“Le braci” di Sándor Márai, recensione di Anna Maria Balzano

Le braci 
di Sándor Márai
Adelphi, Milano, 1998
ISBN: 9788845913730
Pagine: 181
Costo: 12€
 
 
Recensione di Anna Maria Balzano

images“Le braci” di Sándor Márai fu pubblicato per la prima volta nel 1942. Più che un romanzo, lo definirei un trattato sull’amicizia: in questa prospettiva si possono riscontrare alcuni punti in comune tra l’opera di Márai e il De Amicitia di Cicerone.

La scena, e mi si conceda il termine “scena”, dal momento che la narrazione ha un’impostazione teatrale, con  pochi personaggi e un lunghissimo monologo interrotto solo da brevi battute, si apre sulla visita del generale-protagonista alla cantina del suo castello per spostarsi immediatamente, solo dopo qualche riga all’interno del castello stesso.

Il luogo è estremamente importante: una sorta di microcosmo, avulso dal resto del mondo, dove i personaggi hanno trascorso le loro vite dibattendosi tra passioni, amori, odi e dove è giunto attutito il rumore di cadute di imperi, di rivoluzioni e guerre: dei tragici eventi, cioè, che sconvolsero il mondo esterno all’inizio del novecento.

Dopo quarant’anni di separazione il generale si accinge a ricevere e a rivedere l’amico Konrad a cui era stato legato da un’amicizia profonda interrottasi per cause che al lettore non è dato conoscere, almeno per il momento.

Di ciò che sia accaduto tra le mura di quel castello sembra essere a conoscenza solo la vecchissima balia Nini, testimone e depositaria della verità.

L’incontro tra il generale, il cui nome è Henrik, e Konrad vuole essere, probabilmente nelle intenzioni di entrambi, chiarificatore d’una separazione improvvisa e apparentemente incomprensibile. Esso offre certamente lo spunto per approfondire il concetto di amicizia, ponendo un drammatico interrogativo: può davvero esistere l’amicizia?

Qui si inserisce il lungo monologo di Henrik, che rievocando le esperienze della vita che i due giovani hanno condiviso, si sofferma su speculazioni di tipo filosofico sulle condizioni che permettono all’amicizia di resistere al tempo.

È subito chiaro che Henrik e Konrad sono completamente diversi l’uno dall’altro: Il primo è di gracile costituzione, ma ciononostante assolve il suo compito d’ufficiale con scrupolo e passione, ama la caccia e le frivolezze della vita; il secondo Konrad, il cui fisico sembrerebbe più idoneo ad affrontare  la carriera d’ufficiale, considera questa solo un mestiere, un mezzo per sopravvivere, mentre la sua natura lo porterebbe piuttosto a coltivare le arti e in particolare la musica.

Henrik e Konrad. La caccia e la musica. La ricchezza e la povertà. 

Qui dunque il primo interrogativo: può esistere amicizia tra esseri tanto diversi?

Henrik afferma di essersi sempre adattato allo stato di inferiorità sociale dell’amico, offrendogli la possibilità di condividere con lui le sue disponibilità.

Nel De amicitia di Cicerone (XIX cap) troviamo un concetto del tutto simile : “Ma requisito essenziale dell’amicizia è che il superiore si faccia inferiore.”

Henrik si chiede se l’amicizia esista veramente e su cosa si fondi: sulla simpatia? Troppo poco.  C’è un pizzico di eros alla base dell’amicizia?  “L’eros dell’amicizia non ha bisogno dei corpi,  essi anzi lo disturbano più di quanto non lo attraggono. Ma si tratta pur sempre di eros, c’è eros in tutte le relazioni umane.”

Vediamo ora Cicerone (cap. V): “..l’amicizia è superiore alla parentela, in quanto alla parentela si può togliere l’affetto, dall’amicizia no: perché tolto l’affetto il nome dell’amicizia scompare, mentre quello della parentela no.”

Dunque l’amore, l’affetto sono indispensabili all’amicizia: la sua fine può, con molta probabilità, generare odio. Questo concetto si trova sia in Cicerone che in  Márai.

Gli eventi accaduti tra Henrik e Konrad hanno cancellato il forte vincolo giovanile, trasformandolo in odio. Ora davanti al fuoco del camino che simbolicamente divampa come le passioni esplose e represse nel cuore dei protagonisti è giunta l’ora della verità. Avranno i protagonisti il coraggio di affrontarla? L’unica verità incontrovertibile sarà quella che trasformerà il fuoco delle passioni in brace, ma solo quando la brace sarà cenere l’animo umano troverà pace.

ANNA MARIA BALZANO

QUESTA RECENSIONE VIENE QUI PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE. E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.

Vindiciae (sentenza), un racconto di Gianluca Paolisso

VINDICIAE ( sentenza )

 “Aveva sessantaquattro anni … ” – Plutarco, vita di Cicerone

 di GIANLUCA PAOLISSO

” Terenzia … cos’è Roma?
– è un’idea. Un piccolo passo verso il cielo.

Dalla terrazza della sua villa, Cicerone osservava il mare, distante pochi passi: una tavola d’azzurro lacerata dai raggi di un sole fugace, che a stento riusciva a scardinare l’aspro dominio delle nuvole. Una leggera brezza accarezzava gli alti pini che, come lance, sembravano bucare il cielo al pari della carne di un barbaro. Sorridendo, Cicerone pensò che il brusio delle piccole onde infrante sulla spiaggia antistante era molto simile alle acclamazioni del pubblico nel Foro: brevi ma intense, violente, carnali come l’amore di una donna. I pensieri si confondevano tra le mille voci del popolo, assetato di gloria e giustizia: solo il momentaneo ritorno del silenzio trasformava la confusione in consapevolezza:” Sono solo un attore … un attore che ha sempre interpretato alla perfezione le parti assegnategli dallo stato, niente di più”.
Cicerone si guardò intorno, sospirando: amava quasi alla follia la natura incontaminata di quelle terre, così lontane dai pericoli di Roma, una città che oramai non riconosceva più. La Repubblica moriva pian piano sotto il giogo delle liste di proscrizione, in cui figurava anche lui, l’antico pater patriae che aveva salvato la città da un uomo come Catilina, dèmone immondo che adesso qualcuno addirittura rimpiangeva. Il ricordo di quelle imprese sbiadiva come la giovinezza, trascinate al cospetto di Plutone dall’eterno incedere del tempo.
Un gracchiare improvviso riscosse Cicerone dai suoi pensieri: decine di corvi si erano appollaiati al suo fianco, aprendo le ali e beccando la sua toga senatoriale come indispettiti. Qualsiasi aruspice avrebbe detto che si trattava di un cattivo presagio, un presagio di morte: nonostante fosse poco superstizioso, in quel momento pensò che gli Dèi volessero ricordargli la sua fine imminente:” Non si può sfuggire al destino, lo so”. In un impeto d’ira, scacciò quegli uccelli portatori di morte con un grido che lacerò l’aria come una lama affilata, poi rientrò in casa, assaporando un intenso profumo di viole. Si distese sul letto, avvertendo improvvisamente il peso della stanchezza: aveva passato le ultime sette notti senza chiudere occhio, organizzando con i servi più fedeli la fuga verso le sue tenute formiane; il viaggio si era rivelato più difficile del previsto, a causa dei capricci più o meno intensi del mare, che avevano messo il suo stomaco in subbuglio. Adesso poteva concedersi qualche attimo di riposo.
“La politica è sempre stata la mia maschera migliore, quella che tutti volevano ammirare nei suoi cambiamenti espressivi, tra le ombre inconsistenti del Campo di Marte … oramai i protagonisti di quel tempo sono scomparsi: Ortensio, Catulo, Hybrida, Sacerdote, sono cenere mescolata ad altra cenere. I lastricati marmorei del Foro non sono più la mia casa. Il Cicerone che tutti hanno conosciuto non esiste più: rimane solo un uomo che ricorda con nostalgia la propria famiglia e i propri amici, che piange ancora una figlia, morta nel dare la vita. Tullia, anima mia, presto torneremo a sfiorarci dolcemente e, chissà, forse abbraccerai le mie ginocchia come spinta da un istinto primitivo, ricordando le tiepide mattine in cui giocavi spensierata tra le braccia di tua madre. Parleremo come allora di tutte le cose che osservavi con il tipico stupore infantile, e rideremo del tempo immobile che avvolgerà le nostre anime. Rideremo,anima mia, non è vero? Rideremo …?”.
– Padrone! – Cicerone scattò in piedi come un giovincello animato dal desiderio: Filologo, uno dei suoi servi, ansimava davanti a lui, la fronte madida di sudore.
– Cosa …
– Padrone, stanno arrivando! – Cicerone si passò una mano sulla fronte, ancora perso nelle ombre del passato. Ad un tratto, la luce di un lampo squarciò lo spesso grigiore delle nuvole. Era tornato alla realtà.
– La lettiga è pronta?
– Sì, padrone.
– La nave?
– Pronta a salpare. – Seguito da Filologo, Cicerone attraversò la villa immersa nel silenzio fino ad un’uscita posteriore dove, come previsto, l’attendeva la lettiga e quattro servi atti al trasporto. Cicerone vi salì senza esitazioni: i capelli arruffati e il pallore del viso lo rendevano simile ad un’anima dell’Oltre Tomba. Solo la toga evidenziava il suo rango sociale, ormai privo della minima importanza.
– Padrone …
– Nessun addio dovrebbe essere così precipitoso – mormorò Cicerone, scuro in volto.
– I disegni degli Dèi sono imperscrutabili.
– è così … Filologo, ti ricordi quando ti dissi di non piangere?
– Avete ragione … – disse lo schiavo, asciugandosi le gote umide con l’avambraccio – “le lacrime sono il sintomo più evidente della debolezza umana”.
– Mi sbagliavo. Le lacrime, ancor più dei sentimenti, rendono l’uomo superiore alle bestie. Piangi, Filologo, piangi … almeno ricorderai sempre di essere un uomo.

I viali ombrosi si intersecavano tra loro a creare un labirinto di piccoli boschi: i voli e i cinguettii dei cardellini erano coperti dal rombo spumoso del mare, agitato e nero come una notte senza stelle. Una pioggerellina fitta come miriadi di frecce si abbatteva sulla terra già umida, desiderosa di vita. Il cielo color rame sprizzava lampi di luce a intermittenza.
L’umidità accentuava ancor di più i dolori corporei di Cicerone, che si dimenava all’interno della lettiga alla ricerca di una posizione accettabile. I servi correvano sotto il peso del legno e del suo corpo, cercando di evitare possibili dossi o buche nel terreno. I loro gridi di fatica e dolore si perdevano nella nebbia.
Cicerone notò, in direzione della sua villa, una lunga scia di fumo nero sollevarsi lentamente verso il cielo: i sicari di Antonio, ottenute con il fuoco e con la spada le informazioni riguardo la sua improvvisa scomparsa, si lanciavano ora verso il mare. E i loro bai da guerra sapevano colmare bene le distanze. Cicerone incitò i servi ad andare più veloce: pochi passi lo separavano dal mare … e dalla salvezza.
Improvvisamente un grido squarciò l’aria: il grido di Erennio. Il rumore degli zoccoli si avvicinava sempre più, come un terremoto lento e devastante. Cicerone udì un sibilo, poi una freccia si conficcò nel legno della lettiga, a pochi centimetri dal suo braccio. Dopo un attimo di smarrimento, i suoi occhi tornarono quelli di un tempo: profondi, imperscrutabili, letali. Improvvisamente il suo corpo riprese il vigore tipico delle migliori giornate forensi; i dolori erano svaniti come neve al sole. Rinasceva a pochi istanti dalla fine.
“Che diavolo sto facendo? Ho dimenticato veramente chi sono? No … sono Cicerone, il primo avvocato di Roma, il più grande oratore che la storia abbia mai conosciuto! Il potere è assetato di sangue: ora vuole il mio, a qualunque costo, ed io non posso impedirlo. è inutile tentare ancora di fuggire a ciò che è stato già scritto … la spiaggia è a pochi passi, ma non sentirà mai il peso del mio corpo; la nave già pronta non salperà mai. Riposerò qui, su questa terra, sotto questo cielo. Basta, basta fuggire!”. – Sporgendosi dalla lettiga, fu investito da vento gelido e pioggia. Non si coprì il volto: in quel momento era insensibile a tutto ciò che lo circondava.
– Fermatevi! – intimò ad uno dei suoi servi, ridotto ad una maschera di sudore e polvere.
– Padrone, sono vicini!
– Ho detto fermatevi! – Il servo ripetè l’ordine agli altri tre, che lentamente deposero la lettiga a terra. Cicerone rimase lì, immobile come una statua.

Erennio, accompagnato da altri dieci uomini armati, si stupì nel vedere la lettiga di Cicerone ferma a pochi passi dalla spiaggia. La nave che avrebbe dovuto ospitare l’oratore nella sua fuga si piegava impotente al volere delle onde.
“Meglio così – pensò Erennio, asciugandosi il naso con l’avambraccio – è più facile uccidere con il consenso della vittima”. Smontò da cavallo, accompagnato dai suoi uomini, poi si diresse verso la lettiga, dove quattro schiavi pregavano in lacrime di non essere uccisi. Non dovevano rimanere testimoni, questi erano gli ordini. La pietà era una concessione proibita. Diede il segnale. In pochi minuti la terra si tinse di rosso. Cicerone osservò la scena in silenzio, il mento appoggiato sulla mano sinistra, nella tipica posa ironica che suscitava tanta ilarità durante le arringhe lente e dispersive di Ortensio.
Erennio gli si avvicinò, salutandolo con un cenno del capo. Cicerone rispose allo stesso modo, sorridendo, apparentemente sereno.
– è la giustizia di Roma, Cicerone … – esordì Erennio, mostrando la scure che teneva fra le mani.
– No: è la giustizia di Antonio.
– Preparati a raggiungere i tuoi avi.
– Morirò per la terra che io stesso ho salvato.

Poco prima di morire, Cicerone ripensò alle ore di festa che seguirono la vittoria contro Verre: durante il pranzo, tra gridi e ovazioni di gioia, aveva chiesto alla moglie:”Terenzia, cos’è Roma?
– è un’idea – aveva risposto lei, accarezzandogli i capelli – un piccolo passo verso il cielo”.
Contemplò per attimi che gli parvero eterni il suo volto riflesso nel metallo lucido della scure, che si sollevò lentamente nel vento di tramontana, pronta a colpire.
Cicerone mormorò, sorridendo:”Vendetta”. Il buio … e poi più nulla.

COMMENTO

a cura di Lorenzo Spurio

Il giovanissimo Gianluca Paolisso, grande appassionato di letteratura e cultura classica, che ha da poco pubblicato il romanzo Saffo, analizzando la società dell’Antica Grecia direttamente dagli occhi della celebre poetessa di Lesbo, ci propone qui un racconto dagli scenari simili. Non siamo nell’Antica Grecia ma nell’Antica Roma e assistiamo alla fuga di Cicerone da Roma incalzato dalle truppe di Marco Antonio. E’ una fuga difficoltosa della quale neppure il famoso oratore romano ne intravede la fine e, anzi, preferisce farsi lasciare con la lettiga sulla sabbia, a poca distanza dal mare da dove sarebbe salpato con una nave che lo aspettava. Ma quello che affascina di più dell’intero racconto è, a mio parere, la suggestiva definizione della Città Eterna:  «cos’è Roma?» chiede Cicerone alla moglie e questa gli risponde: «E’ un’idea. Un piccolo passo verso il cielo». Immagine molto bella che apre e chiude l’intero racconto, descrivendo una struttura perfettamente circolare e compiuta e che ha la pretesa di tener coesa l’intera storia narrata attraverso l’immagine-idea dell’allora centro del mondo, Roma.

Con questo racconto Paolisso ha vinto il Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa “Anna Malfaiera” – sezione narrativa, promosso dalla città di Fabriano (An).

LORENZO SPURIO

10-09-2011

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