“Lo splendore del niente e altre storie” di Maria Attanasio, recensione di Gabriella Maggio

Recensione di Gabriella Maggio

 

411kfsYU87LDue anni dopo la pubblicazione del romanzo storico La ragazza di Marsiglia (Sellerio), che ricostruisce la storia di Rosalie Montmasson, l’unica donna dei Mille, moglie di Francesco Crispi dal 1854 al 1875, poi cancellata dalla storia del nostro Risorgimento, Maria Attanasio pubblica, sempre con Sellerio, Lo splendore del niente e altre storie, sette storie, già variamente edite ora riunite in un unico volume in riconoscente omaggio a Elvira Sellerio.

Maria Attanasio è ancora una volta concentrata sulle donne antiche di cui resta traccia negli archivi o nell’immaginario popolare. A queste si avvicina sempre con l’inesauribile passione di chi sente la scrittura storica come destino. In apertura del libro “Delle fiamme, dell’amore” presenta una nobile storia d’amore e morte sullo sfondo dell’incendio che a Caltagirone distrusse le baracche, costruite dopo il terremoto del 1693. Tra le conseguenze di questo evento si colloca anche la storia di Francisca, protagonista di “Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile”. Rimasta prematuramente vedova, senza figli e sostegno familiare, Francisca decide di indossare abiti maschili e così guadagnarsi onestamente da vivere, ma i sospetti dei vicini di casa suscitano l’attenzione dell’Inquisizione, che dà alla storia un esito imprevedibile.

Eziologica è la storia di Annarcangela “La donna pittora” raccolta dalla scrittrice sulla strada del Santuario del Soccorso, costruito sul luogo del misterioso ritrovamento di un crocifisso, restaurato   in una sorta di trance da Annarcangela.

Il ‘700 porta anche a Caltagirone una ventata di “ribellione” l’ostinazione inflessibile di donna Ignazia, protagonista di “Lo splendore del niente”, che dà il titolo alla raccolta, che, diversamente dalle donne protagoniste delle storie precedenti, si “ribella” alla famiglia e realizza un suo progetto di vita libero e ascetico volto alla contemplazione del niente. Ma il ‘700 è anche il secolo del popolo e delle sue rivendicazioni, tema caro alla scrittrice che con ironia tratta la rivolta degli abitanti di Procida ne “I gatti dell’isola nomade” contro la disposizione regia di uccidere tutti i gatti dell’isola, rei di cacciare i fagiani destinati tutti alla passione venatoria del re Carlo di Borbone.

E ancora venato d’ironia è l’incipit “Dell’arcano liquore e di altri odori” sull’esecuzione a Palermo di Giuanna Bonanno, la vecchia dell’aceto: “Dei tremendi rumori parigini, che in quell’ardente luglio del 1789 spalancavano a borghesi e proletari le porte della storia, poco-e a pochi-arrivava a Palermo il suono e il senso; ad accendere immaginario e conversari di nobili e plebei della felicissima città era invece lo spettacolo previsto per giovedì trenta.”

A Caltagirone ritorna l’ultimo racconto “Morte per Acqua” che trae spunto dall’invasione di cavallette del 1789 e dallo studio del caltagironese Biagio Crescimone “Osservazione sulla vita delle cavallette e sui mezzi per distruggerle”. Un cieco istinto spinge l’insetto a morire gettandosi in uno stagno a Saint-Denis, mentre “l’Assemblea Costituente proclamava la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino”. L’ampia dinamica della storia resta lontana dalla Sicilia e da Caltagirone, indifferenti e chiusi nel tempo ciclico dell’agricoltura.

Maria Attanasio si riconosce in queste esistenze esigue e dimenticate, rese personaggi dalla sua immaginazione, che si snoda sempre in uno stretto legame tra fatti e luoghi; sono delle “resistenti” e come lei non si piegano, credono e lottano.  La scrittrice dando loro respiro e sentimento, le fissa in gesti assoluti e senza ritorno: “senza vossia non ce n’è mondo! “di Catarina; “fimmina dintra e masculu fora”  di Francisca; “ cancellati i me piccati, mantiniti a menti mia” di Annarcangela; la “radicale affermazione del niente” di Ignazia Perremuto, fino all’originale leggerezza di Levia.

Tutte le storie si sviluppano con rapidità, concentrate su fatti essenziali che riempiono i silenzi del tempo in un preciso contesto locale e storico, di cui si coglie il nesso con la contemporaneità. La lingua semplice e precisa asseconda questo disegno, incisa talvolta di parole latine e dialettali; assume un ritmo poetico quando sfiora particolari autobiografici come la “salvifica cucuzza gialla c’a stimpirata ri l’acitu”.

Poetici sono stati gli inizi di Maria Attanasio in giovanissima età. Nel tempo maturando l’impegno politico per un progetto di mondo libero da ogni ingiustizia la scrittrice ha variato il linguaggio dell’io in quello del mondo e scoprendo la propria storicità si è dedicata alla narrazione.

GABRIELLA MAGGIO

 

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“Immagino… un bambino chiamato amore” di Luigi Bulla. Recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Immagino… un bambino chiamato amore (Edizioni Letterarie Il Tricheco, 2020) è il nuovo libro di poesie di Luigi Bulla, autore catanese classe 1978. Esso segue la raccolta Le pellicole del cuore, pubblicato per il medesimo marchio editoriale, del quale è responsabile, nel 2017.

Luigi Bulla è una persona versatile, grande amante della cultura, strenuamente impegnato nella difesa e promozione della letteratura, con particolare attenzione alla poesia, compresa quella in dialetto di cui, pure, come vedremo, è autore. Ha alle spalle una nutrita produzione libraria raccolta in varie pubblicazioni che, dal 1996 – anno del suo primo libro edito per i tipi di A.P. E. di Terni – ad oggi contempla vari generi: da pubblicazioni di taglio specialistico concernenti la sua sfera professionale, quali L’Arcano Sentiero della Cartomanzia, edito per i tipi di Kimerik di Patti (Messina) nel 2015, a volumi di più ampio respiro nei quali, pur fornendo proprie tesi attorno a sentimenti di dominio comune nell’uomo, affronta questioni importanti della vita, non dimenticando una dimensione religiosa che risulta particolarmente pregnante e connotativa della sua persona. Si veda, ad esempio, il volume Un Messia per amico edito sempre da Kimerik nel 2015 col quale è risultato vincitore del Premio Internazionale di letteratura italiana, la cui premiazione si è tenuta nel 2015 presso il Palazzo della Cultura di Napoli.

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Nel tentativo, pur arduo, di abbozzare un po’ la sua poliedrica figura di uomo e di autore, alcuni brevi cenni sulla sua attività associativa, all’unico servizio della cultura, risultano utili e senz’altro significativi. Negli ultimi anni, infatti, Luigi Bulla si è fatto promotore, nella zona del Catanese, della riscoperta e riproposizione di un esperimento sociale e culturale molto importante per la Sicilia tutta del quale era stato protagonista suo zio Antonino Bulla (1914-1991)[1], noto cantastorie e culture locale ricordato come “u poeta do Cannalicchiu” al quale, dopo la sua morte, sono state dedicati due spazi nella toponomastica locale: una via nel paese natale di Adrano e uno spiazzo, col nome di Largo Antonino Bulla, nella parte nord di Catania non lontano da Parco Gioeni. Il suo avo aveva dato impulso, mediante le attività promosse dal Centro d’Arte e Poesia, alla promozione e diffusione culturale con iniziative quali incontri, letture e pubblicazioni, attività con le quali il verbo della Poesia era senz’altro stato celebrato in maniera nobile. Suo nipote Luigi Bulla nel settembre del 2016, sull’onda di quella esperienza “gloriosa” che si era spalmata in un ampio periodo di tempo (dal 1945 al 1991), conscio delle immancabili trasformazioni intercorse in questo arco temporale, i cambiamenti socio-economici, ma anche le introduzioni importanti nel modo di comunicare (la tecnologia e l’informatica fra tutte), ha deciso di rifondare quella stagione di prosperità culturale, di arricchimento umano, d’istruzione, di legame autentico con i propri spazi e di confessione emotiva ri-creando il Centro d’Arte e Poesia al quale, data la sua fondazione, ha fatto seguire il suo nome.

Pur essendo questa Associazione molto attiva in particolare nel Catanese, essa ha sede nel comune di Carlentini, in provincia di Siracusa, ma vale la pena sottolineare che, per dimensioni e struttura, è un’associazione a livello nazionale, potendo contare soci di varie parti d’Italia e un vasto numero di iscritti ai vari concorsi letterari che, nel corso dell’anno, indice. Tutti questi concorsi che il Centro d’Arte e Poesia organizza e segue nelle varie fasi hanno la caratteristica – non di trascurabile conto – di essere intitolati e dedicati a personaggi importanti della Sicilia, intellettuali e menti illuminate che, tramite tali iniziative annuali, vengono riletti e riproposti ai tanti, tra chi già li conosce e chi, invece, ne scopre per la prima volta la biografia e le opere prodotte. Si tratta di un elemento che consente di evidenziare, sin da subito, il profondo e radicato amore di Luigi Bulla per la propria terra di appartenenza e l’inestricabile legame con il contesto ambientale: dai paesaggi alle ricchezze architettoniche, finanche questi personaggi che hanno regalato pagine memorabili di storia, letteratura, dialetto, sapere popolare e tanto altro ancora. Beni culturali, appunto, che potremmo richiamare come “immateriali”, di fruibilità collettiva, di dominio comune, di un arricchimento condiviso, capaci di trasmettere, con le loro opere, quella veracità innata, quel senso di radicamento e di orgoglio che sono propri, tanto dell’animo siculo, quanto del mondo popolare tutto, così ricco di formule, linguaggi e di novelle.

Il Centro d’Arte e Poesia “Luigi Bulla” ha dedicato i suoi concorsi a queste figure che mi piace poter rammentare: lo scultore e architetto prof. Antonio De Francesco (1875-1963)[2], Francesca Spampinato (1909-1983), il drammaturgo Antonino Russo Giusti (1876-1956) di Belpasso (Catania) celebre per l’opera L’eredità dello zio canonico e Domenico Tempio (1750-1821) noto come “Miciu Tempiu”, poeta libertino in cui realismo e la cui denuncia sociale nel suo tempo fecero sì che venne bollato come spregiudicato e immorale (e poi, anche a motivo di questo, nel tempo per lo più dimenticato), oltre, ovviamente, ad Antonino Bulla. Alcuni di questi grandi siciliani ritornano anche nella poesia “Lu me paisi” dove, appunto, si legge: “Terra di genti ‘mpurtanti,/ Martogliu, Russu Giusti, Sava e Condorelli”. Tra questi personaggi di alto calibro, non solo per la loro prolifica e valida produzione nei relativi campi, ma per la loro umanità, merita senz’altro un posto privilegiato la poetessa messinese Maria Costa (1926-2016), voce indiscussa dello Stretto, da Bulla meglio conosciuta – non in persona, ma oramai nel suo ricordo – nel corso di un evento a lei dedicato a Gesso (Messina) qualche anno fa. Di lei, nella lirica dal titolo “Figlia del mare” l’autore ha costruito con precisione e nettezza visiva il quadro biografico della minuta donna di Case Basse di Messina: “si nutriva con i pesci che venivano in riva/ nel mare con le bombe buttate in acqua/ dai Tedeschi senza pietà/ […]/ Tra farfalle serali, prove dell’uovo e cavalli di coppe,/ ti sei distinta tra i migliori poeti,/ lasciando una testimonianza forte/ che con la tua umiltà e semplicità di donna,/ poetessa e figlia del mare,/ ti sei guadagnata una grande fama/ anche dopo la tua terrena morte”.

Ritorniamo, ora, al libro in oggetto che si sarebbe dovuto presentare nelle scorse settimane presso la Libreria Mondadori a Catania, con la presenza delle poetesse Grazia Dottore (una delle prefatrici), Angela Bono, Daniela Evoli assieme ad Alessandro Giovanni Bulla, Vice-Presidente del Centro d’Arte e Poesia “Luigi Bulla”, se l’emergenza dettata dal Corona Virus, con la quale conviviamo da mesi, non avesse imposto un blocco generalizzato e l’impossibilità di incontri in luoghi chiusi.

Il volume, del quale va accennata l’eleganza della versione editoriale, si apre con un ricco apparato critico con i contributi di Emilio De Roma, Grazia Dottore e Maria Giovanna Bonaiuti che, ciascuno secondo le proprie personali intenzioni, rimarcano con profonda padronanza del linguaggio, alcune delle peculiarità delle poesie che seguono le pagine che il lettore si appresta a leggere.

Le poesie di Bulla si fondano su una disamina attenta delle varie sfaccettature dell’animo umano, indagando sentimenti diversi, talvolta anche contrastanti, che spaziano da valori saldi come l’amicizia e l’amore, finanche alla denuncia di mal-comportamenti, ipocrisie, fenomeni di marginalizzazione diffusi e tanto altro ancora.

Analista attento delle variegate forme comportamentali dell’uomo, tanto come individuo quanto in rapporto al gruppo nel quale è collocato, Bulla nelle sue poesie affronta tematiche che potrebbero sembrare ostiche o poco poetiche e che, invece, dimostrano la sua ferma e completa collocazione nella dimensione contemporanea, dove scissioni, insicurezze e interrogativi pesanti rimangono all’ordine del giorno. Ecco così che compaiono egoismo, cattiveria, ipocrisia della gente e, in altri contesti, le forme bieche della violenza, figlia di arroganza e spregiudicatezza. Ci sono, senza miopie di sorta che sarebbero sin troppo facile adoperare, accenni a quel mondo ombroso e infamante della malavita, di universi retti dalla collusione, della mafia e delle sue infiltrazioni. Non mancano neppure versi che parlano di tristezza e di cocente delusione (non solo amorosa), per giungere a tematiche dal piglio civile quali la marginalizzazione, l’indifferenza verso i vulnerabili, la xenofobia, la precarietà, la povertà, indecorose forme di bullismo (com’è il caso di violenza nei confronti di un ragazzino audioleso che il poeta ci presenta nella poesia “Tutto il rumore del mondo”), sfruttamento e violenza di genere (ben trattato nella poesia dal titolo “’Dda fimmina putissi essiri nostra matri” ovvero “Quella donna potrebbe essere nostra madre”). Bulla parla degli invisibili (poveri, abbandonati, sofferenti, emigrati) ma anche degli accidiosi, degli invidiosi, dei maligni, invisi, spergiuri, spregiudicati, di coloro che prestano la loro voce per impegni diversi dal comune sentire; chi usa parole per apparire diverso da come effettivamente è; ci sono anche i malati, coloro che soffrono dolori, vivono nell’incertezza di un domani, si vedono il corpo cambiare e non si riconoscono allo specchio. Malattie che, inesorabili, avanzano privando intere famiglie della presenza e dell’affetto di madri, mogli, sorelle (poesie “Melinda” e “Una brutta bestia”).

Come ben evidenziato nelle pagine d’apertura, la famiglia rappresenta per Bulla il motivo e contesto primario dove nascono, s’irrobustiscono e prendono vita numerosi suoi versi. Non sono rare le poesie che ricordano familiari che non ci sono più, ora riecheggiati con piacere e nostalgia, nei momenti passati condivisi con loro. Vi sono anche poesie dedicate alla madre dove si evince questo legame atavico, pregno di passione e di gratitudine.

Vari componimenti – e sono tra quelli che maggiormente ho apprezzato – vengono proposti nel dialetto (o lingua, qui la diatriba sarebbe infinita!) siciliano, nella variante catanese della quale Bulla è originario. Cito, ad esempio, “I cosi ienu accussì” e il bel canto d’amore per la Trinacria contenuto in “Povira terra mia” dove la Sicilia, pur ricchezza indiscussa di ambienti e architetture, viene descritta ammorbata di quel male che, nell’interiorità, la offende e la deturpa, in quel conflitto intestino di lotta per l’onore, fronteggiato con difficoltà dalla catena umana di innocenti che, tra gli strali di una giustizia perforata, cercano di condurre in tranquillità la propria parca esistenza. Il messaggio di Bulla – così permeato da amore e da una sorgiva speranza che va sostenuta – non può che essere positivo: “Sicilia susiti ‘cchiù forti di prima” (ovvero “Sicilia rialzati più forte di prima”). C’è l’omaggio di un io poetico estatico dinanzi a tanta bellezza, a una delle gemme più fulgenti dell’arcipelago delle Eolie, “Lipari macari ‘ndò ‘mmennu ti fai ricordari” (tradotto: “Lipari anche in inverno ti fai ricordare”).

Uno fra i numerosi tratti distintivi della silloge è la massiccia presenza di elementi, forme verbali, condizioni e ambiti nei quali il poeta descrive o si mostra spettatore di un cambiamento: metamorfosi che si realizzano in maniera fisiologica dettate dall’imperituro avanzare del tempo, ma anche cambi di maschera, finzioni, messe in scene, atteggiamenti architettati ad uso e consumo, parvenze, situazioni della vita che, in stato di necessità o altre volte inconsapevolmente, ci impongono lenti e filtri diversi. È il gioco del palcoscenico che Pirandello descrisse magnificamente con le sue opere teatrali, raccolte in Maschere nude, alle quali, pur indirettamente il corregionale Bulla rimanda. Il concetto di identità ne risulta scisso e deformato al punto tale da rendersi difficoltosa, se non impossibile, una determinazione unica, stabile, costante, in qualche modo definitiva del concetto di individualità dell’essere. Bulla parla del mondo a lui contemporaneo sondando nel magma silenzioso – eppure così cocente – di un sistema comunicativo spesso refrattario ai buoni sentimenti, in una agorà spersonalizzata e connivente, in sordina, abile nel fomentare rancori e distanze tra i simili. Come da controcanto, però, ci sono i buoni sentimenti gelosamente custoditi, le mani amiche incrociate lungo la propria esistenza, i progetti che originano successo, ancor più piacevole perché tale nella condivisione. Su tutto questo poggia una base d’interiorità che vive nella riflessione e nel conforto, ma anche nell’autolettura e nella confessione con Dio. Il sentimento religioso è forte – non solo nelle liriche che più propriamente rimandano alla Chiesa intesa non come classe, ma come insegnamento caritatevole – anche nei versi in cui parla del debole e del diverso. È sempre possibile riconoscere la santità nelle piccole cose, la modestia è una virtù e l’amore è tale e la sua forza è incondizionata, solo quando è uno scambio mutevole e sincero. Ci sono, infine, i ricordi di festa condivisi nel calore della famiglia, soprattutto il Natale, ma anche la ricorrenza dei Defunti, momenti trascorsi in sana convivialità e mutuo affetto, tra le pareti di casa, vero baluardo di certezze, che ora il poeta rincorre, nella memoria, quali ricordi più cari, significativi, pregni di luce, per poter andare avanti quando il presente – come spesso accade – sembra poco sereno.

Lorenzo Spurio

 

[1] Per un approfondimento consiglio la lettura del saggio “Segantino, poeta e conoscitore di arti divinatorie: cenni biografici su Antonino Bulla” scritto da Antonino Magrì pubblicato, per gentile concessione di Luigi Bulla in qualità di Presidente dell’Associazione Culturale Centro d’Arte e Poesia “Luigi Bulla”, nel volume collettaneo AA.VV., Sicilia. Viaggio in versi. Antologia dei reading poetici organizzati dall’Ass. Euterpe in Sicilia (2013-2018), a cura di Lorenzo Spurio, Associazione Culturale Euterpe, Jesi, 2019, pp. 147-152.

[2] Un’approfondita nota biografica sul prof. De Francesco, curata dall’omonimo nipote, è stata pubblicata il 18 aprile 2020 sul sito ufficiale delle Edizioni Letterarie Il Tricheco: https://edizioniletterarieiltricheco.com/2020/04/18/a-giorni-il-nuovo-bando-del-iv-premio-di-letteratura-vita-via-est-dedicato-alla-memoria-del-prof-antonio-de-francesco/ 

 

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Approfondimento critico di Vittorio Sartarelli su “La lingua Koinè – Appunti di scrittura e parlata siciliana” di Nino Barone

A continuazione, per volontà dell’autore, si riporta l’intervento critico di Vittorio Sartarelli esposto durante la presentazione del libro “La lingua Koine’” di Nino Barone organizzata dal Coordinamento responsabile del settore culturale dell’Associazione di Lettere, Arti e Sport JO’ con il Patrocinio del Comune di Buseto Palizzolo che si è tenuta presso l’Aula Magna della Biblioteca Comunale.

 

Buona Sera, mi chiamo Vittorio Sartarelli, sono uno scrittore trapanese e ho il gradito compito di presentare questa ultima fatica letteraria dell’amico Nino Barone: “La Lingua di KOINE’” Appunti di scrittura e parlata siciliana – in effetti si tratta di un Saggio Linguistico.

Intanto spieghiamo cosa vuol dire KOINE’ che ai più sembrerà quanto meno misterioso, in effetti si tratta di un aggettivo della lingua greca che tradotto vuol dire: “comune”. Quindi la Lingua comune, cioè la lingua di tutti ma anche di ciascuno appartenente alla stessa regione, ma chi sono le persone deputate a scegliere ed utilizzare al meglio la lingua, proprio i poeti, gli scrittori e gli attori, del teatro e del cinema. Non è la prima volta che mi accingo a parlare e scrivere di questo brillante e talentuoso poeta trapanese, apprezzato e ben noto autore di liriche in dialetto siciliano. Conosciamo da tempo Barone che consideriamo come esponente di spicco della nostra tradizione letteraria popolare; tempo fa ho recensito una sua pubblicazione dal titolo: “Petri senza tempu” e questa opera con la sua recensione verrà pubblicata in una Antologia dei poeti siciliani che uscirà a breve, curata dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi che si è interessata del nostro poeta per le sue qualità liriche e capacità espressive artistiche.

La lingua di KOINE'.jpgStasera però non parleremo di poesia, in quanto quest’ultima pubblicazione non è un’opera lirica bensì un’opera di studio e di ricerca sulla lingua siciliana attraverso le sue viscere, la sua morfosintassi, le sue espressioni tipiche. Ampie, infatti, sono le riflessioni dell’autore sull’oralità della nostra lingua, nonché sull’ortografia e il parlato del quale scrive: “è inconfutabilmente, la sua vera ricchezza, quella che abbiamo appreso in modo naturale dai nostri genitori che sono stati i primi ad insegnarci a parlare.”

La lingua è lo strumento di comunicazione che rende possibile la reciproca comprensione tra i membri di una stessa comunità. È quindi un’Istituzione sociale che suppone da una parte l’attività del parlante che traduce in simboli fonici il concetto che vuole esprimere e dall’altra l’attività di chi ascolta che dalla percezione acustica ricrea il concetto trasmesso. Accingendoci a recensire questo interessante e quasi esaustivo saggio di Nino Barone sulla lingua siciliana, anzitutto siamo rimasti sorpresi, positivamente dalla quantità, qualità e puntualità della ricerca che questo autore, un eccellente poeta, dimostra di avere eseguito uno studio accurato e quasi completo sulla lingua siciliana. E questo non lo affermiamo solo noi perché è chiaramente espresso anche nella dotta e precisa prefazione al volume firmata dall’emerito professore Federico Guastella.

La lingua di un popolo è anche la storia di quel popolo. E la storia ricca e varia del popolo siciliano non poteva far altro che produrre un lessico altrettanto ricco e vario. La base lessicale del Siciliano è, molto probabilmente, derivata dal latino, tuttavia, in effetti, nel lessico della lingua siciliana è possibile trovare eredità o retaggi del greco, dell’arabo, del normanno, del catalano, del francese, dello spagnolo e, andando molto indietro nel tempo, del sanscrito, come ha ampiamente dimostrato l’eminente glottologo siciliano Enrico Caltagirone nel suo volume “Origine e lingua dei Siculi” Queste eredità rappresentano le impronte della storia dell’Isola, fatta da invasioni, dominazioni e guerre, nonché da innumerevoli contatti con le genti indo-europee e mediterranee in genere. Questi eventi, millenari, hanno determinato in quello che era l’idioma originario dei Siculi, una serie innumerevole e continua di contaminazioni, intrusioni e commistioni che tuttora, anche se in misura ridotta, continuano, con la lingua ufficiale Italiana e con termini stranieri, di uso comune che finiscono con l’essere assimilati dalla lingua nella quale penetrano, rimanendovi. E allora, ecco il greco-siculo, il latino siculo- l’arabo-siculo, il franco –siculo, l’ispano-siculo, l’italo-siculo. Ma, sostanzialmente, sempre una lingua, una sola: il Siciliano.

Il siciliano che, dopo il disfacimento del Latino, divenne la prima lingua letteraria italiana (Dante, nel De Vulgari Eloquentia: “tutto ciò che gli italiani poeticamente compongono si chiama siciliano”; e il Devoto: “la Sicilia a partire dal XII secolo, nel periodo delle due grandi monarchie, la normanna e la sveva, ha elaborato la prima lingua letteraria italiana”).

Studiando e facendo ricerche su una lingua non si può dimenticare che bisogna distinguere la lingua parlata da quella scritta che sono foneticamente e sintatticamente diverse e questo concetto appare come assolutamente precipuo nella lingua siciliana, infatti, nelle diverse zone della Sicilia o, addirittura, nella stessa provincia anche a distanza di pochi chilometri, certi termini e certe parole sono diverse nella loro espressione, parlata e scritta.

La parola, infatti, ha un suo compito preciso, è parte di questa verità del linguaggio che nulla concede ad uno sperimentalismo inconcludente di alcuni pseudo poeti di oggi. La lingua di KOINE’ di Barone è un’autentica provocazione, il poeta, dunque diventa quasi un glottologo perché vorrebbe che si realizzasse un nuovo codice linguistico ufficiale, costituito da un corpus di regole grammaticali, morfologiche, sintattiche, ortografiche e fonologiche che trasformasse il vernacolo in lingua letteraria, cioè la lingua comune, pan siciliana, con cui scrivono i poeti che vogliono esprimersi in lingua siciliana.

E questo intento Barone lo ha quasi del tutto raggiunto grazie appunto ai suoi studi e alla sua ricerca sulla lingua, infatti, le sue poesie non sono una espressione tipica del vernacolo trapanese, come potrebbe essere una poesia di un poeta catanese o messinese, interprete ciascuno del proprio idioma locale, ma una espressione in lingua siciliana.

In definitiva, questa ricerca e questi studi sulla lingua siciliana che il poeta Nino Barone ha voluto fare non si può giustificare con una volontà di volere strafare e ben figurare nell’agone poetico e culturale, insomma non lo si può considerare una sorta di esibizionismo culturale, bensì è un amore per la sua terra e le sue tradizioni; il suo talento lirico è ormai noto ed affermato ormai da tempo. Barone per completare le sue conoscenze linguistiche pure essendo un rappresentante affermato della poesia in vernacolo siciliano, ha voluto dimostrare il suo talento lirico e artistico pubblicando anche un libro di sonetti in lingua italiana: “Amor ti tocco” anche questo da me recensito, con il quale ha riscosso un ampio e meritato successo.

Egli ha dimostrato che la classe, la cultura e l’arte, non sono acqua ma espressione di sentimenti elevati, colmati da esperienze di vita vissuta nella comprensione dei valori umani e civili di una persona che ha messo in opera il suo dono naturale di poeta con una sobria capacità artistica e culturale.

Grazie dell’attenzione e una buona serata a tutti!

VITTORIO SARTARELLI

 

L’autore del testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

 

 

“Boati dal profondo” di Pasqualino Cinnirella, recensione di Lorenzo Spurio

8972e-boati-dal-profondo.pngIl poeta Pasqualino Cinnirella di Caltagirone (Catania) con all’attivo le pubblicazioni poetiche “Pieghe d’animo 1963-1977” (1978), “Fuochi sull’aia 1978-1985” (1987) e “Meditazione” (2001) è recentemente uscito con una nuova opera poetica, “Boati dal profondo”, per i tipi di The Writer Edizioni. Le liriche, tutte dotate in calce del riferimento preciso alla data della loro stesura, sono inframmezzate da commenti critici di diversa lunghezza di eminenti critici e studiosi di letteratura, tra i quali Nazario Pardini, Pasquale Balestriere e Maria Grazia Ferraris (solo per citarne alcuni), che si dedicano ad approfondire alcuni aspetti dell’arte poetica del Nostro. 

Le tematiche profonde che legano le varie liriche qui contenute sono il ricordo (di quando, affranto dalla noia e rabdomante nel campo del padre, “[s’] insaccav[a] di sole alto”,13), l’amore, la comunione con l’ambiente campestre, il sacrificio del lavoro, le figure dei cari (soprattutto quella del padre, vero e proprio maestro di vita difatti scrive in “Passaggi” che lui “impartiva alla mia coscienza, intatta allora,/ il suo modo giusto di vivere da uomo”, 23) finanche le tematiche di carattere etico-civile ad abbracciare, in un ideale girotondo di pace, le esistenze derelitte di chi, vicino o all’altro capo del pianeta, “vive[…] piegato al grigio degli eventi” (17).

La recensione integrale è stata pubblicata il 12/02/2019 sulla testata “Radio Doppio Zero” ed è disponibile cliccando qui. 

Recensione di “Cetti Curfino” di Massimo Maugeri a cura di Gabriella Maggio

Recensione di Gabriella Maggio

Andrea Coriano, protagonista del romanzo, è un trentenne giornalista free-lance che stenta ad  affermarsi perché ancora non ha trovato la storia da raccontare. Intanto vivacchia in casa della zia Miriam che l’ha amorevolmente accolto sin dalla nascita, assumendo il ruolo della  madre morta di parto. La  sua vita  scorre  monotona, scandita dalle modalità di gestione della casa amorevolmente imposte dalla zia, che, sebbene accettate, lo avviliscono, finché non s’imbatte nella storia a lungo cercata, quella di Cetti Curfino, rea confessa di un grave delitto, adesso in carcere.

La storia ha avuto  una immediata eco mediatica, ma poi è stata dimenticata. Andrea decide di incontrare la donna in carcere, di parlare con lei per portare alla luce quello che ancora non è stato rivelato, l’elemento di mistero, l’enigma  che si nasconde dietro al crimine.

download.jpgDal primo incontro Andrea resta affascinato non soltanto dalla bellezza sfolgorante della quarantenne, ma dall’incanto ferale che emana. Cetti potrebbe essere una donna fatale, ma le manca la consapevole perversione del ruolo, perché, al contrario, lei cerca di sminuire e occultare la sua bellezza, di cui conosce il pericolo. Ha fatto esperienza  di quanto sia difficile mantenersi salda su onesti  principi. Cetti, facciamo le cose regolari, Cetti, che chi non le  fa poi la piglia in quel posto, le diceva sempre il marito prima che morisse. Ma non è facile per Andrea portare avanti il progetto del libro anche se condiviso da Cetti, perché La donna è il negro del mondo….è la schiava degli schiavi dice J. Lennon in Woman is the Nigger of the world, canzone  citata nell’esergo del libro e  indicata dall’autore come colonna sonora del romanzo.

La narrazione scorre fluida lungo i trentasette capitoli che alternano la  lingua italiana di Andrea e zia Miriam e altri personaggi al dialetto siciliano, che aspira a un’italianizzazione precaria e scorretta, usato da Cetti nel  suo inconsapevole percorso di autoanalisi nelle lettere scritte al  commissario Ramotta per racconta tutta la sua storia. Cetti si fa scudo delle sue esperienze per migliorarsi, per uscire  al più presto dal carcere, attuando una condotta irreprensibile, per imparare ad esprimersi correttamente con la speranza di riabbracciare il figlio e costruirsi una vita migliore. In questa sua scelta è autentica e determinata.

La storia di Cetti, che come s’intuisce da un solo indizio è ambientata a Catania, viene contestualizzata in temi di forte attualità, quali la condizione femminile, la situazione carceraria, la difficoltà dei giovani a trovare una condizione economica adeguata, la delinquenza, il lavoro in nero. La lotta della donna per trovare uno spazio vitale in una società maschilista appare ancora lontana dal successo, ma è guardata con interesse dallo scrittore che con chiarezza esprime il suo sostegno.

La storia di Cetti  ha già attratto Maugeri che l’ha raccontata in “Ratpus”, pubblicato nella raccolta Viaggio all’alba del millennio edita da Perdisa; ma la ripresa in forma di romanzo matura quando il regista Manuel Giliberti traspone il testo in un monologo interpretato da Carmelinda Gentile. Si può cogliere un una linea di continuità del romanzo Cetti Curfino con la precedente prova narrativa di Maugeri Trinacria Park, edita da e/o nel 2013 nella tema siciliano, lì affrontato in maniera esplicita dal punto di vista dell’immobilismo dell’isola: E vui, biddizza mia, durmiti ancora, canzone siciliana che fa da colonna sonora alla narrazione; mentre in Cetti Curfino la Sicilia appare in maniera più sfumata, non soltanto per la focalizzazione su un  personaggio, ma per una volontà di dare alla storia un significato più ampio in cui ogni lettore può riconoscersi.

GABRIELLA MAGGIO

 

L’autrice della recensione acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

Alla Chiesa Monumentale di S. Nicolò L’arena (Catania) sabato 23 giugno il reading dai profumi di zagara

La Chiesa Monumentale di S. Nicolò l’Arena (CATANIA) invasa dai profumi di zagara

L’iniziativa, condotta dall’Ass. Euterpe sarà sabto 23 giugno

 

L’Associazione Culturale Euterpe di Jesi (AN), presieduta dal poeta e critico letterario Lorenzo Spurio, propone per sabato 23 giugno nel pomeriggio un incontro poetico dal titolo “Parole tra i profumi di zagare”. L’Associazione Euterpe, che vanta di un considerevole numero di associati tra poeti siculi, da anni promuove un reading poetici in una città siciliana; in passato si sono tenuti a Palermo in sedi istituzionali quali la Real Fonderia Oretea e Villa Niscemi.

Il reading poetico si terrà presso la Chiesa Monumentale di San Nicolò L’arena sabato 23 giugno 2018 a partire dalle ore 17:30. Durante l’incontro, al quale parteciperanno una serie di poeti della zona e non, si terrà anche un intervento critico del poeta e saggista prof. Domenico Pisana, noto intellettuale e Presidente del Caffè Letterario “S. Quasimodo” di Modica (RG).

L’evento culturale è patrocinato dalla Regione Siciliana e dal Comune di Catania ed è reso possibile grazie alla collaborazione di alcune realtà culturali con l’Associazione Euterpe: l’Associazione Siciliana Arte e Scienza (ASAS) di Messina, presieduta dalla pittrice Flavia Vizzari, l’Associazione Culturale Caffè Convivio (CaLeCo) di Catagirone (CT), presieduta dalla poetessa Giusi Contrafatto, il Centro Studi “Maria Costa” di Messina, presieduto dal sig. Pippo Crea, la Libreria Spazio Cultura di Palermo, il Caffè Letterario “S. Quasimodo”di Modica (RG), la rivista culturale “Lu Papanzicu” di Ravanusa (AG), il Salotto Culturale H2 Donna di Gioiosa Marea (ME), presieduto da Giuliana Scaffidi, i blog letterari e culturali di Luigi Pio Carmina ed Emanuele Marcuccio.

Durante l’evento sarà inoltre presente l’artista performativo palermitano Toni Zanca (in arte “Acnaz”) con una realizzazione “a presa rapida”. L’arista si dedica a opere murales dove esprime l’arte concettuale non trascurando la bellezza e l’aspetto estetico. Nel 2017 a Roma ha partecipato al “Gau 2017” e a Centocelle è presente la realizzazione in urban art di una delle campane di raccolta vetro. Numerose le sue performance artistiche e applicazioni.

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Notevole sia nei numeri che per caratura la presenza dei poeti che interverranno per dar lettura alle proprie opere. Prenderanno parte (qui indicati in ordine alfabetico): Anastasi Giuseppe, Angeletti Elvio, Baglieri Giusi, Barcellona Giuseppe, Bongiorno Claudio, Bono Angela, Campi Luca, Carmina Luigi Pio, Chiarello Maria Salvatrice, Cinnirella Pasqualino, Cipresso Clemente, Contrafatto Giusi, De Marco Angelo, Di Giorgio Gianni, Di Mauro Giovanni, Di Salvatore Rosa Maria, Evoli Daniela Angela, Gemito Francesco, Greco Salvatore, Innocenzi Francesca, Interlandi Gaetano, Iudici Noemy, Lo Monaco Emanuele, Luzzio Francesca, Marcuccio Emanuele, Marzo Rosaria, Minnella Orazio, Moreal Liliana, Nicolosi Ada, Panebianco Alessandra, Rizza Giovanni, Rizzo Mario, Schiera Antonino, Sciuto Cinzia, Spurio Lorenzo, Vaira Marco, Valenti Agata Anna, Vinci Sciabò Melania.

 

L’evento è liberamente aperto al pubblico.

 

Info:

www.associazioneeuterpe.com

ass.culturale.euterpe@gmail.com

Tel. 327 5914963

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’eroe islandese Ingólf Arnarson a Catania: il 23 giugno la presentazione dell’omonimo dramma epico di Marcuccio

«[Q]uesto ho voluto fare scrivendo il dramma: sognare e perdermi nella meraviglia di una storia d’amore e morte, di guerra e di pace, di luce e di tenebre, di sogno e di libertà. Una terra, in una dimensione parallela e contemporanea al periodo storico, assolutamente verosimili.»

Emanuele Marcuccio, dalla nota di Introduzione, p. 23.

 

Si presenta a Catania alle 11:30 sabato 23 giugno 2018 presso Mondadori Bookstore di Piazza Roma 18 «Ingólf Arnarson – Dramma epico in versi liberi. Un Prologo e cinque atti», opera poetica e teatrale di ambientazione islandese di Emanuele Marcuccio, edita per i tipi della marchigiana Le Mezzelane Casa Editrice. Il libro raccoglie un lavoro iniziato fin dal maggio 1990 e terminato nell’aprile 2016 con un totale di 2380 versi per un lavoro di diciannove anni escludendo i sette complessivi di interruzione.

Relazionerà il critico letterario, poeta e scrittore Lorenzo Spurio, Presidente dell’Associazione Culturale Euterpe di Jesi, nonché prefatore del libro. La presentazione si inserisce nel corso di una due giorni di Poesia tra Messina e Catania, organizzata dalla stessa associazione.

Scrive Spurio nella Prefazione: «Il dramma di Marcuccio tratta con originalità e chiarezza di linguaggio molti topos dell’epica germanica: i riferimenti ai combattimenti, al cozzar di spade, all’importanza della fama e della gloria; l’impiego di prove per testare la valorosità dell’eroe; la credenza e l’invocazione del fato, spesso personificato, il tema del tesoro e il motivo del viaggio in terra straniera. Essendomi occupato di fatalismo germanico, devo riconoscere che nell’opera di Marcuccio il destino non è un semplice concetto, un’idea, ma viene caricato di un significato proprio facendo di esso quasi un personaggio. Fato, destino, sorte, fortuna sono concetti che derivano dall’antico inglese wyrd, spesso personificato dalle Norne, che si riferisce a una cultura precristiana, pagana. A tutto ciò Marcuccio aggiunge elementi che rimandano alla conversione dell’Islanda al cristianesimo: la presenza di un monastero e di monaci, l’influenza celtica, la presenza di croci che viene, quindi, a rappresentare una fase successiva di sviluppo politico-sociale-economico della vita dell’Islanda di epoca norrena.

Tuttavia ciò che Marcuccio narra non è solo un racconto epico, è molto di più. È evidente, infatti, la potenza del lirismo, soprattutto in alcuni momenti, come nella scena d’amore tra Sigurdh e Halldóra e, allo stesso tempo, di una certa vicinanza alla cultura popolare con riscontrabili cadenze e dialettismi che rendono particolarmente significativo e vivo il testo, sottolineando quanto sia importante la componente orale nella trasmissione della cultura.» (pp. 30-31)

 

Interverranno come correlatori:

Francesca Luzzio, poetessa e critico letterario, autrice della Quarta di copertina

Giusi Contrafatto, poetessa e Presidente dell’Ass. Culturale Caffè Letterario “Convivio” di Caltagirone (CT)

Luigi Pio Carmina, poeta e scrittore, curatore del blog culturale “Cultura Comunità Conoscenza Curiosità”

Sarà presente l’autore.

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L’autore

Emanuele Marcuccio (Palermo, 1974) è autore di quattro sillogi: tre di poesia – Per una strada (2009) Anima di Poesia (2014); Visione (2016) – e una di aforismi Pensieri Minimi e Massime (2012). È redattore delle rubriche di Poesia “Il respiro della parola” e di Aforismi “La parola essenziale” della rivista di letteratura Euterpe. Ha curato prefazioni a sillogi poetiche e varie interviste ad autori esordienti ed emergenti. È stato ed è membro di giuria in concorsi letterari nazionali e internazionali. È presente in L’evoluzione delle forme poetiche. La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio (1990-2012) (2013). È ideatore e curatore del progetto poetico “Dipthycha” di dittici “a due voci”, del quale sono editi tre volumi antologici (2013; 2015; 2016) a scopo benefico. Nel 2016 completa un dramma epico in versi liberi pubblicato nel 2017 per i tipi della marchigiana Le Mezzelane, di argomento storico-fantastico, ambientato in Islanda (IX sec. d.C.). Cura il blog “Pro Letteratura e Cultura”. Di prossima pubblicazione un quarto volume del progetto “Dipthycha”.

 

 

SCHEDA DEL LIBRO

TITOLO: Ingólf Arnarson – Dramma epico in versi liberi

SOTTOTITOLO: Un Prologo e cinque atti

AUTORE: Emanuele Marcuccio

PREFAZIONE: Lorenzo Spurio

POSTFAZIONE: Lucia Bonanni

NOTA STORICA: Marcello Meli

NOTA DI QUARTA: Francesca Luzzio

OPERA IN COPERTINA: Alberta Marchi

EDITORE: Le Mezzelane

GENERE: Poesia/Teatro

PAGINE: 188

ISBN: 9788899964634

COSTO: € 10,90

 

 

Info:

Evento FB della presentazione

Short-link vendita: https://goo.gl/vr5kwB

informazioni@lemezzelane.eu – www.lemezzelane.eu

marcuccioemanuele90@gmail.com – www.emanuele-marcuccio.com

Due reading poetici nella Sicilia Orientale a Giugno. Le iniziative promosse dalla Ass. Culturale Euterpe di Jesi

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A Palazzo dei Leoni (Messina) e alla Chiesa di S. Nicolò l’Arena (Catania) i due appuntamenti

L’Associazione Culturale Euterpe di Jesi (AN), presieduta dal poeta e critico letterario jesino Lorenzo Spurio, già presente sul territorio siciliano negli anni precedenti per eventi poetici organizzati a Palermo, Bagheria e Caltanissetta, quest’anno organizzerà due reading poetici nella Sicilia Orientale (Messina e Catania) in collaborazione con alcune associazioni locali: l’Associazione Siciliana Arte e Scienza (ASAS) di Messina, presieduta dalla pittrice Flavia Vizzari e l’Associazione Caffè Letterario “Convivio” (CALeCO) di Caltagirone (CT), presieduta dalla poetessa Giusi Contrafatto.

Gli eventi, che si terranno con il Patrocinio Morale della Regione Siciliana, del Comune di Messina, della Città Metropolitana di Messina e del Comune di Catania, vedono quali media-partner: la Libreria Spazio Cultura di Palermo, il Caffè Letterario “S. Quasimodo” di Modica (RG), la rivista “Lu Papanzicu” di Ravanusa (AG), il Salotto Culturale H2 Donna di Gioiosa Marea (ME), i blog “Pro Letteratura e Cultura” di Emanuele Marcuccio e “Cultura, comunità, conoscenza Curiosità” di Luigi Pio Carmina.

A entrambi gli incontri saranno presenti i poeti Lorenzo Spurio (Jesi – Ancona), Elvio Angeletti (Senigallia – Ancona), Annalena Cimino (Capri – Napoli), Marco Vaira (Brescia), Cristina Lania (Messina), Flavia Vizzari (Messina), Salvatore Greco (Biancavilla – Catania), Emanuele Marcuccio (Palermo), Luigi Pio Carmina (Palermo), Giusi Contrafatto (Caltagirone – Catania) e il critico letterario ed editore Michele Miano (Milano).

Il primo reading, “Un mare di versi”, si terrà a Messina venerdì 22 giugno a partire dalle 16:45 presso il Salone degli Specchi di Palazzo dei Leoni (Sede della ex-Provincia, oggi Città Metropolitana) sito in Corso Cavour n°87. Saranno particolarmente graditi testi che abbiano relazione al mare, alle onde, marine e scenari o situazioni che richiamino l’ambiente costiero, insulare e balneare. Il tema resta, però, sempre libero. Per prendere visione del bando di partecipazione e la scheda si consiglia di cliccare qui.

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Il secondo reading, “Parole tra i profumi di zagare”, si terrà a Catania sabato 23 giugno a partire dalle 17:00 presso la Chiesa Monumentale di San Nicolò L’Arena (ingresso in Piazza Dante). Durante l’evento interverrà il poeta, critico letterario e saggista modicano prof. Domenico Pisana su “La poesia contemporanea tra metafisica, etica ed estetica”.  Il tema del reading è libero, per prendere visione al bando e scaricare la scheda dati si consiglia di cliccare qui.

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Per partecipare ai reading, liberamente aperti al pubblico, è necessario prendere visione dei relativi bandi di partecipazione dove sono contenute le specifiche e la scheda di partecipazione che andrà compilata e fatta riavere assieme ai propri testi entro la data indicata. Per motivi strettamente logistici non saranno prese in considerazione domande di partecipazione oltre le scadenze indicate; si prega pertanto, laddove ci si consideri realmente motivati a intervenire, di non attendere gli ultimi giorni. Si chiede altresì di informare (mediante mail o telefono) qualora, pur avendo regolarmente inviato la propria domanda e ricevuto riscontro, non si possa, per propri motivi intervenire durante l’evento.

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Info:

www.associazioneeuterpe.com

ass.culturale.euterpe@gmail.com

Tel. 327-5914963

 

Reading poetico Messina, 22-06-2018

Bando e scheda di partecipazione

Locandina dell’evento

Evento FB

 

Reading poetico Catania, 23-06-2018

Bando e scheda di partecipazione

Locandina dell’evento

Evento FB

 

“Per diventare la donna che sono” di Pinella Gambino, recensione di Lorenzo Spurio

Pinella Gambino, Per diventare la donna che sono, Prefazione di Michele Miano, Foto di Miranda Gibilisco, Publish.it, 2015.

Recensione di Lorenzo Spurio

La prima particolarità del libro di poesie di Pinella Gambino è che i versi si aprono sulla carta già dalla copertina del libro dove, appunto, campeggiano frammenti di poesie scritte a mano dalla Nostra lasciando, invece, in bianco la parte centrale dove comunemente ci aspetteremmo di trovare il nome dell’autore ed il titolo. Aprendo il volume capiamo ben presto la ragione di questa sceltissima impostazione grafica che fa riferimento alla necessità della donna di aprire sostanzialmente a tutti i potenziali lettori lo “scrigno” delle sue emozioni personali che nel tempo ha vergato sulla carta.

Per ogni lirica contenuta nella plaquette, splendidamente prefata dal critico Michele Miano che ne sottolinea con un lucido acume i punti di forza, la Nostra ha deciso di associare una foto di Miranda Gibilisco. Le immagini, nelle quali le poesie si inseriscono e si riflettono, sono assai importanti perché in taluni casi sembrano avere la capacità assai imprevista e gradevole, di continuare le stesse come se il verso finale delle liriche in realtà non si chiudesse con un punto definitivo e lasciasse alle foto, invece, quel potere di continuità, di proiettare immagini ed esperienze ben fuori dal tessuto grafico per renderlo maggiormente fruibile, più visivo e concreto, come una azione durativa che, in effetti, ha una sua continuità nel presente. Per tale ragioni Michele Miano parla, a ragione, di fotografia “iperrealista” a cui io mi sento di aggiungere la pronunciata plasticità delle liriche della poetessa catanese.

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Pinella Gambino, autrice del libro

Analizzando l’opera da un punto di vista prettamente tematico, andando, cioè, a rintracciare quelle che sono le fisionomie ambientali, le isotopie, le ricorrenze nelle immagini, sembra piuttosto evidente la predilezione nella Nostra nel ricorrere agli ambienti naturali nei quali non di rado l’intera lirica è completamente iscritta, così come avviene nella poesia d’apertura, “L’onda… e poi” con la quale Pinella Gambino costruisce una marina in qualche modo atipica: la finalità non è tanto quella di celebrare la grandezza del mare, di registrare lo splendore delle acque in subbuglio nella forma dell’onda, piuttosto di tendere un parallelismo giusto ed efficace con la vita dell’uomo che non è altro che un alternarsi turbolento di ascese e discese, di climax e affossamenti.

L’elemento acqua domina in maniera assai preponderante sull’intero corpus poetico e ce ne rendiamo ben conto osservando le tante foto di scorci paesaggistici di scene marine. L’immensità del mare permette alla Nostra di instaurare con esso un serrato ed intimo colloquio ed è in effetti come se la Poetessa con i suoi versi si trovasse faccia a faccia con il mare e lo stesse interpellando. Ma più che interpellarlo, la poetessa non è alla ricerca di risposte vere e proprie, di attestazioni né di prove relative allo stato dei suoi dilemmi, piuttosto il confronto con l’entità marina è un espediente di confessione, di riappacificazione con se stessa, di maggior comprensione delle vicende tanto intime che sociali. I versi si susseguono, così, in maniera tumultuosa come un’onda che scarica la sua forza sulla battigia prima di essere fagocitata da un’altra.

Tra le attese e le riflessioni della Nostra si stagliano componimenti poetici condensati il cui tono è particolarmente intimo tanto da apparire, come avviene con la lirica “Ti amerei”, nella forma di vere e proprie lettere d’amore, delle missive che attestano in maniera assai esauriente lo stato di una necessità impellente e al contempo richiamano l’altro all’accoglimento dell’invito.

Ricorrono più volte le immagini che descrivono uno stato di assenza, solitudine e di silenzio, condizioni che la Nostra non vive, però, in maniera desolante come delle punizioni inflitte, ma che è in grado di rinvigorire con la spiccata natura solare a occasioni di riflessione, approfondimento, ricerca di sé.

A completare la raccolta sono una serie di poesie che la Nostra ha espressamente dedicato a persone a lei care quali sua figlia, suo nipote e alla sua amata terra, l’infuocata Sicilia, che “come tra le spine/ di dolci fichi d’india/ sa viver di ogni dì/ croce e delizia”. Una Sicilia autentica fatta di colori forti, di immagini evocative e assai piacevoli, di presenze illuminanti e sagge (Pirandello) e di antri naturali che hanno del paradisiaco. Non una Sicilia negletta e spaccata, soggiogata alle leggi del malaffare come la dipinse Sciascia né complicata e infingarda come è per il Commissario Montalbano,  ma una terra ricca e speziata, un’isola con una identità intramontabile ed un fascino speciale da tutti invidiato.

Il lettore deve giungere all’ultima poesia del libro per comprendere a pieno il significato del titolo della silloge che, appunto, è quella del testo conclusivo, “Per diventare la donna che sono”, un testo particolareggiato molto personale con il quale Pinella Gambino è come se si specchiasse e, sulla scorta dell’immagine che vede riflessa, è portata a fare un’autoanalisi di sé stessa come donna, madre, nonna, cittadina del mondo. La poesia prende la forma di una confessione spontanea del passato della donna tra gioie e dolori, vittorie e delusioni, felicità e insoddisfazioni con la consapevolezza che “Per essere ciò che [è]” ha dovuto assistere a vicende emozionali di varia natura nelle quali ha sempre avuto la forza di fronteggiare “ricostru[endo] ponti”, facendo cioè, sempre di tutto per riparare alle situazioni di disagio, assenza e dolore per mezzo del costruire, ossia del creare nuovamente per poter edificare qualcosa di più forte.

Se la luna è stata nel suo passato una presenza tacita alla quale nascondere la verità, il mare è sempre stato il maggior confidente al quale “urlare” il proprio animo tormentato o solitario. La Poetessa rintraccia in un percorso non facile il traguardo della maturità, dell’appagata consapevolezza di donna e del senso di compiutezza che oggi fanno di lei la persona che è, aperta e solidale al mondo (a costruire ponti) e con un incanto e uno stupore che sempre l’accompagnano (“Trattengo ogni notte un sogno…/  e attendo che faccia giorno!”).

LORENZO SPURIO

Jesi, 21-01-2016

“La taverna di Alfa Ninnino” di Giovanni Sollima, recensione di Lorenzo Spurio

La taverna di Alfa Ninnino

Di Giovanni Sollima

 

Recensione di Lorenzo Spurio

Q540uesto libricino, che si compone di vari racconti tra essi legati, ciascuno con un proprio titolo e corredato di un bozzetto in bianco e nero, sono stati pensati dall’autore, il catanese Giovanni Sollima non tanto in virtù di espressione letteraria, ma come strumento da poter essere utilizzato all’interno di dinamiche psicosocioriabilitative. Lo scrittore, infatti, è uno psichiatra e criminologo, storico della medicina, oltre che poeta e saggista. Una delle peculiarità della sua scrittura si ravvisa nella ricerca di un sistema espressivo adatto, efficace e significativo all’interno della didattica pedagogica e soprattutto come sistema d’applicazione per la riabilitazione all’interno di ambiti in cui si ravvisano deficienze di vario tipo.

Ecco dunque perché di questo libro dobbiamo sottolineare una serie di elementi centrali per il perseguimento dello scopo che Sollima si è proposto con questa pubblicazione: l’utilizzo del disegno semplice e facilmente comprensibile, la predilezione per i capitoli corti, succinti e in sé chiusi, la scelta di titoli evocativi e che suscitano interesse, l’utilizzo di un linguaggio perlopiù semplice e di dominio pubblico. Lo scrittore cala le vicende del simpatico Alfa Ninnino in un mondo che non è completamente quello della fiaba e che, anzi, ha molto in comune con quello della nostra realtà odierna anche se si preferisce soffermarsi su aspetti/immagini che appartengono sostanzialmente a un universo carico all’espressione ludica, di vicinanza con il mondo animale e di arrovellamento su perché alcuni eventi sostanzialmente avvengono.

La narrativa fluida e la narrazione perlopiù incalzante incuriosiscono di sicuro il giovane lettore che sarà portato a domandarsi, proprio come i personaggi della storia, perché alcune cose sono accadute e, analogicamente, il significato recondito di maschere, azioni e accadimenti. 

Lorenzo Spurio

-scrittore, critico letterario-

 

Jesi, 2 Agosto 2013

 

La taverna di Alfa Ninnino

Di Giovanni Sollima

Prefazione di Melania Mento

C.u.e.c.m., Catania, 2011

Pagine: 69

ISBN: 9-788866-000167

Costo: 7€

 

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

“Casa di mare aperto” di Felice Serino, recensione di Lorenzo Spurio

Casa di mare aperto

di Felice Serino

 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

imagesE’ una poesia dotta, filosofica e ricca di rimandi alla letteratura europea quella di Felice Serino contenuta nella sua ultima raccolta dal titolo enigmatico “Casa di mare aperto”. Ed è un po’ tutta la poetica di Serino ad essere attraversata da un certo ermetismo che si realizza in un criticismo del linguaggio, in una frantumazione dell’identità e in numerosi squarci visionari e addirittura onirici. Serino parte dal mondo che lo circonda, ma non è quello il suo interesse nell’arte della scrittura, perché l’intenzione è altra. La poetica si trasfonde a un livello più alto, a tratti irraggiungibile a tratti difficile da capire, ma l’artifizio della poesia sta anche in questo: nel dire e nel non dire, nell’utilizzare un concetto per elevarlo a qualcosa d’altro, metafisico, che non può aver concretezza proprio perché ha a che fare con la coscienza dell’uomo.

Importanti e degni di rispetto le poesie d’impianto civile, che nascono cioè dal voler ricordare alcuni personaggi centrali nel processo di crescita e progresso storico com’è la lirica dedicata al Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi nella quale Serino utilizza l’isotopia del sangue e della violenza per tratteggiare il clima d’odio, repressione e vendetta nei confronti della statista appartenente all’opposizione: “Dal suo sangue si leva alto/ il grido d’innocenza/ a confondere intrighi di potenti” (p. 20). La condanna alla tirannia, alla democrazia messa a tacere è evidente anche se il linguaggio di Serino evita la durezza e si contraddistingue sempre per una certa armonia e levità, anche quando parla di drammi in piena regola. Ma ci sono anche poesie in cui il poeta mette allo scoperto terminazioni nervose dolorose dal punto di vista sociale, come è il caso della poesia “A ritroso” ispirata al fenomeno poco noto degli hikikomori in Giappone che riguarda dei giovani che si auto-recludono letteralmente in casa evitando una vera vita sociale.

Centrale anche il tema della morte che ritorna in varie liriche come pensiero spesso assillante, altre volte come semplice dato di fatto dal quale bisogna partire con consapevolezza nell’impostazione del proprio progetto di vita. L’interesse per il mondo, per la socialità, la vicinanza all’altro e la riflessione sulla nostra esistenza fatta di giorni che sembrerebbero identici ma che non lo sono, trova ampiezza in una lirica in particolare, “In questo riflesso dell’eterno” dove il poeta con sagacia e freddezza verga la carta scrivendo: “imbrigliati noi siamo in un tempo/ rallentato/ noi spugne del tempo/ assediati da passioni sanguigne” (p. 61) in cui si ritrovano molti temi/aspetti che contraddistinguono la vita dell’uomo d’oggi: il tempo che scorre in maniera rallentata, troppo lenta, forse perché  non è più in grado di vivere i momenti che riceve in maniera autentica, ma forse perché l’uomo senza lavoro, precario, disoccupato o immigrato che sia, senza una occupazione non può che vedere il suo tempo scorrere in maniera lenta, dolorosa e oziosa; l’uomo è una spugna nel senso che riceve dal mondo, ma è sempre meno in grado di dare; che assorbe, si assoggetta, accetta e che, al contrario, non fa, non dà, non propone. Il mondo frenetico e alienante che propone una società sempre più efficiente, veloce e altamente tecnologizzata in realtà provoca un certo indolenzimento che si ravvisa nel sonnambulismo etico e pratico dell’uomo. Infine gli uomini sono “assediati da passioni sanguigne”: amore e sesso che, come si sa, non sono la stessa cosa e che spesso possono portare alla follia, al delirio, allo spargimento di sangue, in un doloroso banchetto in cui Eros e Thanatos giocano beffardi ignari di cosa stanno combinando. In “L’alba che sa di nuovo” Serino esordisce con versi acuminati: “la si vive nel sangue la nottata” (p. 89).

Numerosissimi i riferimenti e le citazioni a numerosi padri della letteratura europea, tra cui Mallarmé, Ungaretti, Zanzotto, Pessoa  che, oltre a sviscerare il grande amore di Serino nei confronti della letteratura e la sua profonda conoscenza, rendono l’opera un gradevole e profumato percorso in altre storie, tempi e luoghi.

Lascio ai lettori di questa recensione un’ultima lirica del Nostro nella quale si respira un senso d’incertezza e un sentimento di sospensione che non è dato all’uomo capire; il serpente presente quale immagine di fondo della lirica alla quale si tende analogicamente (si richiama il verde e il serpeggiare), rimanda ancora una volta all’immagine del peccato, dell’avvelenamento e dunque della morte. Ma la cosa curiosa è che in questo caso non vi sono vittime, se non la serpe stessa:

 

Di un altrove (p. 78)

di un altrove

d’un altrove

striscia

di luce verde la mente

l’interrogarsi serpeggia

si morde la coda

 Lorenzo Spurio

-scrittore, critico letterario-

 Jesi, 1 Agosto 2013

 

Casa di mare aperto

di Felice Serino

Prefazione di Marco Nuzzo

Centro Studi Tindari, Patti (ME)

Pagine: 90

ISBN: 9-788896-539859

Costo: 10€

 

FELICE SERINO è nato a Pozzuoli nel 1941; autodidatta, vive a Torino.

Ha pubblicato varie raccolte: “Il dio-boomerang” (1978), “Cospirazioni di Altrove” (2011).

Ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici.

E’ stato tradotto in sei lingue. Intensa anche la sua attività redazionale.

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

“Hanno rubato Babbo Natale” di Anna Maria Loglisci

COMUNICATO STAMPA

In libreria il romanzo “Hanno rubato Babbo Natale” (A & B Editrice)

Della scrittrice e giornalista catanese Anna Maria Loglisci

 

copertinaCATANIA – Manca poco al Natale e un fiume di gente si è riversato a Olympus per gli acquisti. Il libraio Marchini comunica sconsolato a Cirino Cannata che è stato rubato un pupazzo con le fattezze di Babbo Natale. La guardia giurata è allibita. Perché tanto avvilimento? Poco dopo si diffonde la notizia dell’uccisione di Matteo Salterio, uno dei proprietari di Olympus, un grande centro commerciale al centro della vicenda.

C’è tutto questo nel romanzo “Hanno rubato Babbo Natale”, della catanese Anna Maria Loglisci, pubblicato da “A & B Editrice” (152 pagine, 14 euro).

Nel libro, Olympus è tratteggiato come una sorta di piccola città che favorisce l’aggregazione, ma forse è anche un luogo dove si magnifica l’egoismo e la soddisfazione del proprio piacere. Come centro commerciale, in effetti è molto singolare, non solo per le pregevoli architetture e gli spazi verdi, ma soprattutto perché, oltre ai tanti negozi e servizi dedicati al benessere fisico, c’è anche una chiesa. Ma è davvero possibile conciliare affari e spirito? Chi meglio della panciuta figura di Babbo Natale, emblema di una festa sempre meno religiosa e sempre più godereccia, può rappresentare questo dilemma? In questa storia, però, il ruolo di Babbo Natale non è solo simbolico. A questa conclusione giunge il commissario Cortese, disincantato conoscitore dell’animo umano, che, coadiuvato dall’ispettore Branco, nel corso delle indagini s’imbatte in un variegato campionario di umanità. L’autrice descrive un presente dominato dal consumismo e da invadenti media, che fa da sfondo a questa vicenda in giallo e che, tuttavia, ha le radici in un passato di cui nel libro è possibile rivivere le inconfondibili atmosfere.

 

Chi è l’autrice?

Anna Maria Loglisci, catanese, è laureata in Scienze politiche e in Lingue e letterature straniere moderne. Insegnante d’Inglese, svolge attività di col-laborazione giornalistica, in particolare con il quotidiano “La Sicilia”. Ha pubblicato i romanzi Di fuochi e disincanti (2002) e In disordine (2008).