“Memoria come Resistenza: Etty Hillesum e Westerbork”, articolo di Stefano Bardi

a cura di Stefano Bardi

diario-1941-1943_41845.jpgAuschwitz, Birkenau, Mauthausen, Bergen-Belsen, Sobibòr, Fossoli! Nomi, questi, legati all’oscura pagina storica del 27 gennaio 1945 che devono essere affiancati a quello di Westerbork, campo che fu usato dai nazisti come punto di raccolta, smistamento e partenza per gli altri campi di Concentramento. Tre possono essere considerati le fasi di questo campo di concentramento: la prima dal 1942 al 1945 (rifugiati, detenuti, ebrei), la seconda dal 1945 al 1948 (agenti SS, simpatizzanti Movimento Nazional-Socialista, criminali nazisti) e la terza dal 1949 al 1971 (alloggi per molucchi). Questo campo, seppur non rientra in pieno nella logica dello sterminio di massa degli ebrei, fu comunque ideato come un campo fatto di regole ferree: detenuti accompagnati nei loro spostamenti da guardie militari, appello giornaliero, gruppi di lavoro divisi in camerate, sorveglianza diurna e notturna dei posti letto delle camerate, divieto assoluto di comunicare e ricevere posta dall’esterno. Un campo dal quale partirono 107.000 persone per i vari Campi di Concentramento e che fu liberato il 12 aprile 1945 dalla fanteria canadese.

La scrittrice olandese di origine ebraica Esther Hillesum detta “Etty” (Middelburg, 15 gennaio 1914-Auschwitz, 30 novembre 1943) visse in prima persona la deportazione ebraica prima di essere trasferita ad Auschwitz dove troverà la morte. Esperienza quella di Westerbork che sarà racchiusa in parte nel Diario 1941-1943 e soprattutto nelle Lettere 1942-1943 seppur fortemente censurate con la cancellazione dell’emittente, da parte del comandante della Polizia di Sicurezza tedesca del campo. Va subito detto che la scrittrice non fu arrestata né deportata ma scelse lei stessa di essere rinchiusa in questo campo per seguire l’infausto destino del suo popolo; lì lavorò come assistente sociale all’interno dell’ospedale civile del campo. Lavoro che le permise di annotare tutti gli orrori della follia nazista di cui, insieme alla famiglia e al fratello Michael detto “Mischa”, pagherà le conseguenze ad Auschwitz. L’altro fratello, Jacob detto “Jaap”, morirà, invece, a Lubben dopo la liberazione del 17 aprile 1945 durante il viaggio di ritorno nei Paesi Bassi.

Nel 1981 uscì postumo Diario 1941-1943 che sarà poi ristampato in varie edizioni fino a quella integrale del 2012. Esso è stato redatto fra Amsterdam e il Campo di Transito di Westerbork e si basa su due grandi concetti: esistenzialismo e spiritualismo filosofico che devono farci raggiungere, la totale armonia con la Natura. Armonia che sarà da essa trovata grazie all’abbraccio Dio concepito come un’intensa energia interiore e come la fiamma che muove ogni Vita.

Un diario estremamente analitico fatto di date, ore e momenti giornalieri in cui Etty Hillesum scrisse le sue intime pagine dalle quali fuoriesce l’immagine una donna forte, che, non fugge dall’infausto destino del popolo ebraico e l’unico elemento oscuro è il suo animo ingarbugliato, ragnatelico e represso.

Un secondo aspetto è la concezione della Vita da lei concepita come un’energia che deve essere consumata giorno dopo giorno, poiché il futuro è solo una speranza priva di consistenza; e di conseguenza vivere significa coesistere con l’esterno (vacuità) e l’interno (realtà esistenziale). In parole semplici, la Vita è intesa come unica e vera fonte sapienziale dalla quale l’Uomo deve abbeverarsi per intraprendere il suo cammino esistenziale che deve cominciare, dalla sua più profonda interiorità. Vita che deve essere però costruita con le parole! Lessemi intesi dalla Hellisum come strumenti in grado di creare case sicure animate da dolcezze e armoniosi silenzi, ma anche universi interiori con i quali emarginarsi dagli altri che sono codardi, languidi e senza protezioni psico-sociali. Parole che sono concepite come privazioni esistenziali non create, però, da mani altrui, ma dalle nostre medesime mani che strappano dal nostro cuore le gioie e le emozioni per sostituirle con ansie, offese, angherie, paure, asti, rimorsi e nostalgie canaglie.

Un ultimo aspetto riguarda il suo sguardo pieno di compassione verso i nazisti, agnelli sacrificali essi medesimi di un oscuro potere al di sopra di essi. Diario quello di Etty Hillesum che è chiuso dal alcune lettere scritte dal Campo di Transito di Westerbork che saranno da me analizzate.

Nel 1982 uscì l’opera postuma Lettere 1942-1943 che sarà poi ristampata fino ai giorni nostri, in edizioni più ampie e complete. Opera epistolare composta dalle lettere redatte dalla Hillesum ad Amsterdam e Westerbork fra l’agosto 1942 e il settembre 1943 che ci mostrano la crudeltà del Campo di Transito di Westerbork. Un campo dove l’autrice e la sua famiglia resistettero psico-fisicamente, dove si muovevano all’interno di uno spazio composto da un ospedale civile, un orfanotrofio, una stazione ferroviaria, una sinagoga, una cappella mortuaria. Un luogo costituito principalmente da baracche arrugginite e piene di correnti d’aria, panni lasciati asciugare all’aria e cuccette sulle quali patire. Il tutto accompagnato da pessime condizioni igieniche e da un’alimentazione di scarso valore nutrizionale, che portarono molti ebrei a togliersi la Vita con le proprie mani.

Etty Hillesum è una scrittrice che ancora oggi, dopo settantasei anni dalla sua morte, è ricordata nella toponomastica e onomastica in vari luoghi del mondo tra cui: la piazza nel paese di Mirano, l’albero nel Giardino dei Giusti di tutto il Mondo di Milano, la Etty Hillesum Stichting (Fondazione Etty Hillesum) di Amsterdam, il Centro di Ricerca Etty Hillesum dell’Università Gand e tanto altro ancora.          

  STEFANO BARDI

Bibliografia

Hillesum E., Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano, 2001.

Hillesum E., Diario 1941-1943, Adelphi, Milano, 2011.

 

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Mafalda di Savoia. Il coraggio di una principessa (2006)

Il film Mafalda di Savoia. Il coraggio di una principessa (regia di Maurizio Zaccaro, paese: Italia, anno: 2006) narra la storia della principessa di casa Savoia, figlia di re Vittorio Emanuele III e della regina Elena che, considerata nemica del regime nazista, venne internata in un campo di concentramento dove trovò la morte. Il film non trasmette scene che riguardano la nascita della principessa, la sua infanzia e la sua adolescenza. Al contrario, si apre con il suo matrimonio assieme al Principe Filippo d’Assia che avvenne al castello di Racconigi il 23 Settembre 1925.

Velocemente scorrono le immagini della vacanza di nozze della coppia principesca e la nascita dei prime due bambini dopo di che l’azione si sposta dieci anni più tardi nel 1935.

Questa volta ci troviamo a Berlino dove il partito nazionalsocialista di Hitler si è giù costituito cosi come un’imponente milizia nazista. Il marito della principessa, il principe Filippo d’Assia è un membro dell’esercito tedesco, nazista convinto. Intanto in Germania e nelle varie città europee inizia la lotta contro gli ebrei: vengono distrutti i negozi ebraici e i tedeschi si accaniscono contro di loro. La principessa Mafalda si schiererà apertamente a favore degli ebrei che vengono vessati in una circostanza in cui i nazisti irrompono nei negozi degli ebrei. Questo episodio costituirà la sua condanna a morte dato che a partire da quel momento la principessa viene considerata cospirazionista contro il regime nazista.

Tra lei e il marito iniziano gli screzi: secondo il marito, in qualità di moglie di un ufficiale tedesco, deve condividere le sue idee e non mostrarsi in pubblico a favore dei nemici.

Il film fa un ulteriore balzo temporale e si sposta al 1942. Mafalda sta parlando con suo cugino, l’erede de re del Montenegro[1] che è stato deposto dai nazisti. Il regno del Montenegro non potrà essere restaurato perché i nazisti sono alle calcagna.

Allo stesso tempo la principessa viene continuamente tenuta sott’occhio dai nazisti che la considerano una traditrice nei confronti del regime. Per lo stesso motivo al principe Filippo viene revocato il suo incarico di governatore dell’Assia-Nassau e viene mandato a Francoforte sull’Oder dove sostanzialmente viene destituito dei vari incarichi militari.

Il 26 Agosto 1943 la principessa Mafalda torna in Italia dove il re suo padre gli comunica che teme per la sorte di un’altra sua figlia, Giovanna[2] perché suo marito, Re Boris III di Bulgaria (1894-1943) è stato avvelenato probabilmente dai nazisti. Mafalda non ci pensa due volte e decide di andare in Bulgaria a sostenere la sorella per la perdita del marito, sebbene la madre, la regina Elena glie lo scongiuri. La situazione in Europa è molto pericolosa.

La principessa Mafalda arriva a Sofia dove conforta la sorella Giovanna e partecipa assieme a lei al funerale di Re Boris III di Bulgaria. Terminata la sua visita alla sorella riparte in treno alla volta di Roma. Intanto l’8 Settembre 1943 re Vittorio Emanuele III firma l’armistizio con gli angloamericani, destituendo Mussolini; l’Italia passa a combattere a fianco di inglesi ed americani contro la Germania. Questo evento segnerà a morte il destino di Mafalda che, inconsapevole del cambio di strategie del re suo padre cadrà in mani nemiche. La regina Elena nel film è particolarmente critica nei confronti del marito al quale fa capire che con la firma dell’armistizio senza avvertire Mafalda l’ha praticamente esposta ad un grave pericolo. Il re e la regina abbandonano la capitale e si rifugiano a Brindisi.

Durante il viaggio in treno il convoglio viene fermato alla stazione di Sinaia per volere della regina Elena di Romania (1896-1982) la quale le scongiura di non andare in Italia perché la situazione è molto pericolosa. Mafalda continuerà il suo viaggio e riesce a giungere a Roma e a incontrare i quattro figli che stanno sotto la protezione del Vaticano.

Intanto i nazisti hanno interrotto i contatti tra la principessa Mafalda e suo marito che si trova in Germania e le dicono che se vuole comunicare con suo marito deve recarsi all’ambasciata. Con questo stratagemma i nazisti immobilizzano la principessa che viene condotta nel campo di concentramento di Bunchenwald. La principale accusa che le viene mossa è quella di essere una traditrice nei confronti del regime nazista e di essere stata a conoscenza dell’armistizio firmato da suo padre.

Al campo di concentramento fa conoscenza con alcune persone ma è estremamente afflitta e trascorre i primi giorni rifiutandosi di mangiare. Anche molti degli internati manifestano un atteggiamento astioso nei suoi confronti riconoscendo in lei la figlia dell’uomo che ha condotto gli italiani in guerra. Mafalda si scusa con loro per cose che lei non ha fatto facendo comprendere alla gente che le colpe dei padri non possono ricadere sui figli.

All’interno del lager si mostra particolarmente coraggiosa come quando riesce a salvare una bambina strappata da una madre che i nazisti avevano appena assassinato. I deportati cominciano ad apprezzare la sua umanità, come il dottor Maggi il quale assieme ad altri uomini si sta occupando di scavare un tunnel per provare a fuggire dal campo.

Il principe Filippo d’Assia, destituito dei suoi incarichi e ormai considerato un traditore dai nazisti non può operarsi direttamente per mettere in salvo sua moglie. Nel film non viene mostrata la preoccupazione del re, della regina e dei membri della famiglia Savoia all’annuncio dell’internamento della figlia nel lager tedesco. I Savoia vengono mostrati come cinici, traditori nei confronti dell’ex alleato tedesco, pavidi e fuggitivi dal loro popolo. Nel film non fanno niente per cercare di salvare la principessa Mafalda.

Intanto iniziano i bombardamenti aerei e le esplosioni nel lager e un gran numero di deportati muoiono. I colori che più abbondano a partire da questo momento sono il rosso del sangue, il giallo degli scoppi e delle fiamme e il grigio del fango che ricopre tutta la superficie di terreno del campo.  Durante uno di questi scoppi la principessa viene colpita da uno scoppio di una granata ed è profondamente ferita. Il dottor Maggi cerca di salvarla operandole l’amputazione del braccio ma dopo poche ore la principessa muore.

Una lettera struggente e drammatica che ripercuote la permanenza di Mafalda al lager viene scritta da una donna rinchiusa nel lager e inviata ai figli di Mafalda. Nella missiva si sottolinea la bontà, la generosità della principessa e il suo pensiero fisso e costante verso la sua famiglia.

Il film si chiude con una scena che trasmette un senso di incompletezza e di dolore, l’immagine del marito il principe Filippo d’Assia assieme ai quattro figli seduti a tavola durante il pranzo e una sedia vuota che sottolinea la pesante assenza di Mafalda.

Prima dei titoli di coda, una frase riassume l’intera esistenza della principessa Mafalda:

Ricordatemi non come una principessa, ma come una vostra sorella italiana.

(Mafalda di Savoia 19/11/1902 – 28/08/1944).

Il film evidenzia come l’origine regale di Mafalda non serva a evitarle la stessa fine che fecero milioni di ebrei, omosessuali ed oppositori al regime nazista. Come la morte di molti italiani anche la sua fu dovuta alle tremende decisioni politiche prese dal re suo padre (l’affido del governo a Mussolini, la firma delle leggi razziali, l’alleanza con Hitler).

Tutta l’azione verte sul personaggio della principessa Mafalda e, a mio avviso, il contesto familiare attorno viene un po’ tralasciato. Non vengono mostrati i Savoia che fuggono da Roma, ne il malcontento che si crea in Italia a seguito della firma dell’Armistizio. Il re e la regina nel film non fanno niente per salvare la loro figlia e anzi, il re con le sue decisioni la pone continuamente in pericolo e in mano dei nazisti. L’immagine dei Savoia che ne esce da questo film non è per nulla positiva, come pure non lo è in quello che la storia ci racconta. C’è dalla loro parte un senso di cinismo e menefreghismo che non si esplica solo nei confronti del loro popolo (fuga da Roma) ma anche nei confronti di una loro familiare.

Per completare l’idea che con questo film ci facciamo di re Vittorio Emanuele III e della sua famiglia nei confronti della guerra, dell’armistizio, della fuga da Roma e della perdita di consenso della monarchia può essere utile vedere un altro film: Maria Josè, l’ultima regina (regia di: Carlo Lizzani, paese: Italia anno: 2001), dove viene narrata la storia della regina Maria Josè d’Italia che fu moglie di Re Umberto II di Savoia, fratello della principessa Mafalda.

LORENZO SPURIO

14-03-2011


[1] Va ricordato che la madre della principessa Mafalda, la regina Elena era una principessa appartenente alla famiglia Njegosh-Petrovic, alla famiglia reale del Montenegro. Il cugino erede del trono di Montenegro di cui si parla nel film è dunque un cugini per via materna.

[2] La principessa Giovanna nel film è interpretata dall’attrice francese Clotilde Coreau, moglie del principe Emanuele Filiberto di Savoia, nipote di Re Umberto II di Savoia che fu fratello delle principesse Giovanna, Mafalda, Jolanda e Maria.

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