“Una luce perenne contro l’oscurità”. Il saggio-traduzione di Franca Canapini sul celebre discorso lorchiano sui libri del 1931

La poetessa e scrittrice toscana Franca Canapini ha recentemente pubblicato, per i tipi di Helicon di Arezzo, un importante lavoro letterario tra poesia, traduzione e saggio. Si tratta della rilettura commentata, oltre che della traduzione, del celebre testo del poeta Federico García Lorca (1898-1936) letto nel settembre 1931 all’atto dell’inaugurazione della Biblioteca Pubblica di Fuente Vaqueros, suo luogo natale, nei dintorni di Granada.

L’opera, che ho avuto il piacere e l’onore di poter leggere in anteprima e in progress durante il suo sviluppo e che mi ha dato la possibilità di stilare la prefazione, è uno studio attento e meticoloso, ricco di riflessioni della Nostra sul mondo dei libri, dell’importanza della cultura e della comunicazione a partire dalla alocución del Granadino che, se non è tra i testi maggiormente noti e citati del suo ampio repertorio, merita senz’altro una particolare attenzione.

La Canapini ha individuato nelle varie parti che costituiscono questo brano le parole chiave, i punti cruciali di svolta del pensiero lorchiano e, mediante una fertile attività esegetica e interpretativa, ne ha costruito un libro in cui non solo legge l’autore spagnolo – nel contesto della guerra civile che l’avrebbe visto, indirettamente, coinvolto e una delle più celebri vittime – ma lo rilegge in relazione al contesto odierno, alla società globalizzata nella quale viviamo. La nuova contestualizzazione dell’opera nello scenario odierno è funzionale a far emergere in maniera ancor più decisiva i temi fondanti del discorso lorchiano. Puntuali note a piè di pagina forniscono ulteriori approfondimenti su date, momenti decisivi o persone – tra amici e intellettuali – con le quali Lorca fu in contatto ma anche – in un’ottica più ampia e generale – a tutta la storia della scrittura (che è storia della civiltà) passando attraverso le fasi della trasmissione del libro nelle sue varie forme, all’editoria come scienza e soffermandosi anche sul valore del libro come oggetto prezioso, per contenuti ma anche per fattura e tradizione.

La scomposizione del testo di Lorca in vari capitoli facilita questo lavoro di studio e lettura di Franca Canapini dei tanti elementi degni di essere presi in esame, approfonditi, sviscerati[1]. La successione delle varie parti, con la traduzione in italiano (importante il supporto e la supervisione dell’argentina Cecilia Casau in questo) e il relativo commento, sono di particolare utilità anche per chi non ha padronanza della lingua spagnola e potrà, in tal modo, usufruire di un mezzo molto efficace, preciso, attento a ogni approccio. Non di minore importanza è la scelta dell’apparato fotografico che correda in maniera proporzionata e visivamente adeguata la componente testuale. Tra le immagini uno scatto del 1914 di un giovanissimo Lorca in compagnia dell’amata sorella Isabel (1909-2002) mentre le insegna a leggere ma anche uno scatto del 1976, nel quarantennale dell’uccisione del poeta, per il primo evento-omaggio Cinco a las cinco (che da allora annualmente si tiene in sua memoria) a Fuente Vaqueros. Nella prima fila, del foltissimo pubblico presente all’aperto (6.000 persone, riportano le cronache) di questo spettacolo corale (uno dei primi eventi pubblici in cui fu possibile partecipare ed esprimersi con la riappropriata libertà dopo il buio della dittatura), si distingue l’allora sessantasettenne sorella Isabel al centro e poco lontano, alla sua destra, probabilmente Antonina Rodrigo, l’unica donna della “Commissione dei 33” che organizzò l’evento celebrativo.

Particolarmente rilevanti risultano, tra i tanti, i capitoli 6 e 7 dell’opera che contengono lo studio di quelle parti di testo di Lorca forse più note e da Canapini contraddistinti con i titoli che richiamano le sue stesse parole “Non solo di pane vive l’uomo” e “Libri! Libri! Orizzonti, scale per salire sulla vetta dello spirito e del cuore”.

Lo scritto di Lorca, mediante la circumnavigazione delle vicende dell’oggetto-libro, è una storia condensata della cultura dell’uomo, delle vicende proto-editoriali che hanno contraddistinto l’evoluzione delle tecniche di stampa, nella convinzione che il libro sia un potente fattore di conoscenza, cultura e di socialità, ben al di là della mera erudizione. Ed ecco perché il tono impiegato dallo spagnolo è quello di un oratore lieto e soddisfatto: con la fondazione della Biblioteca non si prende parte a una cerimonia istituzionale ma a una festa collettiva, un momento di felice condivisione tra chi (come lui che tanto lesse e altrettanto scrisse) ama i libri e ne difende l’importanza. Riconosce e consacra la libertà del singolo e delle masse.  La tutela e la promozione del libro, in qualsiasi modo si realizzino, attengono a un fenomeno di spiccata rilevanza poiché garantisce “unica salvezza dei popoli”. Libertà d’espressione e riconoscimento di diritti che di lì a poco sarebbero stati duramente messi al bando dall’oppressione fascista nel duro conflitto civile (1936-1939) e poi del dominio dittatoriale franchista (1936-1975) che, come ogni dittatura, introdusse una dura attività di censura preventiva e organizzò indici di libri proibiti.

Il capitolo che chiude l’opera, il ventottesimo, contiene l’estremo omaggio di Lorca in difesa di quel mondo di libertà e di conoscenza per il quale sempre si impegnò nel corso della sua breve vita e ha la forma anche di un riconoscimento verso coloro che, a vario titolo, hanno difeso nel corso del tempo le medesime libertà. Qui troviamo, in un climax lirico che non può rimanere inavvertito, il senso compiuto dell’intera alocución che è e permane, in fondo, il suo testamento universale:

E un saluto a tutti. Ai vivi e ai morti, giacché vivi e morti compongono un paese. Ai vivi per augurargli felicità e ai morti per ricordarli con affetto perché rappresentano la tradizione del popolo e perché è grazie a loro se siamo tutti qui. Che questa biblioteca doni pace, inquietudine spirituale e allegria a questo paese e non dimenticate questo bellissimo detto che scrisse un critico francese del secolo XIX: Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei”.

Lorenzo Spurio

Matera, 05/04/2025

****

L’autrice

Franca Canapini è nata a Chianciano Terme (SI), risiede ad Arezzo dal 1975. Laureata in Materie Letterarie presso l’Università degli Studi di Perugia, è stata docente di Lettere nella Scuola Secondaria di primo grado. Ha pubblicato nove raccolte di poesia: Stagioni sovrapposte e confuse (2010), Tra i solstizi (2011), Il senso del sempre (2013), Viaggio nella poesia (2014), Gente in cammino (2014), La bellezza tragica del mondo (2016), Semi nudi (2021), Haiku per un anno (2022), Misteri d’amore – Poema ispirato al Simposio di Platone (20249. Al suo attivo ha anche un romanzo (Un giorno, la vita, 2017) una raccolta di favole (Favolette per grandi e per piccini, 2017), un romanzo breve (Melina – Una storia surreale, 2019) e un racconto di memorie (Dal fondo – I miei primi dieci anni, 2019). Ha ricevuto premi e riconoscimenti per la sua opera poetica e narrativa. Per la saggistica ha pubblicato: Una luce perenne contro l’oscurità. Alocución al pueblo de Fuente Vaqueros di Federico García Lorca (2025). È stata Consigliere e Vice Presidente dell’Associazione degli Scrittori Aretini “Tagete” dal 2013 al 2023, nonché membro di giuria in alcuni premi letterari.


[1] L’autrice ha dedicato anche un interessante articolo a questo libro di Lorca focalizzando l’attenzione sull’importanza della lettura come “buona pratica”: Franca Canapini, “Dalla Alocución al pueblo di Fuente Vaqueros di Federico Garcia Lorca del 1931 alla necessità odierna di creare una consuetudine con il libro, «La casa del vento», 16/03/2025, Link: https://tinyurl.com/ypz3a8jz (Sito consultato il 05/04/2025).


E’ severamente vitato pubblicare il presente testo, in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto, senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione, con opportuni riferimenti all’autore del brano, al titolo del blog, la data, il link di caricamento, è consentita.

N.E. 02/2024 – “Ut pictura poësis. La forma dello Spirito nell’opera di quattro celebri artisti-poeti”, saggio di Wanda Pattacini

Immagino lo Spirito come un soffio vitale che da lontano sfiora le chiome degli alberi spogli, senza foglie, sullo sfondo di un cielo indaco, quando la Natura è immobile e non c’è ragione fisica che giustifichi il vento. L’artista, ad occhi chiusi, attende l’ispirazione. Non indaga più le ragioni del suo sentire così profondo e oscuro, né del suo vedere al di là dell’apparenza effimera e fugace. Ormai sa: è solo uno strumento attraverso cui l’Essere sussurra o urla, rivelandosi. Ha risposto a quella chiamata da veggente, votandosi ad una esistenza spesso fuor di regola. Talvolta ha invidiato l’inconsapevolezza dell’uomo comune, ma non ha mai rinunciato al proprio dono, rimanendo fedele a se stesso e affinando le proprie doti espressive per tradurre in parole, colori, forme o note i quesiti insondabili dell’Esistenza.

Talora la chiamata dello Spirito è talmente forte che un’Arte non basta per dargli espressione. Un rapporto privilegiato è il binomio poesia-arti figurative. Già nella letteratura antica la relazione parola-immagine è frequente nell’uso della figura retorica dell’ekphrasis in grado di eternare in prosa o in poesia la magnificenza di manufatti artistici ideati dall’uomo. Si pensi allo scudo bronzeo di Achille descritto in un celebre passaggio dell’Iliade omerica o alla preziosa veste ricamata offerta come premio di una gara di corsa nella Tebaide di Stazio.

In questa sede, però, non indagheremo il potere del metodo ecfrastico in grado di trasformare le parole in pennello. Al contrario, passeremo in rassegna l’attività di quattro grandi personalità di artisti-poeti che hanno lasciato un segno indelebile e ineguagliabile usando diversi e molteplici mezzi espressivi, sempre allo scopo di dara forma visibile all’Invisibile.

Michelangelo Buonarroti

Secondo lo storico dell’arte cinquecentesco Giorgio Vasari l’artista che fra i morti e i vivi porta la palma e trascende e ricuopre tutti è il divino Michelangelo Buonarroti (1475-1564), ovvero colui che raggiunse l’eccellenza nelle tre arti maggiori – pittura, scultura e architettura – superando persino gli antichi. Sono capolavori universalmente noti il David marmoreo, la Pietà del Vaticano, gli Ignudi in torsione e le Sibille visionarie della volta della Cappella Sistina, la Cupola di San Pietro, metafora della volta celeste. Meno conosciuta al grande pubblico, invece, è l’attività di Michelangelo come poeta. Per comprendere l’importanza che la pratica letteraria rivestiva per lo scultore toscano basta citare le sue parole al momento dell’invio all’amico Vasari di due liriche di intonazione spirituale: “Messer Giorgio, io vi mando due sonecti; e benchè sien cosa scioca, il fo perchè veggiate dov’io tengo i miei pensieri”. Una cosa scioca dunque, eppure depositaria dell’inquietudine e della passione che ha animato i capolavori del Buonarroti, che ricomponeva, correggeva e riformulava i propri scritti poetici sempre in cerca dell’immagine più adeguata e della parola più adatta per esprimere verbalmente un concetto o uno stato d’animo. Le sue Rime, quindi, non sono un puro esercizio accessorio, ma il frutto di una vocazione autentica che completa e arricchisce la sua attività di artista.

Si pensi, a tal proposito, alla dibattuta questione del non finito michelangiolesco. Si tratta di un procedimento tecnico-artistico adottato sistematicamente dallo scultore che contrappone parti scolpite, finite e levigate a parti lasciate allo stato di abbozzo. Variamente interpretata come il “non portato a termine” o il “non pagato”, la spiegazione più suggestiva di questa pratica si rintraccia nella filosofia neoplatonica di cui l’artista era imbevuto sin dai tempi della frequentazione della cerchia di Lorenzo il Magnifico. Secondo quest’ottica, allora, gli incompleti Prigioni ideati per la Tomba di papa Giulio II sarebbero perfetti così, eternando il conflitto tra lo Spirito, levigato e netto riflesso della perfezione divina, e il Corpo, che intrappola l’Anima nelle spire della materia solo sbozzata e inerte, impedendole di raggiungere il suo Creatore. A supporto di questa teoria interviene il celebre sonetto “Non ha l’ottimo artista alcun concetto”, che esplicita l’idea michelangiolesca secondo cui la statua è già presente nel blocco di marmo e il compito dell’ottimo artista è semplicemente liberarla dal suo superchio, ovvero l’eccesso di materia, lasciando che la propria mano sia guidata dall’intelletto. Per Michelangelo, quindi, la scultura per via di levare è l’unica forma di scultura concepibile, come attestato dal madrigale “Sì come per levar, donna, si pone”. In questo componimento l’effetto della donna sull’amante è liberatorio e nobilitante perché in grado di liberare dalla sua carne (cruda e dura scorza) l’anima (l’alma che pur trema) dell’artista privo di volontà e di forza. Alla stessa maniera la viva figura della statua è liberata dalla pietra alpestra e dura grazie alla mano dello scultore.

Una interessante analogia si riscontra tra lo stile poetico e lo stile artistico del divino Michelangelo: in poesia è insofferente ai vincoli delle forme metriche obbligate, prendendo ispirazione dal modello dantesco e dalla regola petrarchesca, rinnovandoli, però, con uno stile più personale e riflessivo; nelle arti figurative e in architettura egli fissa in principio i canoni ideali della perfezione rinascimentale, per poi scardinarli dall’interno, configurandosi, quindi, come il primo manierista nella Storia dell’arte.

Artista visionario e poliedrico l’inglese William Blake (1757-1827) si distingue come incisore, poeta e pittore protoromantico. I limiti della realtà sensibile sono stretti per lui che indaga i temi della Bibbia con grandi stampe a colori e il mondo spirituale della Commedia dantesca con miniature. Come letterato – o dovremmo meglio dire veggente – ha ideato mondi immaginari divisi tra le opposte forze del Bene e del Male. I due stati contrari dell’anima umana trovano espressione nei Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza.

William Blake

Il confronto tra The Lamb e The Tyger è da manuale: le due poesie, che ad una prima lettura superficiale evocano due veri animali con le loro caratteristiche, condividono in realtà un significato più profondo, ovvero il problema della Creazione e dell’identità del Creatore (Little Lamb, who made thee?Tyger! […]What immortal hand or eye/could frame thy fearful symmetry?). L’agnello, allora, rappresenta la perfetta innocenza dell’infanzia e la tigre il male che proviene dall’esperienza. Ma l’innocenza è anche uno stato dell’anima che può essere presente in un adulto (si pensi al pronome I riferito al poeta stesso) e gli occhi ardenti (burning) della tigre bruciano di rabbia e violenza, ma sono anche luminosi (bright), trasformando l’animale in qualcosa di splendente, forse la luce dello Spirito che sottomette l’errore e l’ignoranza delle tenebre della notte (forests of the night). Lo stile poetico di Blake è essenziale, nudo e musicale: con un ritmo incalzante denso di simboli ed allegorie è in grado di tradurre in parole visioni mistiche e immaginifiche.

Una battaglia cosmica tra il Bene e il Male frutto di una spiritualità anticonformista si concretizza anche in campo pittorico, in particolare nelle opere del ciclo di acquerelli de Il Grande Drago ispirato ad alcuni passaggi dell’Apocalisse biblica. La speranza luminosa di una Donna incinta vestita di Sole – metafora della Chiesa o della Vergine Maria – si oppone alle cupe tenebre del Male incarnato in un enorme drago a sette teste e dieci corna, che cede i suoi poteri infernali ad una Bestia venuta dal mare. La forza mistica delle immagini apocalittiche è resa da Blake attraverso un segno grafico semplificato ed essenziale: una linea quasi fumettistica definisce figure surreali che dominano fondali evanescenti, privi di indicazioni di profondità, ad alludere ad una dimensione altra, parallela ed alternativa a quella umana.

Edvard Munch

L’indagine dello Spirito e di intensi stati emotivi è il principale oggetto di interesse dell’artista norvegese Edvard Munch (1863-1944). E la Natura è il suo mezzo di espressione. Così scriveva il pittore sul suo taccuino nel 1908: “la Natura non è soltanto ciò che è visibile all’occhio – sono anche le immagini interiori dell’anima – sul lato posteriore dell’occhio”. I dipinti dell’artista postimpressionista, infatti, esplorano i sentimenti più profondi e inquietanti della psiche umana e le forme naturali ancora riconoscibili in essi sono solo un pretesto simbolico per alludere agli abissi segreti dell’anima tormentata di Munch che, per primo, è riuscito a dare una voce universale alla propria angoscia personale, tracciando la strada della rivoluzione artistica del Novecento.

Questo importante e sofferto percorso pittorico è affiancato da una copiosa e variegata produzione scritta carica di lirismo, con cui il pittore indaga il significato dell’arte, racconta gli ambienti e i personaggi della propria vita, completa e chiarisce il significato dei propri dipinti, spesso considerati oscuri. Egli sperimenta molteplici generi – prose liriche, schizzi letterari, lettere di viaggio, articoli di giornale, pagine di diario – per i quali pensava alla pubblicazione, come si deduce dal testamento con cui lasciava le bozze dei propri lavori al Comune di Oslo. Il doppio trattamento di alcuni motivi in maniera sia artistica sia letteraria è indicativa del suo modus operandi. Le molteplici e celebri versioni de L’Urlo si accompagnano, infatti, ad altrettanti testi che chiariscono il significato e potenziano la forza espressiva di un quadro divenuto icona del mal di vivere. Queste le parole scritte da Munch nel 1892:

Camminavo lungo

la strada con due

amici – poi calò

il sole

Il Cielo

si fece

all’improvviso rosso sangue

Mi arrestai, appoggiandomi

contro la balaustra mortalmente

stanco – il fiordo nero-blu

e la città

erano lambiti da lingue di sangue

I miei amici proseguirono

e io rimasi immobile

tremante

d’angoscia –

e udii riecheggiare

attraverso

la natura

un immenso infinito

grido.

La recente traduzione in lingua italiana di una selezione di scritti di Munch consente di apprezzare a pieno il parallelismo artistico e letterario dell’artista norvegese, rendendo note composizioni ancora sconosciute al grande pubblico. Ne emerge anche un interessante confronto tra uno stile di scrittura rapido e spontaneo che, trascurando ortografia e punteggiatura, esprime i moti dell’animo nella loro cruda immediatezza, e uno stile pittorico nudo ed essenziale, basato su semplificazioni deformanti e colori arbitrari, riflesso dei colori dell’Anima.

Paul Klee

Posto sulla soglia chiaroscurata tra il Visibile e l’Invisibile, l’artista svizzero Paul Klee (1879-1940) osserva l’incontro tra il mondo esterno e il mondo interiore, intuendo il Mistero che si nasconde dietro l’esperienza più sensibile e quotidiana, senza mai riuscire ad afferrarlo, ma suggerendone le tracce attraverso molteplici arti. Musicista, poeta e pittore egli ricerca costantemente la forma d’arte a lui più congeniale per tradurre in un codice decifrabile la chiamata mistica dello Spirito. Se è con la pittura che ha cambiato il corso della Storia dell’arte, ispirando generazioni di artisti, si cimenta con successo anche nell’arte della parola. I suoi Diari, ricchi di aforismi, poesie e annotazioni, sono costruiti, infatti, come un sapiente oggetto letterario. Sia nella pagina dipinta sia nella pagina scritta la sua cifra stilistica risiede nella inafferrabilità e nella mutevolezza che apre infinite possibilità alla sua forza creatrice, impedendogli di assumere una forma fissa ed una regola troppo rigorosa che insterilisca il suo daimon. Nel 1901 Klee scrive:

Non chiederti cosa sono.

Non sono nulla

non so nulla.

Conosco solo la mia felicità.

Ma non chiedermi se me la merito.

Lasciatemi solo dire

che è ricca e fonda.

In una celebre poesia del 1920 – riportata anche sulla sua lapide – afferma:

Qui sono inafferrabile

abito bene con i morti

come con i non nati. Sono

vicino alla creazione. Eppure

non abbastanza.

Così come le sue parole sono magiche ed evocative, aperte a molteplici e suggestive interpretazioni, il suo stile pittorico è ricco e variegato e, pur rifuggendo da classificazioni ed etichette, la sua è una pittura di luce, fatta di segni impalpabili e leggeri e toni liquidi che trascolorano. Egli è in grado di decifrare la lingua dello Spirito, che incanta chi è pronto ad ascoltarla. Nel dipinto Strada principale e strade secondarie, ad esempio, tasselli acquerellati di colori azzurri e aranciati si compongono in una trama definita da linee sottili e pur dense di lirismo, quasi fossero venature del marmo o del legno: la via principale è tracciata, ma la Vita percorre vie traverse e inaspettate.

Se dopo questa breve disamina dell’opera di queste quattro geniali personalità vi starete chiedendo quale sia la forma espressiva più adatta ad eternare lo Spirito, la mia risposta è il motto oraziano ut pictura poësis: Poesia ed Arte sono sorelle, figlie del Vento dell’Ispirazione che muove la mano di artisti e poeti, o, forse, gemelle se si segue il pensiero del poeta lirico greco Simonide secondo cui la pittura è poesia silenziosa, la poesia è pittura che parla.


Bibliografia

Blake William, Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza che mostrano i due contrari stati dell’anima umana, a cura di Roberto Rossi Testa, Milano, Feltrinelli Editore, 2009

Botta Gregorio, Paul Klee. Genio e regolatezza, Bari-Roma, Laterza, 2022

Buonarroti Michelangelo, Rime, a cura di Paolo Zaja, Milano, Rizzoli Bur, 2010

Klee Paul, Poesie, a cura di Giorgio Manacorda, Milano, Ugo Guanda Editore, 1978

Munch Edvard, La danza della vita. La mia arte raccontata da me, Roma, Donzelli Editore, 2022

Plutarco, La gloria di Atene, a cura di Italo Gallo e Maria Mocci, Napoli, D’Auria, 2003

Vasari Giorgio, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino ai tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1986


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Poesia e spiritualità al femminile”. Articolo di Francesca Luzzio

Alle donne che trovano nella poesia la valvola salvifica della loro vita 

Spiritualità”: parola complessa, eterogenea, considerata la sua essenza polisemica, infatti può essere spirituale la religiosità, intesa come dovere ed impegno nella fede, oppure è spirituale la ricerca del divino, l’apertura interiore verso il trascendente, ma si può anche farne una considerazione realistica, ossia si può vedere l’incorporeità nella realtà e, sebbene non percepibile con i sensi fisici, considerarlo la fonte da cui la materia tangibile trae vita.

La spiritualità, considerata la sua eterogeneità semantica, è ravvisabile in tantissimi poeti, a cominciare dalle origini della letteratura italiana e, solo per citare il più famoso, ricordiamo                       Il Cantico delle creature di S. Francesco d’Assisi. Tuttavia non volendo esplicare un lungo elenco di autori in cui la spiritualità, intesa nella pluralità delle sue esplicazioni è presente, si ritiene opportuno fermarsi alla contemporaneità che, pur caratterizzata dal consumismo e dall’alienazione etico-morale, tuttavia non manca nei versi di alcuni poeti e poetesse.

La poetessa Patrizia Cavalli (1947-2022)

In tale delimitazione temporale, particolarmente rilevante è la silloge di Patrizia Cavalli, Poesie (Einaudi). La poetessa sostiene che solo ai versi è possibile affidare un ruolo significativo, in vista di quei valori che definiamo come religiosi, o meglio spirituali. La poesia infatti rivendica l’approfondimento di valori che si possono indicare anche con il termine di verità. D’altronde, la filosofia del Novecento ha rivalutato tale funzione e in particolare Haidegger ha affermato il primato della poesia come e in quanto forma di conoscenza.                                                                

Rilevante è anche la concezione della poetessa Chandra Livia Candiani che nella silloge Il silenzio è cosa viva (Einaudi), sostiene che il silenzio favorisce la meditazione che non divide quel che consideriamo spirituale da quel che consideriamo ordinario e i gesti quotidiani possono diventare, possono diventare forme di preghiera, spiritualità.

Infine si vuole ricordare, come espressione del poliedro vivere e sentire la spiritualità, Mariangela Gualtieri che nella raccolta Senza polvere senza peso (Einaudi). La poetessa con una scrittura in viva tensione compone versi di suggestione lirico-visionaria, in cui le inquietudini dolenti della precedente raccolta, aspirano a distendersi in immagini di interiore gioia. Infine appare opportuno evidenziare e lodare la scelta di pubblicazione della suddetta, prestigiosa casa editrice che ha dato voce alla spiritualità presente nelle suddette poetesse.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Poesia e pace?”, articolo di Enrica Santoni

In questo momento di morte e guerre, nasce spontaneo chiedersi se possa bastare una poesia per salvare il mondo. Poesia come preghiera profonda, pianto intenso, ma anche inno alla vita. Siamo ormai consapevoli del fatto che le armi non potranno mai risolvere i problemi dell’umanità e che tutto si ripeterà recidivamente, come un rituale. Ma se le bombe, gli spari, i cannoni, il sangue, non possono salvarci, potrà forse farlo la preghiera?

Già sembra di intravedere un sorriso di scetticismo in coloro che leggeranno questa domanda. Tuttavia, tentare un nuovo percorso verso la pace, è necessario e urgente. Una sola piccola poesia, come preghiera umana, al di là di ogni credo religioso e filosofico, in nome dell’Uomo, della Vita, della Speranza, potrebbe trasformarsi in un seme fertile che potrebbe sbocciare dopo essere stato coltivato e curato con amore e attenzione. Come un canto antico che affiora dai pori della nostra pelle, dal nostro DNA sopravvissuto per milioni di anni ad ogni ostilità nei confronti della nostra evoluzione. È un enigma cercare di comprendere perché l’Uomo voglia trovare la pace attraverso la guerra, la vita attraverso la morte, l’amore attraverso l’odio. È un mistero nascosto nel profondo dell’ego umano, nella parte “bestiale” che caratterizza l’uomo, quella più oscura e terribile, che si sarebbe dovuta smussare attraverso lo sviluppo dell’anima unita all’intelligenza, soprattutto sociale, che contraddistingue la razza umana da quella animale e dai suoi istinti spesso crudeli.

È quindi il momento di rivalutare la preghiera. Non quella da filastrocche infantili ma quella che nasce da un sentito profondo, che punta a catturare l’essenza più spirituale e pura che ancora si annida dentro gli esseri umani e che non trova più il passaggio per fuoriuscire, alla luce, verso il prossimo.

Ci siamo riempiti di beni materiali e anche di nozioni intellettuali, di conoscenza fine a se stessa, ma abbiamo tralasciato il cuore, la sacralità anche delle nostre debolezze e delle nostre paure, della nostra capacità di commuoverci, di stupirci di fronte all’alba e al tramonto, che non sono mai gli stessi. Si è arrivati a scambiare la spiritualità per debolezza, per inutilità, per nullità, poiché non sembra portare profitti. Di conseguenza, la preghiera, l’inno alla bellezza umana e divina, hanno perso forza e sembrano spesso essere fonti di imbarazzo e incapacità. Si è giunti ad una sorta di capolinea per l’umanità. È assolutamente necessario trovare nuove direzioni e nuove motivazioni per la felicità, la pace e la convivenza sulla terra. Perché (tornare ad) essere idealisti e romantici e tentare di salvare noi stessi con la poesia, l’implorare la vita, l’amore, il nostro credo, la natura, il nostro essere più profondo?

Le prime forme di comunicazione linguistica dei nostri antenati erano simili a suoni cantati, liriche primordiali. Erano armonia e bellezza, andate perse con il materializzarsi della vita umana sulla terra, quando si ha iniziato a lottare per sopravvivere, per poi volere accumulare potere e ricchezze. Perché non tornare all’età dell’innocenza, come fossimo ancora bambini, incontaminati dalle negatività che ci circondano? Ci siamo riempiti del nulla svuotandoci. Perché non riprovare ripartendo dal poco per raggiungere una completezza e realizzazione con la semplicità e la sincerità? Basterebbe una poesia? Un canto? Un inno?

Il ritorno all’umiltà, in primis, ci potrebbe veramente salvare; questa enorme parola “umiltà”. Bisogna avere tanto coraggio ad essere umili. E la poesia è umiltà perché ci denuda di fronte al mondo e ci dona il coraggio di essere nuovamente ed autenticamente “uomini”.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “L’antica tradizione e l’origine del Presepe”, articolo di Giovanni Teresi

Le prime testimonianze storiche del presepe risalgono al III-IV secolo, quando i cristiani raffiguravano nei loro luoghi di ritrovo, come ad esempio le catacombe romane, le immagini di Maria con il piccolo Gesù in grembo. Quando il Cristianesimo uscì dalla clandestinità, le immagini della natività cominciarono ad arricchire le pareti delle prime chiese; mentre nel 1200 si iniziarono a vedere le prime statue.

Dal Quattrocento e per tutto il Medioevo, esempi di presepe possono essere considerate le numerose raffigurazioni sulla natività di Cristo, eseguite da pittori come Botticelli, Giotto, Piero della Francesca e il Correggio, molte delle quali esposte nelle chiese per mostrare alla popolazione le scene della vita di Gesù.

Il primo presepe nel senso moderno del termine, però, si fa comunemente risalire a quello inscenato da San Francesco d’Assisi durante il giorno di Natale del 1223, nel piccolo paese di Greccio (vicino Rieti). Nel 1220 San Francesco aveva compiuto un pellegrinaggio in Terra Santa (Palestina) per visitare i luoghi della nascita di Gesù Cristo, ed era rimasto talmente colpito da Betlemme che, tornato in Italia, chiese a Papa Onorio III di poter uscire dal convento di Greccio per inscenare la rappresentazione della natività.

Il primo presepe della storia venne allestito nei pressi del bosco vicino al paese, in una grotta. Francesco portò in una grotta la mangiatoia con la paglia e vi condusse il bue e l’asino (non c’erano la Vergine Maria, Giuseppe e il bambinello). La popolazione accorse numerosa e così il santo poté narrare a tutti i presenti, che non sapevano leggere, la storia della nascita di Gesù.

“Il presepe di Greggio”, particolare dell’affresco di Giotto all’interno della Basilica Superiore di Assisi (PG)

La particolarità di questo presepe, oltre a quella di essere stato il primo nella storia, risiede nel fatto di essere stato anche il primo presepe vivente del mondo, sebbene non ancora rappresentato nella forma completa. Furono la grandezza di San Francesco e l’interesse per le sue gesta a costituire lo sponsor ideale per la diffusione del presepe. Seguendo il suo esempio, le prime rappresentazioni della natività con tanto di scenografia e statuine scolpite fecero la loro comparsa nelle chiese, al fianco dei dipinti che trattavano lo stesso argomento. Partendo da Greccio, il presepe divenne così una tradizione popolare che si allargò in maniera capillare in tutta l’Italia centrale e in Emilia. Nel corso del XV secolo il presepe raggiunse la città di Napoli e nelle decadi successive, soprattutto in seguito all’invito che Papa Paolo III rivolse ai fedeli attraverso il Concilio di Trento (1545-1563), conquistò un posto anche nelle case nobiliari, sotto forma di soprammobile o nelle vesti di cappella in miniatura.

Il primo presepe con tutti i personaggi risale al 1283, per opera di Arnolfo di Cambio, scultore di otto statuine lignee che rappresentavano la natività e i Magi. Questo presepio è conservato nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Inizialmente, come detto, la raffigurazione sulla natività di Gesù si svolse in Toscana e subito si diffuse nel Regno di Napoli, dove ancora si detiene il primato italiano in termini di tradizione, curiosità e innovazione.

L’arte presepiale si diffuse nelle case delle famiglie più insigni delle città di Napoli eraggiunse livelli espressivi originali e ricercatissimi, divenendo motivo di vanto per le famiglie che facevano a gara per avere il presepe più sfarzoso. A questo scopo, i nobili non badavano a spese e commissionavano ai loro scultori di fiducia lavori imponenti, realizzati con materiali sempre più preziosi, e ai presepi dedicavano intere stanze delle loro residenze per farne sfoggio durante i ricevimenti e le feste private.

 Il presepe, nato come strumento di comunicazione con la popolazione, entrò nelle case popolari solo dopo aver trovato posto nelle chiese e nelle residenze nobiliari. Nel corso del XVIII e del XIX secolo, infatti, la tradizione del presepe guadagnò nelle abitazioni delle persone comuni il posto centrale che ancora oggi occupa nelle festività natalizie.

Tra il ‘600 e il ‘700 gli artisti napoletani decisero di introdurre nella scena della Natività personaggi immortalati nella vita di tutti i giorni, soprattutto durante il loro lavoro. Questa tradizione è ancora molto viva, come dimostrano le popolari bancarelle piene di personaggi lungo la via San Gregorio Armeno. Sempre agli artisti napoletani si deve l’aver dotato i personaggi di arti in fil di ferro e l’averli abbigliati di abiti delle più preziose stoffe e soprattutto di aver realizzato le statuette di vip, politici e personalità note.

Nella simbologia del presepe il bue e l’asinello sono i simboli del popolo ebreo e dei pagani. 

I Magi sono considerati come la rappresentazione delle tre età dell’uomo: gioventù, maturità e vecchiaia. Oppure come le tre razze in cui, secondo il racconto biblico, si divide l’umanità: la semita, la giapetica, e la camita. I doni dei re Magi hanno il duplice riferimento alla natura umana di Gesù e alla sua regalità: la mirra per il suo essere uomo, l’incenso per la sua divinità, l’oro perché dono riservato ai re. I pastori rappresentano l’umanità da redimere e l’atteggiamento adorante di Maria e Giuseppe serve a sottolineare la regalità del nascituro.

Tra i libri del Nuovo Testamento, gli unici a descrivere la nascita di Gesù sono il Vangelo secondo Matteo e il Vangelo secondo Luca. Nel racconto dei Vangeli non vengono menzionati gli animali: questo particolare fu inserito successivamente dalla tradizione popolare. Si pensò, infatti, che per riparare il Bambino dal freddo, i genitori lo avessero coperto dalla paglia e che fosse stato messo vicino i musi degli animali presenti dentro la stalla.

Ma, nella etimologia della parola che significato ha Presepe? Con la parola presepe ci si riferisce ad una rappresentazione (realizzata con diversi materiali) della nascita di Gesù che si fa nelle chiese e nelle case, nelle festività natalizie e dell’Epifania, riproducendo scenicamente, con figure formate di materiali vari e in un ambiente ricostruito più o meno realisticamente (talora anche anacronistico), le scene della Natività e dell’Adorazione dei Magi. In senso più generico, presepe significa “ogni rappresentazione iconografica della nascita di Cristo”.

Il termine deriva dal latino praesaepe, che significa mangiatoia, greppia, ma anche recinto chiuso dove venivano tenuti al sicuro e sotto controllo animali come capre e pecore. Secondo l’ipotesi più diffusa, le parti che compongono la parola latina ossia prae (davanti) e saepe (recinto) indicherebbero letteralmente “luogo che ha davanti un recinto”. Secondo altri, invece, il termine presepe deriverebbe direttamente dal verbo praesapire (recingere). Se ai giorni nostri esistono due versioni della stessa parola, presepe o presepio, lo dobbiamo proprio alla lingua latina, nella quale troviamo, nel corso degli anni: praesaepe, -is (sostantivo neutro della terza declinazione) usato da Virgilio; praesaepes, -is (sostantivo femminile della terza declinazione) usato da Plauto; praesaepium, -ii (neutro della seconda presepe) utilizzato da Plinio nel I sec. d. C. e ricostruito sul plurale praesaepia

È stato grazie alla sua presenza all’interno delle prime versioni della Bibbia, inclusa quella successiva adottata dalla Chiesa, che l’ultima forma “praesaepium, -ii”  è sopravvissuta alle altre. Nei secoli a seguire ritroviamo, nelle testimonianze di letteratura italiana, i termini presepe e presepio, utilizzati con significato diverso da alcuni autori: “presepio” viene usato in senso sacro, per riferirsi alla natività del Cristo, mentre “presepe”, usato in senso laico, indica esattamente la mangiatoia. Questa distinzione, già non troppo marcata, si è poi affievolita nel corso degli anni, tant’è che già nell’800 Alessandro Manzoni, uno dei padri della lingua italiana, fa uso di entrambi i termini all’interno dello stesso componimento:

La mira Madre in poveri
panni il Figliol compose,
e nell’umil presepio
soavemente il pose;
e l’adorò: beata!
innanzi al Dio prostrata,
che il puro sen le aprì.
Senza indugiar, cercarono
l’albergo poveretto
que’ fortunati, e videro,
siccome a lor fu detto,
videro in panni avvolto,
in un presepe accolto,
vagire il Re del Ciel.

(“Il Natale”, vv. 64-70 e 92-98)

Tale duplice forma, sopravvissuta sino ai giorni nostri, si ricongiunge però nel plurale, che per entrambi i termini è “presepi”.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Poesia e Spiritualità”, articolo di Tina Ferreri Tiberio

Parlare di poesia è sempre un tema affascinante, chiedersi cosa sia Poesia, come nasce, perché i poeti amano esprimere in versi il loro sentire, sono domande che gli uomini si sono posti nel corso dei tempi. Definire poesia non è affatto facile, molti chiamano poesia delle loro riflessioni scritte. La poesia è mistero, è magia, scrivere in versi è l’arte più alta che ci sia, fortunati coloro che hanno avuto il dono e il privilegio (dagli dei?) di cantare con le Muse.

Cos’è la Poesia e che rapporto c’è con la spiritualità? Ogni epoca ha avuto la sua concezione di Poesia e ha dato un significato precipuo alla sua funzione.

La poesia è soprattutto metafora, un’immagine dovrebbe dare il senso al pensiero, di cui diventa messaggio, simbolo; dovrebbe raccontare lo spaccato della società, che ormai nega attenzione alla persona.

Apparentemente la poesia descrive qualcosa, ma questa descrizione è simbolica, è la rappresentazione simbolica della vita umana.

La poesia usa un linguaggio universale, trasmette agli uomini l’universalità dei nostri sentimenti.

Rifacendoci al pensiero del filosofo Heidegger possiamo condividere ciò che lui pensa di quest’arte, cioè che la poesia va intesa nel significato di poiesis, ossia di pro-durre, creare, svelare, portare alla luce ciò che è nascosto. La parola ha un potere evocativo, non è la parola della scienza o della tradizione metafisica, la parola della poesia chiama le cose nella loro essenza: è il linguaggio che svela il mondo, è pensiero che diventa parola, “quella determinata parola”, perché poi da lì scaturisce l’emozione; di conseguenza la poesia ha una forte componente irrazionale.

Dobbiamo dire che la poesia è nata prima della scrittura e all’inizio si è espressa in forma orale

All’origine l’uomo ha fatto esperienza della conoscenza proprio attraverso il linguaggio poetico, linguaggio che ha disvelato il mondo e sé stesso e per ritrovare il senso della sua esistenza l’uomo ha dovuto riscoprire nel non detto, nell’abisso più profondo il principio da cui tutto ha avuto origine, perché il dire dei poeti ha infinite sfaccettature.

La poesia disvela universi sconosciuti ed è la migliore opportunità per conoscere sé stessi e il mondo, ha una forte capacità d’introspezione e di indagine. Spesso ricorriamo alla poesia per esprimere i sentimenti più profondi della nostra anima, che non possono essere trasmessi dal linguaggio lineare e controllato della prosa.

Il mondo della Poesia, ancora oggi, s’interroga sulla sua essenza: c’è chi afferma che la Poesia è un momento emozionale; chi un momento di riflessione; chi usa la Poesia per sperimentare linguaggi nuovi, a volte ermetici, di difficile interpretazione. Io personalmente, penso che al fondo della Poesia ci sia sempre la ricerca di senso, la ricerca dell’uomo, del suo essere. Poesia è filosofia e in questo condivido il pensiero del poeta romantico tedesco Holderlin, ma nel contempo la poesia è ricerca della parola, parola che esprime il nostro sentire, anche se ciò non sempre avviene. Bravi quei poeti che riescono non solo a trasmettere in pochi versi l’emozione, ma anche il senso, ossia l’essenza del loro sentire. In questo senso intendo la “spiritualità” della poesia, perché il poeta dona sempre una visione della realtà che va rivissuta, goduta in ogni attimo; ad esempio soffermiamoci sul verso foscoliano dell’Inno primo dedicato a Venere del poema Le Grazie, opera incompiuta  Splendea tutto quel mare; mirabilmente Ugo Foscolo in versi endecasillabi sciolti, fa fluire, trasparire sia il senso dell’armonia del creato, sia il conflitto interiore tra la memoria e l’anelito verso l’Infinito, armonia del creato intesa come equilibrio di bellezza e virtù, suscitata dalla vista di quella distesa azzurra. Il poeta di fronte alla “vastità”, alla distesa mediterranea, al colore azzurro, al mistero dell’Universo rimane stupito, il desiderio si trasforma in conflitto tra il piacere e il dolore che tale piacere procura e questo piacere doloroso è simile a quel sentimento del sublime di cui discorreva Kant nella Critica del Giudizio.

La condizione esistenziale del poeta Foscolo di sradicato, di cittadino, anche se ideale di tante patrie, Grecia, Venezia, Italia al quale le circostanze negarono una vera appartenenza, viene appagata soprattutto nel cantare la Bellezza, anche la Bellezza femminile, in un paesaggio eminentemente classico ed è una Bellezza che rasserena, mitiga gli istinti; il linguaggio che Foscolo usa è un linguaggio elevato, classico, sembra che voglia afferrare l’inafferrabile.

In alcune immagini Foscolo esprime in maniera evidente sensazioni intime, personali, in ciò è vicino alla lirica moderna, proprio per quella ricerca dell’analogia tra il linguaggio e le cose. 

 La figura della donna che affiora dal mare è accecante così come le ninfe acquee che veleggiano per ispirare gioia, serenità e desiderio di un amore puro.

 La poesia del Foscolo non è né antica, né moderna, le visioni che lui ci ha regalato sono proprie di un presente perenne, perché, appunto, la poesia non è figlia di un’epoca, per esempio lo sguardo commosso di Odisseo nella poesia A Zacinto è lo stesso sguardo del giovane moderno nel suo sostare e meditare sulla distesa azzurra.

 Secondo la teoria di R. Jackobson, la funzione poetica caratterizza ogni testo letterario in quanto in esso l’attenzione si concentra sugli aspetti formali del messaggio.

Nella poesia il significante e il significato sono indivisibili: il primo indica le parole della poesia, il loro suono e il loro ritmo, cioè come la poesia è scritta, mentre il significato rappresenta il messaggio vero e proprio della poesia.

Nel quadro linguistico letterario che va dal Manzoni in poi, secondo il Devoto, ci sono delle evasioni linguistiche. Queste evasioni possono essere: sentimentali, realistiche, esuberanti. Le evasioni sentimentali le ritroviamo in Pascoli nella poetica del Fanciullino e sono chiamate dal Devoto evasioni linguistico-sentimentali. Evasione linguistica intesa come cambiamento della lingua, evoluzione, sviluppo che va al di là del quadro rigido di quello che era stata la lingua del Manzoni oppure la lingua del Verga, la lingua plastica-romantica; in essa troviamo l’uso di onomatopee, ossia i suoni si basano sui ricordi, sulle sensazioni. Le evasioni realistiche sono quelle un po’ ragionate di Fogazzaro, che viene visto nel primo periodo un po’ come il contrasto, l’antitesi del Manzoni, soprattutto nella riflessione dei luoghi e dei personaggi.

In questo periodo la poesia ha una dimensione alogica, è consolatrice della funzione, ossia lo scopo del poeta è quello di consolare, sollevare, dare sfogo ai sentimenti. La letteratura diventa evasione, evasione dalla storia, evasione dai problemi reali della società, anche evasione dalla società industriale un po’ in tutta l’Europa. La poesia non serviva per lottare, serviva per evadere dalla realtà e dai contrasti con la stessa realtà. Dal punto di vista linguistico, la poesia si sposta, si amplia attraverso la descrizione di momenti quotidiani, per fare questo il poeta ha bisogno di ricercare nuovi vocaboli, di arricchirsi lessicalmente, il Pascoli in particolare trova la soluzione nelle onomatopee. Il verso non è più così lirico, così stretto, poetico, enigmatico, il verso diventa quasi prosastico, somigliante quasi ad un discorso. La parola assume un valore evocativo e suono simbolico, è associazione del suono e del simbolo a cui fa riferimento.  Pascoli attraverso gli echi e le risonanze melodiche, arricchite da rapide note impressionistiche e da frasi che racchiudono l’essenzialità, ci parla di un mondo, simbolo delle sue angosce e delle sue ossessioni interiori: le figure più ricorrenti nella sua poesia appartengono al mondo campestre e contadino, il nido, l’orto, la siepe, gli uccelli, i fiori, sono i simboli delle angosce e delle ossessioni interiori del poeta.  

Anche in D’Annunzio la parola è importante, la parola in D’Annunzio acquista un valore sensuale, però nella sua poetica è evidente un altro aspetto, non quello del quotidiano come nel Pascoli, ma quello dell’eroe, dell’eroe decadente; s’intende per eroe decadente un eroe che non è impegnato in un tipo di lotta, è un eroe più intimista, è superiore anche a certi problemi, così superiore che non li osserva nemmeno questi problemi, non è l’eroe foscoliano. L’opera del D’Annunzio è varia, va dalla prosa alla poesia e i moduli artistico-espressivi che usa sono molteplici; anche in D’Annunzio c’è una tendenza impressionistica, così immediata che quasi quasi si impoverisce di contenuto, ecco che la poesia e la prosa dannunziana hanno avuto  successo in quel momento in cui andavano di moda, poi non hanno avuto più lo stesso riscontro nella storia della letteratura e non possiamo dire che un’opera del D’Annunzio sia intramontabile come l’opera del Manzoni, perchè l’opera del D’Annunzio si è impoverita proprio per questa eccessiva evocazione, per questo impressionismo della parola e alla fine questo tipo di linguaggio ha avuto scarsa presa sul lettore.

Ci chiediamo, quale funzione, oggi, la poesia abbia e a che serve. Possiamo affermare che la poesia predispone ad un atteggiamento di apertura e di flessibilità, predispone ad arricchire la percezione delle cose, della realtà esterna, anche dei sentimenti interiori di ognuno, perchè la poesia consente di focalizzare nella sua dinamicità il potenziale significativo delle parole, sia attraverso una pluralità di sensi, sia attraverso l’estensione del lessico, in quanto la poesia è sensibile a una pluralità di registri linguistici che in essa, a differenza di altri testi, si manifestano più liberamente. Inoltre la poesia è sensibile, anche, all’immaginazione linguistica, così si esprime Maurizio Della Casa e viene definita polisemica perché ogni parola, ogni verso ha almeno due significati: quello letterale e quello simbolico ed è un particolare tipo di scrittura letteraria, caratterizzata da una serie di artifici metrici, ritmici e retorici attraverso i quali si realizza al massimo grado la funzione poetica del linguaggio.

La poesia, dunque, è ritmo, musicalità, metrica, anche nel verso libero il ritmo è dato dalla scansione interna del poeta, non è legato ad alcuna regola oggettiva, per cui la scelta della parola diventa essenziale, proprio per il suo significato di “essenza”. Il verso libero è espressione di tensione alla libertà che è caratteristica della nostra epoca.  La danza nei passi “essenziali” trasporta il poeta nel mondo dell’immaginazione, con le sue regole, con la sua armonia. Così, infatti la poesia, la possiamo definire “Armonia dell’universo” e specchio della spiritualità dell’uomo.

Bibliografia:

Della Casa Maurizio, I generi e la scrittura, La Scuola SEI, 2014

Devoto Giacomo, Profilo di storia linguistica italiana, La Nuova Italia, 1990

Foscolo Ugo, Le Grazie, Tiemme Edizioni Digitali, 2021

Foscolo Ugo, Le poesie, a cura di Matteo Palumbo, Rizzoli, 2010

Heidegger Martin, La poesia di Hölderlin, Adelphi, 1988

Jackobson Román, Lo sviluppo della semiotica, a cura di Pierluigi Basso Fossali, Luca Sossella editore, 2017

Pascoli Giovanni, Poesie, a cura di M. Pazzaglia, Salerno editrice, 2002

Pascoli Giovanni, Tutte le poesie. Ediz. Integrale, Newton Compton Editori, 2006


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore/l’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 01/2023 – “Il libro, manifestazione dell’essere”. Articolo di Tina Ferreri Tiberio

Il nostro secolo può essere definito il secolo della “multimedialità” e l’interrogativo di fondo che ci poniamo in questa cultura elettronica è il chiedersi se c’è ancora posto per il libro o esso è destinato ad uscire di scena. Alcuni hanno sostenuto in più occasioni la morte del libro o l’assassinio del libro da parte della televisione, per es o dell’ipertesto. Ma il libro è sempre un’esperienza a cui l’uomo non vorrà mai rinunciare: non basta leggere, occorre saper scegliere cosa vale la pena di leggere. 

Sant’ Agostino affermava: “Il Mondo è un libro e coloro che non viaggiano leggono solo una pagina.”

Orbene il libro rappresenta non l’orizzonte pressochè esaustivo del processo di apprendimento, come spesso è avvenuto, ma diventa uno dei tanti strumenti di cui l’uomo può disporre nei suoi processi di ricerca. Si tratta, cioè di assegnare una diversa identità al libro, non come matrice condizionante di sapere, bensì come strumento per la costruzione del sapere. Oggi, cioè, si guarda al libro non come al luogo di sistemazione del sapere, bensì come ad un insieme di pagine e contenuti che aspettano di essere interpretati, integrati, strutturati.  Leonardo Sciascia affermava che “Il libro è una cosa: lo si può mettere su un tavolo e guardarlo soltanto, ma se lo apri e lo leggi diventa un mondo”.

Il libro cioè è uno strumento che aspetta di essere esplorato con intelligenza, che non si impone, ma si presta, non irrigidisce, ma alimenta, è lo specchio del nostro io.

Attraverso il libro l’individuo è portato a trovare risposte sempre più adeguate ai suoi problemi, alle sue esigenze, alle sue aspettative e il gusto del leggere, pertanto sollecita sempre più la capacità di autonomia cognitiva da parte dello stesso individuo, che si fa ricercatore e operatore del proprio sapere.                   

L’uomo non è un “io” separato dal mondo e messo in comunicazione con esso per mezzo delle sensazioni, egli è un organismo entro la natura che interagisce con l’ambiente, per cui da sempre l’uomo ha sentito il bisogno di raccontarsi, per es. i ragazzi tratteggiati dalla penna di scrittori, come Pasolini, ci vengono incontro con tutta la loro ricchezza esistenziale. Sono figure vive, concrete, non soggetti astratti di categorie sociologiche. E’ un modo per far parlare i ragazzi, per parlare con i ragazzi, usando la bellezza della letteratura, gli occhi partecipi dello scrittore e non la lente neutrale dello studioso.  

I libri non perdono mai il loro fascino, anzi con le nuove tecnologie informatiche, moltiplicano la forza di attrazione e la capacità di incuriosire. Quotidiani e televisione sono lo specchio del mondo e la scrittura è la risposta ad un reale bisogno comunicativo.

Leggere seriamente i testi degli autori antichi greci e latini, per es. significa consentire loro, di essere delle occasioni di sviluppo profondo per l’interiorità, l’espressività e l’eticità di noi lettori. Accostare le opere di oltre un millennio di cultura occidentale ha senso se il confronto con esse permette al singolo individuo di valutare la qualità e lo spessore umano dei propri sentimenti e delle proprie passioni; potenzia la raffinatezza, la fondatezza e la penetratività del proprio modo di esprimersi; ha senso se centra l’attenzione sul senso della propria vita e sui valori che la possono orientare.

Soffermiamoci sulla prima raccolta poetica di Montale “Ossi di seppia”. 

Lo stato di disagio e di inquietudine dell’uomo, chiuso nella propria crisi, si riflette in un linguaggio del tutto nuovo, pieno di suggestioni e spesso sconvolgente. Il punto di partenza della tematica montaliana è costituito dalla sua prima raccolta poetica: “Ossi di seppia”, pubblicata nel 1925. La realtà paesistica che nell’opera il poeta descrive ha una sua precisa fisionomia, è il paesaggio della sua natìa Liguria, colto in tutta la sua asprezza e squallore. I piccoli particolari della vita quotidiana sono presentati nella loro nudità e spigolosità: “rovente muro d’orto”, “sterpi” e assumono sotto la penna del poeta, un alto valore simbolico mettendo in luce la sua coscienza dell’aridità, dell’assurdità della vita, la quale non è altro che isolamento, esclusione, inutilità. Vivere, dice infatti Montale in “Meriggiare” non è altro che “seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Così in “spesso il male di vivere” la legge di sofferenza che domina costantemente la vita umana affiora negli aspetti più giornalieri della realtà delle cose: “è il rivo strozzato che gorgoglia”, “l’accartocciarsi della foglia riarsa!”, “il cavallo stramazzato” e l’unica salvezza dal male di vivere è “la divina Indifferenza”. “Non chiederci la parola, continua ancora Montale, che squadri da ogni lato l’animo nostro informe” “che mondi possa aprirti”. “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. La poesia, insomma, non può lanciare messaggi, non può dare certezze, ma solo qualche sillaba storta che esprime il crollo di qualsiasi mito, la consapevolezza del non essere.  D’altronde lo stesso Montale nella sua prima raccolta non esclude la possibilità di un mutamento verso cui il poeta tende nell’ansioso, ma consapevolmente vano tentativo di trovare una via di salvezza di fronte alla precarietà, al fallimento dell’esistenza. E’ questo il motivo cantato nel gruppo di liriche “Mediterraneo” poste al centro della raccolta, in cui il mare preso a simbolo di vita autentica, di positività, come quell’approdo, è purtroppo non raggiungibile per l’uomo, che sa di essere “della razza di chi rimane a terra”. 

Pertanto, nell’opera viene riaffermata la visione montaliana del vivere una vita senza fedi, senza certezze, senza “lume di chiesa o di officina” come egli dice in “Piccolo testamento”. Egli non ha seguito nella sua vita “chierico rosso o nero” orgogliosamente chiudendosi nella propria solitudine. L’uomo del nostro tempo, afferma il Montale, attraverso la metafora del prigioniero destinato alla morte, che può uscire dalla propria cella solo diventando accusatore e carnefice degli altri, è ben consapevole di essere oppresso da una società che lo condiziona, ma niente può fare per sfuggire a questo carcere. Egli avrà comunque un destino negativo, sia che si faccia complice, sia che rimanga vittima. Questa la lezione lasciataci da Montale: consapevolezza di vivere in una società priva di illusioni e rassegnazione ad un destino di solitudine e dolore cui opporre un rigore morale che non accetta compromessi.           

Per concludere l’uomo sente che il libro gli può dare risposte, ogni libro può diventare un mezzo per ampliare il proprio orizzonte di vita, per mettersi in relazione con i grandi spiriti del passato e così la lettura diventa un’attività fondamentale per far circolare sempre messaggi di bene e di bellezza.

*

Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

*

Bibliografia

Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, La Biblioteca di Repubblica, 2000

Eugenio Montale, Tutte le poesie a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, I Meridiani collezione, 1984

Walter J. Ong, Oralità e scrittura: le tecnologie della parola, Bologna, Il mulino, 1986, ed. orig. 1982

Guglielmo Cavallo, I luoghi della memoria scritta: manoscritti, incunaboli, libri a stampa di biblioteche statali italiane, direzione scientifica, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1994

Storia del libro. Storia di libri. A cura della prof.ssa Rosa Marisa Borraccini  PDF 2018

N.E. 01/2023 – “Annamaria Ferramosca, poeta del primigenio presente”. Articolo di Francesca Innocenzi

Nata a Tricase, in Salento, residente a Roma da molti anni, Annamaria Ferramosca è un’autrice di grande rilievo nel panorama poetico contemporaneo; a ragione di ciò, la commissione di giuria del Premio letterario da me presieduto, Paesaggio Interiore, ha deciso di conferirle il premio alla carriera.

Ferramosca ha lavorato come biologa docente e ricercatrice, ricoprendo al contempo l’incarico di cultrice di Letteratura Italiana per alcuni anni presso l’Università Roma Tre. Ha all’attivo collaborazioni e contributi creativi e critici con varie riviste nazionali e internazionali e in rete con noti siti italiani di poesia. È stata ideatrice e per molti anni curatrice della rubrica Poesia Condivisa nel portale poesia2punto0. È ambasciatrice per Italia e Puglia di Poetry Sound Library, mappa sonora mondiale delle voci poetiche.

Ha pubblicato undici libri di poesia, tra cui il recente Per segni accesi, Giuliano Ladolfi Editore, Premio Voci Città di Roma, selezionato al Premio Camaiore, finalista al Premio Lorenzo Montano; Curve di livello, Marsilio, Premio Astrolabio, finalista al Premio Camaiore; Other Signs, OtherCircles—Selected Poems1990-2008, libro antologico di percorso edito per Chelsea Editions di New York nella collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti (traduzioni di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti), Premio Città di Cattolica; Andare per salti, Premio Speciale ”Una vita in Poesia”al Lorenzo Montano, rosa del Premio Elio Pagliarani, finalista al Premio Guido Gozzano; Ciclica, La Vita Felice;Paso Doble, Empiria, volume bilingue di poesie a quattro mani, coautrice la poetessa irlandese Anamaría Crowe Serrano, che ha tradotto anche la raccolta Porte/Doors, Edizioni del Leone, Premio Internazionale Forum-Den Haag.

Sua è la cura della versione poetica italiana del libro antologico del poeta rumeno Gheorghe Vidican 3D-Poesie 2003-2013, CFR, che ha ricevuto il Premio Accademia di Romania per la traduzione.

È presente con testi poetici, recensioni e saggi critici alla sua scrittura in numerosi volumi collettanei, antologie e riviste italiane e straniere. Sue poesie, presenti nei più noti siti di poesia italiani, sono state anche tradotte, oltre che in inglese (Anamaria Crowe Serrano, Riccardo Duranti), in greco (Evanghelia Polimou), rumeno (Eliza Macadan), spagnolo (Antonio Nazzaro), turco (Mesut Senol), arabo (Sayed Gouda).

La poesia di Annamaria Ferramosca, che ha ottenuto attenzione e riconoscimenti a livello internazionale, canta per sprazzi e visioni le radici ancestrali del divenire collettivo; segue a ritroso il cammino verso l’essenza, che annulla le differenze e le divisioni tra gli uomini, così spesso disorientati dalla solitudine, dall’indifferenza, dalla violenza del mondo; adotta un linguaggio archetipico e nel contempo attuale, legato ad un sapere onnicomprensivo, dal mito alla scienza e alla tecnica. Il verso si snoda in un tempo atemporale, il dopo-prima del suono primigenio, denso, onomatopeico, pre-parola. E la lingua dei primordi, fono originario che ha il potere di unire tutte le forme di vita in un armonico cerchio, è proprio la poesia.

In particolare, con la sua ultima raccolta, Per segni accesi (Giuliano Ladolfi editore 2021), Ferramosca si distingue per un’ulteriore prova poetica estremamente densa di significati, richiami, messaggi. Come evidenzia Maria Grazia Calandrone nella prefazione, l’autrice percepisce la sottile «comunione terrestre di vivi e morti e altre forme viventi».

La suddivisione dell’opera in tre sezioni (le origini l’andare, i lumi i cerchi, per segni accesi) propone un progressivo climax verso un vertice che è esso stesso ponte, con il punto mediano che delinea la figura del cerchio: simbolo di un’unità e un’armonia esistenti come memoria ed auspicio. La «misura del cerchio» è quella volontà di coesione e di condivisione che sola può impedire l’inabissamento dell’umanità. L’univerbazione «fogliepietreanimali» esprime questa profonda unione tra gli esseri, composti della stessa sostanza, in una lettura del reale che scende fino agli enti microscopici (atomi, molecole), fondando l’indivisibilità tra spirito e materia.

Per sprazzi e visioni, l’io lirico canta l’ancestralità del divenire collettivo; segue a ritroso il cammino verso l’essenza, che annulla le differenze, le divisioni, le discordie, la sopraffazione da parte del più forte: «ibridi siamo e solo per amore/ ibridi camminiamo accanto per millenni/ lasciando a terra ibridi uccisi/ ibridi schiavi ibridi annientati/ il senso è oscuro o uno scuro/ disegno governa/ tutte le cadute le polveri/ i lumi le ricostruzioni». La ricerca intorno all’arché è condotta anche attraverso la terminologia delle scienze, nell’ottica di un sapere onnicomprensivo, che spazia dal mito alla tecnica.

Ritrovare l’origine significa nutrire una memoria di condivisione tra umani; e la poesia è lingua dei primordi, artefice e testimone del connubio tra le forme di vita. Affiorano così ricordi di un’età dell’oro, di una edenica armonia che permeava il tutto, prima che si edificassero muri divisori; reminiscenze dell’infanzia del mondo, dove il gioco è pienezza di senso; echi di un paesaggio mediterraneo come spazio mitico, fonte di inesausta narrazione: come nei racconti di Sheerazade, la parola-logos è in rapporto con la vita e con la morte. Si aprono a squarci bagliori di vissuto personale e immaginifici voli nel dopo. A livello globale si prefigura un futuro/passato in cui la deriva tecnologica cederà il posto al suono primigenio, denso e onomatopeico, alla pre-parola: «e noi/ presi alla sprovvista/senza nemmeno un ultimo selfie/ tornati nel deserto  disorientati/ da babel imbarbariti/di nuovo a balbettare/ in smozzicate sillabe/    bar bar bar».

Non mancano amari scorci di un’umanità disorientata dalle nebbie della solitudine, dell’indifferenza, dalla perdita del verbo originario. La distruzione che colpisce inesorabile flora e fauna – si vedano i versi di vita da riscrivere – è emblema di un male pervasivo, di una deflagrante disarmonia. Del resto, la condizione umana è perennemente precaria e in subbuglio; la transumanza, la migrazione le sono intrinseche: «noi, veri migranti/verso l’abisso». Non possiamo esimerci dall’abitare l’incerto, di vivere l’incontro come enigma. Il cambiamento ci accompagna silenzioso nelle cellule. E il ciclo di morte/rinascita, in quanto destino della specie e del pianeta, coinvolge la materia tutta. L’immagine di copertina, realizzata da Cristina Bove, che raffigura un biancore di vela svettante in una marina notturna, rinvia efficacemente all’idea di moto nel tempo e nello spazio, all’incessante divenire che si fa promessa per il domani: «verrà l’oceano/verranno le sue vele/ saremo nuovi per nuovi continenti».

Cosa sono, dunque, quei segni accesi che baluginano dal titolo, avvio, veicolo ed acme del percorso? Essi provengono da epoche molto lontane, dagli albori dell’umanità; sono la via per la rinascita, per collegare la fine all’inizio; sono musica, nella riproduzione di tempi, ritmi e suoni, a modulare la parola che vivifica l’esistere, qui e ovunque, ora e sempre, affratellando l’uomo all’uomo e all’universo.

Selezione di testi

da Per segni accesi, Giuliano Ladolfi Editore, 2021

piega verso settentrione il cammino

un capriccio obliquo della luce

segue la pelle bruna    la scolora

azzurrisce occhi    fa chiari i capelli

larga piove bellezza sulla terra

e ci fa ibridi lungo i meridiani

ibridi siamo e solo per amore

ibridi camminiamo accanto per millenni

lasciando a terra ibridi uccisi

ibridi schiavi ibridi annientati

il senso è oscuro o uno scuro

disegno governa

tutte le cadute le polveri

i lumi le ricostruzioni

(finché il sole irradia si ripetono

incontro disincontro

i segni sulla sabbia    indecifrabili)

*

fare tabula rasa dei pensieri

affidarsi al buio

con la sicurezza dei ciechi

sostare ad ogni angolo della notte

afferrare i lumi al baluginare dell’alba

sulla bocca delle sorgenti

nel luccichio delle nascite

verrà l’oceano

verranno le sue vele

saremo nuovi per nuovi continenti

*

è l’alba    sulle onde arrivano

dal mare di mezzo

non barche ma    cesti di gelsomini d’africa

culle intrecciate con erbe di savana

lasciate andare alla deriva

– verrà salvezza dalle acque –

a navigare verso un luccichio di nevi

a nord l’approdo dove

una lupa bianca forse sarà pronta

ad allattare nati non suoi

nord che saprà ancora riconoscere

il respiro caldo delle origini

memoria del cerchio a piedi nudi

era prossimità    danza battente

all’unisono con il ritmo del cuore

*

salvataggio da babel

ascolta ora    questa voce

in mp3 recorded   devi ricordare

come alter voci   a milioni   per il dopo

potrai salvarle? – per il dopo – dico

il dopo del grande sisma   il grande

regolatore   quando

il dio economico sarà crollato

caduto in pezzi pure il dio robotico

torcendosi in sordi borborigmi

                           bor bor bor

e noi

presi alla sprovvista

senza nemmeno un ultimo selfie

tornati nel deserto   disorientati

da babel imbarbariti

di nuovo a balbettare

in smozzicate sillabe

               bar bar bar

*

un marzo silenzioso con

lance spuntate

non fa più la guardia alla mia veglia

sul balcone la tortora nel nido

insieme a me attende il buio    forse

anche lei inseguendo un ricordo

che si fa segno quando

cicale neonate spuntavano pallide da terra

veloci abbrunavano alla luce

e già con furia finivano sapendo

la brevità del canto

il mio allenarmi per il grande volo

è sostare su vecchie foto in bianconero

rivedermi in quel semisorriso

tra tutti quei cari scomparsi

che mi tendono le braccia    m’invitano

salgo    mi metto comoda sui cirri

sotto il capo un cuscino

di foglie di limone    all’uso greco

il volo è leggero    silenzioso

senza vuoti d’aria    senza direzione

l’orizzonte ha cancelli ossidati   cigolano

per poesie rugginose ancora da rivedere

password dimenticate

ho lasciato

tutte le chiavi appese dove sapete

i libri ordinati negli scaffali

fieri    ben stretti

ricordate    vorrebbero di tanto in tanto respirare

esigono    come tutti

di avere incontri    essere aperti

(non solo spolverati)

*

Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

“Battute d’arresto” di Julio César Pavanetti Gutiérrez: il noto poeta uruguaiano tradotto in italiano

Articolo di Lorenzo Spurio

Venerdì 29 aprile a partire dalle ore 18 a Roma presso l’Enoteca Letteraria (Via San Giovanni in Laterano n°81) si terrà la presentazione del nuovo libro del poeta e scrittore Julio César Pavanetti Gutiérrez, Battute d’arresto (deComporre Edizioni, Gaeta, 2021). Interverrà la poetessa e giornalista Michela Zanarella che presenterà al pubblico l’opera di questa importante voce poetica e non solo.

Julio César Pavanetti Guitérrez (Montevideo, Uruguay, 1954) è poeta e organizzatore culturale. Nel 1977 ha lasciato l’Uruguay nel contesto di una situazione socio-politica molto difficile. Da allora e fino al 2013 ha vissuto a Benidorm, nella provincia di Alicante (Spagna), attualmente risiede a Villajoyosa, sempre nell’alicantino. La sua produzione in volume è vastissima. Citiamo alcune opere: La spirale del tempo/Spirala timpului, bilingue spagnolo-rumeno (2012), Attenzione! Può contaminare (2012), Cantare alla vita (2015), Mërgimi dhemb (Il dolore dell’esilio) pubblicato in albanese (2021) e Battute d’arresto, pubblicato in italiano (2021).

Nella prefazione del libro la poetessa Claudia Piccinno osserva: «La poetica di Julio Pavanetti si colloca tra il canto d’amore per le proprie radici e la propria terra e le rivendicazioni di diritti civili, sulla scia del mio amato Neruda. […] Questa raccolta rappresenta un viaggio verso il ricordo, un mare di ricordi… Resta come inconscia paura la ricerca di un posto, anche là dove il posto non c’è, permane in questi versi, l’eco di un vento lontano che ricorda le origini e la terra natia, ma il poeta sa aprirsi anche al mistero di una canoa che levita sul lago di Como ed è in questa straordinaria capacità di stupirsi ch’Egli trova la forza di neutralizzare il dolore».

Julio César Pavanetti Gutiérrez ha un profilo letterario e accademico di lunghissimo corso e di ampio prestigio. Fondatore e Presidente dell’Associazione Internazionale di poeti “Liceo Poético de Benidorm”, Accademico associato dell’American Academy of Modern Literature, Direttore del Festival Internazionale di Poesia “Benidorm & Costa Blanca” (FIPBECO), Membro onorario dell’American Academy of Modern Literature, del Circolo degli Scrittori del Venezuela, dell’Associazione degli Scrittori e Artisti Spagnoli (AEAE), dell’Associazione Collegiata degli Scrittori della Spagna (ACE) e del World Poetry Movement. Ha partecipato, in rappresentanza della Spagna e/o dell’Uruguay, a numerosi festival, summit ed eventi internazionali di poesia. È stato inserito in oltre ottanta antologie nazionali e internazionali sia su carta che in digitale. Ha scritto prefazioni, introduzioni e commenti critici per numerosi libri. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti a livello nazionale e internazionale sia per il suo lavoro poetico che per il suo lavoro culturale. Recentemente ha vinto il 1° premio per poeti stranieri dell’VIII Edizione del Premio d’Eccellenza Internazionale “Città del Galateo – Antonio De Ferraris” (2021). È stato presidente e membro della giuria di vari concorsi di poesie e racconti nella provincia di Alicante e Murcia, in Spagna, e membro della giuria del Poetry Slam organizzato dalla Lega Italiana Poetry Slam (LIPS), Associazione “G. Carducci” di Como (2015). Le sue poesie sono state tradotte in inglese, italiano, siciliano, catalano, arabo, francese, rumeno, portoghese, croato, azero, polacco, islandese, tedesco, olandese, giapponese, cinese, bulgaro, slovacco, serbo, bosniaco, turco, malese, bengalese, greco e sono state pubblicate su innumerevoli quotidiani e riviste internazionali.

Una foto che ritrae il poeta

Battute d’arresto è arricchito da una nota critica di Giampaolo Mastropasqua. Le opere contenute nell’opera sono il frutto della meticolosa traduzione di Daniela Sannipoli, Laura Garavaglia e Carla Zancanaro. Nulla è lasciato al caso in questa pregiata pubblicazione che conta anche un significativo apparato iconografico rappresentato dai disegni di Carlo Naos Beltrán. Quattro le sezioni che compongono il volume che sono così rappresentate (ricorriamo alle parole di Mastropasqua): «La prima è dominata dal sentimento del duende, […] le battute d’arresto hanno a che fare proprio con il battito degli antenati, col mistero che giunge quando s’intravede una possibilità di morte, sono poesie notturne e magnetiche, luoghi d’intimo dialogo lorchiano e goethiano. […] Nella seconda [l’Autore], citando Whitman (“Eravamo insieme / il resto l’ho dimenticato”) apre la sezione dell’amore, dell’origine, del ricordo che passa come un vento leggero. […] La “passione” pavanettiana è anche passione per gli ideali, viaggio nell’etica della vita che incontra l’altro da sé, passione è indignarsi e non divenire mai schiavi dell’indifferenza, è provare vergona e orrore per l’appartenenza ad un genere umano che spesso si macchia di delitti. […] [Nella terza parte] Pavanetti incontra il canto generale di nerudiana memoria introiettandolo e personalizzando, tra le spire sudamericane della fatica quotidiana, una donna che emblema di tutte le Donne entra come una figura eroica nella sopravvivenza del tempo». Ben rimarcata è questa vena prettamente civile dell’Autore come ha ben messo in luce Mastropasqua quando parla di quel sentimento autentico che con gran forza anima il singolo a sentire su di sé i drammi del mondo: «[Pavanetti] giunge a una visione panica delle cose e del mondo, dove ogni dolore umano benché lontano geograficamente ci riguarda come un figlio». La quarta sotto-sezione si riferisce a una poesia di stampo esistenziale, come la definisce la Piccinno nella sua nota richiamando alcuni versi del Poeta: «È che per caso sono un altro quando scrivo? / O è solo allora che io sono me stesso?».  

LORENZO SPURIO


La riproduzione del presente testo, in forma integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’autore.

Il poeta e scrittore Zairo Ferrante esce con “Lockarmi e curarmi con te”

Articolo di Lorenzo Spurio

“Lockarmi” e curarmi con te è il nuovo libro di Zairo Ferrante edito da Bertoni Editore di Perugia, noto marchio editoriale che, tra i suoi autori, vanta anche il poeta paesologo Franco Arminio e il noto produttore televisivo e teatrale Pier Francesco Pingitore. La raccolta di saggi e poesie che propone questa nuova pubblicazione è sottotitolata “Un uomo, un medico e un paziente” ed ha come volontà quella d’indagare e descrivere il complesso rapporto tra medico e paziente, esaltandone il lato umano e gli aspetti comunicativi. Come ben evidenziato dal titolo all’interno è contenuta anche una consistente porzione di testi volti a riflettere sul dramma della nostra contemporaneità, la pandemia da Covid-19, e i vari risvolti sociali.

Nella prefazione che ho avuto il piacere in relazione all’opera ho avuto modo di osservare che “Pur contenendo materiali che sono il frutto di riflessioni sul Coronavirus e della competenza professionale all’interno della Medicina che riguarda l’autore, l’opera non ha nulla di cronachistico e, dunque, – in questo periodo così carico di notizie – di pesante. […] vi si ritrovano poesie, ma anche componimenti prosastici, vere riflessioni, ampliamenti critici nei quali si evidenza il piglio elucubrativo e la speculazione attenta di Ferrante. […] la sua è un’opera fortemente positiva: aiuta il lettore a credere in sé, a vedere il buono – pur recondito – del contesto sociale, alimenta la fiducia nell’altro e richiama anche a un necessario irrobustimento dell’autostima personale. […] L’intero lavoro […] rifugge, dunque, le venature del dramma, scantona l’aria di depressione e d’angoscia, cocktail diffuso in queste settimane, per stagliarsi verso una possibilità d’oltre, che sarà ipotizzabile anche (se non soprattutto) a partire da una più accentuata e convinta responsabilità collettiva. […] [La sua è] una miscellanea che dà traccia di questo momento complicato, permeato tanto dagli occhi smaliziati del poeta, dalla natura spigliata e positiva di chi crea con le parole, che da quelli dello scienziato, di colui che, facendo leva sugli arnesi della ragione e animato da una grande eticità, si compromette […] per cercare di arginare il morbo, l’abisso d’incertezza, la ferita, il mostro che – purtroppo – ci vive accanto.  Ecco perché tale opera è una dissertazione precipua alla riflessione, propedeutica a un pensiero di cambiamento ma anche ingrediente necessario in quel processo curativo (stiamo parlando d’anima, s’intende) quanto mai impellente da affrontare”.

Zairo Ferrante è medico radiologo, poeta e scrittore. È originario del Cilento, ma vive e lavora a Ferrara. Autore di diversi libri di poesia e di prosa, nonché di pubblicazioni scientifiche, anche in ambito etico-deontologico e sindacale. Attualmente è Segretario Regionale per l’Emilia Romagna del Sindacato Nazionale Radiologi (SNR) e consigliere in carica della sezione di Etica e Radiologia Forense della Società Scientifica Italiana di Radiologia Medica ed Interventistica (SIRM). Nel 2009 ha fondato il Dinanimismo, movimento poetico/artistico, che segue insieme ad altri Artisti e Scrittori.

Suoi scritti sono pubblicati su riviste e periodici culturali on-line e cartacei. Alcune sue poesie sono state inserite in numerose antologie collettive e tradotte in inglese, spagnolo, francese e cinese.  

LORENZO SPURIO

“Tra le sbarre incandescenti” di Barbara Colapietro – segnalazione di Lorenzo Spurio

Segnalazione di Lorenzo Spurio

Lo scorso 16 settembre 2021 presso il GRA’ – Cortile di Palazzo Gradari di Pesaro – si è tenuta la presentazione del libro di poesia di Barbara Colapietro, Tra le sbarre incandescenti (Bertoni, Perugia, 2018). L’iniziativa si è svolta grazie al poeta e critico letterario Bruno Mohorovich nelle sue vesti di curatore del marchio editoriale “Poesiaedizioni” all’interno di Bertoni Editore.

Lo stesso Mohorovich così ha scritto nella prefazione che apre il nuovo volume della Colapietro: “Ci sono una situazione e un intento nella [sua] nuova produzione poetica; la prima è esplicitata nel titolo Tra le sbarre incandescenti che rende il senso di una sofferenza, di un ingabbiamento cui è costretta e nella quale, sgomenta, assiste a una crisi civile e morale che la attanaglia e da quelle sbarre lancia il suo urlo di ribellione verso una disagiata società incapace di leggersi. Sbarre di una gabbia, cui si costringe – o si sente costretta – da un mondo ristretto che non le piace, non la accetta quando lei cerca un mondo vero, senza falsità, un mondo uguale per tutti, un mondo più maturo. L’intento, altresì, è chiaro sin dall’esergo, dove ella si rivolge ai “cercatori di verità sepolte”. In linea col suo pensiero proteso ad una spinta solidal-spirituale, in queste sue composizioni dai toni duri e pragmatici, esprime la sua angoscia esistenziale dovuta al vuoto di certezze e valori, andando a sondare un terreno invero ingrato quale la ricerca della verità, in un momento in cui non sembra così politicamente corretto affermare che è possibile cercarla e trovarla”.

Barbara Colapietro, che ha precedentemente dato alle stampe il volume Semplicemente, la mia storia[1] (Bertoni, Perugia, 2018), è intervenuta assieme a Bruno Mohorovich e all’artista pesarese Mara Pianosi (che ha illustrato magistralmente con la sua pittura ad acquarello il nuovo libro e spiegato la genesi di ogni sua creazione), mentre la lettura di poesie scelte è stata affidata alle voci di Chiara Anastasi, Loretta Cecchini e Anna Fumagalli.

Tra le sbarre incandescenti è il suo quarto libro di poesia, opera che lei stessa ha considerato come conclusiva di un ciclo pensato come autobiografico che si è aperto nel 2018. Si ripercorre, così, nella struttura progressiva di vari “capitoli” conseguenti, il viaggio umano ed emozionale dell’autrice-donna in completa immersione nei sentimenti. È uno scandaglio che non risparmia i recessi dell’umanità come quando l’autrice parla o allude a sentimenti amari e di riprovazione, di sdegno e lotta interiore, di sfiducia e vero dolore nei confronti di illiceità e inadeguatezze. C’è, però, anche la sensazione della levità, di un librare pacificato in poesie dove la Nostra si riannoda al presente per mezzo del travaglio della disperazione e con rinata consapevolezza è in grado di percepire la beltà e di rivalutare comportamenti. In questo c’è, come lei stessa ha osservato in una dichiarazione, “l’amore per la verità e non la spada”, sintomo di un ritrovato colloquio con se stessa, di più convinta accettazione e di naturale inserimento e confluenza col mondo che l’attornia.

“Ho rielaborato esperienze vissute sulla mia pelle, miscelate a racconti cinematografici, pagine di poesia e narrativa, testi di grandi cantautori, opere d’arte che hanno lasciato la loro impronta nella mia formazione che mi ha educato al rispetto della vita, nel bene e nel male”, ha sostenuto, riconoscendo il grande lavoro, tanto di ispirazione creativa, di stesura, di raffronto e di collegamento tra branche delle arti diverse, tra codici variegati, nella continua esigenza di dare alla parola il suo vero senso: quello dell’apertura, della mano tesa verso l’altro.

Grazie alla fedeltà cronachistica dell’autrice del libro sullo svolgimento della serata di presentazione del volume, e il suo ricordo, mi piace citare alcuni dei testi che nel corso dell’evento sono stati letti e alcune sue considerazioni sugli stessi.

Dalla prima sezione del libro, “Tragedia a due voci”, è estratta la poesia “Avvertimento” nella quale si legge: “Dolore di esistenze spezzate, / logica perversa / del potere che spegne / la gioia / solo per il macabro gusto / di uccidere / la felicità altrui”. A questi versi fa seguito il riferimento alla figura mitologica di Aracne sulla quale la poetessa così ha rivelato: “questa fanciulla, trasformata in ragno per un capriccio di Atena, ripercorre la sua trama che ha imbrigliato la storia dell’umanità, arrivando a togliere l’aria anche a una semplice bolla di speranza in un campo di concentramento (non solo nazista) con reti elettrificate per dissuadere i prigionieri da ogni tentativo di evasione… col pensiero”. È seguita la lettura della drammatica poesia “Senza parole” dedicata alla ecatombe di disperati sui barconi (“bar[e] galleggiant[i]” come le chiama lei) nelle acque del Mediterraneo: “In ogni menzogna dell’Occidente / si perpetra l’ignominia. // La veridicità dell’orrore / sgretola l’illusione”.

La lunga poesia (che dà il titolo a questa prima sezione del libro), “Tragedia a due voci”, ha la forma di un dialogo impressionante e sadico che trova compimento in una chiusa se non del tutto risolutiva senz’altro tesa a pacificare la dannazione e il delirio, elemento costitutivo dell’intera lirica: “Il carnefice vestito di porpora esulta: / il blasfemo è in cenere”. Per meglio poter comprendere il testo, il commento dell’autrice risulta non solo utile ma ampiamente godibile nel suggerirci il tracciato genetico dei versi stessi. Così la Colapietro ha rivelato: “In questa poesia, nata visitando Campo de’ Fiori, sono entrata nella memoria del fuoco, testimone dell’esecuzione sul rogo di Giordano Bruno il 17 febbraio 1600.  La mente che si dissolve ripercorre la rabbia di Dante Alighieri esule, l’Apocalisse di Giovanni, i martiri cristiani-donne uccisi per la loro fede dopo torture inimmaginabili descritte nella Legenda Aurea, fino alla dissoluzione di ogni pensiero che restituisce la lucidità spirituale al condannato a morte per blasfemia. Il cuore, invece, è quello di Jeanne d’Arc [ovvero Giovanna D’Arco nota come “Pulzella d’Orleans”] che brucia in un passaggio sul rogo il 30 maggio 1431, questo spazio-temporale diverso da quello del condannato a morte a Roma, diventa preghiera che rafforza lo spirito”.

Dalla seconda parte, “Radiazioni”, la poetessa ha estratto (oltre a “Incandescenza d’amore”) la brevissima poesia “Il cuore” che ha ispirato una delle tavole ad acquarello di Mara Pianosi presenti nel volume. “Il cuore è estremamente fisico e libera un diamante simbolo di trasparenza e un bucaneve simbolo di purezza”, ha rivelato la poetessa. Di questa sezione sono anche le poesie “La gabbia della farfalla” il cui incipit recita: “Impressa sul marmo pregiato / da un grande artista, / tatuaggio indelebile”, scritta sull’onda della suggestione provata dalla poetessa dinanzi a un celebre gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini su motivo delle “Metamorfosi” di Ovidio.

Della terza e ultima sezione (“Su un disco di cera”) la poetessa ci ha fornito le letture e le riflessioni sulle poesie “Sguardi”, “Bianco e nero” e “Tessitrice di passioni”; con quest’ultimo testo poetico, molto garbato e dal tono lieve, pare davvero di poter scorgere l’apice di espressività della Nostra, la tensione elevata che protende verso le nervature di un’anima rabdomantica, che scruta, cerca il suo percorso, si dilegua e riflette sulle emozioni personali e comuni, sui fatti del mondo, sulle vicende esemplari di un dettato che ci fa uomini, ma anche fratelli e sorelle, in una connubio di rispetto e riscontro fattivo, d’incontro e condivisione d’intenti: “Le tue mani / vibranti d’amore / intrecciano i fili”.

Lorenzo Spurio

Jesi, 29/09/2021

Note: La riproduzione del presente testo, sia in formato integrale che di stralci e su qualsiasi tipo di supporto, non è consentito se non ha ottenuto l’autorizzazione da parte dell’autore. E’ possibile, invece, citare da testo con l’apposizione, in nota, del relativo riferimento di pubblicazione in forma chiara e integrale.


[1] La mia recensione a questa sua precedente opera è disponibile cliccando qui.

Dialetto particolare, diventato lingua: alcune considerazioni sulla questione linguistica siciliana

Articolo di ROSARIO LORIA

I nove dialetti delle nove province siciliane, non esistono. Ogni provincia ha tanti dialetti, quanti sono i paesi che la compongono e la loro omogeneità non può esistere, se non incanalandoli in una Lingua. Con tutti i complicatissimi corredi, ad iniziare dai testi di formazione.

La problematica drammatica e orgogliosamente felice, è che nessuno di loro, come nessuno di tutte le regioni d’Italia, ha un rapporto stretto con la Lingua italiana… Sembra una brutta favola, ma è la realtà. Poi c’è un colpo di fortuna straordinaria. O per altri, un miracolo. Dove oggi c’è un gruppetto di paesini, prima del Trecento, – oggi in Sicilia ci sono 2400 parole italiane, inserite nella Lingua siciliana. Per esempio: – Scarpa, pasta, acqua, ossa, mula, tubi, giacca, lenza, panna, Luna, aria, occhi, testa e così via… – ove i paesini vennero su popolati da ovunque, e la gente adottò la parlata che trovò e la conservò, in parte conservando quegli idiomi latinizzanti.

Nel Trecento era già diffusa come ‘linguaggio’ di commercio, a Firenze, a Venezia e nelle Puglie… Le parole citate prima, esistevano da noi prima del Trecento… Questo linguaggio che poi i paesotti che vennero su nei tre lembi delle province di Palermo, Trapani e Agrigento lo adottarono e lo conservarono, coi suoi latinismi.

– Mè Matri, ja a la Missa… – Che poi nell’Italiano viene distorta in Messa… Ma da noi resta ‘Missa,’ in dialetto… Ma già nel Trecento, Dante aveva capito tutto, e nella Divina, accettando il volgare, non esiste nulla della Sicilia, se non quel dialetto latinizzato, di cui Dante andò fiero, dicendo che tutto quello che è ‘siciliano, è poesia’.

Io sono nato in uno di quei paesini… Paesini che in due guerre e varie carestie non hanno avuto un morto, una bomba… Scansati perché poveri, non offrendo agli invasori, alcuna garanzia economica… Per secoli il mio paesino tenne costante una popolazione di 3500 abitanti… Oggi manco 1500… Infatti le parlate, e nella Divina, la Lingua siciliana trova se stessa, al punto di insinuare che la Lingua italiana, nasce dalla Lingua siciliana…

C’è uno sparpaglio di confronti con le critiche di Giovanni Teresi, e le mie traduzioni in Lingua siciliana. Nell’ottanta per cento dei casi le parole sono uguali, nelle traduzioni del Purgatorio… Uguali, non somiglianti… Quindi questo è un miracolo unico per tutta la nazione… La Lingua poi si perfeziona con Federico II, Pier delle Vigne, Francesco D’Assisi… – Ludato si tu, me Signuri… Sora Luna… Frate sole… – Da noi non esistono ‘fratelli’, ma ‘li frati…’ Cu’ ‘Nninu semu comu li frati… ‘Nni spartèmu lu sonnu di la notti… –

A continuazione i vv. 99-126 del C. 1V del Purgatorio della Commedia e, a seguire, la traduzione in dialetto di Loria nella parlata della nativa Poggioreale (TP) con evidenti e inevitabili influssi e contaminazioni della parlata autoctona di Menfi (AG) dove da decenni vive ed è umanamente e culturalmente legato:

E com’elli ebbe sua parola detta,

una voce di presso sonò: «Forse

che di sedere in pria avrai distretta !

E ‘ccom’iddu happi, la so palora ditta,

‘nna vuci ‘ddà vicinu sunàu; – Forsi

chi ‘ddi sèdiri primu, avirrài la stritta !

Al suon di lei ciascun di noi si torse,

e vedemmo a mancina un gran petrone,

del qual né io né ei prima s’accorse. 

A lu sònu d’idda, ognùnu di nùi si turcìu,

e ‘bbittim’a ‘mmancina u’ ‘rràn ‘mpitrùni,

di lu quali, né iu, né iddu prima, s’àccurgiu.

Là ci traemmo; e ivi eran persone

che si stavano a l’ombra dietro al sasso

come l’uom per negghienza a star si pone.

‘Ddà ‘nni’ ‘nni jèmu, e ‘ddà ‘cc’eranu pirsuni

chi si ‘nni stàvanu all’ùmmira, darrè lu màssu,

comu l’òmu, pi ‘gnurànza, stari s’impùni.

E un di lor, che mi sembiava lasso,

sedeva e abbracciava le ginocchia,

tenendo ‘l viso giù tra esse basso.

E unu d’iddi chi mi paria stancu,

sidia e abbrazzava li dinocchia,

tinènnu lu facciùzzu, jùsu, tra iddi, biancu.

«O dolce segnor mio», diss’io, «adocchia

colui che mostra sé più negligente

che se pigrizia fosse sua serocchia ».

– Oh, duci signùri mèu, – diss’iu, – talia

a ‘cchiddu chi ‘ppàri chidd’è ‘gnuràntùni,

chi ‘ssi l’annùiazia, fùssi sò surùzza Lia. –

Allor si volse a noi e puose mente,

movendo ‘l viso pur su per la coscia,

e disse: «Or va tu sù, che se’ valente !».

Allura si vutàu a ‘nnùi, e ‘ppòsi mènti,

muvènnu la facci, puru sùsu, pi la coscia

E dissi; – Ora và tù sùsu, chi ‘ssì ‘bbalènti ! –

Conobbi allor chi era, e quella angoscia

che m’avacciava un poco ancor la lena,

non m’impedì l’andare a lui; e poscia

Canusciv’allùra cu’ era, e ‘cchiddu ròppu

chi m’affucava u’ ‘mpòcu, ancòra la lena,

u’ ‘mmi ‘mpidì d’abbicinallu: e ‘ddòppu,

ch’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena,

dicendo: «Hai ben veduto come ‘l sole

da l’omero sinistro il carro mena ? ». 

ch’a iddu fu ‘gghiùntu, aisàu la tèsta appèna,

dicènnu; – Ha beni vistu comu lu suli,

di l’omèru màncu, lu carru arrèna ? – 

Li atti suoi pigri e le corte parole

mosser le labbra mie un poco a riso;

poi cominciai: «Belacqua, a me non dole 

L’azioni sòi lenti, e li curti paròli,

muvèru li labbra mèi u’ ‘mpoc’a risu,

poi, ‘cuminciavi; – Belacqua, a ‘mmia u’ ‘ndoli, 

di te omai; ma dimmi: perché assiso

quiritto se’? attendi tu iscorta,

o pur lo modo usato t’ha’ ripriso ? ».

di tia ormai: ma dicimi: picchì assisu

dirilittu si ? Aspetti tu la scorta,

o puru lu mod’usatu, t’ha risprisu ? – 

Ed elli: “O frate, andar in sù che porta ?

ché non mi lascerebbe ire a’ martìri

l’angel di Dio che siede in su la porta.

E iddu: – O frati, iri sùsu, chi ‘ppòrta ?

C’u’ ‘mmi lassirria iri ch’a li martiri,

l’angilu di Diu, chi ‘ssedi ‘ncàpu la porta. 

Un sito WordPress.com.

Su ↑