“Concepibili combinazioni nella figura di Aracoeli nell’omonimo romanzo di Elsa Morante”, saggio di Carmen De Stasio

Ricondurre Elsa Morante e la sua penna, la donna e l’artefice delle sue parole, a una condensazione pressoché esplicabile sollecita l’immagine di un’identitaria personalità che, nel confluire nell’unicità di immaginazione e di condizioni di memoria, si predispone nell’audace autonomia di un mosaico di alterazioni elaborate fino a comprendere – possibilmente – la gran parte delle fasi di un tempo di contemporaneità. E queste fasi complesse vengono da Elsa Morante continuamente interrogate in un’articolata vicenda che ripaga avverso la rassegnazione.

Io fui pronto a servirla, ammirato della sua bruttezza meravigliosa, che irradiava su di me un potere d’incantesimo, tanto più malioso perché mi sapeva di paura[1].

Giustappunto in questo modo è possibile individuare nella fenice e nella cenere le espressioni di fine e di recupero dei versanti intrapresi nel tentativo di riunire le idee molteplici al termine della nuova lettura di Aracoeli, romanzo sofferto e ultimo di Elsa Morante (fu, infatti, pubblicato nel 1983, vale a dire poco prima della morte dell’autrice, avvenuta nel 1985); un’eroica impresa[2] (come il poeta Attilio Bertolucci definì il romanzo) assimilabile a un’eredità sociale e culturale sulla quale Elsa Morante poggia  la sua attenzione, trattando di un tempo proiettato nel carico di illusorie speranze, le stesse che ritroviamo avversate, infine, dalle ombre che invadono lo scenario esistenziale.

Riservata e intimamente partecipe, la scrittura di Aracoeli affonda in un ambiente che è mentale e aggrovigliato con il realismo del dolore nascosto, laddove le asprezze non riescono a soffocare la cruda ambivalenza di un esserci logorato tanto da attese, che da un convulso disorientamento a cui pure si assomma un tracciato familiare che alita nel sospetto di qualcosa di irrimediabilmente irrisolto. D’altronde – ancora una volta riprendendo quel che scriveva A. Bertolucci – l’autrice non dissimula la sua attitudine di spietato critico dell’istituzione famigliare[3]. Difatti, più che nei precedenti romanzi, qui la prospettiva autorale penetra i caratteri di instabilità delle relazioni alle quali accede intraprendendo una rotta che tocca la singolarità identitaria, le tappe del divenire, il circuito di famiglia, fino a richiamare una storia condivisa e plurima nelle sue sfaccettature. Ciascun momento diviene pertanto occasione per un ritorno e una comprensione di amplificazione oppure di dirottamento, in un incessante manifestarsi-eclissarsi nella prospettiva inattesa della dilagante irregolarità che investe il dentro-fuori del tempo (siamo nel pieno della seconda e finale fase del secolo breve); nel turbamento che il significato di essere e di agire in forma di famiglia provoca. Realistico e originale, pertanto, Aracoeli vive la consapevolezza della difformità esiziale alla quale la stessa Morante partecipa, sempre in bilico tra l’emozione dei mezzi e le complessità che identificano lei-autrice e lei-donna critica di un tempo (il suo) scansionato e revisionato, in un’azione incrociata di avvicinamento-distanziamento.

Potrebbe essere questo motivo alla base della sofferta gestazione del romanzo, nel quale vicende cruciali della storia contemporanea (gli anni trenta, gli anni della Guerra Civile in Spagna e del Secondo Conflitto Mondiale; anni di cambiamenti dalle scomposte conseguenze a carattere sociale, di costume, della cultura) sono riportate al contemporaneo 1975, l’anno, cioè, da cui evolve l’intera narrazione nel rituale di una nenia, segnando passi di apprendimento, di comprensione, di alternative e di risposte che tardano ad arrivare, nell’intuizione di un disfacimento inarrestabile di ideali, che pure investe di dissenso l’orizzonte di un progresso fatuo. I protagonisti e la storia stessa di Aracoeli mimetizzano il disfacimento e nella prevalenza turbinosa di dentro-fuori l’epica dei protagonisti prende forma: un’Aracoeli (dalla quale il romanzo prende il titolo o, quant’è più efficace, l’intestazione assimilabile a una segnaletica dispensatrice di obliquità, quanto di inafferrabili ovvietà) allusiva di una storia umana in disgregazione; e poi, sull’altro versante, il di lei figlio Manuele: ed è nel progetto di viaggio che la vicenda si compie; un viaggio inteso a interpretare la rivelazione delle radici di Aracoeli, per giungere a risolvere il male esistenziale che strazia il giovane uomo e nel quale egli ravvisa gli effetti del disfacimento. Sua è la voce che gestisce le situazioni del rammemorare, e sua è la voce che accompagna a conoscere la madre-Aracoeli. E nella sua voce risuona l’eco meditante della voce straziata dell’autrice. Penetriamo così le parole di Aracoeli: nel vagare all’interno degli impercettibili segni, quel che individuiamo da subito – e che dispone la diatesi di un tracciato che via via si ramifica e s’irrobustisce delineando la configurazione di sentimenti lancinanti dall’inizio alla fine – è il vorticoso andare avanti e indietro per flashback dalla sonorità disarmonica, nella quale la raffinata malinconia di esclusivi momenti convoglia l’ispirazione alla crudezza percepita da un Manuele avvinto nell’impegno di ricostruire il proprio tracciato nel resoconto esistenziale. Non sfugge il modo in cui la sua voce s’imprima nella tessitura scritturale, laddove insiste la lettura di un tempo che scorre in simultaneità, addensandosi nel presente rammemorante di sé-quarantatreenne – nel 1975 – in una Milano che egli vive e non vive (lavora da pochi mesi in una casa editrice): nell’immediatezza del rammemorare, il tempo disperde la linearità civica e assume la sagoma di un avvenimento quale occasione di riflessioni sovente intorpidite da divagazioni, quanto rimestate in un disegno immateriale, che egli ricostruisce in un’attualità vissuta con distacco, prigioniero nella nicchia in cui i suoi sé si amalgamano in uno straniamento avvinto in un particolare sortilegio. E quale, se non il sortilegio declinato in quel 4 novembre 1975, allorquando decide che l’emancipazione dalla sua ossessione-Aracoeli (io mi domando perfino se con questo viaggio, sotto il folle pretesto di ritrovare Aracoeli, io non voglia piuttosto tentare un’ultima, sballata terapia per guarire di lei. Frugare nelle sue radici finché s’inaridiscano sotto le mie mani, poiché di estirparle non sono capace[4]) si adatti al progetto di viaggio che lo condurrà verso l’Andalusia – luogo natio di Aracoeli – El Almendral l’unica stazione terrestre che indicasse una direzione al mio corpo disorientato[5] –. Là egli si propone di attendere risposte ai suoi quesiti – portato dai suoi sensi acuti, in un cammino all’indietro, verso il punto del principio (forse a una agnizione?)[6]. Quello il luogo in cui egli ritiene possa istruire l’immagine integrale di Aracoeli quando, fanciulla, ancora non prefigurava la svolta nell’incontro travolgente con un ufficiale di Marina (Eugenio, padre di Manuele, torinese e borghese). Descritta in forma di fulminante amore, quella svolta è per Manuele l’inizio della sua non-vita (o vita bistratta nelle aspettative). Nella progressione, quel tempo non viene mai meno.

Empirico e simbolico in un sol tempo, il disegno che Manuele configura nella sua mente permette alla figura di Aracoeli di prendere una sagomatura le cui proporzioni, quanto le prospettive e gli sfondi, emergono in un’in-presenza che annulla le sequenzialità e si affida a un equilibrio del tutto personale, sincronico ed enigmatico, affidato alle interferenze principalmente riconducibili all’impressione personale di chi parla, di chi giunge a ritenere il suo pensiero l’unico spazio possibile [<le apparenze del mondo> (scrive H. Arendt) <sono divenute un semplice simbolo delle esperienze interiori, con la conseguenza che la metafora, destinata originariamente a colmare la frattura tra l’io che pensa o che vuole e il mondo delle apparenze, va in sfacelo. Lo sfacelo si produce non perché agli «oggetti» (…) venga conferito un peso superiore, ma, piuttosto, a causa della parzialità con cui si guarda l’apparato psichico dell’uomo, le cui esperienze sono intese come detentrici di un primato assoluto>[7]]. Non basta e non è soltanto questo: in Aracoeli prende corpo l’ossessiva angoscia di un futuro in cedimento, pari allo strappo significativo che la storia subisce: eterea e altra, la storia diviene meccanismo di difesa e di protezione; strumento per intercettare le potenzialità, ma anche versante sul quale relegare manchevolezze e sottomissioni.  

In tal senso la stesura di Aracoeli è un’esperienza straziante e pone in una luce di dissolvenza il credo di Elsa Morante, la sua fede nel cambiamento – una fede nel crogiolo di un’invariabilità che pure viene a disorientare la protagonista Aracoeli. Così, dunque, mentre incontriamo Manuele nel tentativo di raccogliere frammenti per ricostruire, per il tramite di Aracoeli, i pezzi della sua vita e ricostruirsi infine, in simultaneità, percepiamo un’Aracoeli intenta a raccogliere tutto, a salvare tutto in un’unicità fresca a sé, ma tanto sfingea all’esterno. Per lei nulla è nel disvalore dell’effimero. Ed è forse quell’incessante avvicinarsi alle sezioni invisibili e non-dette, né mai rivelate, che il panorama di Aracoeli sembra dilatarsi, malgrado la sua posizione vada sempre più a restringersi e restare, infine, intrapresa nel turbine di una solitudine assoluta. A lei nessun quesito viene posto e, anzi, i quesiti mancanti sono anche causa di una probabile non-mutevolezza. Viepiù, se da un verso Manuele va lentamente emancipandosi in virtù di un’intelligenza ritrovata (L’intelligenza si dà per capire[8] – la Morante affida alla voce di Manuele) attraverso viaggi che si svolgono nella sincronicità di ricordi recuperati e di esperienze cadenzate dalla spiegazione concessa da quegli stessi ricordi, quel che ad Aracoeli si concede è l’amaro incanto di ritrovarsi in un’irrecuperabilità che traduciamo come dissoluzione di un’antica speranza. Lo scenario possibile di Aracoeli è quindi l’oscurità, un’oscurità in cui converge l’intera storia del Novecento; una storia sottintesa e pure conclamata nei continui deragliamenti; maestra e guida e, simultaneamente, storia di disgregazione nell’epica polimorfica dai segmenti anti-costruttivi, di rinuncia e di sorpassi, tant’è che a segnare la svolta è la complessità intuita in una completezza che si realizza allorquando non resta che visualizzare la misurazione di spazi che non più interloquiscono, di spazi che si ammutoliscono e che destinano la provvisorietà a totale chiusura. In quel momento Aracoeli si raccorda con la «sua» vita. Scomparsa alla vista, ella procede verso l’assoluto della sua integrità in un’in-presenza ricomposta. Presente e passato orfani del futuro, stretti in un’invisibilità priva di accesso, ma probabilmente, nemmeno tanto ricercata: Per i sani la memoria è quello che la Storia è per i popoli: maestra di vita. Ma per i malati, che non la distinguono dalla fantasia, essa è concausa di turbe e traviamenti fatali[9] – leggiamo nell’icastica sentenza che Elsa Morante esplicita per voce di Manuele. È questo a riportare sul piano allusivo una storia di trascorsi che la mente disgrega in mille scampoli, e che però, d’altro canto, dà pure misura di un lascito ereditario nell’atto di tradire per sempre le aspettative. Più e più volte Manuele lo ribadisce con parole ferali all’indirizzo della madre (E diamoci qua, stasera, la malanotte. Malanotte a te, Aracoeli, che hai ricevuto il seme di me come una grazia, e l’hai covato nel tuo calduccio ventre come un tesoro,  e poi ti sei sgravata di me con gioia per consegnarmi, nudo, ai tuoi sicari[10] – Manuele afferma con un sentimento che nell’intrico dolce-amaro richiama un moto di amore ininterrotto), lasciando che dall’affollamento di impressioni provenienti dai fatti si raggiunga la coscienza di una realtà composita di mito, di sogni e di strappi, di ir-realizzazioni, infine. In tal senso, la figura di Aracoeli esula dalla rotta del dominio esterno, e consente ai propri segni di fluire all’interno delle mutevoli complessità con un linguaggio che è a un tempo simbolico, tormentato, quanto variabile e sfuggente, in una luce che appare e scompare, dissolvendosi senza tregua. Come dire: tutto turbina in un ristagno ingrigito dall’improbabilità di ascesi e così quell’altare che ella stessa rappresenta si scardina, tendendo a disporre piani di inseparabilità non senza sofferenza.

Di fatto, su Aracoeli sembra ricadere la potenza di un impegno demiurgico che, nella gestione delle immagini percepite nel quadro di «equivalenze», Manuele adotta torcendo perifrasi iconiche di quel che è, passando da controverso inquisitore irrigidito nell’intuizione (ma, al contempo, anche flebile nell’incapacità di disfarsi dell’egemonia di un’ossessione) all’astrazione di una memoria addensata, come leggiamo in anaforico squarcio più e più volte nel libro, laddove egli rigenera Aracoeli in una figura in bilico tra picchi di esaltazione, pause attardate di isolamento, fughe e riprese, durante le quali Aracoeli accorre a me (egli rivela se stesso) dalle sue longitudini. Acquista la velocità della luce. Ha già sorpassato all’indietro il muro del suono. E non mi resta che inventare il nostro incontro. Essa ha preso forma.[11]

Lentamente, l’aniconicità di Aracoeli si presenta nel tempo narrato in mutevole cromia: in una simbiosi di iridescenza e di oscurità (per sé, innanzi tutto, e per Manuele), la sua esistenza sembra fondarsi sul principio machiavellico della norma e della forza. Così ella è norma nella comprensività diegetica del viaggio di ascesa che la conduce – per amore – dalla spontaneità avita alla nuova dislocazione (del tutto allusiva del cambiamento), componendosi in un ambiente assai distante dal proprio (laddove il pathos declina sia in tormento che in coinvolgimento) e che la coglie negli echi delle vicende mondiali, ancor più penetrando la sua esistenza quando il fratello tanto amato, Manuel, colpito a morte nel corso della Guerra Civile in Spagna, diviene forma dominante sulla sua vita di dentro. Tuttavia, se lo spostamento tra due mondi non dissuade un’Aracoeli trattenuta nell’integrità di vissuto e di intima realtà, la perdita di Manuel si soffonde di speranza (forse per via dell’abbraccio in una genuinità adolescenziale) ed ella si avvinghia al suo lutto inondandolo di metamorfosi. In fondo, ancorché nella dimensione borghese, ella resta un’immagine sacra che Manuele declina quale staffetta encantadora[12] al di là di qualsiasi distinzione tra bene e male, nemmeno quando precipita – nel secondo capitolo di vita – nelle spire del suo stesso mondo solitario a seguito dell’inspiegabile morte della secondogenita Carina poco tempo dopo la nascita: una trafittura non ambita ad alcun sacrificio, né ad alcuna intelligibile motivazione.

Refrattario al ridimensionamento della visione, dunque, il romanzo Aracoeli diviene il romanzo «di» Aracoeli, laddove una sorta di storicizzazione del carattere immaginale intraprende una vera e propria sfida alle regole di linearità: in tal senso, l’operazione culturale condotta dalla Morante (per certi aspetti di natura analitica) colloca con Aracoeli l’alternativa non solo a un’idea pressante derivata dall’esperienza personale (e, pertanto di stampo neo-realistico) in contrapposizione all’istituzione familiare – come già riportato da A. Bertolucci: il sovvertimento procede anche – se non in maniera più marcata – a contrastare, con una risposta di recupero dell’autonomia individuale, la presa di posizione che vede – in antitesi all’equilibrio ricercato della Morante – l’ispessimento di una situazione sociale temprata da un ideale pervasivo, e i cui effetti non fanno che contrarre anche il tipo di cultura a cui, invece, l’autrice affida la funzione di superare una perversa prevedibilità. In questi termini, in considerazione di una struttura tanto semantica, che affidata a un avanguardistico panorama di tipo surreale o, meglio ancora, surrealista, in una forma che, quindi, insedia l’evocatività di rimando nello sviluppo degli eventi, Aracoeli – quanto l’Aracoeli-donna – appare confermare il principio secondo il quale a consolidarsi è l’intento di scoprire una pur diversificante immagine dinamica che integra – tra le maglie del misconosciuto, quanto del dis-conosciuto – la vaporosa parvenza di un relativo tracciato. Così, la riflessione si acutizza con una coesione del tutto originale, aderendo a deviazioni rispetto a qualsiasi aspettativa. Vero è pure che la Morante scriva in un tempo in cui i pensieri esorbitano da un familismo glabro, distinguendosi con un lessico creativo certo, ma anche sovversivo, per il quale le ore, i giorni e gli anni si allungano, per poi filtrare la spirale spinta in accelerazione e ricomporre la miniatura degli eventi in una corrente di giravolte e trascinamenti, in una difformità di tipo psichedelico di tale rilevanza, da concimare un nuovo ordine anacronistico che si riscatti dai turbamenti di un tempo sconsiderato, per dire, nella perentorietà di una bugia che traghetta il nonsense di un’intera vita. Sono queste le riflessioni al termine della lettura metalogica di Aracoeli: qui, l’esperienza del lutto assoluto si concentra nella coerenza delle parole; qui, pure, l’audacia di una pennellata calibrata di vero su quella che, da (ri)conoscimento individuale, giunge a prevalere sul tutto, traslando l’icona-Aracoeli da contemplare ad un’intrepida condizione da creare. Di pari passo, ciascun’espressione infittisce un impegno che vede figurarsi nel libro lo stravolgimento del rapporto tra l’autrice e la sua vita, con uno stile che permette di sporgersi tra le spire di un’umanità imbrigliata in un Vivere percepito nel momento capitale di strappo (riprendo le parole nel libro), nel cui significato è impressa l’esperienza della separazione[13]. Da una siffatta concomitanza non si può prescindere: Aracoeli è storia di un’ambizione d’amore svincolata da qualsiasi interpretazione letterale, nella ricerca incessante di un approdo che storicizzi contesti più ampi ed indicativi di una pronunciatio da decodificare oltre la semplice descrizione; tela comprensiva di incontri tra parti controverse in una varietà depositaria di frammenti indivisi; scenario di ri-unione, di esplorazione di anfratti che soltanto se disposti al pari di un’opera artistica possono esser letti in sincrono attraverso la fuga, l’uscita di scena e i balzi spazio-temporali nel bilico di avanti e indietro, nei silenzi fruscianti e nelle ombre caleidoscopiche della tela imbrattata, nel tentativo di riconciliare le assenze, quanto i fulgori deittici di una dissolvenza. Ecco, dunque, che l’impatto potrebbe tradurre un gravido scenario impressionista, laddove, nella distanza, la vista accompagna la sagomatura per poi ravvedersi e, nell’accostamento, aver contezza che si tratti di gocce in continuo spostamento, malgrado restino per consuetudine, per effetto protettivo o per inerzia, afflitte nella tela di una predestinazione. Un luogo, per dire, la predestinazione, dal quale non sfuggono nemmeno i personaggi ivi presenti e tutt’altro che disposti a far da corollario; anzi, esistenti attraverso recuperi sferzanti, sottintesi, allucinati, sussurrati in nostalgia, in risentimento, quant’anche in struggente affezione e resi credibili nella prevalente voce dei ricordi di Manuele, ai quali costoro partecipano con una proiezione spinta in un ritroso a suo modo non proprio labirintico, per via di gradienti riversati in una presenzialità dedita allo scoprimento. Di fatti, in uno scenario pluriforme in cui i sentimenti, le sensazioni, le proiezioni, vagano prescindendo dalla centralità, seppur in una cornice vettoriale decisa e al contempo distraente, lo spartito di Aracoeli si presta quale occasione di frattura risentita dal proprio tempo e dalle sue consuetudini ed è su queste condizioni che l’autrice incide la propria disillusione: di quel tempo fitto di avvenimenti in Aracoeli v’è una traccia che, sebbene oscurata da situazioni del tutto incisive, riesce a raccogliere la memoria degli anni con uno scuotimento che rimanda ad un’altra grande regista di scrittura, Virginia Woolf, alla quale la Morante sembra legarsi per la densità sostanziale di un mondo di intuizioni, per il rifiuto a qualsiasi interferenza. Ma andiamo in ordine e il nuovo ordine (di tipo epitomico per il fatto di stringere le variabilità dei possibili dire in strettoie celate dietro espressioni misteriose originali; per il fatto di condensare nella crucialità delle parole il riflesso di grevi momenti) rimanda alla combinazione pleocroica delle espressioni nelle quali insiste il riverbero di emancipazione dall’invasivo immobilismo fondato dall’assioma simbiotico di un prologo e di un epilogo a senso unico, e che varca in permanenza la doppia direzione del passato e dello spazio[14].

La scrittrice Elsa Morante

Risalendo la corrente, tutte le conoscenze consolidano così una geografia emozionale, quanto epistemica, di relazioni diffuse in un paesaggio di cui divengono primaria intonazione attraverso una lettura che, dalla concretizzazione delle circostanze si sposta a delineare l’inquietudine di quel territorio complesso che è la protagonista parlata, muta, raffinata e, a un tempo, spavalda e, soprattutto, coesa: Aracoeli-donna nei suoi tempi e nei suoi spazi, e per la quale prende forma, appunto, la doppia direzione del passato e dello spazio. Alla luce delle scarne notizie che la propongono, e consistente di una complessità nevralgica, Aracoeli si espande al pari di «una letteratura» che – recuperando una riflessione del poeta P. Bigongiari – «è una scienza nutrita di stupori». E, in effetti, Aracoeli appare figura di integrati stupori: distante da qualsiasi tipicità, in sua vece le parole «altre da sé» edificano una memoria del tutto connaturata all’etimologia del vivere nell’atto di convogliare l’unità maieutica di materialità e di sottintesi; nell’incessante deviazione rispetto a situazioni altrimenti talora intransigenti (un segno di diversità, un titolo unico: in cui Aracoeli rimane separata e rinchiusa, come dentro una cornice tortile e massiccia, dipinta d’oro[15]). Figurando tanto quanto come «esperienza» da superare e cancellare, Aracoeli è l’encantadora in grado di dominare le polarità, quant’anche le proprie abilità intellettive nel tempo in cui (è sempre di Manuele la voce) l’intelligenza contamina i misteri: violentarli è un lavoro disgraziato, che si conclude nel guasto e nella degradazione[16]. Ad Aracoeli, dunque, è attribuito il senso di asfissia solitaria della personalità di Manuele: Manuele il solitario, Manuele il più bel bambino del mondo che rammenta l’eroico Manuel, fratello scomparso di Aracoeli, a sua volta da Aracoeli elevato all’altare della gloria. Nell’incrocio costante dei passaggi da Manuele-nel presente e da Manuel-nel suo essere eterno presente, quest’ultimo è l’enigma serafico ed eroe mai ricomposto, il cui mito esiste attraverso le fasi di una memoria accrescitiva e consolatoria che liberamente accostiamo allo sprezzante Percival – l’amico-eroicizzato al quale le sei personalità protagoniste del romanzo Le Onde[17] di V. Woolf si riferiscono e che mai in scena si presenta – ritenendo che la frattura investa non semplicemente il passato e le sue riserve, quanto il principio dell’inesattezza (ivi comprendendo l’inesattezza degli sfoggi di memoria), principio che in Aracoeli dilaga a più riprese. Tutto sembra risiedere in questo presupposto come un destino forgiato su un famelico, quanto abulico, impianto di amore; un amore raccolto in una stretta claustrofobica e che nel dettaglio è rigoroso declinare verso orizzonti indisponenti. Esaltata e demolita, la figura di Aracoeli è il centro intermittente di luce e di oscurità; figlia e madre e complice del proprio affetto rilanciato nella catena invisibile che tiene metaforicamente unito il ministrante all’incensiere. Quali le colpe, se non di un abbraccio soffocante e soffocato e che distrae dal compiere altre vite: lo stesso compagno di vita di Aracoeli, Eugenio, ne viene trafitto. La piccola Carina muore e nulla più esiste. In quello che pertanto si dispone come romanzo degli archetipi e degli antonimi in simultanea vicenda, ciascun nome s’investe di una singolare lettura docimologica; toponimo senza alcuna affatazione a legittimare l’increscioso avvedimento che nulla possa cambiare e, nonostante tutto, il tutto stesso nell’allucinata invariabilità di un’esistenza mortale predestinata al deterioramento.

In effetti, sul versante diretto a raggrumare la propria esistenza, le due individualità di Aracoeli e di Manuele affrontano la propria realtà accomunati da un essere sempre in bilico a segnare il dramma in una liturgia che va e viene in un misto di intimità e miti reverenziali[18] che accompagna (o insegue, potremmo anche osare) Manuele fino ai suoi 43 anni quando L’essere già stato complice e depositario d’altri suoi segreti era il [suo] vanto nascosto, a me tanto più prezioso perché quei segreti [gli] rimanevano, tutti, in figura di enigmi[19]. Via via quella complicità innervata di un’assolutezza filiale e materna in costante sincronia si disgrega, lasciando la desolazione di un auto-inflitto isolamento e di una solitudine refrattaria a qualsiasi ricostruzione, fors’anche per via di un’incombente e distruttiva potenza speculare, quanto speculativa, di una situazione multiforme prestata agli specchi delle parole quegli stessi specchi che Secondo certi negromanti, (è Manuele a parlare) sarebbero delle voragini senza fondo, che inghiottono, per non consumarle mai, le luci del passato (e forse anche del futuro)[20]. In una siffatta oscillazione bustrofedica concepiamo Aracoeli nell’assemblage delle sue tante vite speculari nell’ennesima assenza, l’assenza di una volontà di mascherare la direzione del suo sguardo: una spirale ottenebrata da un volgersi a ritroso non tanto per nostalgia, quanto per afferrare la causa di un dolore che si trascina e si amalgama ai nuovi dolori fino all’epilogo. Da questa immagine codificata soprattutto nel nitore iconico, pur mai comparendo di sua voce, di suoi pensieri, di sue riflessioni spontanee, Aracoeli promana nel carattere proprio del romanzo, nel suo linguaggio fetale, fortemente cromatizzato da un’empatia prepotente, malgrado la solidità dei riferimenti, anche allorquando quei riferimenti si stagliano tra infingimenti immaginari e distrazioni ricondotte a una sorta di maieutica che trasla l’azione del rammemorare a una verità, invero, solo parziale: presenza sbilanciata di solitudini in una temporalità frantumata. È in un siffatto quadro che il luogo della scrittura incide l’evocazione di una ricerca di interezza; iscrive un progetto perché si confronti con un essere vocato a volere più che a chiamarsi (ed essere) vita. Ragioniamo per assurdo: se fosse pregno di elucubrazioni, il volume Aracoeli sarebbe confortevole luogo di formazione ed invece esso aspira a farsi territorio di esplorazione fuori dall’alveo di un linguaggio provocatorio. Inoltre, laddove le parole non possono adeguatamente disporre l’immagine mentale, ecco che l’estro della Morante – creatrice di versi mai disgiunta dalla Morante-scrittrice – esilia da sé qualsiasi tentativo di assommare rassegnazione e provocazione ed è in quell’immagine riportata che il rapporto con la scrittura si fa più intenso ed intimistico: policentrica e onnicentrica in un sol tempo, l’autrice si esplicita – come Aracoeli – nelle ombreggiature interdette degli eventi; si rende presenza di una quotidianità che è trasparente e che, insieme, l’avvolge in una nube di opacità.

Quali le sospensioni, se non quelle volubili di un fronte totalmente disallineato dalle consuetudini, laddove la figura di Aracoeli si diffonde su sponde biforcate in modo da congelare un essere nei raccordi di fanciulla giammai interrotta e di un essere donna in situazioni attuali, allorquando per una decisione d’amore si ritrova in un’insormontabile distanza dalla sua religiosità, una religiosità geomorfica spontanea. In questo modo, l’inscindibilità tra le figure di Manuele e di Aracoeli ancor più rende inquieta la tela degli eventi: su una sponda è Manuele. Incatenato alle sue domande, vive la presenza di Aracoeli in un amore sfuggente; altare sacrificale e faro vitale di Woolfiana memoria e pure in questo caso intinta nella sacralità di una vita da re-imbastire in un’immedesimazione con tutti i suoi tempi, all’interno dei quali tentare di ricomporsi (Io cerco oggi di nascondere a me stesso che questa seconda Aracoeli è anch’essa mia madre, la stessa che mi aveva portato nell’utero; e che lei pure sta insediata in ogni mio tempo, schernendo la mia ridicola pretesa di ricostruirmi, di là da lei, un nido «normale»[21]); sull’altra sponda è l’Aracoeli incatenata alla presenzialità dei ricordi fatti storia di sé in uno svelamento trasferito in tempi sublunari.

A questo punto non è difficile porre l’accento su quella che ci appare l’idea portante del romanzo, un’idea che riunisce invenzione e rielaborazione esperienziale nell’organicità prestata alla vista come sintesi estrema, seguendo la concomitanza di reale e immaginale pur nelle diversità che accompagnano la semantica del pensiero. Di tal specie si carica l’impianto, che scena e proscenio (il detto relazionato a fatti di individuale percezione nella “vaganza” e nell’immediatezza temporale) coincidono in una centralità che, per i motivi addotti, si priva di richiami analogici: infatti, se da un lato attraversiamo le pagine adottando un metaforico incontro con un protagonista a sé stante quale il libro è nell’intrico gnoseologico di elementi e situazioni che conferiscono una composizione per flashback a loro modo esplicativi, possibile è altresì aprire non già un percorso realizzato a vantaggio di una comprensione per sequenze simmetriche, quanto un territorio di tracce che – rilevabili e discrete – animano un movimento ritmico da inter-leggere nella trama del territorio abitato.Non solo: la dialettica delle circostanze declina la logica preservata dalle singole parole in un’abbreviazione fuor da retorica, esulando dalla litania dei suoni attendibili nel momento in cui lo sguardo-mente si volge nel tentativo di recuperare motivazioni e accadimenti che hanno cucito a maglie strette la rotta. Il momento giunge inatteso: oramai fuori dal campo visivo, Aracoeli si trattiene nell’oscuro miracolo di una preghiera (Non lasciarmi sola più e più volte ripetuto): in quella preghiera si manifesta l’incontro dei tempi di Aracoeli; i suoi fantasmi nelle segrete della sua storia, le ostilità di recenti strappi, i mutamenti e le sensazioni, tutti si rincorrono in un presente momento di universali silenzi che stralcia la sensazione di abbandono e di confortevole passività, ubbidendo al richiamo che innesta sensazioni. E nelle parole un furore aleggia, trattenendo il desiderio amaro di recuperare i resti di una coscienza che spinge a provare più un sentimento di distacco che di avvicinamento e che, sul fronte sconnesso delle indecisioni, dell’impervio e avito dubbio, provoca un penetrante senso del tutto tattile di frantumazione perenne («mi rendo conto» – scriveva V. Woolf – «con maggior chiarezza come la vita di ciascuno sia un mosaico di pezzi e come per capire una persona occorra considerare come un pezzo sia compresso e l’altro incavato e un terzo si espanda, e nessuno sia realmente isolato»[22]). Aracoeli si ritrova ad essere investita di siffatta e ancor più disorientante instabilità: condannata al disfacimento di un’identità scolpita nella perdita, ella appare dea da adorare e adorante dentro il suo mondo animato da una storia continuamente irradiata di leggenda e di paesaggi liberi; una storia che scavalca i confini della realtà condivisa e interloquisce con lo spazio indelebile di tensioni, di dis-cromiche effusioni, di mute posture, culminando in un’alterazione che ella fronteggia, pur in apparente vulnerabilità. Dove la sua voce e la sua sensibilità – ci chiediamo. Dove sono nascoste le sue parole in quella situazione difficilissima nella quale le parole riflesse di Manuele scatenano il tracciato per lei, lo fanno in sua vece, così che Aracoeli compare senza mai appartenersi: sbilanciata pronuncia nell’altrove di una memoria critica. Ed è a questo punto che i due fronti si dissuadono: Manuele va verso una conciliazione di sé; Aracoeli non va da nessuna parte, malgrado i tentativi («Per riprendere possesso di noi stessi e delle cose in modo autentico, si deve compiere una sorta di esperimento, in solitudine e in silenzio: riprodurre la durata pura, sgretolando le resistenti concrezioni del presente, intuendo al di là del pensiero immobilizzante e del linguaggio classificatorio»[23]– leggiamo con il filosofo R. Bodei): In tal senso, il romanzo Aracoeli può esser letto come svolgimento animato da un’intuizione estesa su varie prospettive al fine di superare – fin dall’esodio, coi fili dell’equivoco e dell’impostura[24] – l’imbastitura  tra pensiero immobilizzante e qualsiasi linguaggio classificatorio. Di par suo, dunque, l’opera della Morante contiene entrambi i livelli di scompaginazione emozional-intuitiva in una situazione che, nel momento in cui la parola propositiva si accinge a segnare una rotta, d’improvviso reclama autonomia finché antinomica appare, portandosi alla sospensione sulfurea di una sosia sfigurata[25]. La prospettiva è là prima ancora che il viaggio di ricerca (o il viaggio della speranza di vita) abbia inizio, sfacciata e disturbante, dapprima in forma di una corsa per recuperare frammenti da un tempo distratto da un altrove incomprensibile (E corro dietro alla mia fedele madre-ragazza, e alla sua icona musicante, ricacciando come un’intrusa quell’altra Aracoeli fatta donna, che in realtà mi ha lasciato laidamente orfano ancor prima di esser morta[26]), e poi nella forma di una sua sosia sfigurata. L’una Aracoeli mi ruba l’altra; e si trasmutano e si raddoppiano e si sdoppiano l’una nell’altra[27]. In questa lunga fase, la narrazione procede in una dualità capricciosa: realtà e irrealtà procedono indistintamente e Aracoeli si scompone e si ricompone in un irrisolvibile processo di perdita di portata cosmica. Quel che avviene nel frattempo rimanda a uno «spazio concreto estrapolato (…) dalle cose. Queste non sono in esso, è lui ad essere in loro. Soltanto, non appena il nostro pensiero ragiona sulla realtà, fa dello spazio un ricettacolo»[28]. Orbene, nel bergsoniano ricettacolo includiamo sia lo spazio vissuto che lo spazio irreale e figurativo di cui la mente di Aracoeli si tinge, espandendosi in un’irregolarità irraggiungibile e «vera» in quella misteriosa ambiguità[29] che l’ha resa immortale[30]. Di riflesso, tanto la postura di Manuele, che l’inesprimibile variabilità di Aracoeli si confrontano negli opposti a dispetto di una simbiosi pronunciata da parole significative, quanto più scoscese nella visceralità della simbologia. Così, mentre Manuele sembra converso a rintracciare la base concreta della storia che lo avviluppa nell’astrazione materna, dagli effetti oscuri, quanto ravvisabili come predestinazione in parvenze nelle quali si cela il rituale famelico del sarto notturno, (…) che di giorno dorme appollaiato su un albero come i gufi, e di notte va in giro per le camere  di certi mortali da lui prescelti, ai quali cuce addosso, nel sonno, una camicia invisibile, tessuta coi fili del loro destino[31],  Aracoeli vive una condensazione di somiglianze, malgrado la sua interezza non venga del tutto calpestata, giacché ben peggiore è la condanna dell’invisibilità mediata da un dettato delle relazioni – (…) fatto di voce fisica (…) col suo sapore tenero di gola e di saliva[32]. Il resto di lei – Quando lei si scosta i capelli dal viso, scoprendo la fronte[33], – rimane schermato dietro una fisionomia diversa, di strana intelligenza e di inconsapevole, congenita malinconia[34]. Una malinconia intima che – non sottraendosi a un dolore (s)travolgente, sfigurando e devastando[35] la solidità del rituale – si irrigidisce su fronti connessi, ma pure distintivi: l’uno conferito nell’interezza visuale, quindi frontale e unitiva; l’altro sedimentato nell’interezza visiva, simbiotica dell’io nei suoi molteplici strati convergenti, ai quali sentiamo che corrisponda Aracoeli in una valorialità indivisa, rintracciabile in un ritmo poetico per il fatto di trovarsi composizione di più piani paradigmatici e semiotici in un’atemporalità di forze che spingono ad essere tutte le dimensioni dell’esistere nel tutt’uno del tempo, il suo.

Da tutto questo l’esaltazione finalizzata a un circuito chiuso si annulla: di fatto, la Morante dà forma a un linguaggio tutt’altro che mutilato da asprezza, anzi, proprio in Aracoeli ella matura un linguaggio ricercato tra gli squarci di una profusione che parla di sé, adagiandosi su quella che può essere considerata come alfabetizzazione di un’attitudine, un’alfabetizzazione che prende in esame le diverse età dei tempi individuali e dei tempi relazionali su binari concretizzati in maniera fluttuante e talora apparentemente – e solo apparentemente – in forma di incontro. E l’autrice annulla le fratture che potrebbero rivelare quella sua realtà interiore, quel ribollimento che si propone come verità del suo essere non già mascherandolo, quanto andando alla ricerca, ella stessa, di una parola che sia artefice di un registro sinecistico allungato a sfuggire dalla banalità. Di questo registro abbiamo traccia nell’intonazione ciclica di Aracoeli-romanzo: un piano denso di sconfitte e di lacerazioni dalla gianica espressione che – potremmo dire – sia finalizzata a ricostruire gli anelli di una catena che metta al proprio posto le cose e che, nel percorso impervio della ricostruzione, si trovi spinto – e a un tempo frenato – su una strada a senso unico, ai bordi della quale non manca tuttavia la segnaletica, malgrado si tratti di una segnaletica che però non sortisce attenzione alcuna. Epperò è qui che l’essenza di Aracoeli trasmuta in un’assenza. Ed è un’assenza che tempra l’andare controverso (e controvento, aggiungo), scorrendo in una realtà virtualizzata indispensabile alla continuità e che – sempre in continuità – si scontra con lo specchio orizzontale delle cose. Una pur inesaurita risposta potrebbe giungere da quanto scriveva W. Benjamin: «Quando il pensiero si ferma all’improvviso in una costellazione satura di tensioni, provoca a essa una scossa cristallizzandosi come monade[36]». Decise e caustiche, le parole di W. Benjamin si prestano a gestire l’intera intelaiatura della figura di Aracoeli. In essa risuona il quadro maieutico che, nel configurare la donna, lascia di lei filtrare (senza opporre alcuna rinuncia, pur al limite di una materialità etonima) le alterazioni di una geografia concepita nella dimensione del sogno surrettizio, febbrilmente impenetrabile, integrandosi nella pronuncia capitale di Elsa Morante e che si diffonde tra le pagine del libro nella voce di Manuele:

Si direbbe, in realtà, all’epilogo di certi destini, che noi stessi, per una nostra legge organica, fin dall’inizio, insieme con la vita, abbiamo scelto anche il modo della nostra morte. Solo a quest’atto finale il disegno, che ciascuno di noi va tracciando col proprio vivere quotidiano, prenderà una forma coerente e compiuta, nella quale ogni atto precedente avrà spiegazione. E sarà stata quella scelta – anche se nascosta a noi stessi, o mascherata, o equivoca – a determinare le altre nostre scelte, a consegnarci agli eventi, e a segnare in ogni movimento i nostri corpi, conformandoli a sé. Noi la portiamo scritta, indelebilmente, fin dentro ogni nostra cellula[37]

Nella dimensione tanto ergonomica, che cinestetica del romanzo, trova quindi un equilibrio la formula metonimica di un’Aracoeli persistente ad eludere il senso dell’incompiuto nell’intensità di «un universo che» – afferma E. Morin – «sfugge ai canoni della realtà»[38]. In questo modo, vediamo Aracoeli procedere nell’assunto Woolfiano di un’arte – o di una vita artistica – che si stacca dalla materialità per aspirare a una totalità invero mai raggiunta (o forse raggiunta quando non più «parlata»).  Nessuna risoluzione, se non nell’”epoca” in cui il territorio asceso si frantuma in particelle minimali, in nessi interspaziali che vive nell’incessante oscillare tra i suoi dentro e i suoi esclusivi fuori nel bisogno di sfuggire a qualsiasi cancellazione, pur essa presenza per sé e presenza di un mito persistente (Me lo insegnò Aracoeli: che non era il sole, come sembrava, a girare per il cielo; ma il mondo. Il quale era mosso da un’aria circolare perpetua, così che girava sempre, giorno e notte[39]  ̶  è la riflessione di Manuele). Prospettate in un’identità eudemonica, le emozioni si ramificano nei fatti, pur mantenendosi nell’attrazione di un incantesimo. Qui l’eudemonico movimento di Aracoeli si condensa nella pluralità dei suoi resoconti immaginali. E ancora: qui il suo essere si contrae in un’appartenenza che è richiamo e legame, condanna e desiderio lacerato, sicché il processo di emancipazione che la riguarda in intimità appare sempre più risucchiato in una sorta di auto-riduzione progressiva, simile a un cero accantonato in una cattedrale oramai chiusa.

CARMEN DE STASIO


[1] E. Morante, Aracoeli (1982), Einaudi, Torino, 2015, p. 295

[2] A. Bertolucci, Elsa in «Aritmie», Garzanti, Milano, 1991, p. 150

[3] Ibi, p. 149

[4] Aracoeli, p. 27

[5] Ibi, p. 10

[6] Ibi, p. 11

[7] H. Arendt, La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna, 2009, p. 489

[8] Aracoeli, p. 359

[9] Ibi, p. 133

[10] Ibi, p. 117

[11] Ibi, p. 358

[12] Ibi, p. 25

[13] Ibi, p. 20

[14] Ibi, p. 10

[15] Ibi, pp. 11 – 12

[16] Ibi, p. 337

[17] Cfr. V. Woolf, Le Onde, 1931

[18] Aracoeli, p. 139

[19] Ibi, p. 337

[20] Ibi, p. 12

[21] Ibi, pp. 28 – 29

[22] V. Woolf, Momenti di essere – scritti autobiografici (1976, pubblicazione postuma), La Tartaruga Edizioni, Baldini & Castoldi S.p.A., Milano, 2003, p. 38

[23] R. Bodei, La filosofia del Novecento (e oltre) (1997), Feltrinelli, Milano, 2016, p. 16

[24] Aracoeli, p. 28

[25] Ibi, p. 29

[26] Ibi, p. 28

[27] Ibi, p. 29

[28] H. Bergson, Il possibile e il reale (Saggio pubblicato in rivista svedese «Nordisk Tdskrift» nel novembre 1930) – a cura di A. Branca, Edizioni AlboVersorio, Milano, 2014, p. 19

[29] Aracoeli, p. 34

[30] Ibi

[31] Ibi, p. 52

[32] Ibi, p. 11

[33] Ibi, p. 14

[34] Ibi

[35] Ibi, p. 350

[36] W. Benjamin, Sul concetto di storia – Il manoscritto affidato a Hannah Arendt delle Tesi di filosofia della storia (1940) – in «Hannah Arendt Walter Benjamin – L’angelo della storia – Testi, lettere, documenti», a cura di D. Schöttker e E. Wizisla, Giuntina, Firenze, 2017, pp. 149 – 150

[37] Aracoeli, p. 19

[38] E. Morin, Sull’Estetica (2016), Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, p. 55

[39] Aracoeli, p. 137


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N.E. 02/2024 – “Al di là di un dispersivo incanto nella pluralità dei versi di Oronzo Liuzzi”, saggio di Carmen De Stasio

Fase di ritrovo in un processo di evoluzione ribollente di trasferte attratte da disorientante progresso, il tempo attuale della poesia volge a quella che in più di un’occasione ho definito memoria eidetica: vale a dire, una memoria impegnata a disoccultare situazioni in prossimità e segni l’andare esterno-interno permanente attraverso un ordito lessicale che, privandosi del disagio procurato da sintagmi isolati (ma nondimeno consolatori), rapprende incidenze progressive lanciando significati profondi tanto della parola pensante, che del pensiero calibrato attraverso la grafia di un dire che sconfina dalla semplice azione scenografica. L’opera rende così merito di una lingua plurale di tipo barthesiano; una lingua che, trasfigurando la partitura per livelli non dissimili da un impianto musicale, configura la pluralità fonetica, quanto logico-viscerale (se possibile) della parola nella sua funzione etica, comprensiva e resistenziale; nella coralità di recondite pulsioni rapprese in una manifestazione costruttiva di condizioni pur se talora acquisite in elusiva incompatibilità.

Risuona in questa sede il richiamo alla poesia di Oronzo Liuzzi; alla reciprocità di parti attraverso le quali ad essa si offre durevolezza nell’ambito segno di spiritualità, una spiritualità che vediamo corrispondere al processo di conoscimento con le moltiplicanti note di un sé mai rarefatto, né tumefatto dall’ambiziosa consuetudine alla disgregazione. Anzi, è in un andamento senza tregua[1] che l’esperienza poetica riflette la sua meditazione su sfondi reali, implicando il sé del movimento «nel» movimento continuo di un sé disposto alla ricerca di un senso sotto il sole irresistibile[2], e consentendo alla coscienza di diffondersi nella permanente azione della parola.

In tal senso, la parola è arte del visualizzare incerti scampoli di uno spazio occupato da tensioni, iridato da rumori del vivere l’inebriante quotidiano: nelle esortazioni pensative, e prodigandosi al di fuori di prepotenti certezze, il verso calibra una neo-storia per scenari che, nell’evitare il freno all’ordito di una tempesta immaginale, si impossessa della città (…) trattiene assimila (…) interpreta attraversa (…)[3]. Così il continuo incedere dei pensieri (che intanto riconquistano un mondo addormentato[4]) dilania le cesure. Non basta: declina il distintivo processo semiotico in un reticolato di intuizioni che rimandano alla coralità crescente di un linguaggio esteso in un rapporto non programmato e che, in più, sfugge alla labirintica geometrizzazione, porgendosi all’ascolto di un sé coscienziale quale segno grafico della spiritualità del vivere di contro alla dilagante reificazione.

Da una postazione di consapevolezza fuor da qualsiasi frivolezza od anche da incauta attrazione al pensiero debole[5], il poeta recupera gli anni, i mesi, i giorni e le ore e contende il tempo interno all’esperienza del tempo esterno raggrumato in affaccio frontale su (…) un sogno un incubo / una pagina della mia vita / che non mi appartiene (…)[6]; accoglie le frange e le sfumature di un tempo coinvolto nei confini psichedelici del sogno aleatorio, da nostalgia nefasta e da speranza illusoria. Alla realtà come risorsa, invece, si volge il cammino del poeta per assottigliare sparse faglie tra il sé sussistente e il sé propenso a prospettarsi come scoperta continua oltre la cornice senza ritorno[7] di un Io proiettato nello specchio. Diramandosi tra i versi e tra una parola e l’altra, la volontà dissuade pensieri circoscritti in un’irrecuperabilità parlata e assume l’aspetto anti-iconico di un’intenzione per ovviare a quel che viene evocato – con intonazione variabile – quale viaggio verticale di coscienza, un viaggio che permette al poeta di librarsi oltre le trame sterili di un esistere vagheggiato in un’icona preconfezionata – laddove pure creiamo mondi di ciò che non siamo[8]. Nessun messaggio si riscontra, quanto, invece, l’orientamento a un’integrazione di parti sospese, nelle quali Oronzo Liuzzi coglie i cori dell’esistente oltre le lusinghe di una parvenza di vivere che, invero, pare inclinarsi alla somiglianza fatiscente del montaliano sonno eterno. E, infatti, attratto dall’impegno che la parola possiede nell’instillare percorsi di coscienza a sé prima che al lettore, Liuzzi si dedica alla scrittura d’arte verbo-visiva, conseguendo il clou interattivo tra materia e l’incedere costante verso la coscienza di sé, allungandosi sulle sensibilità ravvisate nel territorio vasto di un reale verificabile e incline al cambiamento, quanto, talora, inebriato da prevedibilità consolatoria. Qui il poeta non è solo: egli transita laddove l’occhio libero si muove esplora la mente vaga / si perde nell’aria rarefatta sospeso riflette crea / al tramonto emerge finalmente discendo / nell’entusiasmo del tempo il mio[9].

In tal senso la poesia contravviene a una regolamentazione intesa a irrorare di frastuoni inebrianti il ritratto dell’inerte dato. Non solo: dall’inerte presunto il poeta estrae quel che oramai allo strazio dell’imperturbabilità pare affidarsi, tanto che, nel turbato chiedersi, e nutrendosi con schiettezza degli andamenti che scuotono la lettura degli eventi, ne elabora le vette apicali rianimando il sé nel compiere il risveglio del significato delle cose, accingendosi di volta in volta a dar forma a una coscienza che non resti isolata e che si configuri in un inaspettato allontanamento da qualsiasi pallida illusione, quanto da pur stravaganti sostituzioni. È, dunque, una coscienza rinnovata a sollecitare il poeta quando il sipario del giorno si alza[10] e turbato e sospeso, viepiù intensifica la parola nelle sue facoltà (l_orrore domina le figure. / testimoniano il vivere del definito. deteriorano la mente con la paura.[11]), sicché il lessico del pensiero pone l’inatteso ordine ad ostacolo di contro alla rigidità di una sostituzione normalizzante e satura. Si tratta, invero, di un modo che permette alla parola poetica di trascendere riverberi astrattistici, immediatamente fruibili e, per ciò detto, instabili, e, di rimando, di farsi ponte di una co-operazione coscienziale che vede il sé districarsi dall’ermeticità dell’Io centrico e disporsi in un’intraprendente visione che – nell’inestinguibilità dei dettagli – procura la stessa impressione di novità davanti allo svolgimento della (…) vita interiore[12]. In questo acuto agire la ridondanza non trova sostegno e nemmeno le immagini ricorrono a lusinghiere strategie per far fronte a quella che è solo futile tempo dell’attesa. A quel tempo la sfida si propone fattiva e non già con un verso di fuga dallo scenario dei pensieri fondativi, quanto nell’inoltrarsi nelle profondità ascose. Qui l’azione dell’esplorare avanza nel vero e, con un gesto privo di didascalie tiranniche, si amplifica oltre la zona arida delle sensibilità rese clandestine da incubi in eccesso [che] accendono la notte[13].

In questi termini, disposta su una diversa traiettoria, la ricerca coscienziale al vedere/vedersi recupera il rituale di un’autonoma e impavida realtà di memoria che dispone l’esistente e il suo dolore, quanto l’esperienza e il suo dolore, in un’esegesi eteromorfa, laddove il conosciuto/conoscibile imbastisce tanto una successione logica dell’uno rispetto all’altro, quanto uno spostamento che prepari a una sostenuta dicibilità, volgendo all’incontro di coscienza tra il poeta riflettente (un sé che si dirama e che mai si acquieta[14]) e il sé molteplice (dentro un vuoto sento la trasformazione mescolo passato / presente rimuovo io voi noi le origini attraverso il chi sono[15]) in un neomorfico rituale che non ignora, né piega a patite certezze (osservo questo mondo altri mondi / penso il pensiero pensante / un personaggio in carne e ossa / in cerca di un autore / sono la forza dirompente del testo / le parole il dramma / sono il teatro nel teatro / la zona di confine tra l’essere e l’apparire[16] – è il sentire possente che pervade il poeta).

Il poeta brindisino Oronzo Liuzzi

Senza furor di sentenza, assistiamo, quindi, allo svolgersi di una poesia che si inarca e si imbarca per ulteriori direzioni senza mai inabissarsi e né disperdersi, senza detenere prevedibili rotte; al contrario, la poesia scorge il suo faro in ogni posizione dalla quale intraprende un percorso pluriforme per mare e per terra e per aria, nell’intersezione espansiva degli ambiti dell’esistere tra i passi e nei tempi che, inattesi, si avvinghiano alla boa del momento mutevole per decidere la direzione, pensandosi e mai ritirandosi (pellegrino per sentieri ammutoliti / sovversivo nel falso movimento[17] – è la straziante confessione).

Gratificato da un lume che permette di accedere alle profondità, il lessico del poeta si raffina nel disporre senso critico al conosciuto, al visto e sentito e rilanciarsi laddove, nella voce della poesia e nel suo «adesso», (…) insorge libero il pensiero nuovo di libertà che parla il plurale / coraggio[18] e nella pluralità delle occasioni la coscienza della parola-verso diviene coscienza del poeta nel suo continuo approdare fedele nel mondo, malgrado dall’incessante ricerca etica quel mondo si mostri (…) artificio insomma non identificabile / disarma la schiettezza non lascia tregua la disabilità visiva / (…)[19]. Nella richiesta tra frange acuminate impercettibili, lo spirito che anima la parola priva di iconoclastiche controindicazioni – che si tratti di improperio o di nevralgico assedio d’abitudine – conferma il bisogno di un ordine non già da intendere nell’impoverimento delle digressioni, quanto nella liberazione dall’estraneità, portando all’apparentamento bergsoniano, e cioè, a una forma di consanguinea contiguità tra materiale e spirituale e che scuote quella che Liuzzi chiama disabilità visiva e che ravvisiamo quale impedimento resistente nella precarietà; quale sospensione elusiva e incatenata. Una mancanza, dunque, alla quale la visualità poetica si pone ad ostacolo e va a scompaginare l’atrofia della concatenazione con un legame di rinforzo silente e burrascoso, ma sempre attuativo, tra quanto dalla parvenza transita per raggiungere un’espressione auto-manifesta, che non prevede accanite sembianze, che non si fa metafora di riconduzione, e che semplicemente è nel ribaltamento frontale, laddove il pensiero di sé risiede nell’allungarsi, sconfinare e restringersi del verso, nell’instillazione di un innovativo codice di evocazione intrepida, non adeguandosi affatto all’etimologia contraffatta di un’estemporaneità al limite del converso (l’impetuoso segno del mistero // scoprire / chiedermi // suscitare risposta[20]). Quel che avviene è l’incastro che (…) nel corpo / nella parola // si trasforma con l’intera sua forza[21]. È, insomma, lo spazio libero nel quale il poeta ripone successive riflessioni di un sé di volta in volta cosciente e distante dall’inconcludente fallacia che, impellente ed ostinata, potenzia un gioco di parti nel territorio della routine del vuoto[22], laddove l’ego meridiano si impone in aspra solitudine.

Segnali di rilevanza si incidono a modalità crescente e nel tempo poetico di Oronzo Liuzzi e non suscita affatto sorpresa l’incedere articolato dalla versatilità del ritmo che investe la tessitura delle parole. Ad esse, alle parole, il poeta assomma una credibilità inarcata verso l’incessante spostamento sintomatico della varietà cognitiva di cui è portavoce la facoltà del pensare senza mai interrompersi. Non è tutto: nel progredire ansante e ponderato, la poesia prende quindi forma di una coscienza di sé mentre lo spazio si riduce fra la mia finestra – dice il poeta – e l_affanno / mentale gli scompone la realtà[23]. Egli osserva e nel frattempo quel che accade rinasce per non irrompere nel vuoto[24].

Senza raggiungere alcun epilogo, dunque, la funzione semiotica della poesia liuzziana staglia un territorio che non si riduce a rappresentare i fatti mondani: se a questo la poesia si fermasse, sarebbe cruciale ritenerne il fallimento, oppure il labirintico asservimento a un’illusoria dimensione; sarebbe l’incorrere incrinato a una speranza aleatoria, quanto retorica. Non v’è dubbio, al contrario, che l’ergonomia semantica rimandi alla sommessa preghiera di una coscienza persistente nelle corrispondenze tra le sensazioni colte dalle vicende mondane e non solo: la coscienza con la quale il poeta mantiene il fitto dialogo si alimenta di corrispondenze viventi nell’articolazione di tutte le facoltà del vedere, camminare, toccare, ascoltare, dire, mondare, fino al ritenere e spingere nella verticalità di una meditazione che riunisce tutte le arti disponibili e che quindi – nel privilegio di un’espressione di tipo baudelairiano – declina le movenze, i picchi, le cromie, le intemperanze, gli intervalli, i pieni e le anti-cromie in un sussulto che si distanzia dalle artificiali grazie sclerotizzate in un labirinto difforme. D’altronde, in una maniera attesa nuovamente al senso-verso del pensiero baudelairiano, il panorama poetico di Oronzo Liuzzi declina la spiritualità in un crescendo verticale che, nel trasformarsi, non esula dal rapportarsi a una materia depurata da qualsiasi appesantimento liturgico e della quale ravvisa l’incauto e l’effimero. Qui pure avviene il rinnovamento estetico; qui, ancora, la cosciente compresenza di un territorio individuale di sensazioni e idee, senza alcuna stanca esitazione, si scopre quale poetica di ritorno e nella scrittura forgia una spiritualità tutt’altro che foriera di dispersivo incanto.


Bibliografia

O. Liuzzi, Io e Caravaggio, SECOP Edizioni, Corato (Ba), 2010

O. Liuzzi, In Odissea visione, puntoacapo Editrice, Novi Ligure (Al), 2012

O. Liuzzi, E mentre l’arte …, CFR Edizioni, Piateda (SO), 2014

O. Liuzzi, Condivido, puntoacapo Editrice, Novi Ligure (Al), 2014

O. Liuzzi e R. Bucci, DNA, Eureka Edizioni, Corato (Ba), 2015

O. Liuzzi, Lettera dal mare, Oèdipus, Solofra (Av), 2018

O. Liuzzi, Mutomutas, Musicaos Editore, Neviano (Le), 2020

O. Liuzzi, Non Stop (Poesie 1970 – 2020), Musicaos Editore, Neviano (Le), 2021

O. Liuzzi, da Un giorno adesso, Transeuropa, Massa, 2023

A. Branca (a cura di), H. BergsonIl possibile e il reale, AlboVersorio, Milano, 2014


[1] O. Liuzzi, 12, «E mentre l’arte …», CFR Edizioni, Piateda (So), 2014, p. 32

[2] O. Liuzzi, XV, «Un giorno adesso», Transeuropa, Massa, 2023, p. 19

[3] O. Liuzzi, 12, «E mentre l’arte …», op. cit., p. 32

[4] O. Liuzzi, La vita si incontra (per Diego De Silva), «Condivido», puntoacapo Editrice, Novi Ligure (Al), 2014, p. 50

[5] Ibi, «E mentre l’arte …», op. cit., p. 46

[6] O. Liuzzi, La vita si incontra (per Diego De Silva), «Condivido», op. cit., p. 47

[7] Ibi, p. 51

[8] Ibi, p. 57

[9] O. Liuzzi, L «Un giorno adesso», op. cit., p. 54

[10] O. Liuzzi, 5., «In Odissea visione», puntoacapo Editrice, Novi Ligure (Al), 2012, p. 11

[11] Ibi

[12] H. Bergson, Il possibile e il reale – Saggio pubblicato nella rivista svedese «Nordisk Tidskrift» nel novembre 1930, a cura di A. Branca, AlboVersorio, Milano, 2014, p. 12

[13] O. Liuzzi, LIV, «Un giorno adesso», op. cit., p. 58

[14] O. Liuzzi, LI, ibi, p. 55

[15] Ibi

[16] O. Liuzzi, 24, «Mutomutas», Musicaos Editore, Neviano (Le), 2020, p. 91

[17] Ibi, p. 92

[18] O. Liuzzi, III, «Un giorno adesso», op. cit., P. 7

[19] O. Liuzzi, XI, IBI, p. 15

[20] O. Liuzzi, 6., «E mentre l’arte …», op. cit., p. 18

[21] Ibi, p. 19

[22] O. Liuzzi, 3., «Mutomutas», op. cit., p. 16

[23] O. Liuzzi, PENSIERI IN_TRANSITO_9, «PENSIERI IN_TRANSITO» (2006) in Raccolta «Non Stop», cit., p. 70

[24] O. Liuzzi, 7., «In Odissea visione», op. cit., p. 13


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 01/2023 – “Una scrittrice nata. Impressioni allo specchio. La lettura dei molteplici “io” nei libri di Virginia Woolf”. Saggio di Carmen De Stasio

Invisibili tracce percorrono le pagine dei libri a scolpire la forma dei tanti significati. Nell’ariosità di un esser luogo di verità segrete – ma da scoprire là dove avviene il confronto dialettico –, ciascun libro manifesta un’identità rotonda lungo le fasi di un processo creativo, spogliandosi di qualsiasi declinazione lo collochi entro i confini di sequenze di coordinazione e subordinazione, e agendo in favore dell’organica verità di un io fedele a immagini che si trasportano all’esterno al pari di un mosaico da visualizzare in un’incessante, quanto intrepida, formazione.

Senza riserva alcuna, l’orientamento sembra indugiare laddove «le realtà» dei libri allestiscono uno scenario di attraversamento in virtù di una forza che è tanto di compensazione, quanto rivelatrice di un crescendo nel cui riflesso vibra l’eco della tessitura narrativa di Virginia Woolf – unica e irripetibile nel pieno di un’identità dei tanti io confluenti in una scrittura che è specchio personale, stretta in una complicità con quanto all’occhio (in)fermo sulle facciate esterne delle cose è negato; intollerante nei confronti di tutto quanto rimarchi la passività sospesa sulla superficie. 

In occasione dei centoquarant’anni dalla sua nascita (nacque, infatti, nel 1882), è a Virginia Woolf, alla sua semantica dell’essere che dedico quel che mi piace definire un breve viaggio che mi permette di esplorare la tematica assai cara di quel che il libro è, vale a dire, specchio di un io molteplice e variabile; specchio di un io da scrivere a lettere minuscole per sottrarsi al predominio della parola «Io» e per l’aridità che provoca la sua ombra (…)1. Al centro di questa tessitura è l’intimità di una coscienza che dà voce alla particolare abilità narrativa di Virginia Woolf, e che ancor oggi invita il lettore a lasciarsi sorprendere dalla (…) illusione che non siamo incatenati in una mente sola, ma che possiamo assumere brevemente, per qualche minuto, i corpi e le menti degli altri (…).2 Nell’entrare in un contatto diretto con i mondi unitari dei tanti io che si riflettono nei suoi libri, ci viene altresì concessa l’occasione di penetrare il circuito delle elaborazioni immaginative calibrate in una realtà che, infine, diventa a noi familiare. Che sia questo uno degli obiettivi della sua creatività narrativa?

Avida lettrice ella stessa – coinvolta in prima persona nell’esercizio di un’intuizione che le permette di offrire qualcosa che non sia effimero al lettore affinché possa entrare in familiarità con l’intera forma del libro – Virginia Woolf è sempre presente ad accompagnare la lettura-esplorazione dei vari aspetti correnti delle sue opere letterarie, aspetti che, esattamente dai suoi scritti «altri» (e tutt’altro che marginali) – biografie, diari, lettere, saggi –, promanano a modellare i suoi pensieri.

«Esiste una qualche qualità del pensiero che può esser resa visibile senza l’ausilio delle parole? Essa deve possedere la rapidità e l’indolenza; saettare con immediatezza ed evanescenti perifrasi. Ma possiede anche, soprattutto nei momenti d’emozione, la forza di creare un’immagine, la necessità di scaricare il fardello sulle spalle di un altro; di permettere ad un’idea di filare via al suo fianco. La rappresentazione del pensiero è, per qualche ragione, più bella, più accessibile, più disponibile del pensiero stesso.3»

Seguendo questa esplicita linea di condotta, ci avviamo, quindi, alla ricerca dei dettagli segreti dai quali la forma risale a farsi preambolo di un mosaico delle relazioni che alla scrittura woolfiana danno alito di vita; scopriamo come le sue operazioni letterarie siano specchio delle esperienze di un vivere unico e, ancora, configurino la parabola crescente delle sonorità che una coscienza vigile costruisce a partire da un progetto cadenzato da tempi intensamente individuali, nei quali le cose vivono la loro interezza, refrattarie nei confronti di una letteratura arroccata a replicare gestualità plastiche, quanto impregnate di un’inautenticità che ne marca l’egoistico isolamento. Rotondo e pertinente quanto la stessa Virginia Woolf scrive:

(…) mi rendo conto con maggior chiarezza –– come la vita di ciascuno sia un mosaico di pezzi e come per capire una persona occorra considerare come un pezzo sia compresso e l’altro incavato e un terzo si espanda, e nessuno sia realmente isolato; (…)4

L’uscita dal cerchio delle convenzioni sta alla base di quella che può essere identificata come l’idea che la Woolf mette in pratica con uno stile narrativo che le è di aiuto nel sottrarsi a un controllo esterno che spinge a regolare e, per questa via, a logorare la coscienza di un io versato al continuo emanciparsi da quel che altri non è che uno schema prevedibile e che ai suoi occhi appare indifferente a qualsiasi suggestione, a qualsiasi tentativo di affrontare l’ardito compito di penetrare la superficie (La mente umana è tanto suggestionabile che la ripetizione di questo unico termine – Virginia Woolf si riferisce al romanzo – crea un danno considerevole. Il lettore arriva a pensare che, siccome tutte queste varianti di libri hanno lo stesso nome, devono avere anche la stessa natura5).

Ci troviamo, quindi, al cospetto di una vera e propria rivoluzione culturale che affida ai libri il delicato ruolo svolto dalle parole: di fatto, così come le parole elaborano cerchi vibranti di emozioni, i libri-realtà scenica della Woolf modellano le fasi dell’esistere sollevandole dal peso di qualcosa di permanente e, al contempo, di effimero sospeso nell’esclusiva contrazione frontale che lo specchio dell’opinione altrui rimanda6. Un artifizio, questo, a danno di un sentirsi parte della realtà, se non, addirittura, un voltar le spalle alla vita, a cui la Woolf risponde propendendo per un’immagine panoramica, nella quale l’unione di detto e di non detto delle cose traccia il territorio chiaroscuro di concretezza e creatività in quello che è, per lei, specchio narrativo di un’identità scomponibile:

«Supponiamo che lo specchio si infranga, l’immagine scompaia, e che non ci sia più la romantica immagine tutta circondata dalla profondità di verdi foreste, ma rimanga solo quel guscio di persona che gli altri vedono – che mondo senz’aria, piatto, nudo, banale sarebbe quello! Un mondo dove non poter vivere. (…) E i romanzieri in futuro si renderanno conto sempre di più dell’importanza di queste immagini riflesse, perché naturalmente non c’è una sola immagine, ma un numero quasi infinito; quelle sono le profondità che esploreranno, quelli i fantasmi che inseguiranno, lasciando sempre più fuori dalle loro storie la descrizione della realtà sempre più fuori dalle proprie storie, dandone per scontato la conoscenza, (…)7»

Da quest’immagine di insieme è possibile trarre un’idea quasi pionieristica, secondo la quale il libro crea tutto all’interno di sé8 agendo su un piano che, proattivo alla scomposizione-ricomposizione, rinnova la genesi narrativa delle cose in una visione che ne coglie l’interezza affidandosi agli slanci possibili di una (auto)coscienza lungo l’essenzialità dell’oltremente, lungo, cioè, quel territorio che si forma a partire dalle cose (il «libro stesso» – avverte la Woolf non è forma visibile, ma emozione sensibile, e quanto più intense sono le sensazioni dell’autore, tanto più esatta, priva di scivoloni o crepe è la loro espressione verbale9). A voler guardare fino in fondo, ciascuna operazione narrativa è, di fatto, assimilabile a una piccola, ma decisa rivoluzione adottata ai fini di uno stravolgimento dei ruoli. Ed è, infatti, uno stravolgimento che permette alla Woolf di individuare l’equilibrio idoneo a rendere l’unitarietà di due mondi (beninteso, quei mondi che la letteratura allineata ai soli fatti distingue su fronti oppositivi: il mondo della ragionevolezza da una parte e il mondo della sensibilità dall’altra). Nella tessitura woolfiana i due mondi sono tutt’altro che sovrapponibili: al contrario, essi aderiscono continuamente nel reinventare una coerenza del tutto personale e che si manifesta in un ordine sempre nuovo di parole impresse di significati. In concomitanza, nella tessitura narrativa woolfiana le due forme mondane provvedono all’architettura di un territorio in persistente costruzione, talora incedendo a piccoli passi – dove vige il rigoglio di una meditazione che rende prominente l’invisibile e rigenera l’ambiente di bisbigli e di ricordi che sopraggiungono con fervida immaginazione; talaltra, amplificandosi fino a sollecitare la correlazione concreta di spazi incisi da segrete intonazioni. A trarne vantaggio non è la sola libertà d’espressione, quanto lo scenario che permette di recuperare nei libri lo specchio di un io di volta in volta intero (dove manca una mescolanza di questo genere, l’intelletto sembra predominare e le altre facoltà mentali indurirsi e isterilirsi10).

Ancora una volta, il pensiero estetico di Virginia Woolf appare fondante all’idea di un processo che ha svolgimento sulla pagina in una varietà di cromie, di relazioni mai replicabili, quanto di inattese divergenze, dalle quali ricevere una visione allo specchio – che, pertanto, – è immensamente importante, perché carica la vitalità 11. Ed è proprio questa distintività a restituire l’effigie di un’artista della parola e che tale è nella misura in cui, sottraendosi a qualsiasi forma di corruttibile dis-memoria, si lascia cogliere nell’atto di comporre un lavoro che è incontro e che dell’io rimanda la metonimia di complete sensibilità (Il nostro vero io è questo che si trova sul marciapiede, in gennaio, o è quello che si affaccia al balcone, in giugno? Sono qui, o sono là? O forse la nostra vera personalità non è né questa né quella, né qui né là, ma qualcosa di così vario e vagabondo che soltanto quando diamo libero sfogo ai suoi desideri e le permettiamo di fare ciò che vuole senza alcun freno, siamo finalmente noi stessi?12). Non solo: nell’universo woolfiano la visione della realtà vibra di arte nel momento in cui la capacità comunicativa rigenera un quadro schietto di quel che accade quando all’azione del guardare si sostituisce un occhio che «non si accontenta» di ristagnare nell’abitudine (L’occhio non è un minatore – ella scrive – non è un sommozzatore, non è un cercatore di tesori sepolti. Ci trasporta dolcemente sulla corrente, si riposa, si sofferma, forse il cervello dorme mentre guarda13). Evidente come la stessa Virginia Woolf viva intimamente la realtà in tutte le intonazioni e le traduca poi con un linguaggio nel quale convergono tanto la parola-pensiero divergente, quanto la consistenza e l’emozione in un intreccio che, innanzitutto, conferma l’azione del leggere le cose prima di procedere al loro cruciale smontaggio e riposizionamento conseguente, tale che l’esperienza del libro echeggi di una coralità necessaria a rendere accessibili le stanze metaforiche che compongono la struttura mentale di una realtà che è sì flessibile, ma altresì duratura:

«(…) noi siamo urne sigillate galleggianti su quella che per convenienza chiameremo la realtà; in certi momenti, senza alcun motivo, senza sforzo alcuno, si apre una fenditura nel sigillo; e la realtà ci invade; cioè una scena – e queste non sopravviverebbero intatte a così tanti rovinosi anni se non fossero fatte di una sostanza durevole; questa è la prova della loro “realtà”. È questa suscettibilità ad accogliere scene l’origine del mio impulso a scrivere? (…) S’intende che io ho coltivato questa facoltà, perché in tutti i miei scritti (romanzi, critica, biografie) ho quasi sempre dovuto costruire delle scene; quando scrivo di una persona devo trovare la scena che meglio rappresenta la sua vita; e quando scrivo di un libro devo trovare la scena rappresentativa nei versi o nel racconto. O forse non si tratta della stessa facoltà? 14»

È assai comprensibile, a questo punto, il modo in cui il libro diventi artefice primario di effetti simili ai bisbigli prodotti da fotografie strappate di getto e ricomposte seguendo un ordine che ha origine da un’intuizione, vieppiù aprendo le proprie stanze metaforiche alla piena consapevolezza delle cadenze della realtà. A tali cadenze Virginia Woolf non riserva né il distacco, né l’estraneità, né, tantomeno, ad esse affida un ruolo secondario. Su questo versante ci spingiamo ad interpretare la sensibilità con cui la Woolf penetra i meandri significativi di una vita nel suo incessante scorrere, per poi unificarne i bisbigli in una narrazione poetica:

«La vita è quello che si legge negli occhi della gente; la vita è ciò che essi imparano, e, dopo averlo imparato, mai cessano, per quanto tentino di nasconderlo, di essere consapevoli – di cosa? Che la vita è così, pare.15»

Quel che avviene lascia trapelare la profondità di un segreto codice che dà forma a una vera e propria sintesi poetica. Una sintesi conclamata da simultaneità – come tale è la poesia, nella quale le immagini si susseguono incessantemente, senza ordine e incontrollate16 – nel momento in cui a un allineamento di fatti per sequenze che infila, uno dietro l’altro, il prima, un egoistico durante e un qualsiasi fumoso dopo, replica con una diversa direzione anche nell’uso puntuale e rigorosamente personale della punteggiatura, che pure interviene a tradurre il ritmo delle emozioni su un piano lirico di ombre e mezze luci .17 Così lo scrivere di Virginia Woolf si associa a un abitare le intimità della vita e si diffonde tra le pagine dei libri: questo il territorio del confronto e questo, ancora, è lo spazio unitario di una narrazione che la vede una e nuova di volta in volta (Come si può imparare a scrivere, se si scrive soltanto sulla stessa persona?18). Parimenti, dai libri-evento scaturisce un’immagine che non si posiziona mai a definirsi, né a concludersi in un guscio solitario e sono gli stessi libri a guidare la svolta: non già «nello» specchio i libri-creatura di Virginia Woolf si trattengono, giacché, intrappolati nell’inquadratura del riflesso, tenderebbero a rimpicciolirsi in una postura contraffatta, esaurendo, finanche, il valore del dire in un oblio che nella frontalità si protrarrebbe indistinto. Su un altro versante è il comportamento che anima i libri-specchio dell’io woolfiano: rimando all’autenticità di un continuo iniziare, a una varietà di voci estensibili in una compiutezza che evoca la perenne impressione che le cose procedano contemporaneamente a livelli differenti.19

NOTE

* Il titolo del presente saggio è ripreso da una definizione che Virginia Woolf attribuisce a se stessa nella lettera indirizzata alla sorella Vanessa in data 19 aprile 1932:

(…) questa lettera, anche se è una lettera terribile per una scrittrice nata – e non puoi negare che io lo sia – non una brava scrittrice ma una scrittrice nata – (…) è lunga e appassionata, e piena delle più delicate sebbene tacite emozioni – ma non sono proprio questi – quelli taciti – i sentimenti più delicati?

Da Lettere 2573-2585 – Aprile-maggio 1932, in «Falce di Luna – Lettere 1932-1935» (1978), a cura di N. Nicolson e J. Trautmann, Einaudi, Torino, 2002, p. 63

  1. V. Woolf, Una stanza tutta per sé (1929), Newton Compton, Roma, 1993, p. 85
  2. V. Woolf, A zonzo per le vie di Londra (saggio pubblicato su Yale Review, 1927, e raccolto nel volume postumo The Death of the Moth and Other Essays, 1942), in «Sono una snob? (1936) e altri saggi», Piano B edizioni, Prato, 2010, p. 53
  3. V. Woolf, Sul Cinema (pubblicato sulla rivista Arts, 1926; successivamente su Nation and Aetheneum, New Republic), a cura di S. Matetich, Mimesis, Milano, 2012, p. 13
  4. V. Woolf, Momenti di essere scritti autobiografici (1976, pubblicazione postuma), La Tartaruga Edizioni, Baldini & Castoldi S.p.A., Milano, 2003, p. 38
  5. V. Woolf, Che cos’è un romanzo? (pubblicato in Weekly Dispatch, 27 marzo, 1927), in «Voltando pagina – saggi 1904-1941» a cura di L. Rampello, il Saggiatore, Milano, 2011, p. 243
  6. Cfr. V. Woolf, The Common Reader (1932), Vol. II, Vintage Classics, London, 2003, p. 89:

Nothing exists in itself. (…) All value depends upon somebody else’s opinion. For it is the essence of this philosophy that things have no independent existence, but live only in the eyes of other people. It is a looking-glass world, this, to which we climb so slowly; and its prizes are all reflections.

Traduzione a cura dell’autrice del presente saggio: Nulla esiste in sé. (…) Tutti i valori dipendono dall’opinione di qualcun altro. Questa è, pertanto, l’essenza di una filosofia secondo la quale le cose non hanno una propria esistenza, ma vivono esclusivamente negli occhi degli altri. Si tratta di un mondo a specchio sul quale ci arrampichiamo; e tutti i riconoscimenti non sono altro che immagini riflesse.

  1. V. Woolf, Il segno sul muro (1921) in «Tutti i racconti di Virginia Woolf», a cura di S. Dick, La Tartaruga, Milano, 1988, p. 88
  2. V. Woolf, Lettera a J. E. Blanche, 20 agosto 1927, in «Spegnere le luci e guardare il mondo di tanto in tanto – Riflessioni sulla scrittura», a cura di F. Sabatini, Minimum Fax, Roma, 2017, p. 49
  3. V. Woolf, Sul rileggere i romanzi in «Genio e inchiostro – le più belle recensioni per il Times Literary Supplement» (2019), a cura e traduzione di S. Sullam, Harper Collins, Milano, 2021, p. 143
  4. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op.cit., p. 87
  5. Ibi, p. 44
  6. V. Woolf, A zonzo per le vie di Londra, in «Tutti i racconti di Virginia Woolf», op. cit., p. 45
  7. Ibi, p. 37
  8. V. Woolf, Momenti di Essere, op. cit, p. 182
  9. V. Woolf, Un romanzo non scritto (1919) in «Tutti i racconti di Virginia Woolf», op.cit., p. 122
  10. V. Woolf, Lettera a Ethel Smyth, lunedì 24 settembre 1934, in «Falce di Luna – Lettere 1932-1935» (1978), a cura di N. Nicolson e J. Trautmann, Einaudi, Torino, 2002, p. 417
  11. V. Woolf, Lettera a Ethel Smyth, lunedì 17 dicembre 1934, in «Falce di Luna», op. cit., p. 442
  12. V. Woolf, Lettera a un giovane poeta, in «Voltando pagina», op. cit., p. 377
  13. V. Woolf, Lettera a Stephen Spender, 10 luglio 1934, in «Falce di Luna – Lettere 1932-1935», op. cit., p. 394

BIBLIOGRAFIA

  • V. Woolf, «Tutti i racconti di Virginia Woolf», a cura di S. Dick, La Tartaruga, Milano, 1988
  • V. Woolf, Una stanza tutta per sé (1929), Newton, Roma, 1993
  • V. Woolf, «Falce di Luna – Lettere 1932-1935» (1978), a cura di N. Nicolson e J. Trautmann, Einaudi, Torino, 2002
  • V. Woolf, The Common Reader (1932), Vol. I – II, Vintage Classics, London, 2003
  • V. Woolf, Momenti di essere – scritti autobiografici (1976, pubblicazione postuma), La Tartaruga Edizioni, Baldini & Castoldi S.p.A., Milano, 2003
  • V. Woolf, «Sono una snob? (1936) e altri saggi», Piano B edizioni, Prato, 2010
  • V. Woolf, «Voltando pagina – saggi 1904-1941», a cura di L. Rampello, il Saggiatore, Milano, 2011
  • V. Woolf, Sul cinema (1926), a cura di S. Matetich, Mimesis Edizioni, Milano, 2012
  • V. Woolf, «Spegnere le luci e guardare il mondo di tanto in tanto – Riflessioni sulla scrittura» – a cura di F. Sabatini, Minimum Fax, Roma, 2017
  • V. Woolf, Non saper il greco (1925), traduzione di G. Maugeri, Garzanti, Milano, 2018
  • V. Woolf, Tutto ciò che vi devo – Lettere alle amiche, L’Orma, Roma, 2018
  • V. Woolf, «Genio e inchiostro – le più belle recensioni per il Times Literary Supplement» (2019) – cura e traduzione di S. Sullam, Harper Collins, Milano, 2021
  • V. Woolf, Le tre ghinee (1937-1938), Feltrinelli, Milano, 2021
  • D. Kotnik, Virginia Woolf – La Minerva di Bloomsbury, Rusconi, Milano, 1999
  • T. Marino, La scrittura visiva di Virginia Woolf – Diari, saggi, romanzi, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2019
  • L. Rampello, Il canto del mondo reale – Virginia Woolf. La vita nella scrittura, il Saggiatore, Milano, 2005
  • L. Woolf, La morte di Virginia, Lindau, Torino, 2015
  • P. Zaccaria, Virginia Woolf – Trama e ordito di una scrittura, Dedalo Libri, Bari, 1980

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