dal quale non sfuggono nemmeno i personaggi ivi presenti e tutt’altro che disposti a far da corollario; anzi, esistenti attraverso recuperi sferzanti, sottintesi, allucinati, sussurrati in nostalgia, in risentimento, quant’anche in struggente affezione e resi credibili nella prevalente voce dei ricordi di Manuele, ai quali costoro partecipano con una proiezione spinta in un ritroso a suo modo non proprio labirintico, per via di gradienti riversati in una presenzialità dedita allo scoprimento. Di fatti, in uno scenario pluriforme in cui i sentimenti, le sensazioni, le proiezioni, vagano prescindendo dalla centralità, seppur in una cornice vettoriale decisa e al contempo distraente, lo spartito di Aracoeli si presta quale occasione di frattura risentita dal proprio tempo e dalle sue consuetudini ed è su queste condizioni che l’autrice incide la propria disillusione: di quel tempo fitto di avvenimenti in Aracoeli v’è una traccia che, sebbene oscurata da situazioni del tutto incisive, riesce a raccogliere la memoria degli anni con uno scuotimento che rimanda ad un’altra grande regista di scrittura, Virginia Woolf, alla quale la Morante sembra legarsi per la densità sostanziale di un mondo di intuizioni, per il rifiuto a qualsiasi interferenza. Ma andiamo in ordine e il nuovo ordine (di tipo epitomico per il fatto di stringere le variabilità dei possibili dire in strettoie celate dietro espressioni misteriose originali; per il fatto di condensare nella crucialità delle parole il riflesso di grevi momenti) rimanda alla combinazione pleocroica delle espressioni nelle quali insiste il riverbero di emancipazione dall’invasivo immobilismo fondato dall’assioma simbiotico di un prologo e di un epilogo a senso unico, e che varca in permanenza la doppia direzione del passato e dello spazio[14].

La scrittrice Elsa Morante

Risalendo la corrente, tutte le conoscenze consolidano così una geografia emozionale, quanto epistemica, di relazioni diffuse in un paesaggio di cui divengono primaria intonazione attraverso una lettura che, dalla concretizzazione delle circostanze si sposta a delineare l’inquietudine di quel territorio complesso che è la protagonista parlata, muta, raffinata e, a un tempo, spavalda e, soprattutto, coesa: Aracoeli-donna nei suoi tempi e nei suoi spazi, e per la quale prende forma, appunto, la doppia direzione del passato e dello spazio. Alla luce delle scarne notizie che la propongono, e consistente di una complessità nevralgica, Aracoeli si espande al pari di «una letteratura» che – recuperando una riflessione del poeta P. Bigongiari – «è una scienza nutrita di stupori». E, in effetti, Aracoeli appare figura di integrati stupori: distante da qualsiasi tipicità, in sua vece le parole «altre da sé» edificano una memoria del tutto connaturata all’etimologia del vivere nell’atto di convogliare l’unità maieutica di materialità e di sottintesi; nell’incessante deviazione rispetto a situazioni altrimenti talora intransigenti (un segno di diversità, un titolo unico: in cui Aracoeli rimane separata e rinchiusa, come dentro una cornice tortile e massiccia, dipinta d’oro[15]). Figurando tanto quanto come «esperienza» da superare e cancellare, Aracoeli è l’encantadora in grado di dominare le polarità, quant’anche le proprie abilità intellettive nel tempo in cui (è sempre di Manuele la voce) l’intelligenza contamina i misteri: violentarli è un lavoro disgraziato, che si conclude nel guasto e nella degradazione[16]. Ad Aracoeli, dunque, è attribuito il senso di asfissia solitaria della personalità di Manuele: Manuele il solitario, Manuele il più bel bambino del mondo che rammenta l’eroico Manuel, fratello scomparso di Aracoeli, a sua volta da Aracoeli elevato all’altare della gloria. Nell’incrocio costante dei passaggi da Manuele-nel presente e da Manuel-nel suo essere eterno presente, quest’ultimo è l’enigma serafico ed eroe mai ricomposto, il cui mito esiste attraverso le fasi di una memoria accrescitiva e consolatoria che liberamente accostiamo allo sprezzante Percival – l’amico-eroicizzato al quale le sei personalità protagoniste del romanzo Le Onde[17] di V. Woolf si riferiscono e che mai in scena si presenta – ritenendo che la frattura investa non semplicemente il passato e le sue riserve, quanto il principio dell’inesattezza (ivi comprendendo l’inesattezza degli sfoggi di memoria), principio che in Aracoeli dilaga a più riprese. Tutto sembra risiedere in questo presupposto come un destino forgiato su un famelico, quanto abulico, impianto di amore; un amore raccolto in una stretta claustrofobica e che nel dettaglio è rigoroso declinare verso orizzonti indisponenti. Esaltata e demolita, la figura di Aracoeli è il centro intermittente di luce e di oscurità; figlia e madre e complice del proprio affetto rilanciato nella catena invisibile che tiene metaforicamente unito il ministrante all’incensiere. Quali le colpe, se non di un abbraccio soffocante e soffocato e che distrae dal compiere altre vite: lo stesso compagno di vita di Aracoeli, Eugenio, ne viene trafitto. La piccola Carina muore e nulla più esiste. In quello che pertanto si dispone come romanzo degli archetipi e degli antonimi in simultanea vicenda, ciascun nome s’investe di una singolare lettura docimologica; toponimo senza alcuna affatazione a legittimare l’increscioso avvedimento che nulla possa cambiare e, nonostante tutto, il tutto stesso nell’allucinata invariabilità di un’esistenza mortale predestinata al deterioramento.

In effetti, sul versante diretto a raggrumare la propria esistenza, le due individualità di Aracoeli e di Manuele affrontano la propria realtà accomunati da un essere sempre in bilico a segnare il dramma in una liturgia che va e viene in un misto di intimità e miti reverenziali[18] che accompagna (o insegue, potremmo anche osare) Manuele fino ai suoi 43 anni quando L’essere già stato complice e depositario d’altri suoi segreti era il [suo] vanto nascosto, a me tanto più prezioso perché quei segreti [gli] rimanevano, tutti, in figura di enigmi[19]. Via via quella complicità innervata di un’assolutezza filiale e materna in costante sincronia si disgrega, lasciando la desolazione di un auto-inflitto isolamento e di una solitudine refrattaria a qualsiasi ricostruzione, fors’anche per via di un’incombente e distruttiva potenza speculare, quanto speculativa, di una situazione multiforme prestata agli specchi delle parole quegli stessi specchi che Secondo certi negromanti, (è Manuele a parlare) sarebbero delle voragini senza fondo, che inghiottono, per non consumarle mai, le luci del passato (e forse anche del futuro)[20]. In una siffatta oscillazione bustrofedica concepiamo Aracoeli nell’assemblage delle sue tante vite speculari nell’ennesima assenza, l’assenza di una volontà di mascherare la direzione del suo sguardo: una spirale ottenebrata da un volgersi a ritroso non tanto per nostalgia, quanto per afferrare la causa di un dolore che si trascina e si amalgama ai nuovi dolori fino all’epilogo. Da questa immagine codificata soprattutto nel nitore iconico, pur mai comparendo di sua voce, di suoi pensieri, di sue riflessioni spontanee, Aracoeli promana nel carattere proprio del romanzo, nel suo linguaggio fetale, fortemente cromatizzato da un’empatia prepotente, malgrado la solidità dei riferimenti, anche allorquando quei riferimenti si stagliano tra infingimenti immaginari e distrazioni ricondotte a una sorta di maieutica che trasla l’azione del rammemorare a una verità, invero, solo parziale: presenza sbilanciata di solitudini in una temporalità frantumata. È in un siffatto quadro che il luogo della scrittura incide l’evocazione di una ricerca di interezza; iscrive un progetto perché si confronti con un essere vocato a volere più che a chiamarsi (ed essere) vita. Ragioniamo per assurdo: se fosse pregno di elucubrazioni, il volume Aracoeli sarebbe confortevole luogo di formazione ed invece esso aspira a farsi territorio di esplorazione fuori dall’alveo di un linguaggio provocatorio. Inoltre, laddove le parole non possono adeguatamente disporre l’immagine mentale, ecco che l’estro della Morante – creatrice di versi mai disgiunta dalla Morante-scrittrice – esilia da sé qualsiasi tentativo di assommare rassegnazione e provocazione ed è in quell’immagine riportata che il rapporto con la scrittura si fa più intenso ed intimistico: policentrica e onnicentrica in un sol tempo, l’autrice si esplicita – come Aracoeli – nelle ombreggiature interdette degli eventi; si rende presenza di una quotidianità che è trasparente e che, insieme, l’avvolge in una nube di opacità.

Quali le sospensioni, se non quelle volubili di un fronte totalmente disallineato dalle consuetudini, laddove la figura di Aracoeli si diffonde su sponde biforcate in modo da congelare un essere nei raccordi di fanciulla giammai interrotta e di un essere donna in situazioni attuali, allorquando per una decisione d’amore si ritrova in un’insormontabile distanza dalla sua religiosità, una religiosità geomorfica spontanea. In questo modo, l’inscindibilità tra le figure di Manuele e di Aracoeli ancor più rende inquieta la tela degli eventi: su una sponda è Manuele. Incatenato alle sue domande, vive la presenza di Aracoeli in un amore sfuggente; altare sacrificale e faro vitale di Woolfiana memoria e pure in questo caso intinta nella sacralità di una vita da re-imbastire in un’immedesimazione con tutti i suoi tempi, all’interno dei quali tentare di ricomporsi (Io cerco oggi di nascondere a me stesso che questa seconda Aracoeli è anch’essa mia madre, la stessa che mi aveva portato nell’utero; e che lei pure sta insediata in ogni mio tempo, schernendo la mia ridicola pretesa di ricostruirmi, di là da lei, un nido «normale»[21]); sull’altra sponda è l’Aracoeli incatenata alla presenzialità dei ricordi fatti storia di sé in uno svelamento trasferito in tempi sublunari.

A questo punto non è difficile porre l’accento su quella che ci appare l’idea portante del romanzo, un’idea che riunisce invenzione e rielaborazione esperienziale nell’organicità prestata alla vista come sintesi estrema, seguendo la concomitanza di reale e immaginale pur nelle diversità che accompagnano la semantica del pensiero. Di tal specie si carica l’impianto, che scena e proscenio (il detto relazionato a fatti di individuale percezione nella “vaganza” e nell’immediatezza temporale) coincidono in una centralità che, per i motivi addotti, si priva di richiami analogici: infatti, se da un lato attraversiamo le pagine adottando un metaforico incontro con un protagonista a sé stante quale il libro è nell’intrico gnoseologico di elementi e situazioni che conferiscono una composizione per flashback a loro modo esplicativi, possibile è altresì aprire non già un percorso realizzato a vantaggio di una comprensione per sequenze simmetriche, quanto un territorio di tracce che – rilevabili e discrete – animano un movimento ritmico da inter-leggere nella trama del territorio abitato.Non solo: la dialettica delle circostanze declina la logica preservata dalle singole parole in un’abbreviazione fuor da retorica, esulando dalla litania dei suoni attendibili nel momento in cui lo sguardo-mente si volge nel tentativo di recuperare motivazioni e accadimenti che hanno cucito a maglie strette la rotta. Il momento giunge inatteso: oramai fuori dal campo visivo, Aracoeli si trattiene nell’oscuro miracolo di una preghiera (Non lasciarmi sola più e più volte ripetuto): in quella preghiera si manifesta l’incontro dei tempi di Aracoeli; i suoi fantasmi nelle segrete della sua storia, le ostilità di recenti strappi, i mutamenti e le sensazioni, tutti si rincorrono in un presente momento di universali silenzi che stralcia la sensazione di abbandono e di confortevole passività, ubbidendo al richiamo che innesta sensazioni. E nelle parole un furore aleggia, trattenendo il desiderio amaro di recuperare i resti di una coscienza che spinge a provare più un sentimento di distacco che di avvicinamento e che, sul fronte sconnesso delle indecisioni, dell’impervio e avito dubbio, provoca un penetrante senso del tutto tattile di frantumazione perenne («mi rendo conto» – scriveva V. Woolf – «con maggior chiarezza come la vita di ciascuno sia un mosaico di pezzi e come per capire una persona occorra considerare come un pezzo sia compresso e l’altro incavato e un terzo si espanda, e nessuno sia realmente isolato»[22]). Aracoeli si ritrova ad essere investita di siffatta e ancor più disorientante instabilità: condannata al disfacimento di un’identità scolpita nella perdita, ella appare dea da adorare e adorante dentro il suo mondo animato da una storia continuamente irradiata di leggenda e di paesaggi liberi; una storia che scavalca i confini della realtà condivisa e interloquisce con lo spazio indelebile di tensioni, di dis-cromiche effusioni, di mute posture, culminando in un’alterazione che ella fronteggia, pur in apparente vulnerabilità. Dove la sua voce e la sua sensibilità – ci chiediamo. Dove sono nascoste le sue parole in quella situazione difficilissima nella quale le parole riflesse di Manuele scatenano il tracciato per lei, lo fanno in sua vece, così che Aracoeli compare senza mai appartenersi: sbilanciata pronuncia nell’altrove di una memoria critica. Ed è a questo punto che i due fronti si dissuadono: Manuele va verso una conciliazione di sé; Aracoeli non va da nessuna parte, malgrado i tentativi («Per riprendere possesso di noi stessi e delle cose in modo autentico, si deve compiere una sorta di esperimento, in solitudine e in silenzio: riprodurre la durata pura, sgretolando le resistenti concrezioni del presente, intuendo al di là del pensiero immobilizzante e del linguaggio classificatorio»[23]– leggiamo con il filosofo R. Bodei): In tal senso, il romanzo Aracoeli può esser letto come svolgimento animato da un’intuizione estesa su varie prospettive al fine di superare – fin dall’esodio, coi fili dell’equivoco e dell’impostura[24] – l’imbastitura  tra pensiero immobilizzante e qualsiasi linguaggio classificatorio. Di par suo, dunque, l’opera della Morante contiene entrambi i livelli di scompaginazione emozional-intuitiva in una situazione che, nel momento in cui la parola propositiva si accinge a segnare una rotta, d’improvviso reclama autonomia finché antinomica appare, portandosi alla sospensione sulfurea di una sosia sfigurata[25]. La prospettiva è là prima ancora che il viaggio di ricerca (o il viaggio della speranza di vita) abbia inizio, sfacciata e disturbante, dapprima in forma di una corsa per recuperare frammenti da un tempo distratto da un altrove incomprensibile (E corro dietro alla mia fedele madre-ragazza, e alla sua icona musicante, ricacciando come un’intrusa quell’altra Aracoeli fatta donna, che in realtà mi ha lasciato laidamente orfano ancor prima di esser morta[26]), e poi nella forma di una sua sosia sfigurata. L’una Aracoeli mi ruba l’altra; e si trasmutano e si raddoppiano e si sdoppiano l’una nell’altra[27]. In questa lunga fase, la narrazione procede in una dualità capricciosa: realtà e irrealtà procedono indistintamente e Aracoeli si scompone e si ricompone in un irrisolvibile processo di perdita di portata cosmica. Quel che avviene nel frattempo rimanda a uno «spazio concreto estrapolato (…) dalle cose. Queste non sono in esso, è lui ad essere in loro. Soltanto, non appena il nostro pensiero ragiona sulla realtà, fa dello spazio un ricettacolo»[28]. Orbene, nel bergsoniano ricettacolo includiamo sia lo spazio vissuto che lo spazio irreale e figurativo di cui la mente di Aracoeli si tinge, espandendosi in un’irregolarità irraggiungibile e «vera» in quella misteriosa ambiguità[29] che l’ha resa immortale[30]. Di riflesso, tanto la postura di Manuele, che l’inesprimibile variabilità di Aracoeli si confrontano negli opposti a dispetto di una simbiosi pronunciata da parole significative, quanto più scoscese nella visceralità della simbologia. Così, mentre Manuele sembra converso a rintracciare la base concreta della storia che lo avviluppa nell’astrazione materna, dagli effetti oscuri, quanto ravvisabili come predestinazione in parvenze nelle quali si cela il rituale famelico del sarto notturno, (…) che di giorno dorme appollaiato su un albero come i gufi, e di notte va in giro per le camere  di certi mortali da lui prescelti, ai quali cuce addosso, nel sonno, una camicia invisibile, tessuta coi fili del loro destino[31],  Aracoeli vive una condensazione di somiglianze, malgrado la sua interezza non venga del tutto calpestata, giacché ben peggiore è la condanna dell’invisibilità mediata da un dettato delle relazioni – (…) fatto di voce fisica (…) col suo sapore tenero di gola e di saliva[32]. Il resto di lei – Quando lei si scosta i capelli dal viso, scoprendo la fronte[33], – rimane schermato dietro una fisionomia diversa, di strana intelligenza e di inconsapevole, congenita malinconia[34]. Una malinconia intima che – non sottraendosi a un dolore (s)travolgente, sfigurando e devastando[35] la solidità del rituale – si irrigidisce su fronti connessi, ma pure distintivi: l’uno conferito nell’interezza visuale, quindi frontale e unitiva; l’altro sedimentato nell’interezza visiva, simbiotica dell’io nei suoi molteplici strati convergenti, ai quali sentiamo che corrisponda Aracoeli in una valorialità indivisa, rintracciabile in un ritmo poetico per il fatto di trovarsi composizione di più piani paradigmatici e semiotici in un’atemporalità di forze che spingono ad essere tutte le dimensioni dell’esistere nel tutt’uno del tempo, il suo.

Da tutto questo l’esaltazione finalizzata a un circuito chiuso si annulla: di fatto, la Morante dà forma a un linguaggio tutt’altro che mutilato da asprezza, anzi, proprio in Aracoeli ella matura un linguaggio ricercato tra gli squarci di una profusione che parla di sé, adagiandosi su quella che può essere considerata come alfabetizzazione di un’attitudine, un’alfabetizzazione che prende in esame le diverse età dei tempi individuali e dei tempi relazionali su binari concretizzati in maniera fluttuante e talora apparentemente – e solo apparentemente – in forma di incontro. E l’autrice annulla le fratture che potrebbero rivelare quella sua realtà interiore, quel ribollimento che si propone come verità del suo essere non già mascherandolo, quanto andando alla ricerca, ella stessa, di una parola che sia artefice di un registro sinecistico allungato a sfuggire dalla banalità. Di questo registro abbiamo traccia nell’intonazione ciclica di Aracoeli-romanzo: un piano denso di sconfitte e di lacerazioni dalla gianica espressione che – potremmo dire – sia finalizzata a ricostruire gli anelli di una catena che metta al proprio posto le cose e che, nel percorso impervio della ricostruzione, si trovi spinto – e a un tempo frenato – su una strada a senso unico, ai bordi della quale non manca tuttavia la segnaletica, malgrado si tratti di una segnaletica che però non sortisce attenzione alcuna. Epperò è qui che l’essenza di Aracoeli trasmuta in un’assenza. Ed è un’assenza che tempra l’andare controverso (e controvento, aggiungo), scorrendo in una realtà virtualizzata indispensabile alla continuità e che – sempre in continuità – si scontra con lo specchio orizzontale delle cose. Una pur inesaurita risposta potrebbe giungere da quanto scriveva W. Benjamin: «Quando il pensiero si ferma all’improvviso in una costellazione satura di tensioni, provoca a essa una scossa cristallizzandosi come monade[36]». Decise e caustiche, le parole di W. Benjamin si prestano a gestire l’intera intelaiatura della figura di Aracoeli. In essa risuona il quadro maieutico che, nel configurare la donna, lascia di lei filtrare (senza opporre alcuna rinuncia, pur al limite di una materialità etonima) le alterazioni di una geografia concepita nella dimensione del sogno surrettizio, febbrilmente impenetrabile, integrandosi nella pronuncia capitale di Elsa Morante e che si diffonde tra le pagine del libro nella voce di Manuele:

Si direbbe, in realtà, all’epilogo di certi destini, che noi stessi, per una nostra legge organica, fin dall’inizio, insieme con la vita, abbiamo scelto anche il modo della nostra morte. Solo a quest’atto finale il disegno, che ciascuno di noi va tracciando col proprio vivere quotidiano, prenderà una forma coerente e compiuta, nella quale ogni atto precedente avrà spiegazione. E sarà stata quella scelta – anche se nascosta a noi stessi, o mascherata, o equivoca – a determinare le altre nostre scelte, a consegnarci agli eventi, e a segnare in ogni movimento i nostri corpi, conformandoli a sé. Noi la portiamo scritta, indelebilmente, fin dentro ogni nostra cellula[37]

Nella dimensione tanto ergonomica, che cinestetica del romanzo, trova quindi un equilibrio la formula metonimica di un’Aracoeli persistente ad eludere il senso dell’incompiuto nell’intensità di «un universo che» – afferma E. Morin – «sfugge ai canoni della realtà»[38]. In questo modo, vediamo Aracoeli procedere nell’assunto Woolfiano di un’arte – o di una vita artistica – che si stacca dalla materialità per aspirare a una totalità invero mai raggiunta (o forse raggiunta quando non più «parlata»).  Nessuna risoluzione, se non nell’”epoca” in cui il territorio asceso si frantuma in particelle minimali, in nessi interspaziali che vive nell’incessante oscillare tra i suoi dentro e i suoi esclusivi fuori nel bisogno di sfuggire a qualsiasi cancellazione, pur essa presenza per sé e presenza di un mito persistente (Me lo insegnò Aracoeli: che non era il sole, come sembrava, a girare per il cielo; ma il mondo. Il quale era mosso da un’aria circolare perpetua, così che girava sempre, giorno e notte[39]  ̶  è la riflessione di Manuele). Prospettate in un’identità eudemonica, le emozioni si ramificano nei fatti, pur mantenendosi nell’attrazione di un incantesimo. Qui l’eudemonico movimento di Aracoeli si condensa nella pluralità dei suoi resoconti immaginali. E ancora: qui il suo essere si contrae in un’appartenenza che è richiamo e legame, condanna e desiderio lacerato, sicché il processo di emancipazione che la riguarda in intimità appare sempre più risucchiato in una sorta di auto-riduzione progressiva, simile a un cero accantonato in una cattedrale oramai chiusa.

CARMEN DE STASIO


[1] E. Morante, Aracoeli (1982), Einaudi, Torino, 2015, p. 295

[2] A. Bertolucci, Elsa in «Aritmie», Garzanti, Milano, 1991, p. 150

[3] Ibi, p. 149

[4] Aracoeli, p. 27

[5] Ibi, p. 10

[6] Ibi, p. 11

[7] H. Arendt, La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna, 2009, p. 489

[8] Aracoeli, p. 359

[9] Ibi, p. 133

[10] Ibi, p. 117

[11] Ibi, p. 358

[12] Ibi, p. 25

[13] Ibi, p. 20

[14] Ibi, p. 10

[15] Ibi, pp. 11 – 12

[16] Ibi, p. 337

[17] Cfr. V. Woolf, Le Onde, 1931

[18] Aracoeli, p. 139

[19] Ibi, p. 337

[20] Ibi, p. 12

[21] Ibi, pp. 28 – 29

[22] V. Woolf, Momenti di essere – scritti autobiografici (1976, pubblicazione postuma), La Tartaruga Edizioni, Baldini & Castoldi S.p.A., Milano, 2003, p. 38

[23] R. Bodei, La filosofia del Novecento (e oltre) (1997), Feltrinelli, Milano, 2016, p. 16

[24] Aracoeli, p. 28

[25] Ibi, p. 29

[26] Ibi, p. 28

[27] Ibi, p. 29

[28] H. Bergson, Il possibile e il reale (Saggio pubblicato in rivista svedese «Nordisk Tdskrift» nel novembre 1930) – a cura di A. Branca, Edizioni AlboVersorio, Milano, 2014, p. 19

[29] Aracoeli, p. 34

[30] Ibi

[31] Ibi, p. 52

[32] Ibi, p. 11

[33] Ibi, p. 14

[34] Ibi

[35] Ibi, p. 350

[36] W. Benjamin, Sul concetto di storia – Il manoscritto affidato a Hannah Arendt delle Tesi di filosofia della storia (1940) – in «Hannah Arendt Walter Benjamin – L’angelo della storia – Testi, lettere, documenti», a cura di D. Schöttker e E. Wizisla, Giuntina, Firenze, 2017, pp. 149 – 150

[37] Aracoeli, p. 19

[38] E. Morin, Sull’Estetica (2016), Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, p. 55

[39] Aracoeli, p. 137


L’autrice ha liberamente concesso, senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro, la pubblicazione di questo saggio personale e inedito su questo sito.

La riproduzione del presente saggio in forma parziale o integrale su qualsiasi tipo di supporto non è autorizzata senza il consenso dell’autrice. Libera è la citazione con gli opportuni riferimenti al nome del sito, data e link.

XIII Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” – il verbale di Giuria

Il Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, ideato, fondato e presieduto da Lorenzo Spurio, è stato organizzato, nella sua XIII edizione, dall’Associazione Culturale Euterpe APS di Jesi (AN) con il Patrocinio morale della Regione Marche, dell’Assemblea Legislativa della Regione Marche, della Provincia di Ancona, dei Comuni di Jesi e Senigallia, dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” e del Centro Internazionale “Donne e Poesia” di Bari.

Le Commissioni di Giuria di questa edizione del Premio, differenziate per le varie sottosezioni, e presiedute da Michela Zanarella, sono così composte (in ordine alfabetico): Stefano Baldinu, Fabia Binci, Valtero Curzi, Mario De Rosa, Graziella Enna, Zairo Ferrante, Filomena Gagliardi, Rosa Elisa Giangoia, Fabio Grimaldi, Giuseppe Guidolin, Francesca Innocenzi, Antonio Maddamma, Simone Magli, Emanuele Marcuccio, Francesco Martillotto, Morena Oro, Rita Stanzione e Laura Vargiu.

Il giudizio della Giuria è ultimo e insindacabile.

Il Presidente del Premio, Lorenzo Spurio, raccolte le valutazioni e le considerazioni dei membri di Giuria dà pubblicazione del presente documento contenente i nominativi degli autori e i titoli delle opere risultati premiati a vario titolo.

VERBALE DI GIURIA

MACROSEZIONE A – POESIA A TEMA LIBERO

* Dedicata ad Amerigo Iannacone (1950-2017) *

SOTTOSEZIONE A1 – POESIA SINGOLA

1° Premio – ELISABETTA BIONDI DELLA SDRISCIA di Roma con l’opera “Non ti volevo salutare così”

2° Premio – ELISABETTA LIBERATORE di Pratola Peligna (L’Aquila) con l’opera “I tuoi due nomi”

3° Premio – TIZIANA MONARI di Prato con l’opera “Il boato”

Premio Speciale del Presidente del Premio – DARIO MARELLI di Seregno (Monza-Brianza) con l’opera “Fisterra”

Premio Speciale “Trofeo Euterpe” – MARCO PEZZINI di San Giuliano Milanese (Milano) con l’opera “Il pioppo e lo svasso”

Premio Speciale “Donne e Poesia” – IVANA FEDERICI di Pianello Vallesina (Ancona) con l’opera “Alla madre”

Menzione d’onore – ERIKA SIGNORATO di Treviso con l’opera “era nell’ora del calicanto”

Menzione d’onore – LUCIA LO BIANCO di Palermo con l’opera “La mia città smarrita dentro il nulla”

Menzione d’onore – ORNELLA VALLINO di Pavone Canavese (Torino) con l’opera “Canzone per Primula”

Menzione d’onore – VITTORIO DI RUOCCO di Pontecagnano Fiano (Salerno) con l’opera “La libertà ci inganna e scava fosse”


SOTTOSEZIONE A2 – SILLOGE DI POESIA

1° Premio – LORETTA FUSCO di Pradamano (Udine) con l’opera “Un equilibrio precario”

2° Premio – VANNI GIOVANARDI di Luzzara (Reggio Emilia) con l’opera “Myosotis… o il fiore del ricordo”

3° Premio – SILVIA SILLANO di Asti con l’opera “Geometrie non euclidee”

Menzione d’onore – ANTONIO BIANCOLILLO di Trani (Barletta-Andria-Trani) con l’opera “Forse domani”

Menzione d’onore – GIOVANNA SANTAGATI di Bra (Cuneo) con l’opera “Tralci di vita”


SOTTOSEZIONE A3 – LIBRO EDITO DI POESIA

1° Premio – ANTONELLA SICA di Genova con l’opera Corpi estranei, Arcipelago Itaca, Osimo (Ancona), 2025.

2° Premio – MARGHERITA PARRELLI di Roma con l’opera A mani vuote, Macabor, Francavilla Marittima (Cosenza), 2024.

3° Premio – BARTOLOMEO BELLANOVA di Pianoro (Bologna) con l’opera Attraversamenti, Puntacapo, Pasturana (Alessandria), 2024.

Premio Speciale del Presidente di Giuria – MONIA GAITA di Montefredane (Avellino) con l’opera Di cielo, di nuvole e di vento, Rubbettino, Saveria Mannelli (Catanzaro), 2024.

Premio Speciale della Critica – ANNALISA CIAMPALINI di Empoli (Firenze) con l’opera Tutte le cose che chiudono gli occhi, Italic Pequod, Ancona, 2022.

Premio Speciale “Picus Poeticum” (assegnato alla migliore opera di un autore marchigiano) – DANIELE RICCI di Fano (Pesaro-Urbino) con l’opera La macchina da cucire. Geologia del dolore, Puntoacapo, Pasturana (Alessandria), 2025.

Menzione d’onore – ADRIANA TASIN di Madonna di Campiglio (Trento) con l’opera Voragini d’azzurro, Interno Libri, Latiano (Brindisi), 2025.

Menzione d’onore – ELIA BELCUFINÈ di Cascano (Caserta) con l’opera Sparso caos, RP Libri, San Giorgio del Sannio (Benevento), 2025.


SOTTOSEZIONE A4 – HAIKU

1° Premio – VITTORIO GRIFFO di Bruxelles (Belgio) con l’opera “Il mattutino, / la nebbia avvolge il tocco / delle campane

2° Premio – CATERINA LEVATO di Adelfia (Bari) con l’opera “tra le radici / il peso di un dolore – / crescono viole

3° Premio – GIOVANNI DE CRESCENZO di Ancona con l’opera “Pianto del mare / tra le vite disperse. / Cade la notte

Menzione d’onore – MARINA FILIPUTTI di Thiene (Vicenza) con l’opera “Sotto la giubba / il volto di tua madre / l’ultimo sole

Menzione d’onore – ORNELLA VALLINO di Pavone Canavese (Torino) con l’opera “ciliegio curvo – / sulla sedia a rotelle / petali bianchi

Menzione d’onore – PATRIZIA CAVALLONE di Ravenna con l’opera “tuoni in autunno – / i battiti del cuore / sono assordanti


MACROSEZIONE B – POESIA A TEMA

* Dedicata a Giusi Verbaro Cipollina (1938-2015) *

SOTTOSEZIONE B1 – POESIA NATURALISTICA

1° Premio – MAURO CORONA di Roma con l’opera “Natura”

2° Premio – ELISABETTA LIBERATORE di Pratola Peligna (L’Aquila) con l’opera “Altezze”

3° Premio ex aequo – MARIA ROSARIA VIRGALLITA di Noepoli (Potenza) con l’opera “L’eau de Saint Jean”

3° Premio ex aequo – SALVATORE GAZZARA di Messina con l’opera “Mattino in pianura”

Menzione d’onore – SILVIA SILLANO di Asti con l’opera “Delizia e consunzione”


SOTTOSEZIONE B2 – POESIA D’AMORE

1° Premio – ERIKA SIGNORATO di Treviso con l’opera “di quale luce tu che scorri”

2° Premio – FRANCO CASADEI di Cesena (Forlì-Cesena) con l’opera “Ora che sei assente”

3° Premio – FRANCESCA FAVARO di Padova con l’opera “Vorrei baciarti il cuore”

Menzione d’onore – ELISABETTA LIBERATORE di Pratola Peligna (AQ) con l’opera “Ritorni”

Menzione d’onore – VITTORIO DI RUOCCO di Pontecagnano Fiano (SA) con l’opera “Di noi resterà il fumo dei ricordi”

Menzione d’onore FANNI’ CASALI di Arenzano (GE) con l’opera “Grazie per tutto”


SOTTOSEZIONE B3 – POESIA RELIGIOSA

1° Premio – MARIA ROSARIA VIRGALLITA di Noepoli (Potenza) con l’opera “Assenza”

2° Premio – ANTONIO BIANCOLILLO Trani (Barletta-Andria-Trani) con l’opera “Quel nome tuo”

3° Premio – SALVATORE GAZZARA di Messina con l’opera “Sei sceso su di me”

Menzione d’onore – ANTONIO AFFINITO di Ferentino (Frosinone) con l’opera “Carezze”


SOTTOSEZIONE B4 – POESIA CIVILE

1° Premio – VALERIO DI PAOLO di Scafa (Pescara) con l’opera “Rafah”

2° Premio – VITTORIO DI RUOCCO di Pontecagnano Fiano (Salerno) con l’opera “Crollano i templi eretti all’innocenza”

3° Premio ex aequo – LUCIA LO BIANCO di Palermo con l’opera “Abbiamo udito il mesto canto della luna”

3° Premio ex aequo – ELISABETTA SAMPIETRO CALDERON di Gorizia con l’opera “Bambini a Gaza”

Menzione d’onore – ANGELA BONO di Catania con l’opera “Orme di rinascita”

Menzione d’onore – SAMANDA PETTINARI di Montegiorgio (Fermo) con l’opera “La sedia vuota”

Menzione d’onore – PIETRO SPIRITO di Milano con l’opera “Dal nostro inviato”


MACROSEZIONE C – LINGUA E POESIA

* Dedicata a Alfredo Bartolomei Cartocci (1945-2020) *

SOTTOSEZIONE C1 – POESIA IN DIALETTO

1° Premio – CONCEZIO DEL PRINCIPIO di Atri (Teramo) con l’opera “Ce stinghe pure j’ (a ‘ffìjeme handicappate)”

2° Premio – PAOLO EMILIO URBANETTI di Montalto di Castro (Viterbo) con l’opera “L’amore de li vecchi”

3° Premio – LORENZO LUIGI VAIRA di Sommariva del Bosco (Cuneo) con l’opera “La valis”

Menzione d’onore – DANIELA GREGORINI di Ponte Sasso di Fano (Pesaro-Urbino) con l’opera “Giorn d’otobr”

Menzione d’onore – DARIO PASERO di Ivrea (Torino) con l’opera “Da na fnestra ‘l mond… dël 1977”

Menzione d’onore – GIANFRANCO ROSSI di Cesena (Forlì-Cesena) con l’opera “Vizilia”

Menzione d’onore – GIOVANNA DRAGO di Scicli (Ragusa) con l’opera “Tabarè”

Menzione d’onore – IDINUCCIA SIMONCELLI di Poggio Rusco (Mantova) con l’opera “Al pustin dla spèransa”

Menzione d’onore – ISABELLA PETRUCCI di Fabriano (Ancona) con l’opera “Quanno ch’artorno a casa”


SOTTOSEZIONE C2 – POESIA IN LINGUA STRANIERA

1° Premio – ALEXANDRA FIRITA di Broni (Pavia) con l’opera “Arhitectura unei respiraţii”

2° Premio – LUCIA LO BIANCO di Palermo con l’opera “I’ve heard the mermeid singing”

3° Premio – SANDRO ANGELO RUFFINI di Chieti con l’opera “Cuando no estás”


MACROSEZIONE D – ARTE E POESIA

* Dedicata ad Aldo Piromalli (1946-2024) *

SOTTOSEZIONE D1 – POESIA VISIVA

1° Premio – GIANLUCA ALBERTI di Forlì (Forlì-Cesena) con l’opera “Utero”

2° Premio – MATTEO PAOLO GARAVALDI di Taneto di Gattatico (Reggio Emilia) con l’opera “Luce e ombra”

3° Premio – GIULIA VANNUCCHI di Viareggio (Lucca) con l’opera “Pesce”


SOTTOSEZIONE D2 – FOTOPOESIA

1° Premio – GIAN ANDREA OTTONELLO di Arenzano (Genova) con l’opera “Estuario”

2° Premio – GIUSEPPE APRILE di Cuneo con l’opera “L’ora del tempo”

3° Premio – ARALDO BUGIANI di Bologna con l’opera “Pappi e pensieri”


SOTTOSEZIONE D3 –VIDEOPOESIA

1° Premio – ZEUDI ZACCONI di Colli al Metauro (Pesaro-Urbino) con l’opera “Il baratto dell’invisibilità”

2° Premio – ELISABETTA BIONDI DELLA SDRISCIA di Roma con l’opera “Le voragini del Carso”

3° Premio – CLAUDIA PALOMBI di Montegrotto Terme (Padova) con l’opera “Violenza”

Menzione d’onore – LUISA TRIMARCHI di Cremona con l’opera “Stanza 1”


MACROSEZIONE E – POESIA E CRITICA LETTERARIA

* Dedicata a Lucia Bonanni (1951-2024) *

Come da bando di concorso tale macrosezione vedeva al suo interno le seguenti sottosezioni: recensione (E1), prefazione/postfazione (E2), saggio letterario (E3) e libro edito di saggistica (E4).

Dal momento che si è verificata la condizione contenuta all’art. 9 del bando di partecipazione, la quale recita testualmente “Nel caso in cui non sarà pervenuta una quantità di testi numericamente congrua o qualitativamente significativa per una sezione, la Giuria, a sua unica discrezione, si riserva di non attribuire determinati premi”, la Presidenza del Premio ha deciso d’individuare un’unica graduatoria di merito per la macrosezione E, che è così stabilita:

1° Premio – FRANCESCA FAVARO di Padova con l’opera Colori e paesaggi danteschi, Aristodemica Edizioni, Termoli (Campobasso), 2023 (sezione E4 – Libro edito di saggistica)

2° Premio – MATTIOLI SABRINA di Frisa (Chieti) con l’opera “I sonetti dal Portoghese di Elizabeth Barret Browning” (sezione E3 – Saggio)

3° Premio – ANTONIO SACCO di Vallo della Lucania (Salerno) con l’opera Manuale di scrittura haikai. Vademecum pratico per comporre poesie haiku e altre forme poetiche di origine giapponese, Nulla die Edizioni, Piazza Armerina (Enna), 2024 (sezione E4 – Libro edito di saggistica)

Menzione d’Onore – ALFREDO BUSSI di Pesaro con l’opera Venni al tramonto. I sonetti di Raffaello e l’estetica al femminile, Metauro Edizioni, Pesaro, 2020 (sezione E4 – Libro edito di saggistica)

Menzione d’Onore – MARTINA LELLI di Pianoro (Bologna) con l’opera “Recensione a Finestre di Stefano Baldinu” (sezione E2 – Recensione)


PREMI SPECIALI (FUORI CONCORSO)

Premio Speciale “Alla Cultura” – MARIA BENEDETTA CERRO di Pontecorvo (Frosinone)

Premio Speciale “Alla Carriera” – GIULIANO LADOLFI di Novara

Premio Speciale “Alla Memoria” – ANNA MARIA FABBRONI (Grosseto, 1934 – Gorizia, 2023)


CERIMONIA DI PREMIAZIONE

La cerimonia di premiazione si terrà a Jesi (AN) presso la Sala Maggiore del Palazzo dei Convegni (Corso Matteotti n°19) il giorno 23 novembre 2025.

I premiati sono tenuti a presenziare alla cerimonia per ritirare il premio; qualora non possano intervenire hanno facoltà d’inviare un delegato. In questo caso, la delega va annunciata a mezzo mail, all’attenzione del Presidente del Premio (premiodipoesialarteinversi@gmail.com) almeno 7 giorni prima dalla cerimonia di premiazione.

Non sarà possibile delegare membri della Giuria e familiari diretti degli stessi. Un delegato non potrà avere più di due deleghe da altrettanti autori premiati assenti. Non verranno considerate le deleghe annunciate in via informale a mezzo messaggistica privata di Social Networks né per via telefonica.

I premi non ritirati personalmente né per delega potranno essere spediti a domicilio unicamente mediante Corriere sul solo territorio nazionale, previo pagamento delle relative spese di spedizione a carico dell’interessato. Non si spedirà in contrassegno.

ANTOLOGIA

Tutte le opere risultate premiate a vario titolo verranno pubblicate nell’antologia del Premio, disponibile gratuitamente il giorno della premiazione, volume senza codice ISBN e non in commercio. Detto libro verrà donato a ciascun premiato durante l’evento e ulteriori copie del volume verranno donate e depositate in varie biblioteche comunali, provinciali, regionali, nazionali e universitarie del territorio nazionale, così come avvenuto nelle precedenti edizioni.

I premiati della sottosezione D3 (video poesia) sono tenuti a inviare in tempi brevi il testo della loro poesia in formato Word a premiodipoesialarteinversi@gmail.com affinché possa essere pubblicato in antologia.

Il volume conterrà altresì una selezione di liriche dei Premi Speciali “Alla Cultura”, “Alla Carriera” e “Alla Memoria” accompagnati da relativi profili bio-bibliografici e tutte le motivazioni stilate dalle Commissioni di Giuria.

ULTIME

Il presente verbale, composto da nr. 6 (SEI) pagine numerate e integrato di ulteriori nr. 5 (CINQUE) pagine a seguire contenenti l’Albo d’oro dei vincitori del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, sarà pubblicato sui siti www.associazioneeuterpe.com www.premiodipoesialarteinversi.blogspot.comwww.concorsiletterari.comwww.blogletteratura.com e dato a conoscere mediante stampa locale e nazionale cartacea e digitale.

La presente comunicazione ha valore di notifica a tutti gli effetti.

Letto, firmato e sottoscritto

Jesi, 04/05/2025

Lorenzo Spurio – Presidente del Premio

Michela Zanarella – Presidente di Giuria

Stefano Vignaroli – Presidente Euterpe APS

Tra le lucciole che rendono sopportabile il buio. “Fuori non è ancora così. Voci da una classe multietnica” di Miriam D’Ambrosio. Recensione di Davide Toffoli

Undici anni fa usciva un libro di poco più di novanta pagine: Fuori non è così di Miriam D’Ambrosio, pubblicato per la Collana Centocinquanta della Barbera Editore. Un breve viaggio in ventiquattro piccole tappe, intrise di sogni, passioni e paure, all’interno di quel “recinto magico” nel quale può trasformarsi una qualsiasi classe delle nostre scuole, laddove presenza, entusiasmo e motivazione di docenti e studenti riescono a convergere in quella sorta di “non luogo” privilegiato che è, a dire il vero, la conoscenza della vita stessa. Oggi, dal seme di quel delizioso fiore, è nata una nuova pubblicazione di quegli splendidi frammenti di anime, grazie all’editore Florindo Rubbettino, con l’aggiunta di nuovi capitoli che vanno ad impreziosire, senza scalfirne l’intensità, il racconto di quella quotidiana esperienza didattica.

Come ebbi già modo di scrivere, si tratta di un racconto leggero e sottile, che trasuda atmosfere familiari a tutti coloro che hanno varcato la soglia di una qualsiasi delle nostre classi e che le hanno vissute “dall’interno”, raccogliendo ogni istante come se si trattasse sempre del più prezioso. Una sorta di “collezionismo”, nel quale si fanno strada vitalissimi personaggi reali, deboli e coraggiosi al tempo stesso, che racconta un mondo, troppo spesso dimenticato e messo in secondo piano, che nutre e aiuta a crescere un numero inquantificabile di persone, al di qua e al di là dalla famigerata “cattedra”.

Il lavoro dell’autrice si rivela una preziosa rassegna di piccoli eroi del quotidiano, chiamati a galleggiare sulla precarietà del presente e a ritagliarsi, mai senza sforzo, il proprio posto nella vita; a questi piccoli eroi la “prof” (come si definisce, quasi a sottolineare un ruolo mai come adesso così sottoposto a continui tagli, imposizioni e ritagli) suggerisce letture e personaggi, danzando tra un romanzo ed un testo teatrale, proponendo assaggi mirati di vite appese ad un filo, dove il lieto fine (per quanto pesantemente auspicato) non è affatto scontato.  

Un vero viaggio nella dimensione umana, che riesce a ripercorrere indelebili tappe della letteratura, con il coinvolgimento e la discrezione dei suoi grandi momenti, con la passione riservata al mistero quasi sacro della “prima volta”: l’amicizia raccontata attraversando le pagine di Pasolini e di Uhlman; il difficile rapporto con il padre, evocato ed affrontato sulle suggestioni di poeti come Leopardi, Saba o Sbarbaro; e ancora lezioni d’amore, con l’impronta pesante di Giulietta e Romeo o di Paolo e Francesca, dove si attraversa la tragedia, sballottati verso il dubbio e la passione irrefrenabile, feriti dal tradimento del fratello Gianciotto; la convivenza impossibile con la tremenda gelosia di Otello; l’immancabile e troppo spesso da noi trascuratissimo tema del “doppio”, dove si fatica a riconoscere dentro di sé un Mister Hyde da tenere a bada o un Minotauro da affrontare.

Un libro che nasce dall’amore e dall’equilibrismo quotidiano di una Professoressa (la maiuscola è d’obbligo) che ha scelto di non cedere all’immobilismo, continuando a leggere, vivere, rileggere e sognare, ma soprattutto che punta a condividere tutto questo con le persone, adulte e meno adulte, che le si affidano. Perché “Raccontare la bellezza dell’essere umano non è solo una scelta, è necessità. Lo stupore deve accompagnarci, è una specie di guida che non dà mai niente di scontato”. È la chiave di lettura più preziosa da condividere con i ragazzi.

E questi ragazzi vengono da Ghana, Costa d’Avorio, Senegal, Marocco, Egitto, Algeria, India, Pakistan, Filippine, Ecuador, Albania, Romania, Italia. Strabordanti di sogni e paure, sono qui in un istituto professionale, soprattutto per imparare un mestiere, ma ecco che le ore di Italiano si trasformano in un indelebile momento di condivisione. Miriam D’Ambrosio, nonostante il prevalente quasi costante grigiore della Val Padana, apre finestre davanti a loro, spalancandole sui colori del mondo, senza obbligare nessuno ad uscire, ma insegnandogli a nutrirsi di sguardi, riflessioni e racconti.

Seguirli in queste pagine e in questi oltre undici anni è toccare con mano la vita che scorre, avvertirne il cuore pulsante, osservarne i volti sempre nuovi che scrivono, pensano e parlano di Dorian Gray, seguono l’Innominato nella sua tormentata notte, giudicano i migranti di Sciascia, incontrano Pin nel suo rifugio, un sentiero dei nidi di ragno dove stare al riparo dalla realtà, tra le lucciole che rendono sopportabile il buio.

DAVIDE TOFFOLI


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“Il Faust di Goethe simbolo dell’umanità intera” di Tina Ferreri Tiberio

Johann Wolfgang von Goethe (1742-1832) è stato uno dei più grandi scrittori, poeti e pensatori tedeschi di tutti i tempi, è considerato una delle figure fondamentali della letteratura mondiale, ha contribuito allo sviluppo del Romanticismo e del Classicismo tedesco

Per Goethe, il concetto di Natura non è solo un insieme di elementi fisici o un semplice ambiente naturale, ma rappresenta un’unità viva e dinamica. La Natura è vista come un organismo in continua evoluzione, un processo di crescita e trasformazione; Goethe la considera anche come una fonte di saggezza e di bellezza, qualcosa di profondo e misterioso che va oltre la mera apparenza. In sostanza, per lui, la Natura è un’entità viva, intelligente e piena di significato, che merita di essere osservata e compresa con rispetto e sensibilità.

La sua opera più famosa è il poema epico Faust, ma ha scritto anche romanzi, poesie, drammi e saggi che hanno avuto un grande impatto culturale e filosofico. 

Il Faust è un poema drammatico in due parti, opera complessa e ricca di significati, esplora temi profondi, come il desiderio di conoscenza, il senso della vita, il peccato, la redenzione e il conflitto tra il bene e il male. Nel suo dramma, Goethe esplora il desiderio dell’uomo di conoscere e di entrare in contatto con la Natura, che rappresenta anche il mistero e la perfezione. Faust stesso è un personaggio che cerca di superare i limiti umani e di comprendere il senso della vita, spesso attraverso un rapporto complesso con la Natura. Goethe vede la Natura come qualcosa di vivo, di dinamico e di sacro e nel suo lavoro questa connessione è molto importante, perché rappresenta anche la ricerca dell’armonia tra l’uomo e il mondo naturale. Il rapporto tra Faust e la natura è centrale nel pensiero di Goethe, che la considera un elemento fondamentale della vita e della conoscenza. L’opera è ispirata dalla leggenda del personaggio, il Dottor Faust della tradizione europea. Il poeta cominciò a scrivere il primo abbozzo nel 1772 e lo considerò terminato nel 1831, ma nel 1832 vi apportò ancora dei ritocchi. Le scene scritte tra il 1772 e il 1775 formano l’Urfaust (Primo Faust), che pubblicò solo nel 1887, influenzato dal Faust del poeta elisabettiano Cristopher Marlowe. La corrente letteraria di riferimento fu lo Sturm und Drang/ Impeto e Assalto.

Nel 1790 Goethe fece apparire un Frammento che comprendeva all’incirca la metà della prima parte, poi completò questo Frammento a partire dal 1797; nel 1808 pubblicò la prima parte del dramma, che non fu più modificata. Lo stile è quello del Classicismo. In questa prima parte, di gran lunga più accessibile, Goethe mescola ricordi personali ai dati leggendari. Il suo Faust si dà al demonio per desiderio di sapere e per sete di godimento.

Il fulcro dell’azione è una scommessa tra Mefistofele, il diavolo, che si impegna di sedurre il dottor Faust e il Signore, il quale sostiene che Faust sarà capace, con le sue sole forze di trionfare sulla tentazione. Faust, medico – scienziato, uomo rispettabilissimo, svolge la sua attività con un aiutante (Wagner) ed è insoddisfatto della sua vita e della sua conoscenza, così si rivolge alla magia, incarnata dalla diabolica figura di Mefistofele. Faust e Mefistofele siglano un patto: Faust si impegna a servire il diavolo e ottiene la giovinezza in cambio della propria anima. Ma nel corso degli eventi Faust si confronta con le sue scelte, le tentazioni e le conseguenze delle sue azioni e diventa il simbolo dell’umanità intera, che “erra in quanto agisce”, ma che deve agire per realizzare l’ideale sentito dalla propria coscienza.       

Seduce l’innocente Margherita, che poi abbandona; l’infelice ridotta alla disperazione, uccide il suo figlioletto ed è condannata a morte. Spira tra le braccia di Faust, ma, una voce dal cielo fa sapere che sarà salvata grazie al suo pentimento. Margherita è una figura che simboleggia la fragilità e la vulnerabilità della donna nell’ambiente sociale del tempo. La storia di Margherita evidenzia il conflitto tra il sentimento amoroso e le conseguenze del peccato. Nonostante il suo destino tragico, Margherita ha la possibilità di scegliere la redenzione, dimostrando la sua forza interiore. La fede di Margherita è un elemento centrale nella sua storia, che la spinge a cercare la salvezza anche nelle circostanze più difficili. La tragedia di Margherita è un’importante parte del dramma di Faust e ha avuto un grande impatto sulla cultura e sull’arte. E’ una storia che continua a commuovere e a far riflettere sul potere dell’amore, sulla fragilità umana e sulla possibilità di redenzione.

 Questo dramma della passione, a cui Goethe dà il nome di Tragedia di Margherita, non è che un semplice episodio. Due sono le grandi tematiche del Faust: il patto – scommessa e lo Streben (il cercare); Mefistofele sfida Dio, volendo dimostrare che Faust, pur affannato e alla ricerca di nuovi ed elevati saperi, in realtà è pur sempre disponibile ad un piacere che proviene dall’abbandono della sapienza. La parola Streben è la parola che caratterizza il protagonista, il suo continuo sforzo di superare i limiti, di non appagarsi mai in nessuna situazione; rappresenta anche lo spirito della borghesia, la sua forza innovativa e rivoluzionaria. Faust, nel primo prologo è disperato: il sapere non gli permette di conoscere l’intima essenza della Natura e decide dunque di darsi alla magia, evocando Mefistofele. Faust è salvato in extremis dal suicidio: sente le campane della Pasqua e la gioia che da esse deriva. In Faust convivono due anime in contrasto: la prima tende al potere – sapere, l’altra ad un legame con il mondo.

Il Faust è un’opera attuale perché affronta temi universali e senza tempo come il desiderio di conoscenza, il senso della vita, il conflitto tra bene e male e le conseguenze delle proprie scelte. Questi argomenti continuano a rispecchiare le sfide e le domande che affrontiamo ancora oggi, rendendo la sua storia e i suoi insegnamenti sempre rilevanti. Inoltre, il personaggio di Faust rappresenta la ricerca incessante di significato e di progresso, che sono temi molto presenti nel mondo moderno, per cui, anche se il testo è stato scritto secoli fa, le sue riflessioni sono ancora molto, molto attuali grazie alla sua profondità e alla sua capacità di parlare delle grandi domande dell’esistenza.                                                                                                   L’opera affronta anche il desiderio di trascendenza e del senso più profondo della vita che alla fine si può interpretare come ricerca di redenzione e di salvezza, anche attraverso le proprie azioni e il proprio percorso di vita.

Goethe ha scritto il “Faust” perché voleva esplorare grandi temi come quello sulla condizione umana, sulla tensione tra aspirazioni spirituali e desideri materiali e quello sulla possibilità di redenzione anche dopo errori e tentazioni. Il Faust è spesso considerato un simbolo dell’umanità intera perché rappresenta l’aspirazione umana all’infinito, la ricerca di conoscenza e l’insofferenza per i limiti della condizione umana; è un uomo che si ribella ai confini della conoscenza, del potere e della vita stessa, cercando di raggiungere un’esistenza superiore attraverso un patto con il diavolo. La ricerca dell’infinito lo porta a desiderare la conoscenza assoluta, il potere e l’eterna giovinezza: fa il patto con il diavolo per soddisfare il suo desiderio di trascendere i limiti. E’ simbolo della condizione umana segnata da un’aspirazione all’infinito e da un costante desiderio di trascendere i propri limiti.                                           

Faust, nel suo viaggio alla ricerca di conoscenza, sperimenta il tormento di non riuscire a raggiungere la serenità e la felicità eterna, anche con il potere del diavolo e nonostante il patto con il diavolo; non rinuncia alla sua aspirazione al divino, cercando di raggiungere un senso di appagamento che vada oltre le cose terrene. 

TINA FERRERI TIBERIO


Bibliografia:

Johann Wolfgang Goethe, Faust edizione integrale, Rusconi libri, Santarcangelo di Romagna (TN), 2022

Aldo Carotenuto, La forza del male. Senso e valore del mito di Faust, Bompiani, Milano, 2004

Massimo Donà, Una sola visione. La filosofia di Goethe, Bompiani, Milano, 2022


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Voci di Libri: Donatella Bisutti a Clivo Rutario con AgorArt l’11 giugno a Roma

Mercoledì 11 giugno alle ore 18.30 a Clivo Rutario 53 a Monteverde per la rassegna Voci di Libri il centro culturale AgorArt con Montedarte e Libri&Spritz ospita Donatella Bisutti con il poema in cinquantadue atti “Erano le ombre degli eroi” edito da Passigli. Dialoga con l’autrice la giornalista Michela Zanarella. Letture a cura degli attori Chiara Pavoni, Giuseppe Lorin e Corrado Solari. Saranno presenti i poeti di Punto Poesia, coordinati da Luciana Raggi. Interventi musicali di Saman. Mostra fotografica collettiva L’ALTRO VERDE, esplorazioni creative del paesaggio urbano dimenticato Officine Fotografiche. Ingresso libero.

«Ho guardato alla realtà di oggi attraverso la lente di un Mito spezzato e ricomposto da molti frammenti e al tempo stesso ho guardato al Mito come all’incunabolo della nostra realtà: una spola fra un lontanissimo passato e il presente»: così scrive Donatella Bisutti nel prologo che apre questo suo intensissimo poema in 52 Atti, che trae spunto dai Miti dell’antica Tebe e dalla sua storia per farne metafora dei nostri giorni e delle nostre angosce, dall’Europa della finanza e dei muri al dramma dei migranti, dalle nuove forme di schiavitù ai genocidi e alle stragi, dalle guerre per il petrolio alla violenza contro le donne e i bambini, dall’inquinamento alla progressiva desertificazione…

Donatella Bisutti (Milano, 1948) è una delle voci più rappresentative nel panorama della poesia italiana contemporanea, non solo per la sua attività di scrittrice, ma anche per quella di divulgatrice della poesia e di operatrice culturale, giornalista, fondatrice di riviste interdisciplinari, traduttrice e organizzatrice di eventi. Come poetessa ha pubblicato una decina di raccolte tra cui ricordiamo “Inganno ottico” (presentazione di Maurizio Cucchi, Guanda-Società di Poesia, 1985 – premio Montale per l’Inedito), “Colui che viene” (prefazione di Mario Luzi, Interlinea, 2005 – premio Camposampiero e premio Davide Maria Turoldo), “Rosa alchemica” (Crocetti, 2011 – premio Camaiore, premio Lerici Pea, premio Laudomia Bonanni), “Un amore con due braccia” (prefazione di Maria Luisa Spaziani, Lietocolle, 2013 – premio Alda Merini) e il recente “Sciamano. Poesie 1985-2020” (Delta3, 2021). La sua poesia, in volume, riviste e antologie, è tradotta in varie lingue. Ha partecipato a numerosi festival internazionali ed è stata ospite di importanti residenze di scrittura, in particolare della Bogliasco Foundation americana. Nel 2021 è stata invitata a Bruxelles dall’Istituto Italiano di Cultura per la Settimana della Lingua Italiana. Ha avuto numerosi riconoscimenti alla carriera tra cui quello della Fondazione Roma – Ritratti di poesia.
Tra le altre sue pubblicazioni, il romanzo “Voglio avere gli occhi azzurri” (prefazione di Giampaolo Rugarli, Bompiani, 1997) e numerosi e fortunatissimi testi per bambini sulla poesia e il linguaggio usati anche nelle scuole: “L’albero delle parole, Le parole magiche, La poesia è un orecchio” e il recentissimo “Parole per la testa!” (tutti Feltrinelli Kids; mentre le filastrocche Storie che finiscono male sono state pubblicate da Einaudi Ragazzi). Del 2022 è la raccolta di aforismi “Ogni spina ha la sua rosa” (Pendragon). Come divulgatrice di un nuovo metodo di approccio alla poesia, ricordiamo soprattutto il suo saggio “La poesia salva la vita” (Mondadori, 1992 e 1998, poi Feltrinelli 2016).
Ha curato l’edizione postuma di una delle più grandi poetesse italiane del Novecento, Fernanda Romagnoli (“Il tredicesimo invitato e altre poesie”, Scheiwiller, 2003). Di grande rilievo anche la sua attività di traduttrice (Edmond Jabès, Bernard Noël).

“Carlo Botta non solo storico ma anche narratore e poeta”. Saggio di Dario Pasero

Noi siamo abituati a pensare a Carlo Botta, nato a San Giorgio Canavese, in provincia di Torino, nel 1766 e morto a Parigi nel 1837, come ad un uomo politico e ad uno storico, autore della Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1809), della Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (1824) e della Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789 (1832), oltre che di altre opere storiche minori. In realtà egli fu anche scrittore di romanzi e novelle, e poeta, autore di un poema epico in endecasillabi sciolti.

Nel 1796, mentre in attesa di passare in Francia si trova in Svizzera, e precisamente a Knutwiel (nel cantone di Lucerna), dove si è recato per evitare di essere nuovamente arrestato dal re di Sardegna in quanto cospiratore giacobino, scrive un romanzo epistolare, sul modello di La nouvelle Héloïse (1761) di J. J. Rousseau, dedicato al suo amore per Teresa Paroletti. Questo romanzo è rimasto inedito per quasi 200 anni, venendo poi scoperto e pubblicato nel 1986, col titolo di Per questi dilettosi monti (sono in realtà le parole con cui si inizia il manoscritto), da Luca Badini Confalonieri.

Carlo Botta

Cambiata la situazione politica in Piemonte con l’arrivo di Napoleone e la sua prima campagna d’Italia, il Botta rientra in patria e nel febbraio del 1799 la Repubblica Piemontese, dopo aver votato a favore dell’annessione alla Francia e volendo avvalorare questa sua decisione anche con una sorta di referendum, invia in Canavese ed in Valle d’Aosta, per raccogliere voti di adesione, proprio Carlo Botta, che nello stesso mese (il 19) viene anche nominato Segretario per l’Istruzione Pubblica.

Nel mese di marzo il governo provvisorio viene sciolto per lasciar posto ad una singola Amministrazione, ma gli Austro-Russi entrano a Torino il 26 maggio e Botta viene inviato col Robert a Parigi, dove resterà fino a settembre. Subito dopo chiede di rientrare in servizio nell’esercito francese, venendo assegnato come medico militare a Grenoble, dove era già stato nel 1796 e dove resterà fino almeno al mese di giugno del 1800. Il 9 giugno ad Aix sposa Antoinette Viervil e fa poi ritorno in Italia dopo la vittoria napoleonica a Marengo (14 giugno), diventando membro della Consulta piemontese.

A Grenoble Botta vive un’esperienza amorosa di cui ci lascia memoria in una novella[1], della quale il commediografo e suo grande amico Stanislao Marchisio (1774-1859), all’inizio di una serie di “schede” lessicali riportanti passi linguisticamente interessanti della Novella stessa, ci dice «questa novella è tutta sul fare del Boccaccio, vuoi per purità ed eleganza di lingua, vuoi per oscenità incomportabili. La scrisse il Botta a Grenoble, dove si era rifuggito nel 1799 quando i francesi furono scacciati d’Italia dagli austro-russi, nella sua giovine età di trentatre anni. Sotto il nome di Simplicio de’ Simplicj dipinse la propria bonarietà e dabbenaggine». È questa la novella che a quel tempo «rimasta inedita, dovette però circolare manoscritta tra gli amici», come ipotizza Luca Badini Gonfalonieri nella sua introduzione al romanzo bottiano Per questi dilettosi monti di cui abbiamo appena sopra accennato.

Presso la Biblioteca Civica di Torino è conservata, con la segnatura ms. 79, una miscellanea manoscritta contenente vari scritti di Carlo Botta. Si tratta di un volume rilegato, appartenente alla biblioteca torinese almeno dal 1912, data che si legge, scritta a matita, sull’etichetta presente in 2ª di copertina. Tranne i pochi testi di cui nell’indice si legge essere autografi del Botta, gli altri, tra cui due novelle, non sono sicuramente di mano dello storico canavesano.

Il nostro testo (Novella piacevole. Sotto lo pseudonimo Semplicio de’ Semplici da Roverbella[2]) è il testo che reca il numero 1 della raccolta ed è chiaramente, anche se non esplicitamente, autobiografico. Il contenuto della novella è così brevemente riassumibile: si inizia descrivendo la figura del protagonista, medico (proprio come Botta), e narrando il suo arrivo a Grenoble, dove incontra l’altro protagonista (Totolo), pure lui esule in Francia. I due amici conoscono due donne romane con le quali tentano dei primi approcci amorosi, che culminano, durante la notte di Natale, in una serie di vicende erotiche. A questo punto fa la sua comparsa la figura del “muscadeno” (cioè un “moscardino”), vale a dire una sorta di bellimbusto che tenta anch’egli un approccio amoroso con le due ragazze; da tutto ciò sorgono i primi dubbi dei due uomini sulla vera condizione delle donne. Si arriva quindi all’equivoco ed alla catastrofe: Totolo, trovate le donne in compagnia del moscardino francese, rivela la verità a Simplicio. I due amici incontrano un saggio personaggio originario di Bologna, cotal Assennucci che, dopo la scoperta della verità avvenuta spiando le due donne a banchetto con degli ufficiali francesi, riesce a consolare Simplicio distrutto dal dolore e dalla disperazione.

Passano gli anni e il Botta, che si è trasferito a Parigi in seguito alla sua elezione a deputato, pubblica nel 1809 la prima edizione della Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America, iniziando nello stesso anno anche la stesura del poema eroico in 12 canti in endecasillabi sciolti, Camillo o Vejo conquistata, che sarà terminato nel 1814, anche se il primo canto, nella sua prima stesura e col titolo di Camilleide, era già stato letto nel 1813 all’Accademia delle Scienze di Torino. Se ne avrà poi una seconda edizione nel 1833 (presso lo stampatore Giuseppe Pomba di Torino) arricchita di “note dall’Autore” e “con gli argomenti a ciascun canto” opera del vercellese professor Cristoforo Baggiolini e preceduta inoltre da una lettera di dedica all’antico suo compagno di studi e compaesano don Giuseppe Gallo, professore emerito di Retorica e di Filosofia e Prefetto degli Studi a Vercelli, che aveva insistito perché egli stampasse la nuova edizione del poema. Il motivo della scelta dell’argomento, la conquista di Veio da parte dei Romani guidati da Furio Camillo avvenuta nel 396 a. C., è spiegato dall’autore nel suo Avvertimento: egli si è sempre meravigliato del fatto che gli autori epici italiani, a differenza dei greci, dei latini e dei francesi, abbiano sempre scelto come argomento dei loro poemi vicende ed imprese straniere; egli invece ha voluto raccontare una vicenda che ha avuto come protagonisti, seppur come avversari, gli Etruschi ed i Romani, «due popoli dei più famosi non solo dell’Italia medesima, ma ancora di tutto il mondo».

Non stiamo ora a dilungarci sull’opera e sul suo contenuto, ma soffermiamoci solamente un attimo su di un episodio del canto XI, proprio il passo in cui il poeta fa il catalogo e la descrizione delle forze italiche giunte in soccorso degli assediati di Veio. Ai versi 1149-1162 egli descrive quelli che possono essere considerati i suoi (e nostri) antenati, i Taurini, di cui ci dice

E qui Tirreno ad Anfideno volto

così gli parla: “O buon Sannite, dimmi,

chi son costor, che con sì snelle piante

battono il calle e l’erta? Oh qual fidanza

portano in volto, e qual guerriera possa!”

“Questi, rispose, son color, che in riva

a l’alme Dore e ad Eridan superbo

di toro nati anticamente, al toro

alzan gli altari, ed han dal toro il nome.

Guardan d’Italia i passi: ora sforzati

da la romana peste accorron quivi

d’Italia a scampo, e gli vedrai ben tosto

fulminar con le spade e coi sembianti.”

Tacque; ed intanto la Taurina prole

altera trapassava e trionfante.

Poi, nei cinque versi seguenti (1163-1167), il nostro autore, con accenti che ricordano vagamente il Tasso della Canzone al Metauro, aggiunge parole tristi e dolorose per la sua condizione, quella di chi ha dovuto scegliere di vivere lontano dal suo paese

Oh dolce nido, o mia cuna diletta,

fera tempesta da te mi divelse:

or queto è ’l turbo; e pur non so, se fia

(tal mi volge destin) ch’io lasci quivi

questa vita infelice, ov’io me l’ebbi!

DARIO PASERO


[1] In una lettera scritta all’incirca nel medesimo periodo di redazione della Novella il Botta scrive: «[…] Quellapoi, ch’ebbe ad innamorarmi, e da farmi ammalato non è la francese, ma una certa testa venuta da Roma, e che par venuta dall’isola di Scio, con certi occhi, i quali pajono il fuoco,o la luce, o s’altro v’ha al mondo di più bello, di più vivace, e raggiante. Il bello poi si è, ch’essa non mi ama, e parte per Parigi fra pochi giorni. Quando adunque vedrai arrivare costà una testa romana col viso bruno, i capelli-neri, e ricciuti, una testa, dico, che dovrebbe servir di modello al più gran scultore del mondo, dì, è questa che innamorò un uomo, nel quale l’amore non dovrebbe più capire […]» (presso la Biblioteca Civica di Torino, lettera del 17Nevoso anno 8° (7/1/1800), da Grenoble, all’amico Giulio Robert).

[2] Roverbella è una località del mantovano dove sappiamo che il Botta aveva soggiornato nel 1797.


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“Una luce perenne contro l’oscurità”. Il saggio-traduzione di Franca Canapini sul celebre discorso lorchiano sui libri del 1931

La poetessa e scrittrice toscana Franca Canapini ha recentemente pubblicato, per i tipi di Helicon di Arezzo, un importante lavoro letterario tra poesia, traduzione e saggio. Si tratta della rilettura commentata, oltre che della traduzione, del celebre testo del poeta Federico García Lorca (1898-1936) letto nel settembre 1931 all’atto dell’inaugurazione della Biblioteca Pubblica di Fuente Vaqueros, suo luogo natale, nei dintorni di Granada.

L’opera, che ho avuto il piacere e l’onore di poter leggere in anteprima e in progress durante il suo sviluppo e che mi ha dato la possibilità di stilare la prefazione, è uno studio attento e meticoloso, ricco di riflessioni della Nostra sul mondo dei libri, dell’importanza della cultura e della comunicazione a partire dalla alocución del Granadino che, se non è tra i testi maggiormente noti e citati del suo ampio repertorio, merita senz’altro una particolare attenzione.

La Canapini ha individuato nelle varie parti che costituiscono questo brano le parole chiave, i punti cruciali di svolta del pensiero lorchiano e, mediante una fertile attività esegetica e interpretativa, ne ha costruito un libro in cui non solo legge l’autore spagnolo – nel contesto della guerra civile che l’avrebbe visto, indirettamente, coinvolto e una delle più celebri vittime – ma lo rilegge in relazione al contesto odierno, alla società globalizzata nella quale viviamo. La nuova contestualizzazione dell’opera nello scenario odierno è funzionale a far emergere in maniera ancor più decisiva i temi fondanti del discorso lorchiano. Puntuali note a piè di pagina forniscono ulteriori approfondimenti su date, momenti decisivi o persone – tra amici e intellettuali – con le quali Lorca fu in contatto ma anche – in un’ottica più ampia e generale – a tutta la storia della scrittura (che è storia della civiltà) passando attraverso le fasi della trasmissione del libro nelle sue varie forme, all’editoria come scienza e soffermandosi anche sul valore del libro come oggetto prezioso, per contenuti ma anche per fattura e tradizione.

La scomposizione del testo di Lorca in vari capitoli facilita questo lavoro di studio e lettura di Franca Canapini dei tanti elementi degni di essere presi in esame, approfonditi, sviscerati[1]. La successione delle varie parti, con la traduzione in italiano (importante il supporto e la supervisione dell’argentina Cecilia Casau in questo) e il relativo commento, sono di particolare utilità anche per chi non ha padronanza della lingua spagnola e potrà, in tal modo, usufruire di un mezzo molto efficace, preciso, attento a ogni approccio. Non di minore importanza è la scelta dell’apparato fotografico che correda in maniera proporzionata e visivamente adeguata la componente testuale. Tra le immagini uno scatto del 1914 di un giovanissimo Lorca in compagnia dell’amata sorella Isabel (1909-2002) mentre le insegna a leggere ma anche uno scatto del 1976, nel quarantennale dell’uccisione del poeta, per il primo evento-omaggio Cinco a las cinco (che da allora annualmente si tiene in sua memoria) a Fuente Vaqueros. Nella prima fila, del foltissimo pubblico presente all’aperto (6.000 persone, riportano le cronache) di questo spettacolo corale (uno dei primi eventi pubblici in cui fu possibile partecipare ed esprimersi con la riappropriata libertà dopo il buio della dittatura), si distingue l’allora sessantasettenne sorella Isabel al centro e poco lontano, alla sua destra, probabilmente Antonina Rodrigo, l’unica donna della “Commissione dei 33” che organizzò l’evento celebrativo.

Particolarmente rilevanti risultano, tra i tanti, i capitoli 6 e 7 dell’opera che contengono lo studio di quelle parti di testo di Lorca forse più note e da Canapini contraddistinti con i titoli che richiamano le sue stesse parole “Non solo di pane vive l’uomo” e “Libri! Libri! Orizzonti, scale per salire sulla vetta dello spirito e del cuore”.

Lo scritto di Lorca, mediante la circumnavigazione delle vicende dell’oggetto-libro, è una storia condensata della cultura dell’uomo, delle vicende proto-editoriali che hanno contraddistinto l’evoluzione delle tecniche di stampa, nella convinzione che il libro sia un potente fattore di conoscenza, cultura e di socialità, ben al di là della mera erudizione. Ed ecco perché il tono impiegato dallo spagnolo è quello di un oratore lieto e soddisfatto: con la fondazione della Biblioteca non si prende parte a una cerimonia istituzionale ma a una festa collettiva, un momento di felice condivisione tra chi (come lui che tanto lesse e altrettanto scrisse) ama i libri e ne difende l’importanza. Riconosce e consacra la libertà del singolo e delle masse.  La tutela e la promozione del libro, in qualsiasi modo si realizzino, attengono a un fenomeno di spiccata rilevanza poiché garantisce “unica salvezza dei popoli”. Libertà d’espressione e riconoscimento di diritti che di lì a poco sarebbero stati duramente messi al bando dall’oppressione fascista nel duro conflitto civile (1936-1939) e poi del dominio dittatoriale franchista (1936-1975) che, come ogni dittatura, introdusse una dura attività di censura preventiva e organizzò indici di libri proibiti.

Il capitolo che chiude l’opera, il ventottesimo, contiene l’estremo omaggio di Lorca in difesa di quel mondo di libertà e di conoscenza per il quale sempre si impegnò nel corso della sua breve vita e ha la forma anche di un riconoscimento verso coloro che, a vario titolo, hanno difeso nel corso del tempo le medesime libertà. Qui troviamo, in un climax lirico che non può rimanere inavvertito, il senso compiuto dell’intera alocución che è e permane, in fondo, il suo testamento universale:

E un saluto a tutti. Ai vivi e ai morti, giacché vivi e morti compongono un paese. Ai vivi per augurargli felicità e ai morti per ricordarli con affetto perché rappresentano la tradizione del popolo e perché è grazie a loro se siamo tutti qui. Che questa biblioteca doni pace, inquietudine spirituale e allegria a questo paese e non dimenticate questo bellissimo detto che scrisse un critico francese del secolo XIX: Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei”.

Lorenzo Spurio

Matera, 05/04/2025

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L’autrice

Franca Canapini è nata a Chianciano Terme (SI), risiede ad Arezzo dal 1975. Laureata in Materie Letterarie presso l’Università degli Studi di Perugia, è stata docente di Lettere nella Scuola Secondaria di primo grado. Ha pubblicato nove raccolte di poesia: Stagioni sovrapposte e confuse (2010), Tra i solstizi (2011), Il senso del sempre (2013), Viaggio nella poesia (2014), Gente in cammino (2014), La bellezza tragica del mondo (2016), Semi nudi (2021), Haiku per un anno (2022), Misteri d’amore – Poema ispirato al Simposio di Platone (20249. Al suo attivo ha anche un romanzo (Un giorno, la vita, 2017) una raccolta di favole (Favolette per grandi e per piccini, 2017), un romanzo breve (Melina – Una storia surreale, 2019) e un racconto di memorie (Dal fondo – I miei primi dieci anni, 2019). Ha ricevuto premi e riconoscimenti per la sua opera poetica e narrativa. Per la saggistica ha pubblicato: Una luce perenne contro l’oscurità. Alocución al pueblo de Fuente Vaqueros di Federico García Lorca (2025). È stata Consigliere e Vice Presidente dell’Associazione degli Scrittori Aretini “Tagete” dal 2013 al 2023, nonché membro di giuria in alcuni premi letterari.


[1] L’autrice ha dedicato anche un interessante articolo a questo libro di Lorca focalizzando l’attenzione sull’importanza della lettura come “buona pratica”: Franca Canapini, “Dalla Alocución al pueblo di Fuente Vaqueros di Federico Garcia Lorca del 1931 alla necessità odierna di creare una consuetudine con il libro, «La casa del vento», 16/03/2025, Link: https://tinyurl.com/ypz3a8jz (Sito consultato il 05/04/2025).


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“Ricordo di Francesco Scarabicchi”, sabato 5 aprile a Civitanova Marche. Con Raffaeli e Piersanti

Sabato 5 aprile, dalle ore 18,00 presso la Sala Cecchetti della Biblioteca comunale “S. Zavatti” di Civitanova Marche, la Scuola di cultura e scrittura poetica “S. Aleramo” (patrocinata dal Comune di Civitanova e in collaborazione con la Biblioteca Zavatti) vi invita all’incontro “Francesco Scarabicchi nel quadro della poesia contemporanea” con relatore Massimo Raffaeli. L’introduzione sarà curata da Umberto Piersanti.

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Francesco Scarabicchi è nato nel 1951 ad Ancona, dove è scomparso il 22 aprile 2021. Tra i molti lavori in poesia, si ricordano: La porta murata (con introduzione di Franco Scataglini, Residenza 1982); Il viale d’inverno (l’Obliquo 1989); Il prato bianco (l’Obliquo 1997; Einaudi 2017); Il cancello 1980 – 1999 (peQuod 2001); L’esperienza della neve (Donzelli 2003); Il segreto (l’Obliquo 2007); Frammenti dei dodici mesi (con quattordici immagini di Giorgio Cutini, l’Obliquo 2010); L’ora felice (Donzelli 2010); Nevicata (con venticinque acqueforti di Nicola Montanari (Liberilibri 2013); con ogni mio saper e diligentia – Stanze per Lorenzo Lotto (Liberilibri 2013); Non domandarmi nulla (traduzioni da Machado e Garcia Lorca – Marcos y Marcos 2015). Postumo è uscito, per Einaudi, La figlia che non piange.

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Massimo Raffaeli scrive su “Il manifesto”, “La Stampa” e i relativi supplementi letterari, “Alias” e “Tuttolibri”. Collabora a numerose riviste (“Nuovi Argomenti”, “Il Caffè illustrato”) e ai programmi di RadioTre Rai. Ha curato opere di autori italiani contemporanei e ha tradotto a lungo dal francese. Tra i suoi scritti: Novecento italiano (Luca Sossella editore, 2001), Don Chisciotte e le macchine. Scritti su Paolo Volponi (peQuod, 2007), L’amore primordiale. Scritti sui poeti (Gaffi 2016) e Marca francese (Vydia 2019). Il nostro Pasolini. Saggi e note 2006-2023 (Rogas 2024).

L’evento è a ingresso libero e aperto a chiunque e sarà anche in diretta sulla pagina facebook “Scuola di cultura e scrittura poetica”.

Un premio letterario dedicato alla poetessa Anna Elisa De Gregorio. Come partecipare

La famiglia della poetessa Anna Elisa De Gregorio (1942-2020)[1] nelle persone del marito Nello, della figlia Monica e del nipote Sirio, ha inteso indire un premio letterario nazionale, dedicato alla poesia, in suo nome.

Autrice di varie opere poetiche, tanto in lingua che in dialetto, la poetessa ottenne considerevoli e pregnanti giudizi critici tra cui quello del professore (e a sua volta poeta) Alessandro Fo che, nella prefazione dell’opera omnia della Nostra uscita postuma per Affinità Elettive di Ancona nel 2022 sotto il titolo Poesie, ebbe modo di osservare: «Con Anna Elisa ha preso da noi congedo una poetessa di grande finezza, persona delicata, dolce, autenticamente e profondamente umana. Resta la sua poesia, semplice, diretta disarmante nella sua dolente vicinanza ai nodi più intimi di ogni singola vita, con escursioni dall’umorismo brillante alla più calda pietas per le creature ferite».

Sarà possibile partecipare con una sola opera (indifferentemente se edita o inedita) a tema libero, scritta in lingua italiana che non dovrà superare i 40 versi.

Le opere andranno inviate in formato digitale in forma anonima con la richiesta di indicare nel corpo dell’e-mail i titoli e i dati anagrafici dell’autore: nome, cognome, codice fiscale, data e luogo di nascita, indirizzo di residenza, recapiti telefonici e indirizzo e-mail.

Le opere, unitamente ai necessari dati personali e alla ricevuta del versamento del contributo di partecipazione di 20€ (Bonifico bancario – IBAN: IT76 S 01030 02600 000001442288; INTESTAZIONE: Nello Bolognini; CAUSALE: nome e cognome e titolo della poesia) andranno inviate unicamente a mezzo e-mail entro le 24:00 del 31 luglio 2025 alla mail premioannaelisadegregorio@gmail.com

Le opere pervenute verranno passate al vaglio e all’attenta valutazione in due diverse fasi: una prima giuria tecnica effettuerà, infatti, una selezione delle opere per quanto attiene alla forma e ai contenuti e, in seconda battuta, una seconda giuria nominata all’uopo dagli organizzatori procederà alla selezione per la costituzione della classifica finale dove si distingueranno tre opere.

La giuria di merito è composta da Alessandro Fo (docente universitario, poeta) che la presiede e da Lucilla Niccolini (giornalista, vincitrice nel 2015, del premio di poesia Arcipelago Itaca nella sezione inediti) e Luigi Socci (poeta, direttore artistico del Festival internazionale “La Punta della Lingua” e dell’omonima collana per l’editore Italic Pequod).

Nel caso dovessero presentarsi posizioni “ex aequo” sarà insindacabile giudizio del Presidente di Giuria decidere in tal senso.

Consistente il premio messo in palio ovvero una somma monetaria di 1.000€ unitamente alla targa che pure verrà conferita al 2° e al 3° premiato. I termini del bando specificano che ogni classificato che risiede in un comune che dista più di duecento chilometri dal luogo di premiazione (il capoluogo dorico) si vedrà riconosciuto il pernottamento, la prima colazione e la cena per il giorno della premiazione. Tutti i classificati saranno avvertiti dalla segreteria e sono tenuti a ritirare i premi o, in caso d’impossibilità, a delegare una persona di fiducia.

La cerimonia di premiazione è sin d’ora fissata alle ore 17:00 di sabato 25 ottobre 2025 in Ancona, presso The Mole, Caffè letterario sito all’interno della Mole Vanvitelliana (Banchina Giovanni da Chio n°28).

INFO:

Contattare il sig. Nello Bolognini

Tel. 340 629180 (dalle 10:30 alle 20:30)

Mail. premioannaelisadegregorio@gmail.com  


[1] Un approfondimento sul nutrito curriculum letterario di Anna Elisa De Gregorio può essere reperito sull’Enciclopedia libera Wikipedia e su altri spazi dedicati alla poesia. Nel blog è presente una mia nota dal titolo “Ricordo di Anna Elisa De Gregorio” pubblicato l’indomani della dipartita della poetessa in data 25/09/2020, testo raggiungibile a questo link: https://blogletteratura.com/2020/09/25/ricordo-di-anna-elisa-de-gregorio/

“Arte e artificio (nel cinema come in tutte le arti)”. Articolo di Rodolfo Vettorello

La notizia che il regista danese Lars Von Trier ha ricevuto di recente la Palma d’Oro al Festival del Cinema di Cannes, suggerisce delle considerazioni sull’arte cinematografica che, se non sono nei miei interessi primari, mi invitano comunque a dei chiarimenti, anche solo per mia cultura personale, rispetto alle arti in generale.

In un passato non troppo remoto, Von Trier ha osservato, con la sua acutezza di artista, che il Cinema è l’arte più artificiosa che esista e questo per ragioni evidenti a chiunque.

I sentimenti e le emozioni che passano attraverso una sequenza di pochi minuti, sono costruiti con pazienza, in tempi spesso lunghissimi, con sedute successive realizzate da specialisti. Queste osservazioni hanno portato Von Trier a produrre il manifesto “Dogma95” che poi lo ha indotto a realizzare il film Idioti, senza luci artificiali, con nessun effetto speciale, con telecamere quasi amatoriali tenute tra le mani.

Il regista danese Lars Von Trier

Ora è evidente che il Cinema è un’arte artificiosa e artificiale, portata alle estreme conseguenze. Per coerenza bisogna però riconoscere che ogni arte ha la sua dose di artificio. Il concetto è così indiscutibile che le parole “arte” e “artificio” sono esse stesse testimonianza di una vicinanza, di una contiguità più che logica. Tutta l’arte ha i suoi artifici. Se la scrittura poetica ha la sua artificiosità nell’uso della parola e se la parola è differente nelle diverse lingue, è chiara l’artificiosità a volte imperdonabile della traduzione da una lingua ad un’altra. E questo al punto che è stato detto che “tradurre” è un po’ “tradire”.

Della musica si è sempre sostenuto che è l’arte più alta per non avere mai bisogno di traduzioni e questa è verità sacrosanta. Se esiste un quid di artificiosità anche nella musica, è solo nel fatto che i suoni sono sempre prodotti da strumenti differenti e ogni strumento ha una sua voce e un suo colore particolare. Qui la parola è da lasciare agli esperti.

Qualcuno ha osservato che in diversi suoi film il regista Von Trier si è rivelato decadente ed essenzialmente simbolista e questo concetto merita una digressione. Se tutta l’arte e anche la scrittura, specie poetica, ha le sue artificiosità, si deve constatare che questa arte che è in fondo una clamorosa sfida alla Natura, rappresenta il tentativo umano disperato di sfuggire al ciclo naturale di vita e morte. Lo sapevano bene i simbolisti e prima degli altri Charles Baudelaire che aveva spiegato come l’uomo sia stato da sempre intrappolato tra due poli. Da una parte lo spleen, cioè la malinconia, la tristezza o meglio il sentimento profondo dell’insufficienza esistenziale e il polo dell’ideal, cioè l’Eden, il Paradiso e a volte i paradisi artificiali. La vita per i simbolisti tutti è un ondeggiare tra due opposti estremi. Il Regista Lars Von Trier si propone, in certo modo, come il simbolista della più artificiosa tra le arti, cioè in Cinema.

Se mi sento obbligato a riconoscere l’artificiosità di tutte le arti e a considerare che anche la Poesia ha le sue evidenti artificiosità, mi sento obbligato anche a un ripensamento del tutto personale rispetto al Cinema. Nella mia gioventù ho amato molto il cinema e questo, accontentandomi dei messaggi che gli artifici del cinema stesso potevano somministrarmi. Se con il tempo, ho perso interesse per una forma d’arte sempre più artificiosa e artificiale, alla luce della considerazione che “arte” è sempre “artificio”, mi propongo di ripensare al Cinema nei modi suggeriti da Lars Von Trier.

RODOLFO VETTORELLO


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“Le Istantanee di un Atmonauta” di Domenico Guida. Recensione di Fiorella Cappelli

Con la silloge Le Istantanee di un Atmonauta (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2024) l’autore, Domenico Guida, si presenta al lettore prendendolo teoricamente per mano conducendolo, mediante un percorso tematico, alla scoperta di un ideale viaggio sensoriale tra parole, profumi, musica e immagini elaborate, su un pentagramma di diversi versi sciolti e liberi, mostrandosi abile nell’arte della “Retorica” con un linguaggio evocativo-figurativo, servendosi di molteplici figure: di suono, di significato, di costruzione atte a creare svariati effetti per il tramite di versi modulati in un concetto d’insieme: l’io  e te, il “Noi”.

Il poeta, musicista, scrittore e cantautore, definisce la sua opera composta, con la frase, nel sottotitolo di copertina, riportata a caratteri leggeri, chiari, in corsivo Raccolta di pause e poesie aprendo la sua anima anche al dialogo con se stesso, nella profondità del suo “io”, nello spazio-tempo del “qui e ora”, atto a fermare il momento, l’istante fatto di respiro e tempo: un’istantanea che lascia traccia, impronta, forma nella voragine più profonda del suo essere, con il suo linguaggio dell’amabilità che, nell’espressione multiforme, avvalendosi dei quattro elementi e i cinque sensi fusi tra loro, si fa viatico di vibrazioni di quell’istante cristallizzato ed ecco allora che il suo mezzo espressivo apre a un linguaggio  universale e “la verità del poeta” traspare nel dare colore ai toni di grigio.

Con Le Istantanee di un Atmonauta Guida si offre al lettore con la sua silloge svelandoci il suo “Alter-ego”: Atmo, un personaggio di sua creazione (materializzatosi in una graphic novel e facente parte, insieme al libro e al concept-album, del suo ultimo progetto “Retorika”). Atmo, capace di “lasciarsi andare e fluttuare veloce ed alto, decide di navigare l’aria ed il tempo… fuggevole” (scrive il poeta), ma anche per intraprendere un volo “dagli occhi al cuore” occorre avere un punto di partenza e questo il Guida lo sa bene perché inizia il suo viaggio dai riferimenti certi con la lirica “A mio Padre”, una dedica al suo “eroe/impavido, guerriero/; ed ecco, il prosieguo, /tu ed io in successione come un verso/…Un cuore grande come il tuo/… trabocca da ogni dove…”.

Nell’emozione che il lettore raccoglie, ogni parola, ogni riferimento creano colore, evocano immagini, Lidia Tavani, che ne ha curata l’introduzione, tra gli svariati temi affrontati da Guida nel suo tomo, sceglie quello dell’istante e dell’istinto senza pero tralasciare l’intensità del sentimento ed “il ritmo dei fonemi” che accompagna tutta l’opera.

FIORELLA CAPPELLI


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