N.E. 02/2024 – “Al di là di un dispersivo incanto nella pluralità dei versi di Oronzo Liuzzi”, saggio di Carmen De Stasio

Fase di ritrovo in un processo di evoluzione ribollente di trasferte attratte da disorientante progresso, il tempo attuale della poesia volge a quella che in più di un’occasione ho definito memoria eidetica: vale a dire, una memoria impegnata a disoccultare situazioni in prossimità e segni l’andare esterno-interno permanente attraverso un ordito lessicale che, privandosi del disagio procurato da sintagmi isolati (ma nondimeno consolatori), rapprende incidenze progressive lanciando significati profondi tanto della parola pensante, che del pensiero calibrato attraverso la grafia di un dire che sconfina dalla semplice azione scenografica. L’opera rende così merito di una lingua plurale di tipo barthesiano; una lingua che, trasfigurando la partitura per livelli non dissimili da un impianto musicale, configura la pluralità fonetica, quanto logico-viscerale (se possibile) della parola nella sua funzione etica, comprensiva e resistenziale; nella coralità di recondite pulsioni rapprese in una manifestazione costruttiva di condizioni pur se talora acquisite in elusiva incompatibilità.

Risuona in questa sede il richiamo alla poesia di Oronzo Liuzzi; alla reciprocità di parti attraverso le quali ad essa si offre durevolezza nell’ambito segno di spiritualità, una spiritualità che vediamo corrispondere al processo di conoscimento con le moltiplicanti note di un sé mai rarefatto, né tumefatto dall’ambiziosa consuetudine alla disgregazione. Anzi, è in un andamento senza tregua[1] che l’esperienza poetica riflette la sua meditazione su sfondi reali, implicando il sé del movimento «nel» movimento continuo di un sé disposto alla ricerca di un senso sotto il sole irresistibile[2], e consentendo alla coscienza di diffondersi nella permanente azione della parola.

In tal senso, la parola è arte del visualizzare incerti scampoli di uno spazio occupato da tensioni, iridato da rumori del vivere l’inebriante quotidiano: nelle esortazioni pensative, e prodigandosi al di fuori di prepotenti certezze, il verso calibra una neo-storia per scenari che, nell’evitare il freno all’ordito di una tempesta immaginale, si impossessa della città (…) trattiene assimila (…) interpreta attraversa (…)[3]. Così il continuo incedere dei pensieri (che intanto riconquistano un mondo addormentato[4]) dilania le cesure. Non basta: declina il distintivo processo semiotico in un reticolato di intuizioni che rimandano alla coralità crescente di un linguaggio esteso in un rapporto non programmato e che, in più, sfugge alla labirintica geometrizzazione, porgendosi all’ascolto di un sé coscienziale quale segno grafico della spiritualità del vivere di contro alla dilagante reificazione.

Da una postazione di consapevolezza fuor da qualsiasi frivolezza od anche da incauta attrazione al pensiero debole[5], il poeta recupera gli anni, i mesi, i giorni e le ore e contende il tempo interno all’esperienza del tempo esterno raggrumato in affaccio frontale su (…) un sogno un incubo / una pagina della mia vita / che non mi appartiene (…)[6]; accoglie le frange e le sfumature di un tempo coinvolto nei confini psichedelici del sogno aleatorio, da nostalgia nefasta e da speranza illusoria. Alla realtà come risorsa, invece, si volge il cammino del poeta per assottigliare sparse faglie tra il sé sussistente e il sé propenso a prospettarsi come scoperta continua oltre la cornice senza ritorno[7] di un Io proiettato nello specchio. Diramandosi tra i versi e tra una parola e l’altra, la volontà dissuade pensieri circoscritti in un’irrecuperabilità parlata e assume l’aspetto anti-iconico di un’intenzione per ovviare a quel che viene evocato – con intonazione variabile – quale viaggio verticale di coscienza, un viaggio che permette al poeta di librarsi oltre le trame sterili di un esistere vagheggiato in un’icona preconfezionata – laddove pure creiamo mondi di ciò che non siamo[8]. Nessun messaggio si riscontra, quanto, invece, l’orientamento a un’integrazione di parti sospese, nelle quali Oronzo Liuzzi coglie i cori dell’esistente oltre le lusinghe di una parvenza di vivere che, invero, pare inclinarsi alla somiglianza fatiscente del montaliano sonno eterno. E, infatti, attratto dall’impegno che la parola possiede nell’instillare percorsi di coscienza a sé prima che al lettore, Liuzzi si dedica alla scrittura d’arte verbo-visiva, conseguendo il clou interattivo tra materia e l’incedere costante verso la coscienza di sé, allungandosi sulle sensibilità ravvisate nel territorio vasto di un reale verificabile e incline al cambiamento, quanto, talora, inebriato da prevedibilità consolatoria. Qui il poeta non è solo: egli transita laddove l’occhio libero si muove esplora la mente vaga / si perde nell’aria rarefatta sospeso riflette crea / al tramonto emerge finalmente discendo / nell’entusiasmo del tempo il mio[9].

In tal senso la poesia contravviene a una regolamentazione intesa a irrorare di frastuoni inebrianti il ritratto dell’inerte dato. Non solo: dall’inerte presunto il poeta estrae quel che oramai allo strazio dell’imperturbabilità pare affidarsi, tanto che, nel turbato chiedersi, e nutrendosi con schiettezza degli andamenti che scuotono la lettura degli eventi, ne elabora le vette apicali rianimando il sé nel compiere il risveglio del significato delle cose, accingendosi di volta in volta a dar forma a una coscienza che non resti isolata e che si configuri in un inaspettato allontanamento da qualsiasi pallida illusione, quanto da pur stravaganti sostituzioni. È, dunque, una coscienza rinnovata a sollecitare il poeta quando il sipario del giorno si alza[10] e turbato e sospeso, viepiù intensifica la parola nelle sue facoltà (l_orrore domina le figure. / testimoniano il vivere del definito. deteriorano la mente con la paura.[11]), sicché il lessico del pensiero pone l’inatteso ordine ad ostacolo di contro alla rigidità di una sostituzione normalizzante e satura. Si tratta, invero, di un modo che permette alla parola poetica di trascendere riverberi astrattistici, immediatamente fruibili e, per ciò detto, instabili, e, di rimando, di farsi ponte di una co-operazione coscienziale che vede il sé districarsi dall’ermeticità dell’Io centrico e disporsi in un’intraprendente visione che – nell’inestinguibilità dei dettagli – procura la stessa impressione di novità davanti allo svolgimento della (…) vita interiore[12]. In questo acuto agire la ridondanza non trova sostegno e nemmeno le immagini ricorrono a lusinghiere strategie per far fronte a quella che è solo futile tempo dell’attesa. A quel tempo la sfida si propone fattiva e non già con un verso di fuga dallo scenario dei pensieri fondativi, quanto nell’inoltrarsi nelle profondità ascose. Qui l’azione dell’esplorare avanza nel vero e, con un gesto privo di didascalie tiranniche, si amplifica oltre la zona arida delle sensibilità rese clandestine da incubi in eccesso [che] accendono la notte[13].

In questi termini, disposta su una diversa traiettoria, la ricerca coscienziale al vedere/vedersi recupera il rituale di un’autonoma e impavida realtà di memoria che dispone l’esistente e il suo dolore, quanto l’esperienza e il suo dolore, in un’esegesi eteromorfa, laddove il conosciuto/conoscibile imbastisce tanto una successione logica dell’uno rispetto all’altro, quanto uno spostamento che prepari a una sostenuta dicibilità, volgendo all’incontro di coscienza tra il poeta riflettente (un sé che si dirama e che mai si acquieta[14]) e il sé molteplice (dentro un vuoto sento la trasformazione mescolo passato / presente rimuovo io voi noi le origini attraverso il chi sono[15]) in un neomorfico rituale che non ignora, né piega a patite certezze (osservo questo mondo altri mondi / penso il pensiero pensante / un personaggio in carne e ossa / in cerca di un autore / sono la forza dirompente del testo / le parole il dramma / sono il teatro nel teatro / la zona di confine tra l’essere e l’apparire[16] – è il sentire possente che pervade il poeta).

Il poeta brindisino Oronzo Liuzzi

Senza furor di sentenza, assistiamo, quindi, allo svolgersi di una poesia che si inarca e si imbarca per ulteriori direzioni senza mai inabissarsi e né disperdersi, senza detenere prevedibili rotte; al contrario, la poesia scorge il suo faro in ogni posizione dalla quale intraprende un percorso pluriforme per mare e per terra e per aria, nell’intersezione espansiva degli ambiti dell’esistere tra i passi e nei tempi che, inattesi, si avvinghiano alla boa del momento mutevole per decidere la direzione, pensandosi e mai ritirandosi (pellegrino per sentieri ammutoliti / sovversivo nel falso movimento[17] – è la straziante confessione).

Gratificato da un lume che permette di accedere alle profondità, il lessico del poeta si raffina nel disporre senso critico al conosciuto, al visto e sentito e rilanciarsi laddove, nella voce della poesia e nel suo «adesso», (…) insorge libero il pensiero nuovo di libertà che parla il plurale / coraggio[18] e nella pluralità delle occasioni la coscienza della parola-verso diviene coscienza del poeta nel suo continuo approdare fedele nel mondo, malgrado dall’incessante ricerca etica quel mondo si mostri (…) artificio insomma non identificabile / disarma la schiettezza non lascia tregua la disabilità visiva / (…)[19]. Nella richiesta tra frange acuminate impercettibili, lo spirito che anima la parola priva di iconoclastiche controindicazioni – che si tratti di improperio o di nevralgico assedio d’abitudine – conferma il bisogno di un ordine non già da intendere nell’impoverimento delle digressioni, quanto nella liberazione dall’estraneità, portando all’apparentamento bergsoniano, e cioè, a una forma di consanguinea contiguità tra materiale e spirituale e che scuote quella che Liuzzi chiama disabilità visiva e che ravvisiamo quale impedimento resistente nella precarietà; quale sospensione elusiva e incatenata. Una mancanza, dunque, alla quale la visualità poetica si pone ad ostacolo e va a scompaginare l’atrofia della concatenazione con un legame di rinforzo silente e burrascoso, ma sempre attuativo, tra quanto dalla parvenza transita per raggiungere un’espressione auto-manifesta, che non prevede accanite sembianze, che non si fa metafora di riconduzione, e che semplicemente è nel ribaltamento frontale, laddove il pensiero di sé risiede nell’allungarsi, sconfinare e restringersi del verso, nell’instillazione di un innovativo codice di evocazione intrepida, non adeguandosi affatto all’etimologia contraffatta di un’estemporaneità al limite del converso (l’impetuoso segno del mistero // scoprire / chiedermi // suscitare risposta[20]). Quel che avviene è l’incastro che (…) nel corpo / nella parola // si trasforma con l’intera sua forza[21]. È, insomma, lo spazio libero nel quale il poeta ripone successive riflessioni di un sé di volta in volta cosciente e distante dall’inconcludente fallacia che, impellente ed ostinata, potenzia un gioco di parti nel territorio della routine del vuoto[22], laddove l’ego meridiano si impone in aspra solitudine.

Segnali di rilevanza si incidono a modalità crescente e nel tempo poetico di Oronzo Liuzzi e non suscita affatto sorpresa l’incedere articolato dalla versatilità del ritmo che investe la tessitura delle parole. Ad esse, alle parole, il poeta assomma una credibilità inarcata verso l’incessante spostamento sintomatico della varietà cognitiva di cui è portavoce la facoltà del pensare senza mai interrompersi. Non è tutto: nel progredire ansante e ponderato, la poesia prende quindi forma di una coscienza di sé mentre lo spazio si riduce fra la mia finestra – dice il poeta – e l_affanno / mentale gli scompone la realtà[23]. Egli osserva e nel frattempo quel che accade rinasce per non irrompere nel vuoto[24].

Senza raggiungere alcun epilogo, dunque, la funzione semiotica della poesia liuzziana staglia un territorio che non si riduce a rappresentare i fatti mondani: se a questo la poesia si fermasse, sarebbe cruciale ritenerne il fallimento, oppure il labirintico asservimento a un’illusoria dimensione; sarebbe l’incorrere incrinato a una speranza aleatoria, quanto retorica. Non v’è dubbio, al contrario, che l’ergonomia semantica rimandi alla sommessa preghiera di una coscienza persistente nelle corrispondenze tra le sensazioni colte dalle vicende mondane e non solo: la coscienza con la quale il poeta mantiene il fitto dialogo si alimenta di corrispondenze viventi nell’articolazione di tutte le facoltà del vedere, camminare, toccare, ascoltare, dire, mondare, fino al ritenere e spingere nella verticalità di una meditazione che riunisce tutte le arti disponibili e che quindi – nel privilegio di un’espressione di tipo baudelairiano – declina le movenze, i picchi, le cromie, le intemperanze, gli intervalli, i pieni e le anti-cromie in un sussulto che si distanzia dalle artificiali grazie sclerotizzate in un labirinto difforme. D’altronde, in una maniera attesa nuovamente al senso-verso del pensiero baudelairiano, il panorama poetico di Oronzo Liuzzi declina la spiritualità in un crescendo verticale che, nel trasformarsi, non esula dal rapportarsi a una materia depurata da qualsiasi appesantimento liturgico e della quale ravvisa l’incauto e l’effimero. Qui pure avviene il rinnovamento estetico; qui, ancora, la cosciente compresenza di un territorio individuale di sensazioni e idee, senza alcuna stanca esitazione, si scopre quale poetica di ritorno e nella scrittura forgia una spiritualità tutt’altro che foriera di dispersivo incanto.


Bibliografia

O. Liuzzi, Io e Caravaggio, SECOP Edizioni, Corato (Ba), 2010

O. Liuzzi, In Odissea visione, puntoacapo Editrice, Novi Ligure (Al), 2012

O. Liuzzi, E mentre l’arte …, CFR Edizioni, Piateda (SO), 2014

O. Liuzzi, Condivido, puntoacapo Editrice, Novi Ligure (Al), 2014

O. Liuzzi e R. Bucci, DNA, Eureka Edizioni, Corato (Ba), 2015

O. Liuzzi, Lettera dal mare, Oèdipus, Solofra (Av), 2018

O. Liuzzi, Mutomutas, Musicaos Editore, Neviano (Le), 2020

O. Liuzzi, Non Stop (Poesie 1970 – 2020), Musicaos Editore, Neviano (Le), 2021

O. Liuzzi, da Un giorno adesso, Transeuropa, Massa, 2023

A. Branca (a cura di), H. BergsonIl possibile e il reale, AlboVersorio, Milano, 2014


[1] O. Liuzzi, 12, «E mentre l’arte …», CFR Edizioni, Piateda (So), 2014, p. 32

[2] O. Liuzzi, XV, «Un giorno adesso», Transeuropa, Massa, 2023, p. 19

[3] O. Liuzzi, 12, «E mentre l’arte …», op. cit., p. 32

[4] O. Liuzzi, La vita si incontra (per Diego De Silva), «Condivido», puntoacapo Editrice, Novi Ligure (Al), 2014, p. 50

[5] Ibi, «E mentre l’arte …», op. cit., p. 46

[6] O. Liuzzi, La vita si incontra (per Diego De Silva), «Condivido», op. cit., p. 47

[7] Ibi, p. 51

[8] Ibi, p. 57

[9] O. Liuzzi, L «Un giorno adesso», op. cit., p. 54

[10] O. Liuzzi, 5., «In Odissea visione», puntoacapo Editrice, Novi Ligure (Al), 2012, p. 11

[11] Ibi

[12] H. Bergson, Il possibile e il reale – Saggio pubblicato nella rivista svedese «Nordisk Tidskrift» nel novembre 1930, a cura di A. Branca, AlboVersorio, Milano, 2014, p. 12

[13] O. Liuzzi, LIV, «Un giorno adesso», op. cit., p. 58

[14] O. Liuzzi, LI, ibi, p. 55

[15] Ibi

[16] O. Liuzzi, 24, «Mutomutas», Musicaos Editore, Neviano (Le), 2020, p. 91

[17] Ibi, p. 92

[18] O. Liuzzi, III, «Un giorno adesso», op. cit., P. 7

[19] O. Liuzzi, XI, IBI, p. 15

[20] O. Liuzzi, 6., «E mentre l’arte …», op. cit., p. 18

[21] Ibi, p. 19

[22] O. Liuzzi, 3., «Mutomutas», op. cit., p. 16

[23] O. Liuzzi, PENSIERI IN_TRANSITO_9, «PENSIERI IN_TRANSITO» (2006) in Raccolta «Non Stop», cit., p. 70

[24] O. Liuzzi, 7., «In Odissea visione», op. cit., p. 13


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

A Brindisi un incontro tutto dedicato alla poetessa e performer Nadia Cavalera

Mercoledì 14 Settembre alle ore 18:30 presso la Sala del Capitello di Palazzo Granafei Nervegna a Brindisi si terrà un evento organizzato dal Lions Club di Brindisi, in collaborazione con Leo Club Virgilio Brindisi e la Casa Editrice Milella di Lecce, con il Patrocinio Morale dell’Amministrazione Comunale di Brindisi nel corso del quale si ripercorreranno i tratti essenziali della storia di una tra i massimi letterati dello scenario culturale italiano e internazionale: Nadia Cavalera.

La prof.ssa Carmen De Stasio (docente e critico d’arte) e il prof. Carlo Alberto Augieri (già Docente di Critica letteraria ed Ermeneutica del testo all’UniSalento, poeta e saggista) dialogheremo con la letterata.

Nadia Cavalera (Galatone, LE, 1950) torna a Brindisi, dove ha vissuto per un decennio fino al 1988 e dove ha svolto attività di docenza e giornalismo, rendendosi protagonista della Fondazione di Gheminga, la prima rivista esclusivamente letteraria realizzata a Brindisi. Accreditata tra le massime personalità della letteratura e della sperimentazione letteraria contemporanea, si è laureata in filosofia, si è dedicata all’insegnamento e non solo: poeta, saggista, scrittrice, traduttrice e performer, ha realizza opere verbo-visive e cataloghi dedicati al Superrrealismo, allegorica definizione della sua personale speculazione poetica. Dal 1988 vive a Modena. Nel 1990, con il poeta Edoardo Sanguineti dà vita a «Bollettario», quadrimestrale di scrittura e critica (organo dell’associazione culturale Le avanguardie di cui è Presidente), che propugna il concetto di avanguardia permanente e in un continuo progress performativo. In collaborazione con Comune e Provincia di Modena e con Biblioteca Estense Universitaria, nel 2005 istituisce il Premio “Alessandro Tassoni” che, in onore al grande poeta e scrittore, mira ad individuare testi di ricerca e sperimentali. Tra i suoi lavori: I Palazzi di Brindisi (Schena, Fasano, 1986); Amsirutuf: enimma (Tam Tam, S. Ilario d’Enza, 1988), Vita novissima (Bollettario, Modena, 1992); Ecce femina (Altri Termini, Napoli, 1994), Americanata (Bollettario, 1994); Brogliasso (Gheminga, Modena, 1996), Salentudine (Marsilio, Venezia, 2004), Superrealisticallegoricamente (Fermenti, Roma, 2005), Spoesie (Fermenti, 2010), L’astutica ergocratica (Joker, Novi Ligure, AL, 2010), Corso Canalchiaro 26 – Interviste, saggi, interventi negli anni di «Bollettario» (Marsilio, 2010), Umafeminità – Cento poet* per un’innovazione linguistico-etica (Joker, 2014),  Casuals – Spoesie 2010 – 2015 (ABEditore, Milano, 2016), cura e traduce dal latino “Eremita. Dialogo” di Antonio Galateo (Fermenti, 2020), Lessico e cibo famigliari (Grifo, Lecce, 2022), Liber ex libris – Endecaversi (Milella, Lecce, 2022).

Hanno scritto di lei, tra gli altri, Giorgio Bàrberi Squarotti, Marcello Carlino, Giorgio Celli, Antonino Contiliano, Franco Ferrarotti, il Cardinale Fernando Filoni, Francesco Muzzioli, Giuseppe Panella, Daniele Maria Pegorari, Mirella Serri e Adriano Spatola.

Nel 2011 ha partecipato all’antologia Via Maestra (Hobos, Brindisi) con Via Montebello 20 e la nascita di Gheminga – testo che riassume con evidente affetto il suo attivismo culturale nel periodo brindisino. Qualche anno dopo è stata protagonista della presentazione di Umafeminità – Cento poet* per un’innovazione linguistico-etica presso l’I.I.S.S. “E. Majorana” di Brindisi.

“Dialetto e musica del Salento: Officina Zoè e Antonio Castrignanò”, articolo di Stefano Bardi

Articolo di Stefano Bardi 

Salento, terra dall’arcaica storia e dall’arcaico dialetto come per esempio quello leccese in continua evoluzione e molto parlato ancora oggi. Dialetto che è usato nella letteratura popolare fatta di musica e di parole da gruppi locali come Briganti di Terra d’Otranto, Tamburellisti di Torrepaduli, Zimbaria, Alla Bua, Manekà, I Calanti, Lu Rusciu Nosciu e il gruppo Officina Zoè nato nel 1993. Questo gruppo è formato attualmente da Cinzia Marzo (voce, flauti, tamburello, castagnette), Donatello Pisanello (organetto diatonico, chitarra, mandola, armonica a bocca), Lamberto Probo (tamburello, tamborra, percussioni), Giorgio Doveri (violino, mandola), Luigi Panico (chitarra, mandola, armonica a bocca), Silvia Gallone (tamburello, tamborra, voce) e Laura De Ronzo (danza). Le sue produzioni si basano su musiche tradizionali con testi in salentino trattanti temi legati al lavoro in campagna ma anche temi amorosi, etici, sociali e altri ancora.

0006206_terra-officina-zoe_550 (1)Il 1996 è l’anno dell’album autoprodotto Terra, che sarà poi ripubblicato nel 2005 da Anima Mundi. Terra, qui, intesa sia come Salento in cui far fiorire magici amori sia come campagna, in cui possiamo vedere la sua carne lacerata, con addosso ferite che versano per l’eternità. Lettura quest’ultima che è rappresentata dal forte utilizzo musicale del tamburello salentino che musicalizza i dolorosi aneliti, gli straziati battiti spirituali e i laceranti pianti della campagna salentina.

Una prima tematica è di stampo religioso attraverso la figura di San Paolo, ovvero, il protettore celeste delle vittime tarantate che sono da esse purificate attraverso la sua dolce voce in grado di uccidere la demoniaca tarantola e di riportare l’amore nel cuore della tarantate. Parole, quelle del santo, che sono simboleggiate dal suono del tamburello, non costruito da mani umane, ma nato dal puro spirito divino e in grado di scatenare nelle carni delle tarantate un’intesa eccitazione, che le obbligherà a compiere un ballo liberatorio.

Una seconda tematica è legata alla terra e, più nel dettaglio, alle lavoratrici di tabacco considerate come inutili cerature da umiliare nella canzone “Fimmine fimmine”, alle contadine viste come schiave nella canzone “La tortura” e alle contadine malpagate e sfruttate nella canzone “Lu sule calau calau”.

Una terza tematica riguarda l’amore, dal gruppo salentino musicato come una ragazza dalle divine carni, dai magici e luminosi sguardi, dalle tenebrose e chimeriche chiome, dalle ubriacanti movenze fisico-corporali e dal cuore divoratore di uomini.

Una quarta e ultima tematica riguarda la mitica origine del mare salentino nella canzone “Lu rusciu de lu mare”, dove le cristalline acque sono le dolorose lacrime versate dalla figlia di Nettuno, a causa delle umane cattiverie nel Mondo.

Il 2000 è l’anno dell’album Sangue vivo pubblicato da CNT-Cantoberon. Sangue che è inteso come l’ardente sangue dei salentini tutti, ma anche come resurrezione allo stesso tempo. Sangue letto attraverso il tema del vento nella canzone “Jentu”. Vento sanguinante di passioni che ci abbeverano l’aspra bocca, ci quietano lo straziato spirito, ci riscaldano la bocca di affettuosi baci, ci immergono in elisiache primavere e ci fanno consumare la Vita in nome della frenesia. Vento e sale attraverso la canzone “Sale” che ci allontana dalle luminose esistenze del Padre Celeste per tuffarci in false materialità terrene. Sangue dai toni ancestrali nella canzone “Mamma la luna”, poiché come la luna muove il mondo e i suoi abitanti, lacera le carni e lo spirito e infine, ci affoga nell’eterno sonno per farci poi rinascere come creature ultraterrene dal candido, vergineo e cristallino spirito. Un sangue infine dal passato storico, attraverso la canzone “L’America”, che racconta la partenza dal Sud di molti ragazzi per raggiungere la nuova Terra Promessa, ovvero, l’America. Stato questo in cui si trovava la fortuna e allo stesso tempo però ci si scordava delle proprie mogli, che, ormai da anni senza più notizie dei loro mariti, si rifacevano una nuova vita.

Il 2004 è l’anno dell’album Crita pubblicato da Polosud Record. Un primo tema è sviluppato nella canzone “Ferma ferma”, dove l’erotismo è visto come un lussurioso gioco carnale e come il motore che anima i piaceri, le spiritualità, le luminose gioie, gli inebrianti profumi e i divini amori del Mondo. Erotismo che, però, si basa sull’amore qui musicato nelle canzoni “Anima bella” e “Allu sciardinu”. Nella prima canzone è rappresentato con le sembianze di una dolce fanciulla vista a sua volta come un dolce e caloroso sogno, come una divina ombra da osannare e come un prezioso tesoro da proteggere dalle cattiverie. Nella seconda canzone, invece, è concepito come un magico giardino dalle elisiache atmosfere. Album con tematiche dai magici toni, attraverso le canzoni “L’acqua ci te llavi” e “Tambureddu meu”. Nella seconda canzone, il tamburello salentino è concepito come un magico strumento in grado di creare frenetiche melodie, di accendere l’erotica passione nel cuore dei ragazzi. Album questi affiancati da altri album in studio e live del gruppo salentino, senza però che nessuno degli altri possieda la stessa potenza poetico-musicale di quelli da me analizzati e che rappresentano ad oggi, il testamento poetico-musicale degli Officina Zoè.

Sempre per rimanere nella tradizione e per iniziare un discorso di innovazione, dobbiamo occuparci del cantante e tamburellista salentino Antonio Castrignanò (Galatina, 1977). Il 2010 è l’anno dell’album Mara la fatìa prodotto da Felmay, composto, musicalmente parlando, da pizziche e da tarantelle che musicano il maro, ovvero, l’amaro e aspro universo dei mezzadri salentini. Universo questo trattato nelle canzoni “Mara la fatìa”, “Lu Sule Calau” e “Tremulaterra”. Una canzone, la prima, dove la fatica mezzadra è vista come una necessità economica imposta da altri sulla propria pelle, come un massacrante sforzo psico-fisico, come una straziante lacerazione delle carni e come un universo animato da irreali e spettrali amicizie. Una fatica, che, come ci viene mostrato nella seconda canzone, è regolata dal sole visto come un padrone che tutto decide e che regola la Vita contadina, non tenendo conto delle gioie e dei dolori umani. Campagna infine vista nella terza canzone, come una creatura che si nutre del sudore e del sangue dei braccianti. Sangue e sudore, che sono i principali alimenti delle giovani ninfe partorite dalla campagna salentina. Tematiche queste affiancate da quelle riguardanti la figura del carrettiere e la figura della donna. Carrettiere trattato nella canzone “Cantu a trainiere” dove è visto come una creatura dall’infernale voce, in grado di lacerare le carni, di creare fantastiche storie e di trasportare gli Uomini in chimerici universi. Donna infine poetizzata attraverso la canzone “Signora Madama” e che ci mostra la donna salentina come una schiava del proprio marito, ma anche, come una creatura avara, passionale, focosamente erotica e pia.

antonio-castrignano-fomenta.jpgIl 2014 è l’anno dell’album Fomenta prodotto da TUK Record. Termine fomenta in italiano come infiammazione e che rimanda, alle emozioni che ardono, infiammano, consumano e bruciano lo spirito attraverso canzoni tematicamente forti e accompagnate da tradizionali musiche salentine contaminate da sonorità balcaniche, zingaresche e arabo-gitane che rappresentano l’innovazione poetico-musicale di Antonio Castrignanò. Una prima tematica la possiamo trovare nella canzone “Core meu”, dove il padre e la madre gli vengono nel sogno, il primo con parole colme di sangue e la seconda con parole colme d’amore. In particolar modo attraverso il ritornello, la madre è rappresentata come una creatura colma di amore, bontà, luminosità, dolcezza e come una saggia consigliera per quello che riguarda l’eterna giovinezza, dall’artista salentino riprodotta attraverso il suono del tipico tamburello salentino in grado di salvare gli Uomini dalla terrena Morte e farli vivere, in un universo animato da dolci nostalgie e commoventi reminiscenze. Una seconda tematica la troviamo nella canzone “Fomenta”, dove la Vita è vista come la taranta, ovvero, come un’ardente, passionale ed erotica danza all’interno di una Vita composta da laceranti dolori, da sofferenti croci esistenziali, da oscure brume spirituali e popolata infine da Uomini che muoiono e rinascono ogni giorno. Dolori e sonni eterni che possono essere curati attraverso la pizzica vista come una creatura dalla divina voce, in grado di farci rinascere come paradisiache creature dai dolci aneliti, dalle leggiadre carni, dalle ubriacanti movenze, dall’ardente sangue e da un candido spirito che profuma di libertà. Il tutto musicato da sonorità salentine e gitano-zingaresche realizzate da violini, fisarmoniche e tamburelli a sonagli che simboleggiano gli umani singhiozzi colmi di sofferenza e di lacrime. Una terza tematica è racchiusa nella canzone “Li culuri te la terra” dove l’amore è concepito come una tavolozza dai mille colori simboleggianti dolci reminiscenze, amare ombre esistenziali, accecanti allucinazioni paradisiache e ardenti amori passionali come la melodia della pizzica, le parole della taranta e le sanguigne lacrime della campagna salentina.

Una quarta tematica, la possiamo leggere nella canzone “Furtuna” dove è trattato il dolore spirituale dell’io costretto a consumare i suoi giorni, all’interno di una società insensibile alle emozioni e all’amore. Una quinta tematica, la possiamo ascoltare nel brano strumentale “Terraferma” dove la musica salentina e arabo-gitana simboleggino il cammino migratorio degli Uomini fatto di dolore, lacrime, sangue e morte. Un cammino quello umano che vuole condurre i suoi figli, a una nuova Terra Promessa dove poter vivere nella pace psico-fisica, nell’amore spirituale e nella purificazione carnale. Una sesta e ultima tematica, la rintracciamo nella canzone “Luna otrantina” dove la luna di Otranto è vista come uno specchio riflesso, dove vediamo immagini riguardanti l’esistenza di questa città animata da fatiche marittime, da dolci e amari sogni e da interminabili notti.     

STEFANO BARDI

 

Discografia di Riferimento: 

Officina Zoè, Terra, autoprodotto 1996 e ristampa Anima Mundi, Otranto, 2005.

Officina Zoè, Sangue vivo, CNT-Cantoberon, 2000.

Officina Zoè, Crita, Polosud Record, Napoli, 2004.

Antonio Castrignanò, Mara la fatìa, Felmay, Torino, 2010.

Antonio Castrignanò, Fomenta, TUK Record, 2014.

 

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“Dolce e amara terra: la poesia dialettale del salentino Pietro Gatti”, a cura di Stefano Bardi

Saggio di Stefano Bardi 

Brindisi, capoluogo salentino di 86.811 abitanti caratterizzato prevalentemente da un’economia mezzadro-marittima a base di uva da tavola, vino, ulivi, mercati ittici. Terra di Confine è stata giustamente definita questa città divisa da un Nord, fatto di città industriali, e da un Sud composto prevalentemente da città mezzadre. Provincia che è costellata di aspre e “selvagge” cittadine Ceglie Messapica. Cittadina che ancora oggi conserva un dialetto difficile, quasi incomprensibile e difficilmente irriproducibile, costituito da due elementi: lingua cegliese e lingua messapica. Una lingua, la prima, che risente fortemente del vocabolario barese e tarantino, mentre la seconda, ormai del tutto scomparsa, altro non è che l’antica lingua illirica nata a sua volta dall’alfabeto greco e poi radicatasi nella Murgia meridionale nelle città di Brindisi e Lecce con una vasta espansione nel tarantino, fino alla fine dei suoi giorni nel 272 a. C.  Un dialetto difficile ma melodico e adatto per la poesia, come è stato dimostrato dal suo figlio più illustre, ovvero il poeta Pietro Gatti (Bari, 1913 – Ceglie Messapica, 2001). Terra, quest’ultima, in cui visse la sua infanzia e la sua intera vita.

Ceglie Messapica
Una vista del comune di Ceglie Messapica

Il 1973 è l’anno della raccolta a tiratura limitata Nu vecchje diarie d’amore (Un vecchio diario d’amore), dedicata al matrimonio della figlia Mimma, dove l’amore è visto come un bocciolo di rosa che fiorisce, un aspro dolore dalla dolce fragranza, un’avida ombra ultraterrena.    

Segue la raccolta A terre meje (La terra mia), pubblicata nel 1976. Opera dedicata alla sua amata Ceglie Messapica dove il dialetto da lui usato come sostiene l’ex Sindaco, Pietro Federico, mostra tutta l’asprezza e arretratezza di questa città con le campagne dalla rossa terra come l’argilla, con i suoi maestosi ulivi malinconici e con le sue case pitturate di bianco che rimandano all’innocenza di tanti ragazzi buttati per la strada[1]. Parole queste che vanno ampliate con quelle del critico letterario Mimmo Tardio che vede la città brindisina come una sorta di Inferno dantesco composto da villani, buzzurri, screanzati, incivili, reietti e dalle categorie socialmente più dannate.

Tema prediletto dell’intera opera è quello del legame Madre-terra che il poeta realizza attraverso la decantazione delle origini mezzadre e della terra intesa come una grande Madre Universale che ci coccola, ci perdona, ci spoglia socialmente, ci isola da tutti rinchiudendoci in un mortale sepolcro[2]. Anche le parole del critico letterario Ettore Catalano vanno aggiunte perché mostrano l’opera gattiana come una raccolta omaggiata alla sua aspra terra e allo sfruttamento dei suoi contadini, dal poeta concepiti come fatica, sangue e polvere[3].

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La terra di Pietro Gatti ha una doppia valenza, sia intesa come il luogo abitativo del poeta sia come la campagna cegliese da esso liricizzata come un dolce Paradiso Terreste e come uno scrigno colmo di nostalgie[4], un luogo dalle rosse rocce come il sangue dei contadini e dalle fragili ossa come l’umana esistenza[5], come un animale morente ormai privo di forze e infine, come una donna tutta nuda che ebbra dal sole osserva la Vita che si muove accanto a lei[6]. Terra che, però, non è solo campagna, ma anche un luogo dove il poeta viaggia nei suoi ricordi d’infanzia e dove la nenia del baracciaio[7], si trasforma in un lacrimoso lamento riguardante la sua vita fatta di miserie, sacrifici, rinunce e sogni mai realizzati[8]. L´infanzia come uno stupendo plenilunio lunare e avvolto da un’atmosfera priva di spazi, confini e materialità[9]. Una terra che simboleggia la Vita, essa che è un’asfissiante e falsa fratellanza terrena destinata a essere soffocata dalla morte, intesa da Gatti come un luogo popolato da liete ombre che vivono all’interno di luminosi Campi Elisi nell’attesa di rinascere a nuova Vita per riviverla nuovamente[10]

Il 1982 è l’anno della raccolta Memorie d’ajere i dde josce (Memorie di ieri e di oggi): memorie del passato e memorie metafisiche. Una prima memoria riguarda la sua dimora a Ceglie Messapica vecchia, concepita come il balcone del mondo dal quale osservare la paesana esistenza composta da esistenze casalinghe, da puerili schiamazzi di innocenti pargoli, da mortifere melodie ecclesiastiche e da serate illuminate dalle stelle sotto le quali giovani ragazzi si scambiamo baci furtivi. Una seconda memoria è illustrata attraverso il volo delle rondini, che simboleggia il cammino terreno degli Uomini fatto di luci, tenebre, ombre, lacrime, dolori e infine di eterni riposi riscaldati da paradisiache visioni. Una terza memoria è illustrata attraverso l’allodola, ovvero, un angelo dal divino canto[11]. Una quarta memoria riguarda Ceglie Messapica. Città dove il poeta visse la sua puerizia dai soffocanti sorrisi ma, in particolar modo, da serate avvolte da stelle sotto le quali si raccontavano fole ormai dimenticate[12]. Una quinta memoria riguarda i temporali salentini, ovvero demoniache creature che distruggono e creano nuove vite, dai puri spiriti e dalle verginee melodie. Una sesta memoria riguarda le vendemmia e in particolar modo i grappoli di uva, che non vengono raccolti a causa della dimenticanza dei contadini. Grappoli che simboleggiano le esistenziali speranze, di tutti Noi. Una settima memoria infine, è legata alla Vita medesima del poeta cegliese fatta di dolori, oscure reminiscenze, dolcezze[13], ma anche caratterizzata dal desiderio di fermare e riavvolgere il tempo per risorgere a nuova Vita.[14] 

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Il poeta cegliese Pietro Gatti. Fonte: http://www.midiesis.it/midiesis/?p=24540

Il 1984 è l’anno della raccolta ‘Nguna vite (Qualche vita) che, come mostra il critico letterario Ettore Catalano, è incentrata sulla Morte con reminiscenze emotive, terrestrità e musicata col commovente canto degli figli di Madre Natura che simboleggia lo strazio delle innocenti vittime sopraffatte dalla Vita (contadini e popolo)[15]. Si può avvicinare il noto carme Dei Sepolcri di Foscolo. In entrambi i poeti assistiamo al dialogo con i morti; nel poeta cegliese non è un colloquio con le voci illustri dei grandi Uomini ma un colloquio monovoce compiuto con l’ombra dei suoi genitori e dei suoi amici. Una madre che è ricordata dal figlio poeta come un dolce angelo dalla melodiosa voce e dal caloroso petto, come una compassionevole creatura portatrice di amore[16] e come una stupenda raccontatrice di fole[17]. Un padre rimembrato come una sapienziale fonte di Vita e gli amici infine, come dei fantasmi che si sono scordati totalmente di lui fino addirittura ad averne paura. Un’opera, in conclusione, composta da ricordi e da dolorose reminiscenze da lui spiritualmente assolte che lo accompagneranno fino alle fine dei suoi giorni[18].         

               

Bibliografia:

AA.VV., Puglia, a cura di Bruno Fratus e Rossella Tomassoni, ATLAS, Bergamo, 1982.

CATALANO ETTORE, I cieli dell’avventura. Forme della Letteratura in Puglia, Progedit, Bari, 2014.

CATALANO ETTORE, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Progedit, Bari, 2009.

Ceglie Messapica, da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Ceglie_Messapica.

VALLI DONATO, Pietro Gatti. Poeta. Primo volume, Manni, San Cesario di Lecce, 2010, 2 vol. – Tomo I.

 

STEFANO BARDI 

 

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[1] PIETRO FEDERICO, Saluti del sindaco in DONATO VALLI, Pietro Gatti. Poeta. Primo volume, Manni, San Cesario di Lecce, 2010, 2 vol. – Tomo I, p. 25  

[2] MIMMO TARDIO, La poesia dialettale contemporanea in terra brindisina, in ETTORE CATALANO, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Bari, Progedit, 2009, p. 328.

[3] ETTORE CATALANO, Alcune considerazioni sulla scrittura poetica di Pietro Gatti in ETTORE CATALANO, I cieli dell’avventura. Forme della letteratura in Puglia, Bari, Progedit, 2014, pp. 48-49. 

[4] DONATO VALLI, Pietro Gatti. Poeta. Primo volume, Op. Cit., 2 vol. – Tomo I, p. 71 (“A terra mea bbone, / come se disce a lle muerte de case, / c’angore vìvene atturne: / le rape forte i ambunne / d’a grameggne, ca na ppué scappà a tutte sane, / scapuzzate a ffatìe, i ppo sobbe a lle mascere / da ppeccià u tiembe de fiche, / a sera tarde: i scattarizze de cardune / i vvambe sembe chhjù jerte a sserpiende de fueche / i jùcchele i zzumbe de le peccinne, / ca u core te rite chjine de priésce / scurdànnese pe nnu picche. / – Le fafarazze none, p’a cuscine.- / A terra meje, cu ttanda recuerde d’u tiembe lundane assé, / tutte appennute ô cendrone arruzzunute, / com’a ggiacchette / jinda case dìu puvuriedde; […]”)         

[5] Ivi, Op. Cit., 2 vol. – Tomo I, p. 73 (“[…] A terra meje, / totte nu colore de sanghe seccate da sembe, / chjene de petre de tuttu nu munnu sgarrate / – o pure jòssere de quanda muerte? – / anzieme cu a maledezzione / d’a stese de le pendemare; / sembe a lla ripe d’a vite, […]”) 

[6] Ivi, Op. Cit., 2 vol. – Tomo I, p. 78 (“[…] Ma none: / cà a terre dorme totta stennute / angore ambriache de sole, / sunnànnese u sole, / i dda a  ‘n giele le stelle a ttremende / fitta fitte accussì. […]”)

[7] Baracciaio = sinonimo di carrettiere.

[8] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 86 (“[…] Nu cande: u traeniere. Canzone? / nu laggne d’u core, na vósce / de chjande ind’ô viende ca ì ddòsce. / Nu cande: / nu chjande. / Nu spoche d’u core. / Dulore./ De cose ca ì vvute i ì pperdute? / de cose sunnate i ccadute? / de tutte? de niende? / nô sé: nu lamiende / d’u core / ca fasce dulore. […]”) 

[9] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 127 (“[…] I u tiembe cu passave / pe ind’ô sulenzie de gnne ccose come / ô fiate de le muerte, a luna dosce / sobbe a lle chjuppe ferme. / Senza tiembe.”)  

[10] Ivi, 2 vol. Tomo I, p. 102 (“[…] I ttutte ì vivve come ci sté mmore.”)

[11] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 221 (“[…] Tu quase nô vite stu ttìppete de priésce de lusce, / ma u cande, stu rise de lusce / d’u ciele d’a terre de tutte, / jete na mascìe pe ll’àneme angandate; / cande, / de jedda stesse ambriache: na terreggnole.”)

[12] Ivi, 2 vol. – Tomo I, pp. 225-226 (“O paìsu mije / nange s’à ffatte maje u sciuéche d’a vendalore, / ci na ppròpete da ‘nguarchetune, pe sfìzzie, / – pe ccude c’agghje sendute cundà – / ca certe a jere vedute a ‘nguna vanna lundane. / Ci sape percé. / O pure u sacce assé bbuene. […]-[…] Janghjenne tott’a scale ô pezzule d’a strate. / Le fatte ca ne cundamme! Sscerrate. Da ci sape quand’ave.”) 

[13] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 334 (“[…] totte nu recuerde / de sanghe, de nu core ca m’a mmuerte / na sacce cchjù da quanne, coru d’ate. / I mm’u sende pesà nu pisu dosce, / i ccarche u mije facche jete vive / jiddu sule, da sembe. Me suffòche.”)   

[14] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 299 (“[…] Jind’a ll’àtteme / m’er’ a da ccògghje na sumende – u sacce / ji quâ – da sottaterre, cu ffiureve / jind’a sta mane agghjuse a ccungaredde / com’a nnu core, pe nn’eternetà / totta meje. […]”)  

[15] ETTORE CATALANO, Alcune considerazioni sulla scrittura poetica di Pietro Gatti, Op. Cit., p. 50. 

[16] DONATO VALLI, Pietro Gatti. Poeta. Primo volume, Op. Cit., p. 361 (“[…] jùtemè, pure tu, stinne a manodde, / m’a bbellu bbelle, attiè! cu nna tte fasce / nu male assé…”)   

[17] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 382 (“[…] Uéh, ma’! cuèndeme a vite, com’a suenne / mu pe mme, m’a chhjù mmegghje, i mm’addurmesche. / Ci sape ca…”)  

[18] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 420 (“[…] I ppure me trapanèscene u core jate sulenzie angandate / o affannuse spettanne – d’addà – ci ji me vote / i mme llundaggne senze… / Perdunàteme. Sine.”)

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