“Santì d’Andolöséa” di Maurizio Noris sarà presentato giov. 16 maggio a Bergamo

Ad aprire il ciclo di incontri letterari promossi da “Cento4 – Idee in Circolo” a Bergamo dal titolo “Abitare la poesia al cento4 – poeti incontrano i poeti” sarà Edoardo Zuccato che giovedì 16 maggio a partire dalle 17:30 incontrerà il poeta Maurizio Noris per presentare il suo libro in dialetto bergamasco della Media Val Seriana Santì d’Andolöséa (Santini d’Andalusia) edito da Teramata nel 2023.

Nel sottotitolo del libro si legge Omaggio a Federico Garcia Lorca. L’opera si apre con un testo critico introduttivo scritto dal sottoscritto (dal titolo “Inizia il pianto della chitarra”, che è possibile leggere online cliccando qui) e contiene opere di Sara OberhauserTraduzione e voce a cura di Maurizio Noris. Le letture sono state trasposte in registrazioni audio-video in cui è Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti. Il libro si chiude con una postfazione di Vincenzo Guercio.

Gli eventi successivi vedranno la presenza di Paola Loreto che incontra Cristiano Poletti con il libro Un altro che ti scrive (Marcos y Marcos, 2024) il 23 maggio; di Franca Grisoni che incontra Nadia Agustoni con il libro Avrei voluto da giovane solo vivere (Nino Aragno, 2024) il 30 maggio e infine di Maurizio Cucchi che incontrerà Marco Pelliccioli con il libro Nel concerto del tempo (Mondadori, 2024) il 6 giugno.

Tutti gli incontri si terranno al Cento4 a Bergamo, sito in Via Borgo Palazzo 104 e saranno coordinati da Gabrio Vitali.

“Comincia il pianto della chitarra!”, Prefazione al libro “Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico Garcia Lorca” di Maurizio Noris

PREAMBOLO

Alcuni mesi fa il poeta e scrittore lombardo Maurizio Noris mi ha gioiosamente coinvolto nel lavoro della pubblicazione del suo libro contenente una scelta di opere poetiche di Federico García Lorca tradotte da Noris nel suo dialetto bergamasco della media Valle Seriana, per la stesura di un commento critico sull’opera (intitolato “Comincia il pianto della chitarra!”).

Il libro, dal titolo Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico Garcia Lorca – edito da Tera Mata Edizioni (Bergamo) – si apre con il testo della mia presentazione (che viene proposto, a continuazione, sulle pagine di questo sito) e contiene opere di Sara Oberhauser. Traduzione e voce a cura di Maurizio Noris.

Le letture sono state trasposte in registrazioni audio-video in cui è Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti. Il libro si chiude con una postfazione di Vincenzo Guercio.


BIOGRAFIA DELL’AUTORE

Maurizio Noris (Comenduno di Albino, BG, 1957). Scrive poesie in lingua prima del dialetto bergamasco della media Valle Seriana. Ha pubblicato Santì (2001, libro artigiano di poesie con l’artista grafico Ivano Castelli e presentazione di Ivo Lizzola), Dialèt De Nòcc D’amùr (2008, vincitore del prestigioso Premio “Città di Ischitella”), Us de ruch (2009, plaquette con introduzione di Alberto Belotti), Us de ruch (2010, con introduzione di Franco), Àngei? e Zögadùr (2012, con la presentazione di Piero Marelli e Silvio Bordoni), In del nòm del pàder (2014, con postfazione di Giulio Fèro), Resistènse (2016, introduzione di Franca Grisoni), A cüre socane (2022, installazione organico-poetica con un catalogo di 20 poesie inedite presentato da Gabrio Vitali), Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico García Lorca (2023, presentazione di Lorenzo Spurio, con opere di Sara Oberhauser, traduzione e voce a cura di Maurizio Noris, registrazioni audio-video di Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti, postfazione di Vincenzo Guercio). Ha curato Guardando per terra, voci della poesia contemporanea in dialetto (2011, co-curatore Piero Marelli). È presente con suoi testi in L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto (2014), in Dialetto lingua della poesia (2016) a cura di Ombretta Ciurnelli e in diverse antologie e riviste. Per tutto il 2019 ha curato la rubrica settimanale SÖ L’ÖS del -santalessandro.org- settimanale della Diocesi di Bergamo, con la presentazione anche sonora e commento delle sue poesie.


PRESENTAZIONE AL LIBRO

“Comincia il pianto della chitarra!”

Di LORENZO SPURIO

Molti dei letterati della nostra età, oltre a perseguire con necessità primaria la propria vocazione di autori che li vede poeti o scrittori che sia, non hanno mancato d’interfacciarsi con il non complicato mondo della traduzione. Il fenomeno di comprensione di una lingua d’altri, d’interpretazione e di lettura profonda (e d’immedesimazione, spesso) per poter generare la medesima opera con un vestito leggermente diverso (mai diremmo se migliore o peggiore del suo originale) coinvolge in maniera correlata e intensa una serie di meccanismi mnemonici-sensoriali, evocativi e reminiscenziali ma anche psicologici, più profondamente intimi e innati nel singolo.

La grandezza di un autore non è data né dal numero di copie dei suoi libri che vende nel corso del tempo né dal numero di lingue (diremmo meglio gli idiomi, a voler intendere anche parlate più ridotte o che non hanno, a differenza di quanto avviene con la lingua, un più diretto richiamo o correlazione a un determinato stato nazionale) in cui la sua opera viene versata. Sta, al contrario, nella capacità delle genti, di età, luoghi e da identikit sociali differenti, a riuscire a farsi ascoltare. A trasmettere una percezione unica e indescrivibile. Un gigante della letteratura internazionale come Federico García Lorca nel corso delle decadi che si sono succedute dalla sua prematura morte ha avuto (e contribuito ad alimentare) un lascito umano di lettori, critici, studiosi e affezionati, di anime in sintonia col suo dire, di persone più o meno altolocate, cattedratici e popolani, ingente, in logaritmica e irrefrenabile ascesa.

I componimenti che Maurizio Noris ha scelto dell’ampia produzione lirica del celebre “poeta con il fuoco nelle mani”, rimontano a quell’esigenza di calarsi in una natura primigenia e inalterata dall’introduzione del dato antropico. In appena una ventina di testi scorre davanti agli occhi del lettore una sorta di sintesi perfetta dei temi, delle immagini care, dei colori, dei rimandi e degli echi che hanno contraddistinto la poesia del Granadino rendendolo universalmente celebre e ineguagliabile. Una leggenda, per alcuni, un martire per altri. Sicuramente una presenza inesauribile e imprescindibile per tutti.

Le vicende che nel tempo hanno visto il prediligere di alcune traduzioni di Lorca nel nostro italiano piuttosto che altre (ricordiamo qui, per mero inciso, che non solo i tanto “celebrati” Bo, Bodini, Rendina e Macrì tradussero Lorca in italiano come spesso, facilisticamente, vien dato da intendere) sono tortuose e rimangono per lo più difficili da tracciare (ammesso che in esse si possa riscontrare un vero interesse di fondo) dettate spesso anche da logiche di mera diffusione editoriale o, al contrario, di veti espressi (o malcelati) all’interno di congreghe accademiche. Sta di fatto che, nel nostro Paese, Lorca ha visto non solo tante traduzioni (più o meno ricordate, più o meno affidabili) nella nostra lingua, ma anche in alcuni dialetti. Penso al torinese nel quale lo versò Luigi Armando Olivero, al friulano di Pier Paolo Pasolini, al siciliano di Salvatore Camilleri, al romagnolo di Tolmino Baldassari, solo per citare alcuni nomi ma la lista potrebbe essere infinita e sempre – purtroppo – clamorosamente incompleta a causa della difficoltà di una ricerca che, pur mirata, spesso non riesce a fornire apprezzabili risultati (ricordiamo che molti tentativi di traduzione non vennero alla luce, altri solo in ciclostile, la gran parte di essi non pubblicati con un editore, né registrati in biblioteche nazionali).

L’operazione di Noris – poeta sopraffino e amante del suo dialetto nativo, il bergamasco della Val Seriana – s’inserisce, dunque, in una tradizione (non sempre scritta) che sappiamo essere fluentissima (per nulla studiata, purtroppo) che nasce da quella volontà intima di far parlare l’opera di un Grande come l’autore di Nozze di sangue con l’autenticità della propria lingua personale, del proprio dettato ancestrale e familiare.

Riconducendo il discorso alla scelta delle liriche effettuata da Noris, ritroviamo nel volume poesie selezionate dalle Canciones, opera della fase giovanile, dall’arcinoto Poema del cante jondo, sino ad arrivare all’ampio campionario dei Poemas Sueltos e alle raffinatissime composizioni delle casidas che, insieme alle gacelas, fanno parte del Diván del Tamarit, opera la cui prima pubblicazione avvenne nel 1940 ovvero quattro anni dopo l’assassinio dell’Autore come pure Poeta en Nueva York, l’opera surrealista del Nostro che Noris ha deciso di non compendiare (crediamo per la forte lontananza alla poesia della Spagna arcadica e neo-popolare del primo Lorca). La scelta di testi ci fa immergere completamente nella Spagna autentica e rurale di Lorca, quella della campagna arsa dal sole e sollevata spesso da qualche vento inaspettato, quella delle case di calce bianca dei pueblos, gli antichi (e conservatissimi) agglomerati cittadini che si snodano in vicoli e vicoletti, piazzette e stradine ancor più piccole.

La tradizione andalusa è percorsa in lungo e in largo da Noris per mezzo di liriche che ben risaltano le peculiarità del tessuto abitativo e sociale di quella regione con particolare attenzione a quel mondo ritmico-sonoro così importante (il flamenco, il lamento della pena negra, le danze dei tablaos, il clarino nelle corride, etc.) richiamato anche nelle saetas della Semana Santa con la processione del Cristo, il zorongo, che assieme al jaleo è uno dei più celebri canti e balli della tradizione andalusa riconducibili alla grande famiglia della flamenqueria, finanche la nenia giocosa e fiabesca delle ninnenanne (famosa la sua conferenza sulle ninnenanne, Las nanas infantiles, tradotta anche dal veronese Arnaldo Ederle).

L’universo simbolico-oggettuale di Lorca (non solo poeta ma anche drammaturgo) diluito nei versi qui raccolti ben si condensa nel corso della lettura: il predominio della luna a volte imperscrutata altre volte che ammicca in senso fatalistico (sempre, comunque, collegata a un’idea di morte o di un nefasto presentimento) si lega alle immagini dello specchio (ricerca d’espressione e al contempo caducità dell’immagine) e a quelle degli arnesi del mondo contadino (il pugnale, la falce) che se hanno un uso pratico nel proprio lavoro a volte vengono impiegati, in un clima d’odio e vendetta, anche come minaccia o per dar la morte (ricordiamo la struggente e drammatica “Reyerta” tradotta da Rendina e Clementelli con “Zuffa”). Ci sono bambini, si odono lamenti, invocazioni alla luna, cavalli e farfalle, l’osservazione attenta e panica dello scorrere delle acque, lo sfolgorio dei colori e la densità dell’argento. Su ogni poesia, data la ricchezza contenutistica e gli squarci di alta intensità lirica (nei testi selezionati l’Autore ha preferito non inserire poesie che, più direttamente, potessero essere analizzate in relazione alla loro tensione etico-civile, pure presente in buona produzione del Nostro), l’inspiegabile suggestione trasmessa, la capacità pareidolitica e la potenza empatica sul lettore, si potrebbero dire molte cose, riflettere, ampliare, senza riuscire mai a compendiare in forma totale quella massa sconfinata d’energia e magma interiore.

Maurizio Noris in quest’opera avvolgente, frutto di un lavoro condiviso con altri autori e artisti (in quel sodalizio ampio che tanto amava Federico e lo portava a collaborare con molte persone, si ricordi la gloriosa esperienza corale de “La Barraca”), fonde due circostanze importanti della sua realtà presente – non tangenziali né improvvise – ovvero l’amore per l’universo lorchiano, che ne fa di lui interprete, seguitore e convinto confidente, e quello per il dialetto personale, radicato nella provincia lombarda. Distanze, quelle tra la Val Seriana e l’Andalusia, che ci appaiono di colpo annullate o mai esistite. Nel flusso inalterabile di un fuoco creativo ed energico che arde imperituro e s’espande, inondando mente e cuore al di là di categorie umane.

LORENZO SPURIO

Jesi, 13/01/2023


La pubblicazione del presente testo, in formato integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.

“In del nòm del pader” di Maurizio Noris, recensione di Gian Piero Stefanoni

Recensione di GIAN PIERO STEFANONI

In del nòm del pader (Tera Mati Edizioni, Bergamo, 2014), pur nella brevità di soli dieci testi, può esser considerata più che significativa ed esemplificativa della produzione e della poetica di Maurizio Noris, autore tra i più affermati e validi della nostra poesia in dialetto. Nella scrittura in bergamasco della media Valle Seriana, poeta più che attento anche alla risonanza civile del mondo, dei mondi di suo riferimento, formatore e promotore socioculturale nell’ambito delle professioni sociali e delle politiche giovanili, ci restituisce in questi versi tutto l’affidamento e il volto di una terra la cui fatica è una fatica d’amore, e di passaggio, di consegna alla luce di generazioni che pur nella distanza, o nel dolore del distacco continuano a guardarsi ad invocarsi nel riferimento reciproco. Centrale, come da titolo, la figura del padre nella dilatazione e nella sacralità verso un padre più alto come già avuto modo di rilevare nella bella postfazione Giulio Fèro.

Il bergamasco Maurizio Noris, autore de “In del nòm del pader”

E nella tensione dicevamo d’apprendimento della terra stessa, affrontata, lavorata e curata e restituita infine all’incanto di una rinascita cui l’uomo può solo riconsegnarsi e affidarsi dopo una lotta che proprio per questo è anche lotta d’assenso dove lo stesso “segà”, il falciare, appare in divenire caduta e aderenza (“dal còr de la téra/l’èrba udurusa/per creansa la scalmana//sentùr de sfacia spusa”-“”dal corpo della terra/l’erba odorosa/ trasuda per creanza/sentore di sfatta sposa”), come da immagine l’erba quietamente ubbidiente ad accovacciarsi a file. File sì come la schiera di cari scomparsi che pare avanzare a buon passo “olce a gröp/ch’ i par màgher fó/o murù per sò cönt/largh cóme imbràss” (“alti a gruppi/che paion magri faggi/o gelsi da soli/larghi come abbracci”) a rammentare quella fratellanza di occhi e di poche parole che viene proprio da tanta disputa, tanto ardore condiviso, anche loro adesso sottoterra a ritornare piante. Dietro tanta luce Noris però, come è, come sa, intreccia il buio di nodi raschiati, vegliati, gridati; quei nodi per cui viene da imprecare anche e chieder pietà per una “éta/de pelagra” (“per una vita da pellagra”) nel riflesso di un chiarore maestro rivolto “fò sö la crùs” (lassù sulla croce”), e per cui ogni sera ritrovarsi sotto al noce del padre a riseppellirlo in scarabocchio, e tenerezza di sguardo. Dispute, nodi che sono gli stessi del lavoro della lingua, la sua quella “dei genitori, dei fratelli, del paese, della valle (oggi periferia nord della città infinita), il parlato di sempre”, la “lingua prima” come da lui raccontato. “Una parola irruente e lavorabile come un codice sonoro (..) in cui c’è tutto lo spazio per re-inventare le parole” facendosi la poesia immagine nel racconto del suono dialettale, della sua forza “e gusto per la delicatezza espressiva che è capace di sollecitare” Ed in cui ben riesce a far “risuonare in una lingua montanara, di per sé aspra e rugginosa, quale è il bergamasco delle valli, le più sottile e sensibili essenze delle cose” (Franco Loi). Cose che sono dell’universo umano da sempre, che lo compongono in una veglia e una custodia che ha sempre, e non potrebbe essere altrimenti, del femminile come da ultimo testo nella intensità di un ritorno, eterno, di madre nel bisbiglio di preghiera dai loro letti ai figli, finché porteranno “il segno/e il loro cantare slegato/sul colmo/dei tetti” (” l segn/ e ‘l sò cantà desligàt/ sö la culma/ di tècc”). Un canto non dissimile allora a quello del contadino, “cantore”, in una voce “ariusa de pórtech/desligada/ che và” (“ariosa di portico/slegata, /che va”). E allora grazie Noris.

GIAN PIERO STEFANONI


L’autore della recensione ha autorizzato, senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in seguito, alla pubblicazione del testo su questo spazio. La riproduzione del testo, in formato integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto, non è consentito senza l’autorizzazione da parte dell’autore.

Mail art, “Quintessenza della comunicazione creativa” (R. Maggi), inaugura il 25/07 nel Bergamasco

Il progetto Mail Art quintessenza della comunicazione creativa curato da Ruggero Maggi verrà presentato al Museo dei Tasso e della Storia postale, con il sostegno morale del Museo Storico della Comunicazione di Roma e il patrocinio del Polo Culturale “Mercatorum e Priula / vie di migranti, di artisti, dei Tasso e di Arlecchino”, dal 25 luglio al 26 settembre 2021.

INAUGURAZIONE – DOMENICA  25 LUGLIO 2021, ORE  17:00

Arte è comunicazione e l’arte postale può essere quindi considerata la quintessenza della comunicazione creativa, offrendo contatti con il mondo intero attraverso il contenuto di una semplice busta.

Cartoline, francobolli, buste… sono gli elementi principali della Mail Art, ma non solo, c’è anche una bella dose di anticonformismo, di decontestualizzazione di immagini e di oggetti, di scardinamento di regole e canoni, ringraziando Marcel Duchamp e Piero Manzoni. Prevale il desiderio di non conformarsi ad un mercato (quello dell’arte, per intenderci) che quasi sempre inibisce la vera ricerca artistica.

La Mail Art non si fa per soldi, non si fa per la fama… si fa… si vive… è emozione… emozione di ricevere buste che sono vere e proprie opere d’arte, emozione nell’aprirle e scoprire ciò che contengono, inaspettati tesori contenuti da altri tesori che in certi casi provengono dall’altra parte del mondo, con impressi i segni del lungo viaggio che fanno parte della loro storia. Un “network eterno” – così la definì Robert Filliou – aperto a tutti, artisti e non: è proprio questo il grande scardinamento rappresentato dalla Mail Art.

Mentre Marcel Duchamp con i suoi ready-made dimostrava che tutto poteva essere arte e che ogni oggetto possedesse perciò in sé la “matrice” poetica in grado di decontestualizzarlo come opera d’arte, la Mail Art permette a chiunque l’accesso ad un nuovo mondo di comunicazione creativa e a una libera circolazione di idee, arte e cultura underground.

Aspetto sociale della Mail Art sempre presente nel lavoro di molti Networkers come Clemente Padín che per esso si è battuto sino al limite estremo della propria libertà personale, finendo in carcere per vari anni durante la dittatura militare in Uruguay negli anni ’70. Altri artisti postali portavoce di questa intrinseca “vocazione” della Mail Art verso un atteggiamento critico nei confronti dell’establishment culturale e politico sono stati senz’altro i russi Serge Segay e Rea Nikonova che, nonostante la censura di quel periodo storico, fondarono il primo Museo sovietico di Arte Postale ad Eysk, che ebbi il privilegio di inaugurare con una mia mostra nel 1989.

La Mail Art ha una spiccata inclinazione per la non-ufficialità, in cui ha valore la relazione intrinseca tra il mittente, l’oggetto spedito e il destinatario.

L’arte postale glocale è parte integrante di un processo di globalizzazione culturale che si estrinseca a livello locale mediante l’azione che ogni artista postale compie attraverso una fitta rete di contatti, come una babilonica torre dai destini incrociati. In questo vero e proprio network mondiale si è raggiunto uno stadio particolare di fare, anzi vivere l’arte.

Il mezzo più frequente per ottenere questi rapporti capillari è costituito appunto dalla Mail Art che abbraccia il mondo intero. Il mailartista è come la tessera di un formidabile mosaico in uno sconfinato universo di energie poetiche.

La sua funzione è unica, poiché unico è il suo collocamento all’interno del network stesso con le relative connessioni con altri artisti.

Recentemente sono stato invitato a parlare di Mail Art al Tavolo dei “postali” organizzato da Fabio Bonacina presidente dell’Unione Stampa Filatelica Italiana e dal Museo Storico della Comunicazione e, per l’occasione, ho presentato un QRcode Mailartistamp che, una volta attivato, può sintonizzarsi su un mio video sulla storia della Mail Art. (Ruggero Maggi)

La mostra è dedicata a Adriano Cattani, amato direttore del Museo.

Museo dei Tasso e della Storia postale

Sala Mercatorum | Portici di Cornello | Camerata Cornello | Bg

MAIL ART – quintessenza della comunicazione creativa

progetto internazionale di Arte Postale di Ruggero Maggi

25 luglio – 26 settembre 2021

INAUGURAZIONE – DOMENICA  25 LUGLIO 2021, ORE  17:00

Da mercoledì a domenica

Orari di apertura | 10:00 – 12:00 | 14:00 – 18:00

Giorni di chiusura | lunedì e martedì

info | www.museodeitasso.com | 0345 43479 | info@museodeitasso.com

“Forse là, dove danzano i girasoli” di Anna Maria Santoni Boselli , recensione di Lorenzo Spurio

Forse là, dove danzano i girasoli
di Anna Maria Santoni Boselli
Marco Serra Tarantola Editore, 2012
ISBN: 978-88-97107-81-1
Pagine: 170
Costo: 18 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

La morte non distingue le frontiere e falcia in ogni direzione alla cieca troppe vite e le abbandona (p. 93).

 

9788897107811Forse là, dove danzano i girasoli di Anna Maria Santoni  Boselli è un manifesto della nostalgia e una roccaforte del ricordo che, pur a distanza di molti anni, non annuncia a sbiadirsi o a logorarsi. E’ un romanzo familiare, ma è anche e soprattutto un romanzo storico, perché la scrittrice inserisce le vicende della sua famiglia –trattate in maniera cronachistica e documentale- all’interno della cornice più ampia della storia contemporanea italiana, di quel periodo della storia disprezzabile, sofferto e dal quale prendere le distanze, allontanando, però, sempre la minaccia dell’oblio.

Si parla della nascita di un amore tra due ragazzi inesperti della provincia lombarda, del loro veloce matrimonio e della creazione di una loro famiglia, ma la guerra irrompe improvvisa e sgretolerà ogni sogno: l’uomo verrà mandato in guerra, nella campagna di Russia, e da lì mai più ritornerà: non conoscerà mai sua figlia, né si ricongiungerà all’amore di sua moglie che, straziata dal dolore, dovrà farsi forza per il bene di sua figlia e andare avanti.

Il libro è inoltre arricchito da documenti dell’epoca, quali biglietti privati scambiati da Rico, al fronte, con sua moglie o una sua foto in abiti militari, l’unica immagine che la scrittrice ha di suo padre. Ma su ogni cosa viene evidenziato quanto il potere dei pochi, quanto le decisione prese prepotentemente per il bene del paese, come quella di andare in guerra, abbiano conseguenze deleterie e inimmaginabili in modeste famiglie che, dall’oggi al domani si vedono private dei cari. Speranza, prima, dolore poi. Questa è la canonica mappatura dei sentimenti di una famiglia che attende a casa il ritorno di un suo congiunto.

Rico non ritornerà più e di lui non si sapranno più notizie certe. Il dramma della guerra a volte porta anche a questo, e la natura, quasi beffardamente, sembra riappropriarsi dei suoi uomini e inghiottirli dentro di sé, evitando di lasciare tracce: “Enrico non scrive più, disperso nella steppa russa, sepolta di neve ghiacciata, nessuno saprà più nulla di lui. Disperso chissà dove, forse sepolto, là dove, al suo ventisettesimo compleanno, danzeranno i girasoli” (p. 103).

Ma non è la natura ad essere sadica, è l’uomo che imbarbarito nella sua coscienza e illusosi di poter sfidare tutto, anche se stesso e Dio, ha prodotto abomini senza prenderne coscienza.

E di questa storia raccontata semplicemente, ma nei minimi dettagli resta l’amaro in bocca, un senso di dolore che mai potrà essere placato, perché qualcuno ha abbandonato la veste di uomo mortale assumendosi prerogative supreme (quella di dar morte), privando una giovane nascitura dell’affetto paterno.

Quanto Anna Maria Santoni Boselli racconta è pregno di ricordi dolorosi e sensazioni contrastanti vissuti sulla sua pelle rievocando momenti tragici della storia del Paese: la dittatura vista dagli occhi della scrittrice come il “Duce [che] continua ad urlare” (p. 66) e quei tedeschi poi futuri alleati stigmatizzati come “crucchi”.

Ma queste pagine non sono solo di Anna Maria Santoni Boselli, sono di tutti.

Sono di tutte le famiglie italiane che hanno sofferto una perdita in quel gravoso momento e mi sento di dire che possono essere anche riferite a ciascun tipo di guerra, privazione di diritti umani e violenza che provochi dolore, mancanza di speranze e fine delle certezze. E nel capitoletto “Preghiera violenta”, anche la religione, come cura e sostentamento dell’uomo, ha abbandonato la giovane Palmira che oltre ai racconti delle sevizie e delle torture dei tedeschi fatti da Giovanni, deve sopportare il dolore della famiglia per la morte di due giovanissime sorelle a causa del tifo. C’è un Dio? E’ questa la domanda che la scrittrice si pone: “Perché non hai fulminato quei capi di popolo disgraziati, che hanno offeso e rovinano tante famiglie in tutta Europa? E dov’erano i tuoi rappresentanti sulla terra?” (p. 129) per poi passare a un linguaggio forte dal quale trasuda voglia di vendetta: “Maledetti quegli uomini, che hanno tanto ferito l’Umanità, siano maledetti, torturati, impiccati, sparati, sputacchiati, calpestati” Oh, Dio dove sei? Svegliati!! Ritornata! – No?… Dio è morto!-“ (p. 129).

Oltre  ogni dolore, la volontà di conoscere e di tramandare ai posteri affinché gli sbagli non vengano fatti una seconda volta, è potentissima: “Non conosceva la storia, ma sentiva spontaneamente che i fatti che accadono possono insegnare qualcosa a chi viene dopo, ma ci vuole umiltà e pazienza per ammetterlo!”(p. 121).

Lorenzo Spurio

(Scrittore, critico-recensionista)

Jesi, 12-03-2013

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

Iniziativa Editoriale dell’Ass. Culturale “Il Paese che non c’è”

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INIZIATIVA EDITORIALE

con pubblicazione gratuita

Possono partecipare autori con opere a tema libero purché inedite, scritte in lingua italiana. Le opere di autori stranieri dovranno essere accompagnate dalla traduzione.

  • L’iniziativa editoriale si articola in due sezioni:
    SEZIONE A: Poesia (Da 30 a 50 poesie raccolte in fascicolo).
    SEZIONE B: Narrativa (romanzo, saggio o raccolta di racconti non superiore alle 50 cartelle dattiloscritte).
  • Non è consentita la partecipazione ad entrambe le sezioni.
  • Le opere devono pervenire all’Associazione Culturale “Il Paese che non c’è” – via Sant’Alessandro, 32 – 24121 Bergamo, a mezzo posta prioritaria, entro la scadenza del 31 GENNAIO 2013.
  • Di ogni composizione devono essere inviate 3 (tre) copie dattiloscritte o fotocopiate purché leggibili. Solo una copia dovrà contenere nome, cognome, indirizzo e recapito telefonico ed email del concorrente.
  • Saranno scartate, senza che sia dovuta comunicazione al concorrente, quelle opere che non risponderanno a quanto richiesto nei precedenti articoli.
  • Le opere non saranno restituite. L’Associazione non è tenuta ad alcuna comunicazione sull’esito del concorso ai concorrenti non premiati o segnalati; i risultati del premio saranno resi noti mediante pubblicazione sulla stampa specializzata.
  • I nomi dei componenti la giuria saranno resi noti durante la cerimonia di premiazione che si terrà in data e luogo da destinarsi.
  • Al vincitore verrà offerta la pubblicazione.
    I primi dieci classificati riceveranno interessanti proposte editoriali.

 

  • E’ gradito un libero contributo da inviare con gli elaborati.
  • La partecipazione all’iniziativa editoriale implica l’accettazione incondizionata di tutte le norme del presente regolamento. Per ogni controversia è competente il Comitato Organizzatore.

Considerato il laborioso compito della giuria, si ringraziano gli autori che avendone la possibilità, invieranno le proprie opere prontamente e non nei giorni prossimi la scadenza.

INFO: 3771246697 – ilpaesechenonce@tin.it

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