“Il generale nel suo labirinto” di Gabriel Garcia Marquez, recensione di Anna Maria Balzano

Il generale nel suo labirinto
di Gabriel Garcia Marquez
 
Recensione di ANNA MARIA BALZANO

 

il-generale-nel-suo-labirintoIl generale nel suo labirinto non è forse tra le opere più note di Gabriel Garcia Marquez, ma non per questo deve essere considerata un’opera minore.

Qui certamente il “realismo magico” che caratterizza i grandi romanzi di questo autore è condizionato dal genere biografico, che lascia meno spazio alla narrazione fantastica e immaginifica. Ciononostante, Marquez, in un esperimento geniale, non si dilunga in una cronaca noiosa dei fatti storici e politici che caratterizzarono la vita di Simon Bolivar -che allega peraltro in appendice a chiarimento del lettore e a sostegno degli eventi da lui narrati – ma descrive piuttosto le ansie, i sentimenti, le delusioni e le disperate speranze di un uomo giunto al declino del suo successo e al tramonto della sua vita. Questa scelta ha permesso a Marquez di dare spazio alla sua creatività, regalandoci pagine di grande intensità descrittiva capaci di generare le grandi emozioni a cui sono abituati i suoi lettori.

La prima parte del romanzo risente, a mio avviso, della cultura e della tradizione spagnola, in particolare dell’influenza del romanzo picaresco, da Lazarillo de Tormes al Don Chisciotte di Cervantes, dove una satira sottile e dissacrante ci presenta un Bolivar ormai ammalato e fiaccato nello spirito e nel fisico, non più a cavallo del suo storico Palomo Bianco ma di una “mula  spelacchiata dalle gualdrappe di stuoie”, seguito sempre dal suo fedele Josè Palacios, una sorta di Sancho Panza. E le esperienze a cui va incontro ne diminuiscono gradatamente il prestigio e l’autorità.

Certamente, però, non era intenzione di Marquez creare un personaggio comico o grottesco, perché il suo atteggiamento nei confronti del “suo” protagonista cambia nel corso della narrazione. L’autore distingue nello stesso Bolivar l’uomo eccessivamente ambizioso che aveva perseguito il sogno di unità dei popoli latinoamericani e aveva paragonato se stesso a Napoleone, vede in lui annidato il pericolo della  dittatura, causa di sventure nella storia delle nazioni e in questa prospettiva si serve di una satira sottile e intelligente. Laddove Bolivar è invece descritto come il Libertador, che ha liberato i popoli dalla dominazione spagnola, il rispetto per l’uomo e per il personaggio si fa indiscutibile. Bolivar, dunque, eroe dimezzato.  La passione descrittiva di Marquez aumenta via via che si dilunga sulle debolezze fisiche dell’uomo, ridotto ormai ad un mucchio di ossa, rimpicciolito nella statura, avvilito dal degrado del suo corpo, consapevole “del fetore e del calore del suo fiato”, ben lungi dal soldato in uniforme che aveva sedotto centinaia di donne: un  degrado ancora più mortificante in chi spende una vita basandola su principi di integrità, forza fisica e coraggio.

Abbandonato e tradito da molti che gli erano stati accanto, la sofferenza di Bolivar è alleviata però dalla fedeltà estrema di Josè Palacios, la cui descrizione acquista sempre maggiore dignità nel corso della narrazione e dalla devozione assoluta di Manuela  che, pure distante, lo amerà oltre la morte.

La consapevolezza di Bolivar di essere giunto alla fine dei suoi giorni, lo porrà di fronte all’ignoto con il dubbio angoscioso “Come farò a uscire da questo labirinto?” , il labirinto della vita di ciascun essere umano.

Con la solita maestria nell’uso dello spazio e del tempo, che non conoscono alcuna unità, Marquez affida la descrizione ad una prosa carica di suggestioni, capace di evocare suoni, odori, profumi. Amplifica i personaggi, a volte fino allo spasimo, quasi come fa Botero con i suoi dipinti e le sue sculture, come se fosse proprio di questi magnifici artisti colombiani esprimersi attraverso l’iperbole. 

ANNA MARIA BALZANO

 

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“Ian McEwan: sesso e perversione” di Lorenzo Spurio, recensione di Anna Maria Balzano

Ian McEwan: sesso e perversione

di Lorenzo Spurio

Photocity Edizioni, 2013

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cover“Ian McEwan: sesso e perversione” è l’ultimo interessantissimo saggio di Lorenzo Spurio sul grande scrittore inglese. Si tratta di un lavoro molto ben articolato che analizza con minuziosi dettagli un tema, quello del sesso, in tutte le sue sfaccettature, positive e negative, importantissimo nell’opera dell’artista britannico, rivelando una conoscenza profonda sia dei testi a cui fa riferimento sia degli studi critici  e delle recensioni pubblicate sulle opere dell’autore.

È l’uomo al centro di questa analisi, l’uomo nella sua volontà di prevaricazione, che manifesta nelle sue attitudini sessuali il bisogno di affermazione e conoscenza di sé.

Capitoli su argomenti ancora spesso considerati scabrosi in letteratura, come l’incesto, il sadomasochismo, lo stalking, offrono al lettore un’interpretazione accurata delle opere dell’autore, interpretazione che a una lettura superficiale può sfuggire.

Sono soprattutto i personaggi di “The Cement Garden”, “The Confort of Strangers”, “Enduring Love”, “Sweet Tooth”, al centro dell’attenzione di Spurio, che fa riferimento anche alle teorie freudiane per quegli aspetti che riguardano una parvenza di regressione all’infanzia o addirittura di complesso di Edipo.

Molto interessante appare il riferimento allo studio di Jack Slay, che nella sua opera su McEwan, a proposito dell’incesto, sostiene che esso risponde a “un bisogno di condivisione, un bisogno di amare”, spogliando così questo atto della sua componente di perversione.

È vero, come rileva più volte Spurio, che ciò che può sembrare ambiguo e sgradevole nell’opera dello scrittore inglese, non contiene mai una volontà di colpire il lettore per la sua volgarità, anzi, il discorso di McEwan è sempre metaforicamente rivolto alla funzione dell’arte nella società contemporanea.    

Molto suggestiva l’interpretazione del titolo del romanzo “Enduring Love”, che sostiene meravigliosamente tutta la tesi di Spurio. Il verbo to endure assume qui un duplice significato: da una parte fa riferimento a un amore durevole, cioè duraturo nel tempo, dall’altro a un amore inteso come sopportazione e peso. Ed è questa ambiguità che offre al lettore più chiavi di lettura e una grande libertà di interpretazione.

Ciò che risulta poi estremamente illuminante nell’intero saggio di Spurio è la sua conclusione, che vuole mettere l’accento sulla persistente tendenza perbenista di un certo pubblico di lettori ancora oggi pronti a condannare descrizioni di abitudini sessuali che si discostino dai canoni della morale comune, chiudendo gli occhi su realtà diverse ma pur sempre presenti. Non meno interessante è la denuncia del limite palese di quei critici che associano a un contenuto scabroso una figura d’autore a dir poco disturbata: a questo proposito si ricorda come sia stata messa al bando subito dopo la sua pubblicazione un’opera come “Lady Chatterley’s lover” di Lawrence o quanto scalpore abbia suscitato “Lolita” di Nabokov.

Nelle sue ultime considerazioni Spurio ci offre molti spunti di riflessione che non a caso possono essere giustamente riferiti anche alla sua bella recente raccolta di racconti “La cucina arancione”, che appunto indagano nella natura dell’uomo, mettendone in luce quei lati bui e nascosti che la morale borghese tuttora censura.

 

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“L’urlo e il furore” di William Faulkner, recensione di Anna Maria Balzano

L’urlo e il furore
di William Faulkner
Einaudi, 2005
ISBN: 9788806179557
 
Recensione di Anna Maria Balzano

 

Spegniti, spegniti, breve candela!
La vita non è che un’ombra che cammina; un povero attore
che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena,
e del quale poi non si ode più nulla; è una storia
raccontata da un idiota, piena di rumore e furore,
che non significa nulla.

 

untitledQueste le parole di Macbeth (Shakespeare – atto V, scena V, vv 23-28), a cui Faulkner ha attinto per il titolo del suo capolavoro, che sottolineano l’insensatezza e l’inutilità della vita, una storia raccontata da un idiota, piena di “sound and fury”.

E inizia proprio con il monologo del personaggio dell’idiota, Benjy, la prima parte del racconto intitolata “Sette Aprile 1928” alla quale seguono “Due Giugno 1910”, “Sei Aprile 1928” e infine “Otto Aprile 1928”: quattro giorni descritti e dedicati ai quattro personaggi più importanti del romanzo, senza tuttavia un logico ordine cronologico. Già dai titoli delle singole parti, dunque, si deduce come la narrazione sia improntata sugli schemi della “durée bergsoniana” già sperimentati con tecnica innovativa da James Joyce. La successione temporale degli eventi, disordinata e spesso di difficile comprensione, rappresenta il disordine mentale e morale che regna tra i componenti della famiglia Compson, la cui storia ci viene descritta con impietoso realismo.

La prima giornata, il sette aprile, introduce tutti gli altri personaggi attraverso la figura del ritardato mentale Benjy, che insieme con Quentin, Caddy e Jason costituisce la prole disgraziata e in un certo senso “maledetta” della famiglia Compson. La stessa madre, Caroline appare come una donna debole che si cela volentieri dietro malanni più o meno pretestuosi, al fine di allontanare le responsabilità e gli affanni. Il padre, alcolizzato, morirà prematuramente.

La menomazione mentale di Benjy fa sì che egli, con la sua lagnosa presenza, pur essendo apparentemente lontano dal comprendere gli eventi che travolgono la famiglia, abbia la stessa funzione del clown shakespeariano unico vero e sensibile  interprete della realtà.

La sezione intitolata “Due Giugno 1910” è dedicata al monologo di Quentin: questa è senz’altro la parte più difficile del romanzo, per il complesso flusso di coscienza grammaticalmente sconnesso.

Il balzo indietro nel tempo ci introduce nel dramma vissuto dai fratelli Quentin e Caddy che si macchiano di incesto. Questo peccato, mai superato, condizionerà la vita di Caddy e porterà Quentin al suicidio. Nel racconto di Quentin è continuamente presente il tema del tempo, attraverso il simbolo dell’orologio e del suo ticchettio. Il simbolismo, così importante nella tradizione letteraria americana, da Hawthorne (The scarlet letter) a Melville (Moby Dick), è presente nell’opera di Faulkner, ed emerge in tutti i suoi romanzi. “…il babbo diceva che il tempo è morto, finchè viene rosicchiato dal ticchettio delle rotelle; solo quando si ferma, il tempo torna in vita.” La vita, dunque, è legata al tempo-non tempo, all’immobilità del presente.

In questo capitolo la morte di Quentin viene ripetutamente annunciata dal suo desiderio di calpestare la sua ombra ch’egli vede riflessa nell’acqua e di spingerla in fondo, sempre più in fondo.

Caddy, la sorella amata, viene continuamente rievocata, ma  tornerà molto più prepotentemente nel capitolo successivo, in cui è il fratello Jason a raccontare la giornata del sei aprile 1928. Questo è il fratello a cui si appoggia la madre Caroline, rimasta sola con lui dopo la morte del figlio e la partenza della figlia, sposata e poi separata. Il carattere meschino e egoista di Jason si rivela in tutta la sua tragica dimensione nel rapporto con la giovane Quentin, figlia di Caddy, così chiamata in ricordo del fratello. Jason si macchia di ogni sorta d’azione bassa e disonesta, per sfogare il suo odio nei confronti della sorella e della nipote a cui attribuisce la causa della sua mancata realizzazione nella vita.

L’ultimo capitolo, datato “Otto Aprile 1928, è dedicato all’unico personaggio dotato di sensibilità e capace d’un sentimento d’amore cosciente,  Dilsey, la serva “negra” spesso trattata con disprezzo  dai componenti della famiglia, che tradiscono, in questo modo, i persistenti atteggiamenti schiavistici di certa gente del sud degli Stati Uniti di quell’epoca. La debolezza di Dilsey, appartenente a una minoranza, è la sua forza ed è proprio la forza che le permette di prendersi cura lei stessa, donna di colore, di minoranze bianche, come Benjy, la cui mente vaga fuori del mondo, o di Caddy, emarginata dal suo stesso peccato e dalla vita dissoluta che ha scelto di condurre. Una famiglia tragica e maledetta quella dei Compson, che rappresenta la decadenza della ricca borghesia dell’inizio novecento, una borghesia che necessita di rinnovamento e di nuova linfa. Quasi un drammatico messaggio, quello di Faulkner: se la società non sarà in grado di trovare in sé la forza e la capacità di rinnovarsi e non saprà superare i pregiudizi che le impediscono di assimilare nuove energie provenienti dall’esterno, difficilmente avrà possibilità di salvezza.

ANNA MARIA BALZANO

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“Herzog” di Saul Bellow, recensione di Anna Maria Balzano

Herzog di Saul Bellow

Recensione di ANNA MARIA BALZANO

 

imagesCA7ZGSPEHo riletto Herzog dopo molti anni, spinta dal desiderio di capire perché ricordassi ben poco di questo romanzo, opera di un grande scrittore americano, Saul Bellow, Premio Nobel per la Letteratura. I primi capitoli mi hanno indotto a credere di aver rimosso sia la trama che il significato del libro, a causa della lentezza narrativa e di quella che mi era sembrato un eccessivo sfoggio di erudizione, con le frequenti citazioni di artisti famosi, letterati, filosofi, storici. Procedendo nella lettura, ho dovuto ammettere, con un doveroso atto di umiltà, di non aver affatto colto, anni addietro, diciamo pure capito, il vero significato di quest’opera, grandiosa, non solo nella sua qualità espressiva e nell’impianto narrativo, ma soprattutto per il messaggio drammatico, ma non distruttivo che ci consegna. Un atto di umiltà, dunque, doveroso per chi persegue la più impeccabile onestà intellettuale.

Definirei Herzog un romanzo d’analisi, un antiromanzo, se vogliamo attenerci al vero significato del termine romanzo, facendo riferimento alla sua etimologia e al rapporto con il romance. Chi si aspetta un romanzo che descriva una storia ricca di avvenimenti e di azione rimarrà deluso. Qui siamo di fronte a un’analisi approfondita del pensiero, dei sentimenti, delle schizofrenie e delle idiosincrasie di un personaggio/intellettuale, che non trova più alcuna collocazione in un mondo eccessivamente meccanicistico e materialista: quello che in qualche modo ha rappresentato Woody Allen nei suoi migliori film.

La prima questione che ci si pone é se considerare Herzog eroe o vittima del dramma che sta vivendo. Il fallimento della sua vita sentimentale, due divorzi, numerose relazioni occasionali, fanno di lui il modello dello psicotico depresso; saranno i suoi insuccessi, il suo annientamento come uomo/amante la molla che lo indurrà ad iniziare il suo viaggio spirituale che dovrà condurlo alla sua Terra Promessa. E certamente la scelta del nome Moses non è casuale. Né il personaggio Moses disdegna di essere considerato addirittura pazzo: d’altronde nella tradizione letteraria anglosassone spesso la follia viene considerata il mezzo attraverso il quale si può giungere alla conoscenza del vero. Non si dimentichi il Lear di Shakespeare, uno per tutti.  

Sarà proprio nella casa di Ludeyville, che aveva acquistato per Madeleine, per farne il loro nido d’amore e che si era in breve trasformata in un inferno, dove ritornerà alla fine delle sue peregrinazioni più spirituali e intellettuali che fisiche: quello stesso luogo che lo aveva visto infelice, quando era  ben curato, ora, invaso dalle erbacce e nido di insetti e animali selvatici, nonché luogo di ritrovo di coppie occasionali introdottesi per consumare approcci sbrigativi, diventa l’ambiente ideale in cui può ritrovare la sua serenità a contatto della natura più spontanea e incolta, realizzando il sogno del beau sauvage  che alberga in ogni artista/intellettuale. Qui dopo aver ricostruito come una sorta di puzzle la sua vita, dall’infanzia, senza tralasciare, anzi insistendo sulle sue origini ebraiche, abbandonato dagli affetti più cari, senza amore e senza amicizia, ricomincerà a vivere con l’aiuto di Ramona, l’unica donna che forse avrebbe potuto accettarlo per quello che era. Diversa Ramona da Madeleine, che nella sua superficialità, era stata attratta dal suo spessore di uomo di cultura, solo per soddisfare un’esigenza snobistica.

Vivendo e sopravvivendo alla sua profonda sofferenza, Moses Herzog affida questa difficile operazione di riscatto alle numerose lettere che scrive a personaggi illustri, viventi o deceduti, senza mai spedirle, in cui analizza sentimenti, teorie, avvenimenti storici. Sarà lui stesso a confessare di andare alla ricerca della realtà attraverso il linguaggio.

In conclusione non si può certo affermare che questo grande romanzo di Bellow sia di facile o amena lettura, ma certamente è un’opera illuminante sulla sfera intellettuale e sentimentale dell’individuo, che troppo spesso giace sopita nel caos involgarito della vita moderna.

 

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“Inseparabili” di Alessandro Piperno, recensione di Anna Maria Balzano

Inseparabili

di Alessandro Piperno (premio Strega 2012)

recensione di ANNA MARIA BALZANO

 

9788804608806Inseparabili” è  la seconda parte de“Il fuoco amico dei ricordi” che Piperno aveva iniziato con “Persecuzione”.

Anche in questo caso, la lettura del romanzo rivelerà quanto siano interessanti e appropriate le citazioni poste all’inizio del libro: la prima tratta da Baudelaire mette l’accento sul male di vivere dell’uomo moderno, inquieto al punto da essere  alla continua ricerca di un cambiamento che gli dia sollievo, la seconda, una frase di Andre Agassi,  esprime il concetto di come possa essere più dolorosa una sconfitta di quanto possa essere piacevole una vittoria. 

“Inseparabili” sviluppa e approfondisce alcuni temi che erano già stati affrontati in “Persecuzione”.

Se nel primo romanzo avevamo visto la netta contrapposizione tra il personaggio di Leo e quello di Rachel, come i due stereotipi di ebreo, uno sottomesso e rassegnato, l’altra aggressiva e risoluta, qui la contrapposizione è tutta tra i due fratelli, cresciuti nell’illusoria convinzione di essere inseparabili, proprio come i pappagallini che non possono sopravvivere l’uno senza l’altro. Ed è proprio l’essere cresciuti con l’angoscioso ricordo del padre che finì i suoi giorni chiuso nel seminterrato della casa, senza che nessuno della famiglia avesse fatto un passo significativo per dargli conforto, che accentua ed esaspera quelli che erano stati accennati come i limiti caratteriali dei due fratelli. Essi appaiono come due poli opposti, che si respingono e si attraggono: se Filippo, con la sua dislessia, trova grandi difficoltà nello studio, Samuel apprende con rapidità e profitto; se Filippo sviluppa un fisico robusto e un’attività sessuale intensa e soddisfacente, Samuel è più delicato e la sua insicurezza è la causa dei suoi complicati e anomali rapporti sessuali. Il successo di Filippo arriva solo quando ha la possibilità di dare sfogo al suo estro creativo, mentre il fallimento di Samuel deriva proprio dall’unica volta in cui ha preso decisioni autonome. I due fratelli sono come due entità antitetiche, Caino e Abele, come lo stesso Samuel accenna nel drammatico scontro finale chiarificatore con il fratello. E quello che è più terribile è che di tutto il dramma interiore che distrugge il rapporto tra i due fratelli è testimone e responsabile la madre, che ha sempre represso quei rari momenti di compassione e pietà da cui pure era stata talvolta toccata. L’appartenenza al mondo ebraico è nei romanzi di Piperno di assoluta importanza: lo scontro tra i fratelli, non a caso, si basa anche sull’indignazione sorta in Samuel, nel sentire Filippo accennare, nel suo discorso alla Bocconi, alla strage dei bambini compiuta dalla Royal Air Force a Dresda, senza un minimo accenno alle morti di  Auschwitz.

Qui il discorso si fa molto complesso: certamente quello della funzione della memoria è un argomento assai caro a Piperno: nel bellissimo saggio su Proust intitolato “Contro la memoria”, si dilunga su questo punto. Anche in questo romanzo accenna  all’oblio come mezzo per raggiungere la serenità e alla memoria come causa di sofferenza.

Certamente la visione del mondo di Piperno , così come ci giunge attraverso i suoi romanzi, è assai inquietante, nel suo realismo spietato: qui l’opposizione tra l’uomo e il mondo, l’uomo e la società è conflittuale al punto che anche i sentimenti più naturali e spontanei di cui l’individuo ha bisogno per vivere, come l’amore e l’amicizia vengono annullati nella cinica  rete di rapporti in cui si trova imprigionato. 

ANNA MARIA BALZANO

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“La paga del soldato” di William Faulkner, recensione di Anna Maria Balzano

La paga del soldato

di William Faulkner (premio Nobel 1950)

Recensione di ANNA MARIA BALZANO

images“La paga del soldato” e  “L’urlo e il furore” sono indiscutibilmente i capolavori di William Faulkner.

Il primo dei due romanzi fu pubblicato nel 1926 e il suo titolo va al di là del suo significato letterale.

La storia si svolge nell’immediato primo dopoguerra e inizia con il ritorno a casa di alcuni reduci sopravvissuti ai tragici e devastanti combattimenti in territorio europeo. Tra questi è il giovane Donald Mahon, orribilmente sfigurato in volto e privo di quasi tutte le facoltà intellettive: intorno a lui si snoderà tutta la vicenda e lui stesso, silente protagonista, diventerà il simbolo dell’ ottusità e della nefandezza della guerra e al tempo stesso il mezzo di cui l’autore si servirà per mettere in luce la difficoltà, a volte l’impossibilità di questi reduci di riadattarsi alla vita civile. Lo stesso tema, sia pure diversamente e in epoche più recenti, sarà affrontato nei film di Michael Cimino “Il cacciatore” del 79 e soprattutto in “Nato il 4 luglio” di Oliver Stone dell’89.

Risulta evidente, dalla lettura di questo romanzo, come fosse stata pressante nel periodo immediatamente precedente alla partecipazione degli Stati Uniti alla prima guerra mondiale la campagna di propaganda interventista, allo scopo di motivare i giovani, affinché sentissero di partire in difesa di grandi ideali e in cerca di gloria.

Il dramma che vede al centro Donald, non è in definitiva più il suo dramma personale, perché egli è ormai già distaccato dalla vita, ma è il dramma che colpisce i personaggi intorno a lui.

Il padre, rettore presbiteriano, vive nell’illusione di restituire al figlio un minimo di dignità umana ed è convinto che la fidanzata, Cecily, accetterà di sposarlo, nonostante la sua grave infermità. Ed è proprio Cecily il personaggio che Faulkner descrive con maggiore cura, attento a sottolinearne la bellezza e la sensualità, insieme con la superficialità e la frivolezza , indici di profondo egoismo. E’ questo lo stereotipo della giovane donna del sud, bella e viziata, in cerca di una conveniente sistemazione, ma restia a rinunciare all’amore e al sesso: essa mette in gioco tutte le sue armi di seduzione, rasentando a volte il cinismo e la crudeltà nel suo rapporto con gli uomini. Una Rossella O’Hara un po’ più moderna, ma pur sempre di Atlanta, città in cui  la vita sembrerebbe, da questo punto di vista, cambiata veramente poco.

Cecily non è però l’unico personaggio femminile di spicco in questo romanzo. Grande rilievo hanno Margaret Powers e Emmy. La prima appare come l’elemento rassicurante e positivo, la donna che per generosità è capace di offrire se stessa, ma anche di negare a se stessa l’amore desiderato. Emmy, piccola, rozza e quasi a tratti un po’ animalesca nasconde dietro quella totale assenza di femminilità un carica emotiva e sensuale di grande spessore. E’ lei l’unica che ama sinceramente e incondizionatamente Donald.

I personaggi maschili sono altrettanto ben delineati nelle loro caratteristiche negative e positive: da Gilligan, solidale compagno di Donald, a Jones, satiro maniaco che corre dietro a tutte le donne con cui ha a che fare, a George Farr, perdutamente innamorato di Cecily, al punto da sposarla e condurre con lei una vita sicuramente infelice.

Ciò che si nota, leggendo questo testo, oggi è quanto sia cambiata non solo la concezione della donna e del suo ruolo nella società, ma anche come il rapporto stesso uomo-donna si sia fortunatamente sensibilmente evoluto, pur conservando ancora limiti indiscutibili. Persino le arti della seduzione, che ai primi del novecento erano sì affidate alla donna, ma in modo subalterno all’uomo, trovano oggi diversi mezzi espressivi.

Non si possono non sottolineare, in ultima analisi,  le numerose citazioni colte che si trovano nel romanzo, da Shakespeare, a Wordsworth a Coleridge. Questo per rilevare una volta di più come anche nella letteratura americana il legame con la cultura europea sia evidente e fondamentale.

ANNA MARIA BALZANO

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Anna Maria Balzano su “Chesil Beach” di Ian McEwan

Chesil Beach 

di  Ian McEwan

Einaudi, Torino, 2007

Recensione di ANNA MARIA BALZANO

9788806197681Una prosa limpida, bellissima. Non sempre leggendo opere di grandi scrittori stranieri consideriamo con il giusto e dovuto rispetto in che misura il traduttore  contribuisca al loro successo nel mondo. La traduzione di Chesil Beach di Susanna Basso nell’edizione Einaudi è davvero eccellente. Conoscere a fondo una lingua non vuole sempre dire sapere interpretare e rendere il pensiero d’un autore, i sentimenti dei suoi personaggi. Tradurre è un’arte che non s’impone con prepotenza e arroganza, è un’arte discreta, che tuttavia può essere determinante per l’affermazione e la diffusione di un’opera.

In questo romanzo McEwan affronta un tema che fu importante negli anni sessanta immediatamente precedenti la rivoluzione sessuale. Florence è una ragazza bella e delicata, studia  musica e ha un avvenire come concertista, Edward è un ragazzo onesto e studioso, anche lui con tanti sogni da realizzare. Sullo sfondo le loro famiglie, ciascuna con i suoi limiti e i suoi pregi. Tutto appare essere nella normalità più assoluta. Florence e Edward si amano, ma i pregiudizi e le inibizioni che hanno condizionato l’educazione dei giovani di quell’epoca, portano i due al matrimonio senza aver avuto precedenti esperienze. In realtà nessuno dei due conosce a fondo se stesso, non ha mai sperimentato le proprie reazioni di fronte a un rapporto sessuale completo: la loro prima notte di nozze diventa dunque il terreno su cui si realizzerà lo scontro più lacerante.

Come sempre nelle opere di McEwan la lettura viene proposta su due livelli.

A un primo livello, è chiara la critica a quella generazione di educatori che costringevano i figli, più specificamente le figlie, a rispettare il preteso valore della verginità, molto spesso con il fine tanto pratico quanto ipocrita di evitare fastidiose e ingombranti conseguenze. In questi casi ci si poteva trovare di fronte a vere e proprie patologie del tutto sconosciute, tanto difficili da affrontare nel momento in cui la coppia aveva  già iniziato una vita insieme. Il sesso è da sempre stato il  punto di incontro o di scontro, una carta da giocare nella riconciliazione o nella separazione. Il problema fondamentale si rivela quando l’amore che dovrebbe accompagnare il sesso non è abbastanza forte  da superare eventuali ostacoli.  Con la rivoluzione sessuale e la conseguente liberalizzazione dei rapporti uomo-donna, si è giunti a una conoscenza più approfondita di se stessi, del proprio corpo, e del corpo dell’altro, delle reazioni che esso manifesta in casi specifici. La conoscenza non è mai un fatto negativo, essa anzi aiuta a crescere: in questa prospettiva l’emancipazione dei costumi, quando non degeneri in inutile eccesso, è sempre auspicabile.

A un secondo, non meno interessante livello, McEwan crea, come già ho notato in modo particolare in “Espiazione”, un personaggio che si proponga come metafora dell’arte: la purezza di Florence  è la purezza dell’arte che non ammette contaminazioni. L’arte in tutte le sue forme, che sia musica, letteratura o arte figurativa deve mantenere la sua integrità, non può accettare di diventare funzionale a un fine che non sia se stessa. Ma è qui il vero quesito che, io credo, McEwan pone ancora una volta: è davvero giusto perseguire questo concetto decadente di un’arte fine a se stessa, o non è più giusto e attinente ai tempi moderni adeguare anche il concetto dell’arte alle esigenze del mondo moderno? Perché per esempio non un’arte con un fine sociale?  Chi è più funzionale oggi, un Wilde con la sua indiscutibile magia descrittiva o un Guttuso con la capacità di esprimere il dramma della società moderna? In realtà credo non sia neanche giusto dare una risposta, anche se personalmente tendo più verso Guttuso che verso Wilde. Non è giusto, perché l’arte è sempre arte, come la vuole l’artista, e se è in grado di esprimere concetti universali, il suo valore è sempre indiscutibile.

ANNA MARIA BALZANO

 

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“Gli innamoramenti” di Javier Marias, recensione di Anna Maria Balzano

Gli innamoramenti
di Javier Marias
 
Recensione di ANNA MARIA BALZANO

 

9788806210441Un romanzo veramente originale “Gli innamoramenti” di Javier Marais, dove la trama fa da sfondo  e da supporto a speculazioni filosofiche, al punto che l’analisi dei sentimenti, dei pensieri, delle considerazioni dei personaggi fa sì che siano i pensieri, i sentimenti, le considerazioni i veri protagonisti dell’opera.

Ci troviamo di fronte all’enigmatico dualismo immaginazione/realtà: gli eventi narrati lasciano spesso il dubbio circa la loro incontrovertibile veridicità.

L’abituale quotidiana osservazione di Miguel e Luisa, una coppia innamorata che si incontra tutte le mattine nello stesso caffè, offre alla protagonista Maria, anche lei frequentatrice dello stesso locale, lo spunto per narrare in prima persona una vicenda che ha del mistero e che si tinge di noir.

In seguito alla morte violenta di  Miguel, Maria  si avvicina a Luisa, ne fa la conoscenza e quindi si reca a casa sua, per darle la possibilità di dare sfogo al suo dolore. In quella occasione conosce Javier, di cui si innamora. 

La vicenda si snoda con  ritmo lento: i protagonisti indugiano in considerazioni sulla morte e sulla vita, sul rapporto morte-vita, in un gioco narrativo ad effetto “sliding doors”. Non a caso sono spesso citati episodi di grandi classici, come quello della foresta di Birnam, del Macbeth di Shakespeare, o quello dei Tre Moschettieri di Dumas, in cui Athos accenna alla  morte della giovanissima moglie, Anne de Breuil, o ancora quando si cita il personaggio di Balzac, il colonnello Chabert.  In ciascuno di questi episodi, la realtà è sempre ambigua e la sua ambiguità si fonda proprio sulla molteplicità dei significati della parola. Non si possono non ricordare a questo proposito i versi famosissimi pronunciati  dal coro delle streghe nel primo atto del Mcbeth: “fair is foul,  foul is fair”. I fatti che si vivono sono reali per coloro che li vivono, per gli altri sono racconto e dunque sono fittizi. L’uomo ha bisogno di certezze per vivere: essere coscienti di vivere una “realtà irreale” accresce la sua solitudine.

In questa prospettiva la menzogna diventa elemento importante nel romanzo, al punto da porre il vano quesito se esista un modo, nell’epoca di incredibili progressi e invenzioni, per penetrare nella mente umana e sapere quando qualcuno mente. Certo, afferma l’autore attraverso i suoi personaggi, l’impossibilità di leggere nella psiche altrui è l’unico margine di libertà concesso all’uomo.

La finzione a volte ha bisogno di tingersi di verità per acquisire maggiore veridicità.

L’umanità descritta da Marias è fragile e in balia di ogni incertezza: anche l’innamoramento, pur con il suo fascino inebriante, rende ancora più fragili e deboli.

La decisione di affidare a Maria la descrizione in prima persona è una novità nell’opera di Marias che riesce a dare comunque al personaggio femminile assoluta credibilità, mettendone in risalto la sensibilità.

Al di là della trama, il vero interesse del romanzo risiede nel mostrare l’individuo al centro della sua tragica, perpetua incertezza con tutti i suoi dubbi insoluti, destinati ad accrescere la sua solitudine.

ANNA MARIA BALZANO

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“Le braci” di Sándor Márai, recensione di Anna Maria Balzano

Le braci 
di Sándor Márai
Adelphi, Milano, 1998
ISBN: 9788845913730
Pagine: 181
Costo: 12€
 
 
Recensione di Anna Maria Balzano

images“Le braci” di Sándor Márai fu pubblicato per la prima volta nel 1942. Più che un romanzo, lo definirei un trattato sull’amicizia: in questa prospettiva si possono riscontrare alcuni punti in comune tra l’opera di Márai e il De Amicitia di Cicerone.

La scena, e mi si conceda il termine “scena”, dal momento che la narrazione ha un’impostazione teatrale, con  pochi personaggi e un lunghissimo monologo interrotto solo da brevi battute, si apre sulla visita del generale-protagonista alla cantina del suo castello per spostarsi immediatamente, solo dopo qualche riga all’interno del castello stesso.

Il luogo è estremamente importante: una sorta di microcosmo, avulso dal resto del mondo, dove i personaggi hanno trascorso le loro vite dibattendosi tra passioni, amori, odi e dove è giunto attutito il rumore di cadute di imperi, di rivoluzioni e guerre: dei tragici eventi, cioè, che sconvolsero il mondo esterno all’inizio del novecento.

Dopo quarant’anni di separazione il generale si accinge a ricevere e a rivedere l’amico Konrad a cui era stato legato da un’amicizia profonda interrottasi per cause che al lettore non è dato conoscere, almeno per il momento.

Di ciò che sia accaduto tra le mura di quel castello sembra essere a conoscenza solo la vecchissima balia Nini, testimone e depositaria della verità.

L’incontro tra il generale, il cui nome è Henrik, e Konrad vuole essere, probabilmente nelle intenzioni di entrambi, chiarificatore d’una separazione improvvisa e apparentemente incomprensibile. Esso offre certamente lo spunto per approfondire il concetto di amicizia, ponendo un drammatico interrogativo: può davvero esistere l’amicizia?

Qui si inserisce il lungo monologo di Henrik, che rievocando le esperienze della vita che i due giovani hanno condiviso, si sofferma su speculazioni di tipo filosofico sulle condizioni che permettono all’amicizia di resistere al tempo.

È subito chiaro che Henrik e Konrad sono completamente diversi l’uno dall’altro: Il primo è di gracile costituzione, ma ciononostante assolve il suo compito d’ufficiale con scrupolo e passione, ama la caccia e le frivolezze della vita; il secondo Konrad, il cui fisico sembrerebbe più idoneo ad affrontare  la carriera d’ufficiale, considera questa solo un mestiere, un mezzo per sopravvivere, mentre la sua natura lo porterebbe piuttosto a coltivare le arti e in particolare la musica.

Henrik e Konrad. La caccia e la musica. La ricchezza e la povertà. 

Qui dunque il primo interrogativo: può esistere amicizia tra esseri tanto diversi?

Henrik afferma di essersi sempre adattato allo stato di inferiorità sociale dell’amico, offrendogli la possibilità di condividere con lui le sue disponibilità.

Nel De amicitia di Cicerone (XIX cap) troviamo un concetto del tutto simile : “Ma requisito essenziale dell’amicizia è che il superiore si faccia inferiore.”

Henrik si chiede se l’amicizia esista veramente e su cosa si fondi: sulla simpatia? Troppo poco.  C’è un pizzico di eros alla base dell’amicizia?  “L’eros dell’amicizia non ha bisogno dei corpi,  essi anzi lo disturbano più di quanto non lo attraggono. Ma si tratta pur sempre di eros, c’è eros in tutte le relazioni umane.”

Vediamo ora Cicerone (cap. V): “..l’amicizia è superiore alla parentela, in quanto alla parentela si può togliere l’affetto, dall’amicizia no: perché tolto l’affetto il nome dell’amicizia scompare, mentre quello della parentela no.”

Dunque l’amore, l’affetto sono indispensabili all’amicizia: la sua fine può, con molta probabilità, generare odio. Questo concetto si trova sia in Cicerone che in  Márai.

Gli eventi accaduti tra Henrik e Konrad hanno cancellato il forte vincolo giovanile, trasformandolo in odio. Ora davanti al fuoco del camino che simbolicamente divampa come le passioni esplose e represse nel cuore dei protagonisti è giunta l’ora della verità. Avranno i protagonisti il coraggio di affrontarla? L’unica verità incontrovertibile sarà quella che trasformerà il fuoco delle passioni in brace, ma solo quando la brace sarà cenere l’animo umano troverà pace.

ANNA MARIA BALZANO

QUESTA RECENSIONE VIENE QUI PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE. E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.

“Il viaggio di Emilia” di Anna Maria Balzano, recensione di Lorenzo Spurio

Il viaggio di Emilia
di Anna Maria Balzano
Qulture Edizioni, 2011
ISBN: 9788890587665
Pagine: 88
Costo: 11 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

Tutto era cambiato. Ebbe nostalgia di quei pochissimi anni di cui aveva memoria che erano stati felici con la mamma e con il papà. Erano passati come un lampo. Tutto il resto era stato affanno e sofferenza… (76).

 

p012_1_00Quando nel passato si è sofferto molto, spesso ci risulta difficile convivere giornalmente con le foto o con gli oggetti che in sé hanno cristallizzato quei momenti. E’ per questo che Emilia, protagonista del romanzo Il viaggio di Emilia di Anna Maria Balzano si prepara a fare una cernita delle vecchie cose: cosa tenere e cosa buttare.

Siamo nella Napoli del 1978 e la protagonista prende a narrare la tormentata storia passata della sua famiglia suggestionata dalla visione di una vecchia foto: “Passò la mano sulla foto per eliminare un leggero strato di polvere che la rendeva più opaca e con i polpastrelli percorse i contorni e i piani del palazzetto, come se quel contatto fisico avesse il potere di rianimarlo e restituirgli quella vita che gli era appartenuta” (8). Da qui, come in un vero e proprio flusso di coscienza, partono i ricordi, le immagini, tutte dominate da una certa tristezza. La protagonista ricorda della morte del padre e del grande amore ricevuto dai nonni, piuttosto che dalla madre Anna che, invece, oltre ad essere spesso lontana da lei per motivi di lavoro si scopre presto attratta da un altro uomo. Il nuovo matrimonio della madre con un certo Renato, sconsigliato dai genitori della donna e malvisto dalla giovane Emilia, sembra inizialmente inaugurare una fase di spensieratezza e tranquillità per Anna, ma ben presto le cose cambiano. Renato non mancherà di mostrarsi violento e prepotente, interessato solo agli interessi dell’azienda della quale diviene il principale benefattore. La solitudine di Anna e l’indifferenza del marito nei suoi confronti la conducono a uno stato di apatia e il marito la farà ricoverare in una struttura psichiatrica. Emilia, la giovane protagonista, pur consapevole di ciò che succede sotto i suoi occhi, non è in grado di cambiare le cose e, pur volendo bene a sua madre, si trincera sempre dietro l’amore dei nonni che, però, malati ed anziani, nel giro di pochi anni vengono a mancare.

Ma in questa difficile storia familiare ambientata nel secondo dopoguerra, nel momento della ricostruzione, si innesta anche la storia di Giulia, figlia di un dipendente dell’azienda che era stata dei familiari di Emilia. Le due divengono amiche anche se poi un po’ per motivi di studio, un po’ per altre ragioni, finiscono per separarsi. Una serie di altri avvenimenti drammatici quali lo stupro di Giulia, l’uccisione del prepotente Renato e il processo contro Anna, ritenuta colpevole dell’omicidio si intrecceranno nel romanzo chiarendo solo nelle pagine finali i relativi collegamenti.

Niente è banale. Anna Maria Balzano costruisce un romanzo molto ricco dal punto di vista dei sentimenti, sottolineando quanto la gratuita crudeltà di un uomo possa rovinare la vita di varie persone. Un’acuta riflessione sul dolore che produciamo agli altri senza rendercene conto, un elogio del fatalismo e una considerazione sul senso tragico del vivere che, oggi come ieri, sempre caratterizza le nostre esistenze:

“Mi sono chiesta se fosse Dio che voleva questo. Ma se Dio è buono, Emilia, perché dovrebbe permettere che accadano queste cose?”

Emilia non sapeva rispondere a questa ingenua e semplice domanda di Giulia.

“Non lo so, Giulia. Non credo che ci siano cose giuste o ingiuste al mondo. Ci sono cose che accadono” (82).

 

Lorenzo Spurio

Jesi, 26-01-2013

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

“La metafora del giardino in letteratura” di L. Spurio e M. Acciai, recensione di Anna Maria Balzano

La metafora del giardino in letteratura 
di Lorenzo Spurio e Massimo Acciai
Faligi Editore, Aosta, 2011
Genere: Saggistica / Critica letteraria
ISBN: 978-88-574-1703-5
Costo: 20 €
 
Recensione di Anna Maria Balzano

 

frontIl saggio di Lorenzo Spurio e Massimo Acciai, dal titolo “La metafora del giardino in letteratura”, ci guida attraverso l’esame d’una vasta selezione di testi letterari allo scopo di individuare il significato simbolico che ha assunto nei secoli la descrizione del giardino. Si parte dall’Eden, luogo delle delizie, e  dal giardino coranico che può ospitare anche trasgressione e piaceri carnali: si mette in risalto il rapporto giardino-vita, non tralasciando i riferimenti ai classici latini, come per esempio alle Metamorfosi di Ovidio. Il giardino può rappresentare il bene o il male,  può essere il “locus amenus” di Tasso; esso può essere recintato e protetto, ma anche magico e fantastico, come quello in cui avviene l’iniziazione della piccola Alice di Lewis Carroll o come i Kensington Gardens di Peter Pan. L’analisi affrontata è di ampio respiro e riporta brani di opere inglesi, americane, italiane, russe, sottolineando il diverso uso che gli autori hanno fatto della metafora del giardino. Esso può ospitare la memoria dolorosa da cancellare, come nel caso di Burnett, o può essere luogo di guarigione del corpo e dell’anima. Il giardino come microcosmo, dunque. Esso può accogliere amori omosessuali, come nel caso del “giardino essenziale” di Lesbo, per usare una definizione di Fiorangela Oneroso. Il giardino non è solo luogo d’amore, ma anche di morte, come nel racconto di Buzzati “Le gobbe nel giardino”, dove il terreno nasconde “strati di memoria”; esso diviene testimone dell’estinzione d’una intera famiglia nel “Il giardino dei Finzi Contini”, così come può essere il luogo dove la natura è in lotta con il cemento, come nel racconto di McEwan, o essere il testimone della decadenza di grandi famiglie, come nel Gattopardo. L’analisi si sofferma su grandi autori, da Leopardi a Calvino a Buzzati, senza trascurare Wilde, le sorelle Bronte per giungere anche a Stephen King, arricchendosi di particolari, nel citare le produzioni cinematografiche tratte dalle opere di alcuni degli autori esaminati. 

Un saggio di grande respiro, dunque, che guida ad una lettura approfondita destinata a stimolare ed arricchire il lettore più attento.

ANNA MARIA BALZANO

QUESTA RECENSIONE VIENE PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE.

E’ SEVERAMENTE VIETATO RIPRODURRE E/O DIFFONDERE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.

“Miele” di Ian McEwan, recensione di Anna Maria Balzano

Miele
di Ian McEwan
Einaudi, Torino, 2012
ISBN: 978806214055
Pagine: 351
Costo: 20€
 
Recensione di Anna Maria Balzano

9788806214050“Miele”, l’ultimo romanzo di Ian McEwan, è un’opera complessa che offre molti spunti per una discussione sulla funzione dell’arte in generale e dell’arte in relazione alla politica e alla ragion di stato in particolare.

La protagonista, Serena, figlia di un Vescovo, educata secondo i saldi principi borghesi, costretta a trascurare la sua predilezione per le lettere e a laurearsi in Matematica a Cambridge, ottiene un incarico presso l’MI5 : siamo negli anni settanta, l’Inghilterra è in piena crisi energetica, il movimento indipendentista nord-irlandese è molto attivo, si sviluppa e si estende la guerra fredda culturale.

La missione consiste nel dover reclutare scrittori e intellettuali che possano fare propaganda a favore dell’occidente, contro il blocco sovietico.

McEwan cela, dietro la forma della spy-story, una pesante critica di ciò che può essere l’arte dello scrittore laddove sia strumentalizzata a fini politici.

Già in Espiazione avevamo assistito alla mistificazione artistica creata dalla protagonista Briony, che tradiva un giudizio negativo dell’autore sull’arte come finzione. Qui questo giudizio appare in tutta la sua evidenza, non solo nella trama principale, ma anche in quei racconti, che ci vengono riportati come creazione del personaggio di Tom Haley, che possono essere considerati dei brevi romanzi nel romanzo, secondo la migliore tradizione inglese.

In ognuno di questi racconti, il protagonista, che sia il gemello che si sostituisce al fratello parroco, o l’individuo che viene preso da passione per un manichino, o il marito che ama più appassionatamente la moglie dopo essere venuto a conoscenza della sua disonestà, è la menzogna a trionfare. Ciascuno di questi racconti diventa simbolo e metafora del romanzo in cui è inserito.

imagesCAJ5CI2JLa necessità dei Servizi Segreti di finanziare, senza svelare loro il vero fine dell’operazione definita Miele, autori perché scrivano opere che esaltino i valori del  mondo occidentale, in contrasto con quelli rappresentati dal comunismo sovietico, ripropone la distinzione tra intellettuale tradizionale e intellettuale organico. È ovvio che l’intellettuale che si mette al servizio del potere, di qualunque segno esso sia, diventa organico a quello stesso potere. In questo romanzo si accenna all’opera di Orwell, sia al suo “La fattoria degli animali”, sia a “1984”. Con lui se ne citano altri. La necessità di tenere nascosta la finalità dell’operazione, riscatta in un certo senso una parte del mondo artistico, che, se consapevole, non avrebbe messo la sua opera al servizio del potere politico.

L’accenno all’inganno è esplicito in alcune frasi  pronunciate dai protagonisti del romanzo: la creazione artistica vista come inganno è eredità della cultura puritana britannica, e risale al teatro elisabettiano.

Significativo è anche l’accenno esplicito a Mallarmé e alla sua teoria della “pagina bianca”, nelle parole di Haley.  Diceva Mallarmé : “L’opera poetica è miracolosa come la creazione, ma al termine d’una faticosa ascesa non v’è che il nulla, la pagina bianca, il silenzio.” Un sogno di purezza, questo, e di distacco dal mondo, negazione della mistificazione artistica, che McEwan sembra palesemente condividere.

ANNA MARIA BALZANO

LA PRESENTE RECENSIONE VIENE PUBBLICATA SU GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE.

E’ SEVERAMENTE VIETATO RIPRODURRE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI.