La giornalista Nuria Azancot ha dedicato un recente articolo uscito su «El Español» all’esperienza in terra americana di Federico García Lorca (1898-1936) dal titolo (traduco dallo spagnolo) “La redenzione americana di Lorca: così scrisse Poeta a Nueva York”[1], tra la depressione e il dolore[2]”. La Azancot con una prosa veloce ma non priva di elementi di pregio passa in rassegna la vicenda del viaggio americano di Lorca che, nel 1929, a seguito di una grande sofferenza (che secondo Ian Gibson lo vide addirittura vicino alla scelta del suicidio) dettata dalla fine del rapporto amoroso con Emilio Aladrén (che l’aveva abbandonato per l’inglese Eleanor Dove) giunse a New York dove studiò lingua inglese presso la Columbia University.
Quel viaggio-vacanza, pensato per essere di poche settimane, si allungò a dismisura. Viaggiò, conobbe membri della cultura americana (tra cui la romanziera nera Nella Larsen, autrice di Passing), entrò a contatto con il barrio negro di Harlem, visse sulla sua pelle la crisi sociale e umana del Crollo della Borsa di New York, prese parte alla visione di pellicole sperimentali del cinema americano e tanto altro ancora. Giunse anche a L’Avana dove, lasciando alle spalle il delirio del denaro, della spersonalizzazione e della massificazione della megalopoli americana, gli sembrò per un attimo di essere ritornato a casa. La critica ricorda come fu proprio a Cuba che il poeta – nella latinità calda e spensierata che ricalca, in maniera enfatizzata, il meridione della sua terra natale –si sentì maggiormente ad agio, riuscendo ad allontanare il peso dell’impossibilità di esprimere liberamente il suo amore, di abbattere alla luce del sole il pregiudizio bigotto della borghesia granadina, «la peggiore d’Europa», come il Poeta ebbe a stigmatizzarla.
A New York Lorca fu colpito profondamente dalla frenesia del commercio, dall’incomunicabilità delle genti, dalla meccanizzazione della vita dell’uomo. L’architettura dei grattacieli che si perdono a vista d’occhio longitudinalmente e la dominazione di materiali inerti come il cemento, il ferro e il vetro descrivono un unicum distintivo di questa sua esperienza nella Grande Mela. Nella fitta corrispondenza con i suoi genitori (soprattutto con la madre e l’amato fratello Francisco) non potrà che innalzare, con la meraviglia che alimenta nelle sue pupille per quanto di fantasmagorico visto, la città di New York e l’idea dell’America quali contesti di grande progresso, di vivacità e di profondo dinamismo sebbene nelle liriche che scrisse in quel periodo non mancano immagini fosche, che trasmettono l’idea del caos, della solitudine e della distanza, la versione di uomo allucinato sopraffatto dalle logiche del consumo, dal dio quattrino, dove i sentimenti sembrano assopiti e predomina la macchina, la devianza e l’indifferenza.
L’autrice dell’articolo ricorda anche le due gite “fuori porta” di Lorca che lo portano a lasciare la Grande Mela per il Vermont, ospite di Philip Cummings e poi a Bushenellsville e Newburgh dove scrisse, tra le altre, la dolorosa “Niña ahogada en el pozo. (Granada y Newburgh)”. Nel Vermont, in particolare, lontano dal rumore e dal vorticismo della megalopoli, sembrò prima riacquistare una dimensione a lui cara, fatta di normalità a contatto con un contesto naturale ma, in un secondo momento, fu visibilmente pervaso da una grande angoscia che gli deriva da una profonda nostalgia tanto della sua infanzia (il cui ricordo lì si ampliò notevolmente) quanto della sua terra natale.
Il libro Poeta en Nueva York che contiene le poesie scritte durante la sua permanenza a New York e poi a Cuba (tra cui la celebre e cantilenante “Iré a Santiago”), com’è noto, non verrà pubblicato prima del 1940, ovvero postumo, ben quattro anni dopo la morte del Poeta. La pubblicazione, avvenuta grazie all’interessamento di José Bergamín avvenne con i tipi delle Editorial Séneca del Messico, sebbene, quasi contemporaneamente, un’edizione bilingue spagnolo-inglese (traduzioni di Rolfe Humphries) veniva pubblicata negli Stati Uniti per la W.W. Norton and Company.
Come ricorda la Azancot, le poesie del periodo americano evidenziano che «la trasformazione poetica e personale si era venuta sviluppando nel corso di quei mesi». Sappiamo che l’esperienza vissuta in territorio d’Oltreoceano fu determinante nella vita del granadino non solo perché propiziatrice e fautrice di un avvicinamento all’avanguardia e alla sperimentazione linguistica spesso associata a un reale assorbimento al surrealismo (nel quale, forse, le maggiori opere vanno rintracciate nel suo teatro de lo imposible o teatro irrepresentable) ma soprattutto gli consentì un’apertura mentale e di maggiore comprensione del reale che, senza quel viaggio, sicuramente non avrebbe mai raggiunto.
Particolare del manoscritto di “Poeta en Nueva York”
Sebbene non poté vedere pubblicata la raccolta di liriche di quell’importante viaggio, il Poeta aveva dato a conoscerne molti dei contenuti: alcune poesie erano state pubblicate su alcune riviste, altre recitate in veladas con amici e colleghi letterati, altre ancora declamate a intervalli nel corso della sua dotta e puntualissima conferenza che pronunciò in varie città dal titolo “Un poeta en Nueva York” comprensiva di un recital de poemas neoyorkinos.
Il testo della conferenza, che per fortuna si è conservato, rappresenta, a suo modo, una sorta di narrazione biografica di quei momenti nella quale ci dà le sue idee suscitate dal contatto diretto con la megalopoli e, a ragione ed ampliamento di questo, situava la lettura di alcune delle liriche più importanti della raccolta tra cui “Norma y paraíso de los negros” (mentre, forse per questioni di lunghezza del testo, si limitava a invitare il lettore a leggere “Navidad en el Hudson” che è senz’altro uno dei testi più pregnanti di questa sua fase poetica). Nel testo della conferenza leggiamo: «He dicho un poeta en Nueva York y he debido decir Nueva York en un poeta» (ovvero «Ho parlato di un poeta a New York e avrei dovuto dire di New York in un poeta»), frase che ben sintetizza la potenza nevralgica e catartica rappresentata da New York (e per estensione dall’America) che felicemente agì su di lui, tanto dal punto di vista umano (le numerose conoscenze, la partecipazione agli spettacoli-cinema avanguardista, l’inserimento nel barrio negro e il sentimento di fratellanza verso di loro, la denuncia dell’ingiustizia, della discriminazione, etc.) che intellettuale (la produzione delle sue liriche, i testi per il teatro lì elaborati comeEl Público, il testo per conferenza di poco successivo, le dichiarazioni agli amici e alla stampa, le confessioni ai cari nella corrispondenza, etc.).
LORENZO SPURIO
Jesi, 06/08/2022
[1] Nuria Azancot, “La redención americana de Lorca: así escribió Poeta en Nueva York entre la depresión y el desamor”, «El Español», 03/08/2022.
[2] L’originale spagnolo parla di desamor che, però, non possiamo tradurre come “disamore” ma con “dolore” o “strazio” trattandosi di un dolore esistenziale, tanto personale che creativo dovuto alla fine della sua relazione amorosa. Nel sottotitolo dell’articolo si dice che Federico «si trovava in un critico momento sentimentale e letterario».
La riproduzione del presente saggio, in forma integrale e/o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.
A Federico García Lorca (1898-1936), come uomo e come artista, è toccato di diventare un mito del nostro tempo, per cui a tutti i problemi posti dalla sua opera letteraria (colta, oscura e innovatrice nello stesso tempo) si aggiunge quello di capire perché una poesia, come la sua, abbia infranto tutte le barriere della impopolarità della poesia moderna, provocando entusiasmi, creando mode e facendo proseliti. Teatro, incisioni discografiche, televisione, balletto: tutto è servito a creare e a sostenere il fenomeno “Lorca”.
Forse, al fondo di questa straordinaria fortuna, c’è il sentimento del tragico, la disarmata dichiarazione di dolore di cui la sua poesia è portatrice, la sua perenne e inesausta inquietudine esistenziale. A ciò si aggiunga un insieme di circostanze, tra le quali la morte del poeta, avvenuta nel 1936, in un momento in cui l’attenzione internazionale era concentrata sulla guerra civile spagnola, che appariva come un’allusione a un ancora più ampio e odioso conflitto che minacciava, in quella stessa temperie, l’Europa e il mondo.
Federico García Lorca divenne quasi il simbolo della fragilità di ciò che è nobile e gentile, ma è esposto, nel medesimo tempo, alle forze della distruzione. La sua poesia rinnovava l’immagine tradizionale della Spagna, restando tuttavia nel suo solco. La Spagna come patria di sentimenti nobili e violenti, di un primitivismo che possiede un’eleganza e una raffinatezza istintive, si ritrovava nella sua opera poetica e nel suo teatro. Lorca, scrisse a suo tempo Elio Vittorini (uno dei pionieri, con Carlo Bo ed Oreste Macrì, della sua fortuna in Italia), era «la semplice gioia di vivere», in contrasto con un Montale o un Eliot, la cui poesia è verticale, intrisa di esistenzialismo, inquinata dal male di vivere. In García Lorca le esperienze surrealiste del flamenco e della corrida divennero elementi fondativi del suo successo che raggiunse, sia in Italia che nel resto del mondo, dimensioni senza precedenti per un poeta.
Nella sua opera, inoltre, si compendia e si trasferisce, in una sfera sublime di poesia e su un piano di ardua forma d’arte, tutto il complesso mondo di esperienza storica e mitologica di una generazione di poeti che trapassa dal fatto psicologico e corale della contemporaneità a una struttura organica e consapevole della tradizione letteraria spagnola. Solamente da questa considerazione storico-formale, che trascende il concetto positivista di generazione letteraria, è possibile osservare il significato autentico, il senso vero, di un’opposizione al purismo di un Valery, di un Guillén, di un Juan Ramón Jiménez, al disumano, all’arbitrario e al cerebrale dell’estetica dell’azzardo e delle mode; opposizione che si dà non per esclusione, ma per un vivo e ostinato desiderio di conoscenza ed esperienza della crisi e delle avanguardie europee, affinché non restasse nulla di intentato, nulla di rifiutato e respinto, sul piano umano, che fosse possibile estrarre dalle poetiche più informali e sterili del Novecento.
Il mio incontro con la poesia di Federico García Lorca risale ai primi anni Cinquanta e fu propiziato dall’ascolto del Llanto por Ignacio Sánchez Mejías, recitato da Arnoldo Foà in una celeberrima incisione discografica. Ero a quei tempi uno studente e non pensavo alla poesia se non come a un indigesto oggetto di studio. L’ascolto di quel poemetto, reso ancora più suggestivo dalle profonde e suadenti tonalità vocali di Foà, più che sorprendermi e darmi gioia, mi sbalordì. Non avevo mai letto, o sentito recitare fino a quel momento, versi con quel ritmo ossessivo, con quella forza evocativa, con quel rigoglio metaforico, con quella carica espressiva, con quell’avvertenza superstiziosa per il numero.
Il poemetto era stato composto nel 1935 in memoria di un amico torero e letterato, rimasto ucciso nel corso di una corrida nell’arena di Manzanares. È una stupenda sintesi della poesia lorchiana e si presenta come una sorta di sinfonia funebre in quattro tempi. Il primo tempo, La cogida y la muerte, descrive la morte tragica dell’amico con un sapiente intarsio di tocchi realistici e di visioni liriche, scandite dall’ossessionante ritornello A las cinco de la tarde (“Alle cinque della sera”) che, in cinquantadue versi, viene ripetuto per ben ventisei volte; il secondo tempo, La sangre derramada, in forma di romanza classica spagnola, è l’elogio vero e proprio, sublime mescolanza di elementi tradizionali e di nuove espressività drammatiche; il terzo tempo, Cuerpo presente, e il quarto, Almaausente, sono delle purissime meditazioni, di un ardente e pur contenuto lirismo, intorno alla morte e al destino dell’uomo, estrema e altissima elegia di un grande poeta che, piangendo davanti al corpo senza vita dell’amico, piangeva senza saperlo la propria e ancora più tragica morte. E, come in altri grandi poeti e artisti (Manrique, Quevedo, Goya, Unamuno) un’intensa e incontenibile brama di vita sgorga in Lorca da un sentimento tremendo della morte, facendosi arte in un supremo sforzo di conoscenza e di salvezza.
Ed è proprio in questo contesto, emotivo e riflessivo nello stesso tempo, che è possibile cogliere il senso e la misura della poesia di Lorca. Llanto por Ignacio Sánchez Mejías è il suo pezzo di maggior elaborazione ed orchestrazione con uno sfondo che offre una continua possibilità di risonanza. Lo si può definire una sorta di racconto per simboli, in cui il poeta, oltre a ripercorrere, su di un’ossessiva avvertenza del tempo, il motivo del dolore e della tragedia che si è consumata, gioca la carta della drammaturgia, sviluppa il racconto allargando sempre più la propria visione, mentre il tema della morte, applicato alla comune realtà, ci fornisce l’interpretazione, giustifica lo scatto poetico sempre più sicuro e improvviso, la costruzione del verso, tenuta su una linea sempre più semplice e suggestiva.
Lo schema metrico-ritmico della prima parte del Llanto, con l’iterazione del verso a A las cinco de la tarde ha un precedente in un altro testo di Lorca, intitolato Son de negros en Cuba, nel quale il ritornello “Iré a Santiago” è ripetuto per ben diciotto volte in soli trentotto versi. Ciò offre l’occasione per soffermarsi su un’altra opera lorchiana, nella quale tale testo è contenuto; un’opera che costituisce uno dei vertici della poesia spagnola del Novecento e cioè Poeta en Nueva York, indubbiamente l’opera più ambiziosa del poeta di Granada e una delle chiavi della poesia surrealista, sia pure di un surrealismo da intendersi non come “sistema” ma come parte integrante della concezione globale che García Lorca aveva della sua esperienza poetica.
Aveva scritto, infatti, nel 1928 che «La luce del poeta è la contraddizione. Il poeta non mira né pretende di convincere nessuno. Sarebbe indegno della poesia se assumesse questa posizione, in quanto la poesia non vuole adepti ma amanti. La poesia alza siepi di rovo e sparge cocci di vetro perché le mani di coloro che la cercano si feriscano per amor suo»”. E il lettore, che per la prima volta si pone senza pregiudizi di fronte a questa opera, capirà facilmente quello che egli chiedeva: un’attitudine nuova dinanzi al fenomeno poetico, un’inquietudine accecante verso le sue forme di comunicazione.
Poeta en Nueva York fu composta tra il 1929 e il 1930 e la metropoli statunitense, come lo stesso titolo suggerisce, ne è il tema principale. Ma la città è anche una metafora dell’intensa crisi spirituale che il poeta stava attraversando. Ad uno sguardo superficiale può sembrare perfino che il suo ritmo sia gioioso, ma, ad una lettura più attenta e meditata, ci si accorge che Poeta en Nueva York è un terribile canto di disperato dolore e di allucinante presentimento di morte, in cui il drammatismo andaluso di Romancero e del Cante jondo si fa angoscia universale. Se il motivo occasionale è costituito dallo sgomento causato dall’incontro di Lorca con la smisurata città americana tanto disumanamente diversa dalla piccola Granata natia, in realtà la fantasmagoria, che il poeta evoca, esprime con inaudita potenza l’assurdità dell’esistenza e l’inconsistenza della realtà delle cose.
A contatto con la realtà newyorchese, ossia con una «civiltà senza radici», scatta in García Lorca una presa di posizione anticapitalistica, non nuova certamente nella cultura spagnola e in tanta cultura europea, ma che non è, come nell’anticapitalismo tradizionale, nostalgia di un altro tempo o un alibi per uno sterile isolamento, bensì rifiuto e ribellione in una dimensione totalmente contemporanea. Se, come è stato scritto, Lorca scopre la storia in occasione del suo viaggio a New York, è sempre come scoperta di un processo attuale, di uno scontro in atto.
La metafora visionaria, che anima Poeta en Nueva York, è per il poeta la strada per cercare di rivelare e risolvere nella poesia questo scontro, questa lacerazione. Attraverso l’accostamento di diversi piani della realtà, il paesaggio interiore si materializza mentre quello esteriore si interiorizza; solo che qui l’accostamento è simbolo di un’irrevocabile separazione. I miti lorchiani manifestano, in questa raccolta, segni in positivo e in negativo. Al positivo stanno le entità mitiche del Romancero (l’albero, il bambino, la farfalla, il paesaggio: insomma la natura), al negativo troviamo al contrario il cemento, la città, la discriminazione sociale, ossia tutto ciò che è prodotto dell’uomo e della cultura. Per tutta l’opera predominano il bianco e il nero, simboli di opposizione totale: dalla gamma semantica del vuoto, della nausea, fino alla maledizione e a forme inequivocabili di profetismo.
Quello di Lorca è la scoperta di un mondo inflessibile, d’una realtà straziante, della scissione tra soggettività ed oggettività, tra uomo e mondo, incarnato dalla macchina e dal denaro, dalla tecnica e dal profitto. Tra l’altro, siamo negli anni della crisi e New York, gonfia di rumore e disperazione, mostra di sé tutto il negativo che possiede. Lorca scrive freneticamente e in quello che scrive si riflette la sua angoscia per gli operai in sciopero, per i bambini abbandonati, per le condizioni di miseria in cui vive la gente di colore. La violenza e l’ingiustizia del capitalismo gli ispirano composizioni piene di immagini di degradazione e di dolore. Un’esperienza che gli servirà come stimolo per cercare, nel laboratorio della sua fantasia, una nuova voce e rimuovere quanto residua di vecchio nella sua poesia precedente.
Attraverso la scoperta della discriminazione, dell’oppressione e dell’ingiustizia sociale, egli si muove infatti verso una nozione dell’umano che è ormai lontanissima da quella ottocentesca, una nozione che avverte il conflitto a tutti i livelli: dall’individuo alla società. Così il mondo dei gitani, che nel Romancero recava in sé l’ambiguità di apparire troppo compatto (esposto cioè solo esternamente alla minaccia della morte o della guardia civile), appare ora come il termine di un conflitto. Su questa base egli muove verso una critica pragmatica con l’invenzione di un linguaggio del tutto nuovo, che attesta anche la sua definitiva adesione al surrealismo, adesione, peraltro, confermata dalla sua esperienza poetica successiva, rappresentata dalle liriche d’amore di Diván de Tamarit (1935) e, ad un livello ben più alto di capolavoro assoluto, dal Llanto por Ignacio Sánchez Mejías. Solo che in questa ricerca Lorca, che, come si sa, proviene da una cultura rimasta “autre”, non porta la cattiva coscienza dell’etnocentrismo come è accaduto a tanti scrittori francesi e tedeschi. La sua cultura di spagnolo, e di spagnolo meridionale e anche irregolare, gli consente di scoprire quasi naturalmente, nel centro della società capitalistica newyorchese, un’altra cultura, quella cioè dei subalterni e degli emarginati, e di sentirla subito come opposizione in senso antagonistico.
C’è in Poeta en Nueva York un testo che si intitola L’aurora, nel quale sono contenute nomenclature lessicali e sintagmi che bene mettono in evidenza l’antagonismo lorchiano nei confronti della civiltà delle macchine e della discriminazione razziale, che di lì ad una quindicina d’anni (ma Lorca non ne sarà testimone) conquisterà anche la vecchia Europa con le conseguenza che tutti conosciamo:
L’aurora di New York
ha quattro colonne di fango
e un uragano di nere colombe.
L’aurora di New York geme
per immense scale
cercando tra le lische
tuberose di angoscia disegnata.
L’aurora viene e nessuno la riceve in bocca
perché lì non c’è domani né speranza possibile.
A volte le monete in sciami furiosi
trapassano e divorano bambini abbandonati.
I primi che escono capiscono con le loro ossa
che non vi saranno paradiso né amori sfogliati;
sanno che vanno nel fango di numeri e leggi
nei giochi senz’arte, in sudori infruttuosi.
La luce è sepolta con catene e rumori
in impudica sfida di scienza senza radici.
Nei sobborghi c’è gente che vacilla insonne
appena uscita da un naufragio di sangue.
Si noti la positività del titolo in contrapposizione a una serie di spezzoni testuali dai contenuti decisamente negativi: «colonne di fango», «uragano di nere colombe», «acque putride», «lì non c’è domani né speranza possibile», «non vi saranno paradiso né amori sfogliati», «sudori infruttuosi», «la luce è sepolta con catene e rumori», «nei sobborghi c’è gente che vacilla insonne / appena uscita da un naufragio di sangue», ecc. Il quadro che Lorca ci presenta, in questo testo, è apocalittico e denuncia tutta la sproporzione, tutto lo scarto esistente tra un sentimento regionale, domestico e popolare come quello ad esempio del Libro de poemas del 1921 (pervaso da una suggestione ingenua della realtà naturale, dalla vena sottile, trasparente e immobile d’uno sguardo lontano) e il Lorca problematico, innestato sulla pianta di una consapevolezza della ingiustizia e della tragedia in atto.
In tal senso, Poeta en Nueva York si offrecome un’esperienza poetica creazionista, e, sotto certi aspetti, ultraista nell’uso della metafora multipla, conseguentemente ad una rinnovata lettura della tradizione poetica spagnola aperta, per convergenze parallele, al surrealismo francese, al mondo dell’onirismo e dell’inconscio. Attraverso questa via riappare, nella sua poesia, la storia come storia individuale e collettiva; una storia che guarda al mondo informe e disordinato della quotidianità per dominarlo, tra nostalgie arcaiche e slancio avveniristico. Una scelta che lo porterà verso l’azione, intesa come verifica possibile per chi abbia rifiutato la strada minoritaria della contemplazione e della perfezione formale.
PIETRO CIVITAREALE
Questo saggio viene pubblicato con l’autorizzazione espressa da parte dell’Autore, il noto poeta e critico letterario Pietro Civitareale, saggista attento e amante dell’opera letteraria di Lorca. “Federico García Lorca: dal Llanto por Ignacio Sánchez Mejías a Poeta en Nueva York” è stato precedentemente pubblicato nel suo volume Letteratura e dintorni (Arsenio Edizioni, Martinsicuro, 2020).
La riproduzione del presente testo, in formato integrale e/o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.
Sullo spazio culturale online “Alla volta di Leucade”, diretto dal professore Nazario Pardini, nella data del 6 maggio 2020 è stato pubblicato il saggio “L’aurora di New York geme. Note sul Lorca americano” di Lorenzo Spurio, introdotto da questa nota di apertura dello stesso Pardini:
“La prima parte è contraddistinta da uno scritto del critico Lorenzo Spurio e, a continuazione, nella seconda parte, si trova la traduzione dallo spagnolo all’italiano fatta dallo stesso critico, di un articolo apparso ieri sul quotidiano spagnolo “La Vanguardia”. Articolo veramente interessante, da cui emerge la versatilità dell’autore che sa adattare il linguaggio a qualsiasi ambito scritturale. Conosciamo bene, oramai, l’eclitticità di Spurio, la sua vena filologica, ma soprattutto il suo impegno critico dalle innumerevoli occasioni letterarie che ha elaborato sia sulla sua importante rivista (Euterpe) che in cartaceo. E qui ne abbiamo la conferma. Nell’articolo che ha tradotto figura, nel corpo del saggio, la statua di García Lorca nella Piazza Santa Ana di Madrid alla quale è stata posta la mascherina per via del Corona virus. Nel saggio ci sono un paio di brevi accenni a questa pandemia che stiamo vivendo”.
La statua di Federico García Lorca in Plaza Santa Ana a Madrid con la mascherina. Foto tratta dall’articolo su “La Vanguardia” citato nel saggio.
Ernesto Guevara, detto il “Che”, nacque a Rosario nel 1928 e morì a La Higuera nel 1967; simbolo della ribellione sociale nel nome di una società che concepisca gli uomini vedendoli come fratelli, di un’economia che sappia valorizzare il prodotto interno di una politica che sappia disfarsi delle retoriche per scendere in mezzo al popolo. Un rivoluzionario che ancora oggi è richiamato e impiegato come una bandiera socio-politica senza, però, capirne il significato che va rintracciato nei discorsi inerenti alla guerra di guerriglia, al suo diario boliviano e del diario della rivoluzione cubana.
Una prima opera da considerare è il saggio La guerra di guerriglia e altri scritti politici e militari (1967) in cui la rivoluzione popolare si basa sul nemico con il suo esercito militare statalista e sul suo avversario rappresentato dal popolo, costituito da contadini, operai, pescatori. Guerrigliero da Ernesto Guevara considerato ancor di più del semplice brigante, poiché è rappresentato dal contadino che ben conosce le sofferenze sociali che vive in prima persona, sulla sua pelle, i soprusi del potere dittatoriale. Angherie che spingono il guerrigliero a ribellarsi al potere totalitario; il rivoluzionario è il Salvatore delle masse, che deve trionfare nella lotta di guerriglia dove la sconfitta non è prevista. Vita, quella del guerrigliero, che si carica di un significato trascendentale, poiché la sottrazione della Vita del guerrigliero da parte del nemico. Elemento importante della lotta di guerriglia è la strategia operativa. Pianificazione caratterizzata dalla capacità d’azione del combattente che gli consente di fuggire da un contrattacco difensivo nemico, di muoversi meglio durante la notte, di prendersi gioco tatticamente dell’avversario, di attaccare improvvisamente il fronte nemico, di sfruttare a suo favore ogni fallimento del nemico e di conquistare la vittoria nel più breve tempo possibile. Strategia che, però, non può sussistere senza il boicottaggio che a sua volta non deve essere rivolto alle coltivazioni e alle lavorazioni mezzadre, ma, verso le centrali di energia elettrica, le centrali idroelettriche e le centrali di gas che simboleggiano il potere totalitario. Boicottaggio che deve avvenire attraverso un attacco aereo poiché è l’unico strumento in grado di creare danni irreparabili e perché consente di colpire precisamente le principali vie di comunicazione. Tattica e boicottaggio vanno affiancate alla cura dei feriti e al rispetto della popolazione civile. Il rivoluzionario è inteso da Guevara in due modi: educatore sociale e combattente. Educatore sociale che deve eliminare un organismo ingiusto (la dittatura) per sostituirlo con uno nuovo (la democrazia) che deve basarsi sulle sue conoscenze militari e sociologiche personali, ma anche sulle azioni e sui precetti da insegnare agli altri guerriglieri durante un determinato momento di lotta. Accanto all’educatore sociale c’è il combattente che deve essere originario del luogo in cui si sta svolgendo la guerriglia perché gli consente di usare a suo piacimento tutti i vantaggi del terreno. Combattente che deve essere coraggioso, avere una perfetta strategia bellica e deve trovare la luce anche nelle situazioni più sfavorevoli.
Non scordiamoci, inoltre, della figura del medico che è di vitale importanza; non si limita solo a curare le ferite causate dalla lotta, ma sostiene il guerrigliero eticamente e gli si mostra come un “divino protettore” che lo proteggerà fino alla fine. Accanto a guerriglieri ci sono le loro compagne, da Guevara viste pari ai loro compagni, in grado di usare le armi e di combattere, ma anche di organizzare la comunicazione segreta fra i vari gruppi guerriglieri. Operazione che consente di trasportare munizioni, armi, soldi, informazioni e di essere più libera dalla sorveglianza nemica perché ritenuta un soggetto non pericoloso. Un secondo e ultimo ruolo di vitale importanza è l’educazione dei bambini che gli consente di inculcare nelle nuove generazioni l’ideologia rivoluzionaria.
Importante è la propaganda della guerriglia che deve essere messa in atto attraverso i giornali locali e la radio, poiché sono in grado di diffondere i discorsi dei guerriglieri, gli attacchi nemici e di avvisare indirettamente il popolo alleato.
Una seconda interessante relativamente agli argomenti da me trattati è il Diario del “Che” in Bolivia o più semplicemente Diario in Bolivia (1968, postumo) la cui edizione completa e definitiva è da considerarsi quella del 2005. Questa opera contiene il resoconto guerrigliero di Guevara contro la dittatura di René Barrientos Ortuño nelle foreste boliviane, dal 7 novembre 1966 al 7 ottobre 1967, ovvero fino al giorno prima della sua dipartita. Diario dove il nemico non è visto come un avversario da eliminare ma come un alleato da recuperare e convertire. Operazione che può riuscire solo seguendo una determinata linea politica, da Guevara intesa come l’unica via da perseguire perché il non rispettarla significava esporsi gratuitamente al fuoco nemico. Altro fattore che risalta da questa pagine è l’accampamento, dal rivoluzionario argentino inteso come uno spazio vitale e dai toni mistici da proteggere, poiché lì risiede la linfa esistenziale del guerrigliero. Accampamento in cui viene attuata la condivisione degli alimenti e degli oggetti fra i vari guerriglieri, che simboleggia la fratellanza e attesta la fedeltà dei guerriglieri alla causa per cui stanno combattendo. Esercitazioni e azioni guerrigliere sono viste, infine, come le principali vie per diventare guerriglieri.
Una terza e ultima opera è il Diario della rivoluzione cubana (1996, postumo), ristampato nel 2002, dove leggiamo le fasi della rivoluzione fino al giorno cruciale di Santa Clara ovvero la conquista di Cuba e la caduta del regime dittatoriale di Fulgencio Batista y Zaldívar che porta alla nascita della dittatura di Fidel Castro. Opera dove leggiamo altri aspetti non meramente bellico-militari: l’igiene intima e l’alimentazione giornaliera, dal rivoluzionario visti come dei fabbisogni vitali in grado di mantenere i guerriglieri in ottima salute e di mutarli in esseri sovrumani, imbattibili e immortali; la cura dei nemici feriti per ordine di Fidel Castro, da lui visti sì come nemici, ma, ancora prima come Uomini da rispettare e da lasciar liberi di scegliere se arruolarsi nelle milizie ribelli o vivere come Uomini liberi. Accanto alla cura dei feriti nemici c’è la cura dei feriti ribelli che non sono visti come dei compagni d’armi ma come degli educatori che, dopo la vittoria su Batista, devono educare socialmente, civilmente e politicamente le nuove generazioni alla ideologia castrista. Un ultimo aspetto riguarda l’esecuzione dei traditori, da Ernesto Guevara intesa come una giusta punizione per il tradimento della fiducia dei propri compagni d’armi e come una punizione per l’infedeltà verso la causa della rivoluzione cubana.
STEFANO BARDI
Bibliografia di Riferimento:
GUEVARA ERNESTO, Diario del “Che” in Bolivia, Feltrinelli, Milano, 1968 e 1969, 1972, 1977, 1973, 2005.
GUEVARA ERNESTO, Diario della rivoluzione cubana, Newton, Roma, 1996 e 2002.
GUEVARA ERNESTO, La guerra di guerriglia e altri scritti politici e militari, Feltrinelli, Milano, 1967.
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