N.E. 01/2023 – “Risonanze emotive e cognitive nel romanzo “Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli”. Saggio di Lucia Bonanni

                                                                           Se hai un dolore

                                                                           pensa alle stelle e al mare

                                                                           alla tenerezza dei petali  alla forza

                                                                           del germoglio minuscolo che rompe la scorza

                                                                           della ghianda e della castagna.

                                                                                                                                        Joyce Lussu

Daniele Mencarelli, poeta e romanziere, nasce a Roma nell’aprile del 1974. Attualmente vive ad Ariccia, nei Castelli Romani. Ha all’attivo diverse raccolte di poesia tra cui “Tempo circolare”, edita nel 2017 per i tipi di Pequod. Col suo primo romanzo “La casa degli sguardi”, Mondadori 2018, ha ricevuto i premi Paolo Volponi, Severino Cesari opera prima, John Forte opera prima e il Premio Strega Giovani con “Tutto chiede salvezza”, pubblicato da Mondadori nel 2020.

Il romanzo “Tutto chiede salvezza” é una storia vera, un cammino a rebours  fino al 1994, uno scritto autobiografico in cui l’autore narra l’internamento nel reparto di psichiatria per essere sottoposto a TSO, trattamento sanitario obbligatorio, per un’esplosione di rabbia “sui muri, sullo schermo del televisore, (e suo) padre come cosa morta a terra”[1]. “Una selva d’occhi” sono i suoi compagni di stanza. Cinque uomini emarginati, esclusi, reietti, non riconosciuti. Cinque individui strambi, bizzarri, stravaganti, ciascuno con la propria storia che insieme a lui dividono lo stanzone dell’ospedale. Sono Mario, Gianluca, Alessandro, Madonnina, Giorgio. “Maria ho perso l’anima! Aiutami Madonnina mia”. Daniele non ha fatto in tempo ad entrare nel reparto che un forte odore di bruciato insieme ad un fuoco che arde, si leva dai suoi capelli. Accanto a lui uno sconosciuto e per di più con un accendino in mano.  Madonnina é un quarantenne dall’aspetto “allucinato, sporco, secco da fare paura” non dice parola tranne che per implorare la Madonna. Le sue gambe assomigliano a rami secchi e le sue pupille sono inaccessibili, indecifrabili, vive di una “vita oscura”. Daniele ha paura, vorrebbe fuggire. Il ricordo della sera precedente lo assilla. I sensi di colpa  si annidano nella mente. Si addormenta, desiderando le lacrime  che non riescono a salire in superficie. In quel “contenitore di malattie e disperazione, di follia lucidissima” entra un “passo anziano” che si ferma davanti al letto del figlio. “Ciao Ma” le dice Gianluca mentre si ricompone e cerca di nascondere il tremito di paura.  La ferocia discorsiva della donna ancora si abbatte sul figlio, evoca un passato di  dolore con un presente di quanto lei ha prodotto sulla propria creatura per una forma di acredine, acuita nel tempo. “ ‘Sta stronza!”. Le lacrime, i sembianti sconvolti, gli occhi allucinati dicono tutto della sofferenza di Gianluca, un patire a cui viene  negato persino di poter amare. E questo perché, come  ripete la madre, tutto fa parte della malattia, anche il fatto di essere omosessuale. Il ragazzo che sta di fronte al letto di Daniele, si chiama Alessandro. Ha più o meno la sua età, lo sguardo assente, non smette di guardare “il vuoto assoluto”, mangia soltanto se é il padre a imboccarlo. L’uomo racconta di quando suo figlio gli faceva da manovale e di quella mattina che lui era andato allo smorzo e al suo ritorno aveva trovato il ragazzo in quelle condizioni. “Ma pe’ ‘n muro se po’ rimané così?”. Accanto alla grande finestra, il letto alla sinistra di Alessandro, é occupato da un uomo sulla sessantina. I suoi capelli sono ricci e canuti. La sua somiglianza con Brian May, il chitarrista dei Queen, ha qualcosa di incredibile. Un tempo faceva il maestro  e adesso si trova lì a causa delle sue stranezze. Gianluca va dicendo che Mario farnetica, che sull’albero vede un uccellino con gli occhietti di pece. Ma quell’animaletto esiste davvero! Gli occhi di Mario sono “campioni di dolcezza”, la violenza lo intimorisce, non riesce a mandare via il tormento dei suoi ricordi, sembra che affoghi nei suoi stessi pensieri e talvolta apapre come recluso in un recinto magico, invisibile. “Hai visto che me ‘so fatto?”. A interloquire é Giorgio, un “bestione” di circa trent’anni, dal torace enorme, i bicipiti possenti e un altezza notevole. Giorgio mostra a Daniele il braccio destro, segnato da una fitta teoria di linee. La piú remota si trova sul polso, poi le altre via via piú visibili fino all’ultima, quella sulla spalla, ancora fresca e con due punti di sbarramento al flusso di odio verso se stesso. Per questi uomini la pena da scontare non é quella del TSO, “magari fosse quella”. La condanna comminata dal fato é la “reiterazione del vissuto” ovvero la ripetizione di codici e significati emotivi e cognitivi. Una mattina la madre di Giorgio era uscita per andare al mercato e non era piú tornata. “Allora pure io vojo entrá” aveva urlato il bambino all’infermiere che lo aveva trattenuto perché voleva  seguire il nonno in quella stanza che sapeva di morte. A Giorgio viene negato  il diritto  di poter vedere la propria madre per un ultimo istante.  E cosí, tutte le volte che gli capita di reiterare l’eternitá di quel dolore, traccia una riga sul braccio, “come un cowboy col suo fucile”. Nella mente di Giorgio quella vicenda si trasforma in maledizione e, come tutti i soggetti che si trovano a vivere situazioni di forte disagio, lui si é sentito inadatto, inadeguato, escluso, reietto, indegno persino dell’amore della propria madre. I sensi di colpa si sono cristallizzati nella mente, portando tutto il suo essere, e a soli dieci anni, a restare come pietrificato accanto alla madre. Altre esclusioni, altre differenze, altre ostilità si  rovesciano  sulla testa di Giorgio. Gli viene pure impedito di fare la quinta elementare perché in classe o dava le botte o piangeva e l’insegnante aveva pensato bene di dire al nonno che il bambino doveva stare con quelli “come lui”. Ma come lui, come? Forse, quegli uomini con cui Daniele divide la stanza d’ospedale, ed anche una settimana della propria vita, sono la cosa che piú assomiglia alla sua vera natura che gli sia capitato di incontrare. “Salvezza”, la parola che Daniele si porta dietro sin dalla nascita, e non la dice a nessuno, tranne che a lui. La sua “malattia si chiama salvezza”. Il dubbio che spesso lo assale e lo fa tremare, non é tanto l’idea di essere malato, ma che “tutto sia una coincidenza del cosmo, l’essere umano come un rigurgido” di un atto cosmico. Da dentro l’armadietto Daniele prende il quadernone e la penna  che gli ha mandato la madre, sua prima ed unica lettrice. Per lui la scrittura é assai strana, per iniziare bisogna gettarsi a volo nel candore della  pagina bianca e poi si vorrebbe non fermarsi più fino a quando ogni cosa non é diventata parola. “Me l’hai portata la poesia?” gli chiede Cimaroli, il medico che lo ha preso in carico al pronto soccorso. Il giovane scrive poesie dalla terza media grazie all’intuizione della sua insegnante  di italiano. É in quel preciso momento che lui ha capito che scrivere non é un gioco, ma l’unico mezzo per raccontare ciò che lui vede, che gli esplode dentro. La stanza della televisione é deserta. Daniele si siede ad un tavolo ingombro di riviste, da sotto il braccio sfila il suo quadernone e nella prima pagina ritrova la sua “amante”, lasciata sul piú bello, e l’unico verso scritto: “Sei sempre tu che vieni a riprendermi”. Come in equilibrio su una corda tesa, Daniele ripensa agli amici che dalla cabina del papa si lanciavano nelle acque del lago. Ma perché tuffarsi? Perché sfidare la sorte, le incognite, i pericoli dei massi affioranti a pelo d’acqua? Perché dover rischiare la vita per una dimostrazione di pura follia? In quei ragazzi a prevalere non é la logica. Essi si tuffano, scoprono il senso del   passaggio alla vita adulta,  sfidano la morte, assumono  una nuova  consapevolezza di essere per e nella vita. Ma pure Daniele compie un tuffo spericolato, e lo fa nelle acque, a volte calme a volte tumultuose, della Poesia. Il suo quadernone é denso di scritture, parole vergate con la sua mano mancina, segni di cancellature, di versi amati e poi ripudiati, e nell’ultima pagina la lirica dedicata alla propria madre. “Cos’é?” gli chiede ad un tratto Mario che dal suo “recinto magico” lo ha visto col foglio in mano. “Niente. Cioé. Ogni tanto scrivo poesie”.  Il compagno di stanza lo esorta a leggere, ma Daniele dice che é meglio di no, che  si vergogna. “De noi, Danié?” adesso  a parlare é  Gianluca.  Al pari dei suoi amici dalla cabina del papa, malgrado l’affanno, Daniele si butta nella lettura. “Sei sempre tu che vieni a riprendermi/ne é piena la memoria/di te che spunti e mi porti via”. “É bella veramente. Grazie Daniele”. Ai complimenti di Mario si accordano anche quelli di Gianluca, nei suoi occhi, peró, c’é ben altro che il luccichio di quelli di Mario e neppure della risata di Giorgio a cui “piaceno (soltanto) i cartoni e i giornaletti zozzi”. É in questo momento di forte tensione emotiva che si cementa l’amicizia tra questi uomini,  si instaura un modo nuovo di relazionarsi con l’altro, si sperimenta il limite di ciascuno, si indulge a nuovi pensieri, é in questi attimi che  il niente diventa tutto, che il dolore e il pianto sono gemme dell’animo. Anche Mario ama la poesia, ne leggeva sempre ai suoi alunni. Per lui  “gli artisti hanno in comune con i matti una cosa: nessuno può dirgli cosa guardare e come guardarlo (e che) alcuni uomini scorgono nella bellezza il suo valore originario. Il paradiso”. Nella vita di Daniele sono entrate altre persone. Sono i “cinque pazzi” con cui ha condiviso quella settimana della propria vita. Sono i suoi fratelli, i “fratelli dati in dono dalla vita” in mezzo alla medesima tempesta che li accartoccia e li sballotta  come “l’osso  di seppia dalle ondate”. I nuclei tematici su cui é imperniata l’intera narrazione, sono la morte, la dissolvenza, il nichilismo, la solitudine, l’annullamento del proprio sé, il dolore, la paura, il senso della mancata libertà. Volendo tracciare una perimetrazione esegetica per ciascuno dei personaggi, si può affermare  che essi non sono niente altro la proiezione del “condominio” umano, presente nell’animo di Daniele. Madonnina, l’essere che “va in nessun luogo”, evoca la morte, e più che la morte l’oblio, la dimenticanza, l’abbandono, la sparizione del ricordo. Infatti nel capitolo che tanto si presta  ad essere interpretato come prologo al romanzo  l’autore scrive: “Nero e ancora nero. Questa deve essere la morte” e Madonnina con la sua magrezza spettrale fa pensare proprio alla morte, soprattutto a quella dell’anima. “Maria ho perso l’anima!Aiutami Madonnina mia!”. Perdere l’anima, sprofondare nell’abisso, non tornare mai più in superficie, essere assorbiti da quella  tempesta, eterna, implacabile, che scuote l’animo.  Il dipinto del pittore svizzero Arnold Böcklin, “L’isola dei morti”, molto si addice alla figura di Madonnina, un uomo inerme, indifeso e dimenticato, che rinuncia a se stesso per navigare verso un luogo-non luogo. Con la sua voce da ragazza Gianluca richiama il binomio Eros-Thanatos dove Eros rappresenta la forza generativa della sensualità, contrapposta alla componente distruttiva e all’impulso di morte. Alla figura di Alessandro, diventato insensibile, immobile, statico, sempre intento a fissare il nulla, si può attribuire il richiamo alla insorgenza degli sconfinamenti dell’ansia nella depressione. Guido impersona la parte umbratile di tutto il romanzo, il “bestione” rimasto bambino che  non riesce a pacificarsi con se stesso, che non  sa trovare la consonanza tra causa – effetto, che nel mistero insondabile del proprio dolore si mostra istintivo e irrazionale, aggiungendo patire al patire. Il suo “male di vivere” é visionario, sospeso, delirante, un male arcano, un soffrire  che lo fissa al ceppo antico della pena. Diversamente da tutti gli altri personaggi, Mario possiede una capacità percettiva dell’esistenza, libera, originale, critica e mai sfumata, una visone del mondo dalla portata simbolica,  rigorosa e attendibile. In quel “girone infernale”, che é l’ospedale psichiatrico, Mario é il Virgilio che rappresenta il pensiero umano quale immagine ed espressione del proprio sé con la precisa volontà di attrarre l’amore per la sapienza, la Phlóphia. Come potrebbe  sembrare, il personaggio cardine del romanzo non é Daniele e neppure il motivo della pazzia. La tematica intorno a cui si snoda tutto l’iter narrativo, é la Poesia, la creativitá artistica che porta salvezza. Ció si evince non soltanto dal fatto che l’autore  ha esordito con raccolte poetiche, da quanto dice a Mario dopo aver ascoltato la lettura del  componimento, ma anche dalla  forma grafica del testo nello stile del verso lungo novecentesco come pure in quello di Walt Witman di “Leaves of grass” con  spazi bianchi, l’alternanza di versi lunghi a versi corti, versi sfalsati, il testo della lirica e non ultima la fluidità  della scrittura in prosa poetica. 

“Qui dentro de mio non c’é più niente” e infatti  là dentro  di Daniele non c’é più niente! Gianluca é uscito poco prima di lui, dopo la caduta dalla finestra Mario é ricoverato al San Camillo e Giorgio é finito nel reparto psichiatrico del carcere di Velletri. Sarebbe bastato talmente poco. Sarebbe bastato concedere una sola volta, una volta soltanto. Giorgio non avrebbe corso il rischio di essere ingoiato dalla reiterazione del  proprio vissuto, non avrebbe aggredito medici e infermieri. Lui aveva chiesto,domandato, implorato  salvezza. “Stavòrta sì. Stavòrta me la fate vedé”. E invece niente. Non lo hanno  ascoltato e  adesso  si trova in quella stanza d’ospedale, consumato dalla solitudine.

Daniele non ha avvisato nessuno. Vuole tornare a casa da solo. Camminare a passo lento. Fermarsi per qualche attimo a guardare indietro. Lasciarsi conquistare dalla Bellezza mentre  tutto gli chiede salvezza.” Per i vivi e per i morti, salvezza”, per i suoi fratelli donati dalla vita, “per i pazzi, di tutti i  tempi, ingoiati dai manicomi della storia”.

Le citazioni presenti nel  saggio sono tratte dai testi inclusi nei riferimenti bibliografici

                    RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Mondadori, Milano,  2020

Walt Whitman, Foglie d’erba, BUR, Milano, 2004

Eugenio Montale, Ossi di seppia, Mondadori, Milano, 1994

Federica Trenti, Il novecento di Joyce Salvadori Lussu, Le Voci della luna, Bologna, 2009

Eugenio Borgna, Le figure dell’ansia, Feltrinelli, Milano, 2015


[1]     Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Mondadori, Milano, 2020, pag 14

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“Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli. Recensione di Gabriella Maggio

Recensione di GABRIELLA MAGGIO

Daniele Mencarelli scrivendo Tutto chiede salvezza (Mondadori, vincitore nel 2020 del Premio Strega Giovani) consegna al lettore un libro coraggioso e sincero. L’autore si racconta senza nascondersi nelle parole, mettendo a nudo il disagio esistenziale di chi ha dichiarato guerra alla vita, ha aperto porte invisibili assumendo ogni genere di droghe, ha creduto a tutto, poi ha rinnegato tutto con l’unica certezza di non avere trovato quello che cercava. Nella narrazione autobiografica Daniele disarticola i falsi miti contemporanei che vogliono tutti noi vincenti, felici, perfettamente realizzati e omologati. Sferza le famiglie ansiose, ossessionate dal successo dei figli,  ma anche lancia un  j’accuse  ai sanitari indifferenti alla sofferenza ed ai bisogni dei  malati. C’è tanta umanità, desiderio d’amore e d’attenzione nei degenti di quello stanzone del reparto psichiatrico in cui Daniele si ritrova e dove inizia un viaggio alla scoperta di sé attraverso le debolezze e la fragilità dell’altro accettato senza giudicarlo. Tutto chiede salvezza si può anche definire il racconto del nostro limite, concetto non di moda, ma essenziale. La focalizzazione adottata da Mencarelli ha qualcosa di leopardiano nel guardare la realtà e restituirla nella sua crudezza, senza illusioni, senza nulla concedere a forme consolatorie. La storia è ambientata nella torrida estate del ’94, l’anno dei mondiali, ma Daniele Mencarelli non potrà seguirli con gli amici perché per una settimana deve subire il TSO, trattamento sanitario obbligatorio, in un reparto psichiatrico. Ha appena vent’anni Daniele e da tre anni è alla ricerca di un ancoraggio che non trova neppure nelle cure che gli sono state proposte dai medici; un gesto fuori controllo lo porta in ospedale. L’incontro con Madonnina, Gianluca, Giorgio, Alessandro, Mario è un’esperienza formativa per Daniele che lo porta a comprende che: “Semo tutti equilibristi, che da un momento a un altro uno smette de respirà e l’infilano dentro ‘na bara, come niente fosse… Salvezza. Per me….  Per tutti… La mia malattia si chiama salvezza, ma come?A chi dirlo?”. Sicurezza e incolumità dai pericoli desidera Daniele per tutti gli uomini perché: “A terrorizzarmi non è l’idea di essere malato, a quello mi sto abituando, ma il dubbio che tutto sia nient’altro che una coincidenza del cosmo, l’essere umano come un rigurgito di vita, per sbaglio…”.  Mario ex maestro di scuola dà dei consigli a Daniele: “fidati pure dei farmaci, dei medici, ma non smettere di lavorare su te stesso, di fare di tutto per conoscerti meglio”. A lui Daniele confida di scrivere poesie e di leggere poeti come Bellezza e Saba e di apprezzare la poesia onesta perché con le parole si deve “arrivà  all’osso, ce se deve spoglià, invece tanti poeti me pare ce se vestono, ce se nascondono dentro”. La poesia è uno svelamento di sé, uno strumento d’indagine che permette di ritrovarsi e di comunicare le proprie lacerazioni interiori. La narrazione di Tutto chiede salvezza è divisa in sette capitoli, quanti sono i giorni che Daniele resta in ospedale. L’uso del dialetto romanesco mescolato all’italiano rimanda ai sentimenti più intimi, alla difesa dal modo esterno, al bisogno di rappresentare una realtà cruda. Ma non limita la comprensione per la sua vicinanza con l’italiano.

GABRIELLA MAGGIO

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