N.E. 02/2024 – “Preghiera”, poesia di Marina Minet

Prima che sia giorno devo finire una preghiera
pesare le parole una per una e darle in mano a Dio
come richiesta altissima

Devo finirla senza nessuna boria
con tutta l’umiltà che posso offrire
limandola in bellezza come un salmo
perché sia già un ascolto

Forse devo includere il mio amore, chi è solo, i viaggi dei bambini
chi ha steso i panni al buio e non potrà tornare presto a casa
perché l’amore è un’arte che sa spartire il tempo
curando in ogni cosa il suo valore

Difficile è comporla e farci entrare tutti
senza trascurare chi ha bisogno
difficile ignorare quel perdono
per chi dopo la guerra ha colto un fiore
pensando di curarlo anche domani
difficile è dirla di nascosto

sapere che il silenzio è della croce

*

Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Christine Lavant, stella abbandonata da Dio”, saggio di Loretta Fusco

Basta guardarla nelle rare fotografie che la ritraggono, per capire chi fosse Christine Lavant, la grande poetessa austriaca, nata nel 1915, originaria di un paesino della valle della Lavant, in Carinzia, nome che adotterà come suo pseudonimo, perché in realtà lei si chiamava Christine Thonhauser.  Nona figlia di un povero minatore, bambina gracile, affetta da scrofola e problemi agli occhi, oltre che da regolari polmoniti che la prostrarono impedendole una vita regolare, frequentò comunque la scuola elementare, ma la sua fu un’esistenza segnata dalla povertà e dalla malattia. Crebbe in un ambiente rigido e cattolico col quale non riuscì mai a identificarsi. Anche se le sue poesie e opere in prosa sono caratterizzate da un linguaggio moderno e fortemente simbolico, il patrimonio culturale é quello cristiano, orientato verso una religiosità naturale contraddistinta dal desiderio di sicurezza e di riconoscimento.

Questi giorni non diventeranno vita.
Forse già nel ventre di mia madre il mio destino
s’è coraggiosamente separato da me
e se n’è andato – audace come io non sono mai stata –
sulla stella abbandonata da Dio
ed è rimasto là, s’è messo a dormire
e forse sogna ciò che mi deve accadere
con le tempie luccicanti.
Maliziosa mi lascio portare dal vento
vicino al focolare della realtà
mi lascio abbrustolire, mi lascio sbucciare
e da coloro che sono amaramente delusi
mi lascio risputare nel fuoco
o nell’acqua salata.
Là spesso rifletto e mi chiedo, se Dio sappia di me
se ci siano spiriti custodi anche per quelli come me
e se il sacro nucleo dell’anima
ce l’abbiano davvero solo i sani
che rompono le noci con i denti
e prendono il destino degli altri per il loro.
Nel fuoco e nell’acqua nessuno è lucido –
Perdonatemi Dio Padre, Figlio e Spirito Santo!
Voi siete una trinità e io sono così sola
e nessuno lassù risveglia il mio destino.

La poetessa e scrittrice austriaca Christine Lavant (1915-1973)

Thomas Bernhard, suo conterraneo, la porterà alla luce, e curerà personalmente un volumetto di sue poesie, 81 in tutto, scegliendole dalle sue quattro principali raccolte. Le consegnerà al suo editore nel 1987 avendo individuato in questa donna apparentemente fragile, un’interessantissima voce, isolata soltanto geograficamente entro i confini angusti di un’Austria nazionalsocialista, che lui stesso avversava. Nonostante il suo humus valligiano, la Lavant, sin dal suo primo volontario ricovero nel manicomio di Klagenfurt, dimostrò interessi culturali notevoli e una passione per Rilke, il poeta che ispirerà quasi tutta la sua opera. Bernhard, contrariamente all’immagine consolidata, la sottrae all’idea che fosse un Ligabue della poesia, esaltandone l’intelligente e raffinata espressività poetica, anche perché, nel tempo, la poetessa aveva intessuto una rete notevole di relazioni e contatti con i massimi esponenti dell’avanguardia viennese.

La sua poesia coniuga l’attaccamento alla terra, la tradizione, i riti liturgici, il folklore, a una sete inestinguibile di infinito. La sua è un’invocazione a un Dio sordo e cieco, verso cui inveisce con rabbia, nel dolore inascoltato che l’attanaglia. Rivendica con orgoglio il diritto a esistere come creatura di Dio, dimenticata e abbandonata a se stessa.

Dice Bernhard, nella prefazione al libro da lui curato: “Questo libro documenta la cronologia della vita di Christine Lavant che fino alla morte non ha trovato né pace né tranquillità e che nella sua esistenza si è flagellata attraverso la sua persona ed è stata distrutta e tradita dalla propria fede cristiano-cattolica; si tratta della testimonianza elementare di un essere umano strapazzato da tutti gli spiriti celesti, un essere umano, che altro non è se non grande letteratura, meno conosciuta nel mondo di quanto meriterebbe. La scelta qui proposta segue solo il mio intento e quello di nessun altro”.

Dimentica il tuo ciarpame, Creatore!

O sarai creatore

di ciò che è cadavere e lo rimane

e si unisce alla terra

ben più volentieri che al cielo.

Vai, continua ad ammantare i gigli

corrompi pure i passeri con il miele vergine –

io vivo di ruggine e muffa.

Tu dici che questo non mi sazia

e blateri della città di Dio

che molti conquistano con il digiuno.

Non io! Mi piace vivere nell’argilla

per diventare pietra e tuttavia

mai esserti di peso.

Le sue insicurezze risiedono nella sua fragilità fisica e psichica. Sin da piccola dovette rimanere a casa occupandosi di lavori domestici e cucito, cosa che lei fece con scrupolo anche per riuscire a mantenersi. Non disdegnava la lettura e la scrittura tanto che si rivolse a un editore di Graz per pubblicare il suo primo romanzo, che distrusse dopo che fu definitivamente respinto nel 1932, questo a testimoniare una personalità immatura, ma già provata dalle delusioni della vita. Nel 1935 si ricoverò spontaneamente al manicomio di Klagenfurt dal quale uscì dopo qualche tempo. Morti i genitori, si trovò in condizioni economiche disastrose sostenuta solo dal suo lavoro di cucito e dal supporto finanziario dei fratelli. Decise allora di sposare il pittore Josef Habernig, molto più vecchio di lei.

Le poesie della Lavant sono state definite preghiere blasfeme non solo perché si rivolge in modo irriverente a Dio ma soprattutto perché lo sfida. Emerge la sua natura semplice, franca, simile alla terra natia, dove nulla è concesso con generosità ma è la risultante di un lavoro duro e faticoso. La scrittura diventa elemento salvifico e testimonianza di vita subita, non agìta. Anche Ingeborg Bachman appartiene a quella terra ma da quella terra se n’è andata per trovare ispirazione e pace altrove. La malinconia che permea l’opera di entrambe si spande per quelle vallate dove il silenzio è rotto soltanto dal rimbombo dell’eco.

La Lavant sentiva ardere dentro di sé il fuoco dell’arte ma dovette soffocarlo perché la sua realtà oggettiva non le permetteva di realizzarlo e nessuno intorno lei, a partire dai medici dell’Ospedale psichiatrico in cui era stata ricoverata, erano riusciti a capire il suo desiderio di poetare, stroncando ogni sua velleità poetica, come denuncia nei suoi “Appunti da un manicomio”.

Sono nel reparto “Due”. E’ il reparto del’’osservazione per “i meno gravi” in cui di regola si arriva solo dopo essere passati dal”Tre”. Io non sono passata dal “Tre” e per questa ragione quasi tutti me ne vogliono. Ieri ho sentito dire dalla Regina a Renate: “Quella ci è piombata addosso con gli occhiali e la roba per scrivere. Che se la porti il diavolo! Che cosa è venuta a fare da noi? Probabilmente a spiarci, cosa altro sennò?!”… Renate si è limitata a risponderle: “Ah, eccola che riattacca con queste storie”. Ma poi a sera è venuta dirmi che aveva di nuovo bisogno dei suoi fermacapelli e che doveva riprenderseli. Peccato, non per i fermacapelli, ma per Renate perché credevo che avremmo potuto stringere una qualche amicizia. Fin dal primo giorno ho provato simpatia per lei, per questi suoi occhi muti e malinconici e per quel sorriso evanescente e dimesso che certo mette un po’ di tristezza, ma che non fa paura come la risata delle altre. Dall’altra parte ci si abitua incredibilmente presto ai visi e a discorsi più strani…]

Morte diffamata, per me sei così bella!Già di mattino ti penso come la mia capanna,dove la sera mi trasferirò,e penso che sopra la capanna brillerà una stella.Nemmeno del trasloco ho paura!Certo, prima bisognerà bruciare molto,prima di tutto il corpo con tutte le sue bramee dell’anima ciò che qui si è accumulatoin fatto di coraggio e di allegria.Solo il mio amore, morte, lo porterò con me!Per lui, se davvero sei il mio rifugio,dovrai preparare l’angolo migliore della mia capanna,e se possibile mettici anche una finestra,perché la stella, la buona stella di cui parlo,la possa colmare di tutta la consolazione,che qui non gli ho mai potuto dare.

Le sue invocazioni a Dio ricordano quelle di Rilke, il poeta che la Lavant sentì più di tutti. Lei grida a Dio la sua impotenza, con veemenza e spirito combattivo ben sapendo che il suo urlo disperato è un atto di rassegnazione.

Voglio condividere il pane con i pazzi,ogni giorno un pezzo di questo grande orrore,anche la campana nel cuore,là, dove il colombo fa il nidoe trova un minuscolo asilonella selva sulle acque.A lungo ho vissuto come pietrasul fondo delle cose.Ma ho sentito la campanaSussurrare il tuo segretonei pesci volanti.Imparerò a volare e a nuotaree lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietralascerò la malinconia coricata nella madreperla,ma solleverò in alto la rabbia e la miseria.Le mie ali sono più antiche della tua pazienza,le mie ali sono volate oltre il coraggio,che s’era fatto carico dell’errare.Voglio condividere il pane con i pazzilà, nella spaventosa selva del colombodove la capanna divide in tre parti il grande terroretrasformandolo nel suono tripartito del tuo nome.

***

Ti ho tuffato nella mia rabbia!

Ora sei d’acciaio sopra la terra

e sotto, mansuete, avanzano le tue radici

tra pietre scricchiolanti.

Non portarmi il grano! Non ti ho reso acciaio

per saziarmi o addormentarmi

a me spetta la metà di quella mela

che matura tra i rami dell’albero del serpente.

Spada o giglio – tu li sei entrambi a metà!

Voglio scagliare in alto la tua affilatezza

ed essere dolce sorella della terra

e indurre in tentazione Dio come lui ha fatto con me.

Ti ha tuffato tre volte nel mio cuore

e ti ha ordinato di rinunciare a lui

ma io ti ho immerso nell’acciaio della rabbia;

ora porta a suo figlio la mia metà della mela!

***

Mentre io, turbata, scrivo,

nel disco della luna piena brilla

la parola che osservo

da quando la colomba mi ha deriso

perché dallo specchio dell’acqua

senza nome, senza sigillo,

entravo nell’arido.

Non fosse cresciuta

la semina dell’osservazione

dovrei uccidere luna e colomba

che sempre m’ingannano

e fanno il nido sul mio albero del sonno

che per questo rinsecchisce.

Spesso una parola s’imprime a fuoco

da sé nella sua corteccia,

e allora mando quel cieco

messaggio, che inutilmente si rigira

aggredendo il tuo sonno

mentre nel disco della luna

è in salvo la risposta.

Christine Lavant morì a Wolfsberg nel 1973, all’età di 57 anni. Non lo sapeva allora che la sua voce sarebbe diventata alta e sarebbe uscita da quei confini che lei aveva sempre considerato un limite alla sua brama di libertà.


(Le poesie scelte appartengono al volumetto Christine Lavant, Poesie, scelte da Thomas Bernhard, nella traduzione di Anna Ruchat. Effigie Edizioni).


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – Le “Poesie mistiche” di Rumi. Recensione di Laura Vargiu

Affrontando il discorso sull’affascinante connubio di poesia e spiritualità, il pensiero non può non correre alla tradizione poetica sufi di ambito islamico. Al suo interno spicca in particolare l’opera di Rumi, tra i massimi poeti mistici della letteratura persiana.

Una breve, ma necessaria premessa: il sufismo, la corrente mistica dell’Islam, affonda le sue radici in un’epoca assai lontana, man mano che prese a diffondersi la nuova fede a partire dalle grandi conquiste arabe; sufi è il mistico musulmano, così chiamato per via degli indumenti di lana ruvida indossati dai primi asceti (la parola araba sūf, infatti, significa “lana”). La poesia sufi si contraddistingue per il suo messaggio di pace universale, l’amore verso Dio, cui ci si rivolge in maniera incessante, e la sua contemplazione, lungo un percorso ascetico e spirituale che conduce l’uomo a prendere coscienza della propria dimensione cosmica. In generale, si tratta di un tema alquanto complesso, nonché di nicchia, ma ciò non impedisce di leggere con estremo piacere le importanti opere letterarie nate in seno appunto al sufismo. E tra queste, come anticipato sopra, non può mancare quella di Rumi.

“Dopo la morte, non cercare la tomba mia nella terra: nel petto degli uomini santi è il sepolcro mio!”

Nato in una famiglia di lingua persiana in territorio afghano agli inizi del nostro XIII secolo, Jalal ad-Din Muhammad Balkhi meglio noto con il nome di Rumi, fu teologo e poeta, nonché fondatore della confraternita sufi dei famosi dervisci danzanti. A parte una serie di spostamenti in varie località del mondo islamico in determinati periodi della sua esistenza, egli visse a Konya, nell’attuale Turchia, dove morì nel 1273. 

Due sono le sue opere principali, entrambe di notevoli dimensioni: il lungo poema a rime baciate denominato Masnavi e il Dīwān; un breve, ma significativo estratto di quest’ultimo titolo è rappresentato dalla raccolta antologica Poesie mistiche, pubblicata agli inizi degli anni Ottanta dalla casa editrice Rizzoli a cura e traduzione di Alessandro Bausani (1921-1988), nome senza dubbio tra i più importanti dell’orientalistica italiana.

Il Dīwān (Canzoniere) di Rumi è costituito da un numero impressionante di odi per un totale di circa cinquantamila distici distribuiti in numerosi volumi. L’opera, per forma e contenuti, rientra nei canoni classici della lirica persiana, riprendendo metri e simboli a essa tutt’altro che estranei. Un’emozione particolare, tuttavia, permea i versi del poeta che risuonano con pregevole originalità, mentre spezzano rigidità per così dire tecniche e conducono – come sottolinea il curatore dell’antologia – “a licenze poetiche non sempre perfettamente «canoniche»”.

“[…] O viandante! Non legare il cuore a nessuna dimora,/ perché soffrirai quando te ne strapperanno via./ E poi che tante dimore hai percorso/ da quando eri goccia di sperma fino all’adolescenza,/ prendile a scherzo, che a scherzo le possa lasciare:/ rinuncerai a poca cosa e alto compenso ne avrai!/ Prendi invece sul serio Colui che ti ha preso sul serio;/ Primo è Lui ed ultimo: cerca Lui solo! […]”.

L’Islam, cultura alla quale Rumi appartiene per nascita, in queste pagine è presenza certa e costante attraverso riferimenti espliciti (come alla Fātiha, sura aprente del Corano, alla qibla, la direzione verso cui il devoto musulmano prega ogni giorno, o ancora alla Ka’ba meccana stessa) che contribuiscono a dar vita a scenari orientali di notevole fascino in un intreccio di immagini variegate che abbracciano distese di cieli e deserti, colori di aurore e tramonti, ombre di carovane, voli di falco e profumi di giardini fioriti; quello di Rumi, popolato tanto da maestri spirituali quanto da cammellieri, è un mondo semplice dove l’anelito verso il divino si mostra quasi assillante. Le odi in questione, come del resto la poesia sufi in generale, fanno però propria anche la tolleranza in materia religiosa, tant’è che alla morte del poeta, secondo gli studiosi, presero parte ai funerali sia i musulmani che le comunità di ebrei e cristiani di Konya.

“Vieni, deh vieni! ché da quando partisti più non mi resta né ragione né fede,/ e ogni calma e ogni pace partirono da questo povero cuore.”

La scrittura di Rumi si rivela intrisa di una spiritualità profondissima; un senso di devozione autentica e sincera che, inoltre, si prodiga dispensando consigli: tra i vari, evitare l’attaccamento alle cose materiali, viaggiare anzitutto dentro se stessi, addirittura non intraprendere lunghi viaggi (all’epoca ancor più lunghi e rischiosi) per andare in pellegrinaggio nella lontana Arabia, malgrado l’hajj alla Mecca – da compiersi almeno una volta nella vita – sia uno dei pilastri fondamentali dell’Islam.

“O gente partita in pellegrinaggio! Dove mai siete, dove mai siete?/ L’Amato è qui, tornate, tornate!/ L’Amato è un tuo vicino, vivete muro a muro:/ che idea v’è venuta di vagare nel deserto d’Arabia?”

Nell’insieme, un’opera poetica antica che, grazie al lavoro di selezione e traduzione di Alessandro Bausani, riesce ancora a offrire un testo molto interessante e coinvolgente anche al lettore di oggi. Un classico della letteratura persiana (e mondiale) intramontabile!


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – Due aforismi di Emanuele Marcuccio

La poesia deve avere sempre un senso universale e utilizzare volgarità, turpiloquio e simili “amenità” in una poesia, prima di tutto è illogico perché è quanto di più particolare e ordinario possa esserci, poi è di cattivo gusto e denota poca creatività per esprimere rabbia e quant’altro. Diverso è il caso della prosa, dove l’utilizzo di parole volgari può essere giustificabile per una maggiore caratterizzazione dei personaggi.

*

Il dono della poesia è inestimabile, è dono di Dio per consolare il poeta del dolore del proprio sentire.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“Sul far della poesia” di Guglielmo Peralta. Recensione di Gabriella Maggio

Recensione di GABRIELLA MAGGIO

Dal finito all’infinito, dall’opacità alla verità, dal deserto al canto che vince la rovina è la tensione che anima Sul far della poesia, raccolta poetica di Guglielmo Peralta, edita da Spazio Cultura nel febbraio del 2022. Il poeta, come enuncia il titolo, vuole esprimere il momento aurorale della poesia, l’attimo in cui l’etimo privato diventa segno universale della condizione umana.

Attorno a questo nucleo concettuale Peralta si rivela sottile, inquieto, indagatore, attento all’accento profondo della cultura e alle riflessioni dell’intelligenza, sentiti come manifestazioni di una superiore realtà. Dai segni sensibili, percepiti dallo sguardo, grafia che sottolinea una lacuna, un’assenza tra l’io e il vedere, dal lampo che il velo squarcia ha origine la poesia: dove hanno radici / il canto il sogno la parola. Enell’istanza della parola che “finge”, plasma, il mondo Peralta trova il frutto del mio senodove nasce e dimora / l’universo.

La Poesia è “vetta e abisso”, regina dei sogni, fata benevola…  vita autentica: e io vivo sì io vivo  / per la grazia di un verso / per questa sacra ostia dove / Poesia / si transustanzia… Ma il fare poesia non è immediato o scontato, mantiene sempre  un qualcosa d’enigmatico e misterioso: Solo qualche miraggio offre /la Bellezza specchio dell’invisibile. E il miraggio deve trovare un’eco, una corrispondenza con lo stato in cui si trova il soggetto che le darà espressione.

L’avventura della Bellezza, nascosta nella complessità della realtà, dà al poeta uno stato di grazia che lo conduce all’Anima del mondo a scaldarsi al fuoco sacro della Poesia. Il paradiso del canto si dipana spesso nell’atmosfera  solitaria della notte: Nel respiro dell’aria assopita è la mia felicità e la mia pace… e sono terra vergine nel giardino soale /  dove il sogno  scava la mia notte. O anche Non è forse feconda la notte d’ideali favelle? Nell’eco di Novalis: Sacra, ineffabile, arcana notte, come si legge nel I Inno alla notte.

Prezioso l’aggettivo soale che coniuga sogno come immaginazione creatrice e realtà. In un mondo di conflitti nascosti e palesi il poeta, nuova Shérazade, allontana l’orrore e dà voce all’invisibile attraverso il suo canto, che è sempre un canto d’amore per uomini e cose.

Chi ha paura dei poeti? La barbarie che opprime i popoli / teme la loro parola / che nel silenzio e nel buio / urla e scintilla / e si fa voce del mondo / dono prezioso e fionda / contro i filistei di ogni tempo / Davide è la poesia che vince Golia.

La raccolta è divisa in tre sezioni Delle brame e delle meraviglie, Abitare l’essere, Nove. Se la prima sezione, come enunciano chiaramente le brame e le meraviglie della Bellezza è un inno alla poesia e alla letteratura che culmina nei cinque componimenti dedicati a Proust, la seconda affronta il silenzio di Dio.A lui Peralta chiede di schiodare l’uomo dalla sua croce, dal libero arbitrio che diventa licenza di morte.

Si amplia in Abitare l’Essere l’uso del linguaggio liturgico, il senso sacro della poesia. Nove sposta l’attenzione sul mondo che dorme nella la vedovanza di lingua e d’amore, nello spreco della sua autonomia. L’ultimo testo Epifanie compendia il significato dell’opera: Fare poesia / Praticar la bellezza / Bene del mondo.

La poesia di Guglielmo Peralta è pura, intensa creazione intellettuale, che non ignora, ma trascende la realtà sensibile, l’inferno quotidiano, per raggiungere la grazia della creazione, il canto, la gaia poesia che annuncia il rinnovamento dell’uomo. Il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi né l’uno né l’altro non può esser nel gener suo né perfetto né grande, s’ei non partecipa più che mediocremente dell’altro genere, quanto all’indole primitiva dell’ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell’immaginazione. Queste parole, tratte da I Pensieri di Giacomo Leopardi, illustrano a pieno il magistero poetico di Guglielmo Peralta.

GABRIELLA MAGGIO

L’autrice di questa recensione ha autorizzato, senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in seguito, alla pubblicazione su questo spazio. La riproduzione del presente testo in formato integrale o di stralci e su qualsiasi tipo di supporto è vietato senza il consenso da parte dell’Autrice.

“Un figlio dimenticato: Giuseppe Gerini”, articolo di Stefano Bardi

Monte San Vito è un piccolo paese dell’entroterra marchigiano con appena 6.887 abitanti. La sua economia si basa principalmente sulla produzione dell’olio e del vino. Uno dei suoi figli più illustri, sebbene sia per lo più dimenticato, è il poeta Giuseppe Gerini, qui nato nel 1895. Non si conosce il luogo e la data della sua morte; per poter avere maggiori note biografiche è necessario riferirsi alla storica Sandra Cappelletti[1] che riferisce che il poeta fu sempre legato al suo paese natale dove spesso ritornava durante i periodi estivi, per poter godere della calda affettuosità della gente ritrovandovi la sua interiore spiritualità.

Per mezzo delle ricerche condotte dalla Cappelletti emerge il “Gerini ardito” far part, nel Primo conflitto mondiale, al Reparto d’Assalto delle leggendarie “Fiamme Nere” e in seguito aderire al nascente Partito Fascista di cui – pare – condivideva le finalità. Di certo della sua vicenda umana si ricorda del suo insegnamento presso la scuola media di Fiume dove poi, da giornalista, fonderà, nel 1935, la rivista Termini. Presidente dell’Istituto di Cultura Fascista della Provincia del Carnaro, allo scoppio della Seconda guerra mondiale lo si vedrà lasciare l’incarico per arruolarsi, di nuovo, nel Reparto d’Assalto delle “Fiamme Nere”.

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Un’opera di Giuseppe Gerini

Come poeta Gerini ha lasciato numerose opere: Bonae manus (1928), Alanda (1929), In ascolto (1932), Nel mio eterno (1940), Armonie velate (1943), Motivi e canti (1944), Dentro celeste sponda (1949), Alba migliore (1952), Tre pietre (1956), Canti di Boccadasse (1959), e l’opera omnia Poesie 1928-1962 (1963).[2]

Poeta che può essere definito come vate lontano dalle canoniche ombrose tematiche della poesia italiana; le sue liriche siano colme di dolcezza, musicalità e trasparenza. I suoi sono versi dove traspaiono ansiose problematiche e interrogazioni al mistero che trasformano la sua lirica in una poesia atavica e immanente.

La sua produzione poetica ha origine dagli affetti familiari, in particolar modo esaltati ricordando con riferimento alla madre; nella poesia “Il pulcino” la figura materna viene concepita come una donna buona, generosa, spiritualmente straziata per la morte dei suoi quattro figli.[3] Madre, vista dal poeta di Monte San Vito, con gli occhi di un bambino, anzi di un pulcino, nel quale egli si riconosce e s’immedesima. La perdita materna, assieme a quella della figlia Magda[4], è ricordata nell’opera omnia Poesie 1928-1962, nell’ultima sezione dal titolo Elegie per Magda.

Accanto ai temi familiari, anche il tema della terra natia è presente nella poesia geriniana. Se ne ha conferma attraverso la poesia “Terra marchigiana”, dove la terra natale è vista dal poeta come un luogo magico in cui nascono fantastiche storie, che volano fino al firmamento celeste trasformandosi in nuvole, dalle forme familiari.[5] È nella poesia “Ridiscendo la costa” che il poeta, attraverso il potere magico della pioggia, rivede i suoi luoghi natali (campagne e campi di grano), come i luoghi dell’infanzia[6], nei quali egli stesso si sente protagonista sotto la forma di nuvola creata dal dolce suono di zufolo[7].

Famiglia, terra natia, natura, tutto questo si riscopre attraverso le poesie: “L’albero, il fiore”, “All’usignolo”, e “Il sole prigioniero”, quest’ultima dai toni futuristici come poi vedremo nel susseguo dell’analisi. Nella prima lirica questi due elementi naturali, sono concepiti dal poeta come delle creature con un’anima che, al pari degli Uomini, sono sottomesse all’amore che è gioia, bontà, fratellanza, ma anche lacrime, strazi, dipartite e, come gli Uomini, anche questi figli di Madre Natura, si godono attimi di quiete e consumano esistenze senza lacrime.[8] Nella seconda lirica c’è un forte rimando alla poesia “Il passero solitario” di Leopardi. In entrambi i poeti il meraviglioso canto degli uccelli viene messo in risalto poiché il loro canto, da sempre, conserva la sua trasparente, dolce musicalità. Niente di questo, però, è paragonabile al maestoso canto della natura costituito dal silenzio, che neanche il canto umano osa spezzare[9]. La terza e ultima lirica può essere considerata come una poesia futurista poiché, al pari della poetica marinettiana, la natura geriniana è una natura meccanica e bellica, dove i suoi uccelli d’acciaio, portatori di morte, sono dotati di un’oscura anima capaci di esaltare violenza, strazio, innocenti pianti.

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Uno scorcio di Monte San Vito, piccolo centro dell’Anconetano dove il poeta nacque.

Altri due temi sono trattati dal nostro poeta, ossia quello di Dio e quello sulla morte. Per quanto riguarda il primo, dobbiamo riferirci alle poesie “E, se ritorni” e “Siamo la tue messe”. Nel primo testo Dio è concepito dal poeta marchigiano come l’unico e vero “padrone” di tutti noi poiché, solo Egli, può comandare ogni nostra intenzione e solo Lui è capace di fermare ogni nostra mala azione.[10] Più precisamente un padre, che ci farà risorgere dopo la nostra dipartita, per vivere assieme a Lui un’eterna esistenza.[11] Nella seconda poesia, invece, gli Uomini sono paragonati a dei chicchi di grano in mano a Dio che saranno da Lui seminati per poi crescere in nuove Terre, senza che nessun vento oscuro li possa scalfire[12]. Per quanto riguarda il tema della morte o dell’eterno sonno dobbiamo prendere in considerazione la poesia “Cimiteri”. Luoghi, questi, dove l’unico linguaggio usato dal poeta è quel silenzio che a volte all’improvviso spezzato dal demoniaco canto del merlo, fa di conseguenza sanguinare il firmamento, accompagnando le anime che camminano sugli andini sacri dei cimiteri.[13]

STEFANO BARDI

 

Bibliografia di Riferimento:

Antognini Carlo, Scrittori marchigiani del Novecento, Ancona, Bagaloni Editore, 1971, 2 vol., Tomo II – Poeti.

Calcaterra Carlo, Scrittori dell’Ottocento e del primo Novecento, Torino, Società Editrice Internazionale, 1936.

Cappelletti Sandra, Monte San Vito: castello terra comune, Monte San Vito, Comune di Monte San Vito, 1999.

De Robertis Giuseppe, Scrittori del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1958.

Gerini Giuseppe, Poesie 1928-1962, Parma, Guanda, 1963.

Spurio Lorenzo, Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana, Sesto Fiorentino, PoetiKanten, 2016, 2 vol., Tomo I-Poesia in lingua italiana

 

                       

[1] Sandra Cappelletti, Monte San Vito: castello terra comune, Monte San Vito, Comune di Monte San Vito, 1999, p. 312.

[2] Lorenzo Spurio, Convivio in versi Mappatura democratica della poesia marchigiana, Sesto Fiorentino, PoetiKanten, 2016, 2 vol., Tomo I-Poesia in lingua italiana, p. 435; C. Antognini, Scrittori marchigiani del Novecento, Ancona, Bagaloni Editore, 1971, 2 vol., Tomo II – Poeti, p.120.  

[3] Giuseppe Gerini, Poesie 1928-1962, Parma, Guanda, 1963, p. 25 (“[…] or che degli otto folletti / quattro ti dormono in fila nei letti / del cimitero […].”)  

[4] Ivi, pp. 155-175.

[5] Ivi, p. 13 (“[…] La seta dei miei versi, / perché tessa nell’aria / care forme.”)

[6] Ivi, pp. 8-11 (“[…] Ridiscendo la costa, / anni belli, / zufolo / a quella stria di nuvole leggere.”)

[7] Zufolo = strumento a fiato tipico della Sardegna costruito in legno, che emette il suono di un fischietto.

[8] Giuseppe Gerini, Poesie 1928-1962, Parma, Guanda, 1963, p. 37 (“Creature, senza parole / schiavi d’amore e morte / anch’essi, / colgono l’ora serena, / l’attimo senza pena, […].”) 

[9] Ivi, p. 67 (“[…] lo spirito notturno delle valli / non la gola dell’uomo ti risponde.”)

[10] Ivi, p. 111 (“[…] a Lui che tiene  il mondo, tiene tutto, / regola il ritmo delle vene ai polsi: / regola e ferma […].”)

[11] Ibidem (“[…] Sarà per sempre tuo penso, / quanto ne avrai: e ciò che è tutto. / Si, tutto. Veramente.”)

[12] Ivi, p. 112 (“[….] E quali, lo sai tu che ci raccogli / e ci riposi. Siamo la tua messe, / Signore. E di noi / forse seminerai tutt’altri campi / al d là degli spazii oltre il tempo / per fioriture nuove e senza morte.”)

[13] Ivi, p. 147 (“[…] Segui le nere spole / che suonando improvvise / rigano l’aria e si occultano / nelle verdi dimore. / Odi il canto del merlo / lungo i mesti viali. / Adàgiati, se puoi / ad ascoltare come stanno i morti.”)

 

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La profonda spiritualità nella poetica di Anna Scarpetta. A cura di Lorenzo Spurio

La profonda spiritualità nella poetica di

Anna Scarpetta

a cura di Lorenzo Spurio

 

Non è semplice azzardare un commento critico organico sulla vasta opera poetica di Anna Scarpetta, poetessa di origini orgogliosamente partenopee che vanta di un’ascendenza familiare di tutto rispetto nel mondo del teatro napoletano e italiano, quella dei De Filippo-Scarpetta. Questa teatralità congenita nel sangue di Anna Scarpetta è una delle sue componenti fondamentali e, per chi la conosce, sa bene che la sua genuina spontaneità condita da un frequente ricorso a una mimica facciale evocativa, ne contraddistingue fortemente la persona e, oserei dire, anche il personaggio. Ci occuperemo qui, in questo contesto, della sua natura di poetessa che nel corso degli anni l’ha vista “scoprirsi” delle sue convinzioni esistenziali, credenze religione, vedute sul mondo e un recupero attento di luoghi e momenti che sono stati consegnati al ricordo. In questo breve percorso tra le suggestioni della sua poetica, sostenuta spesso da un fervido animo confessionale, ci soffermeremo sulle sue produzioni più recenti in ordine di tempo sottolineando da subito che la difficoltà incontrata dal critico nel fornire un giudizio analitico sulla sua opera è dovuta da una sorta di effetto di sospensione (e che necessiterà in futuro di rilettura e rivisitazione) essendo l’opera della Nostra un cantiere aperto, un working in progress che non ci consente di criticare, qui ed ora, in maniera insindacabile.

In Le voci della memoria (2012) si chiarifica subito una delle sfere semantiche-concettuali pregne di importanza nella produzione della Nostra, ossia quella che fa riferimento al mondo del tempo andato collegato al ricordo. Questo ricordo, palpabile pagina dopo pagina, a tratti trasfonde una sensibilità nostalgica e quasi crepuscolare, altre volte, invece, è il motivo d’indagine sociale del presente. La prima poesia raccolta nella silloge, “Le voci della memoria”, quella che dà il nome all’intero libro, ci inserisce subito in questa dimensione: il ricordo è forte e sempre vivo “ad ogni stagione, ogni amaro inverno, sempre”[1]. Il ricordo, sembra suggerire la poetessa, ci appartiene sempre, anche quando non ne siamo consapevoli ed è la somma di tutti i ricordi, di quelle pietre preziose, che danno senso al nostro esistere.

scarpetta-susanna - Copia
Anna Scarpetta

La lirica “Io sono qui” si configura come una sorta di preghiera laica nella quale la Scarpetta sottolinea l’importanza del hic et nunc: sono qui ora, penso, rifletto, mi faccio domande, considero il nulla, vaglio il mistero, sempre consapevole di quella cosa che ogni secondo si autodistrugge, il tempo. È questa una presenza costante nelle poesie di Anna Scarpetta: il tempo presiede ed osserva tutto, invisibile e a volte impercettibile e, come la morte –che poi è la fine del tempo-, è un’entità che ci rende umani e tutti uguali: “così tu, alla fine, tempo/ sei uguale per tutti dovunque” (11).

Le liriche della poetessa ci consegnano una poesia vivida e riflessiva, solo a tratti filosofica, di semplice lettura, frutto di un’attenta e continua analisi dell’inconscio di una donna ricca dentro, consapevole del trascorso del tempo e che ha fatto e fa tesoro dei momenti passati, per imprimerli sulla carta. È un tentativo, questo, di affrescare la vita anche se – come sostiene lei stessa- “ci vorrebbe un’altra vita/ per capire cos’è la vita” (12). Anna Scarpetta è una donna che non rifugge il passato, né che ci ha litigato, ma che ci dialoga, lo interroga e lo richiama quasi che esso fosse lì, personificato, davanti ai suoi occhi. È un passato fatto di gioie e dolori, come quello di ognuno di noi ma che in più punti appare come una grande mamma che accoglie, riscalda, protegge con la sua “calda memoria” (14).

Un interessante omaggio e lode al nostro paese è contenuto in “Italia bella patria” dove si fa riferimento alla grandezza del popolo italiano e dei suoi uomini illustri. Il canto dell’inno è –forse- il momento in cui l’Italia si riscopre fiera della sua italianità; per la Scarpetta l’Italia è “bella e sospirosa” (18), segno forse che c’è qualcosa negli italiani che provoca disinteresse, tormento, affanno e credo non sia errato leggere un riferimento alla presente crisi economica, causa di tanti disagi sociali. È infatti forte il tema sociale in “Soffrono i bambini del mondo”, un canto accorato dai toni cupi e mesti che parla di bambini orfani, soli, non amati, abbandonati, affamati, che la poetessa affida nelle mani della Madre: “avvolgi e consola” (21). Nella figura della Madre va vista la Vergine, la nostra madre celeste ma anche la Madre Terra, la divinità precristiana che si identificava con la Terra e ogni manifestazione attiva nella natura. Scorrendo da una poesia all’altra la poetessa mantiene un dialogo continuo con il dio Chronos “con il suo sguardo regale di marmo” (23).

La Scarpetta è una donna che dà tutto alla poesia e che, al tempo stesso, da essa riceve tutto. La poesia è fonte di conoscenza del mondo e di noi stessi, dà senso alle cose ma sa anche “lenire in silenzio e quietare il dolore/ di chi si accusa con colpa e patisce” (24).

Nella bellissima poesia “Chi siamo noi” la poetessa risponde che siamo dei sognatori, dei lavoratori, delle anime sensibili. Siamo ammassi di memorie, eredi del passato, viaggiatori. In “Verranno tempi migliori” si respira, forse, l’atmosfera più ottimista e speranzosa dell’intera silloge: la poetessa intravede tempi più felici e prosperi per tutti che saranno capaci di soprassedere alle logiche materialistiche e personalistiche dell’oggi (narcisismo, consumismo) attraverso la fede, unica vera arma di salvezza. In “Il tempo  è di Dio”, Anna Scarpetta ci ricorda che il tempo non è nostro ma che “è innanzitutto di Dio” (32) e che ci è dato sotto forma di un regalo. C’è l’implicito avvertimento a non sprecarlo, a dargli il giusto valore e a utilizzarlo bene. Rallentamenti, ellissi, retrospezioni, acceleramenti sono segni dell’utilizzo umano del tempo mentre il Signore ce lo ha affidato come una materia bianca, compatta e unica.

Insieme ad Anna Scarpetta
Insieme ad Anna Scarpetta

Nella successiva silloge, Sono soltanto un granello di sabbia (2013) si respira un’aria soave e pacata dove a dominare sono le immagini che fanno riferimento al mondo cattolico: molte delle poesie, in realtà sembrano delle vere preghiere, proprio per la profondità dei richiami e per la pervasiva e credente considerazione della vita quale percorso terrestre che si caratterizza per la sua finitudine.[2] La parola nelle poesie di Anna Scarpetta si fa lode, invocazione, condanna, rinuncia ed esortazione, ma essa è anche appello alla sensibilità dell’uomo, elogio dei sentimenti e apologia del credo cristiano. Non è un caso che sia proprio la prima lirica della silloge, “Io sono soltanto un granello di sabbia” che è quella che dà il titolo all’intera raccolta, che esordisca con questi versi: “Io sono, soltanto, un granello di sabbia,/ dell’immenso deserto, Signore” (7) in cui la poetessa, partendo dalla constatazione della minuziosità del suo essere in rapporto alla mondialità delle esperienze, evidenzia e rende grazia al Divino per il “dono” che le ha fatto: quello della poesia. Ma, siccome sappiamo che la poesia non è che la forma più autentica, vivida e sofferta di espressione umana, con questa espressione la poetessa non fa che eguagliare la poesia alla vita. E come si evince in questa prima lirica c’è una grande attenzione nella poetessa nei confronti del tentativo di auoto-definirsi, di identificarsi e di svelare agli altri chi è, come avviene anche nella poesia “Non so più chi sono”.

Centrale, come era stato per la precedente silloge poetica della poetessa, è il tema del tempo. Il colloquio che la poetessa intrattiene con esso si fa qui più aspro e si nota un certo indurimento del linguaggio dovuto, molto probabilmente, dalla desolante constatazione che esso è l’unico “eterno vincente” nella continua lotta della vita. La poetessa fornisce le più ampie caratterizzazioni per evocarlo (“il tempo,/ silenzioso, con la sua faccia di marmo scolpito”, 12; “il tempo, col suo volto annoiato”, 22; “il tempo, così infame e crudele”, 25; [tu], come statua regale”, 46, ecc.), e nella gran parte di esse si intuisce un certo disprezzo e sconsiderazione, che fanno seguito alla presa di coscienza della sua pericolosità e al contempo della sua tragica ineluttabilità. Ed è così che esso non è altro che “il vero palco delle pittoresche scene degli orrori” (8), cioè esso è un davanzale verso il mondo che assiste indisturbato e senza fretta alle rappresentazioni della vita, del mondo, delle famiglie, agli inganni e ai tormenti, alle guerre e ai sistemi di vendetta, ma anche ai momenti più belli che solo nel ricordo potranno conservare la loro leggiadria.

Il sentimento religioso è facilmente intuibile anche attraverso i chiari riferimenti alla vita intesa come percorso, come cammino errante e l’uomo come misero “abitante delle fatiche umane”, come pellegrino per le vie del mondo, a volte consapevole, altre volte meno ed obbligato ad esodi carichi di dolore a causa di guerre, scontri religiosi, deportazioni. Perché va subito osservato che varie liriche qui contenute hanno un forte intendimento civico, morale e mettono il lettore di fronte a realtà sociali endemiche, cancrenose, corrotte e ignominiose. Ècosì che Anna Scarpetta fotografa i massacri che avvengono al silenzio dei governi e dei mass media europei, come in Libano, dove la poetessa ci “narra” dei pianti e dei lutti di Beirut. Il pensiero non può non andare anche ai massacri in Sudan e quelli leggermente più conosciuti perpetuati da Assad, in Siria. Nella poesia “Libano” la speranza sembra esser ormai abbattuta e tutto ricade su una tortuosa domanda la cui impossibilità di risposta ferisce ancor più gli uomini di quella terra e demoralizza il mondo: “Agli occhi del mondo, tra due fuochi, ardi muto Libano,/ c’è chi si chiede, invano, ma tutto questo perché” (14).

copIl tema sociale ritorna nella lirica “Berlino est”, quadretto chiarificatore del senso di giubilo l’indomani dell’abbattimento del Muro che divise i berlinesi a seguito di un conflitto ideologico disprezzabile ed era presente anche in Le voci della memoria (2012) nella poesia che la poetessa aveva dedicato ad Anna Frank, la povera ragazza olandese nascostasi con la sua famiglia nell’appartamento di Prinsengracht  ad Amsterdam per vari mesi prima di essere scoperta e mandata in un lager. Con un ricco complesso aggettivale, la Scarpetta ripercorre i vari momenti dell’esistenza della ragazza, dalla giovinezza spensierata e felice mai avuta che, in altri contesti, le avrebbe di sicuro consentito di sviluppare una vita di soddisfazioni e di gioie terrene.

Si susseguono liriche più dolci e positive nelle quali la poetessa rievoca momenti passati e ricorda i suoi cari, soprattutto la madre, celebrata in due liriche e in maniera particolare nella bellissima “Sei volata via, madre” dove l’atroce ricordo della dipartita della madre è associata a una colorazione bianca, quasi accecante, che la poetessa vede e riconosce nella neve e nei gabbiani dal piumaggio candido. Ed anche qui, dove la lirica è pensata come commemorazione della madre, Anna Scarpetta non si risparmia per criticare la spietatezza di questo mondo nel quale siamo chiamati a vivere: “Sola sei andata via da questo strano mondo” (18). La “stranezza” del mondo è spiegata nella lirica “Il male del mondo” che è un vero pugno allo stomaco. In essa la poetessa plasma la parola in maniera meditata affinché sia acuminata, folgorante e distruttiva proprio come è l’efferatezza del mondo, la cattiveria diffusa negli animi imbarbariti nel nostro oggi: “Il male ha mostrato tutta la sua malvagità agli occhi del mondo/ coi suoi aguzzi artigli, graffiando volti di sfide verso il futuro/ ricacciando all’indietro tempi nuovi, che non sanno avanzare” (23). La poetessa non esplica quali intende essere i “mali” del mondo e lascia volutamente aperta la questione al lettore che può facilmente leggerli nell’aumento di femminicidi, nei suicidi per colpa della crisi economica, nelle inspiegabili tragedie familiari, nella bestialità di alcuni atteggiamenti umani e nelle invidie logoranti, negli abusi, nelle catastrofi naturali, ma anche nelle dolorose e fulminanti patologie a cui spesso non vi sono rimedi.

Per ultimo, ma non per importanza, ci sono liriche curiose dove Anna Scarpetta chiarifica la sua felice propensione nei confronti delle nuove tecnologie, esplicate soprattutto nel mezzo informatico al quale la poetessa riconosce grande capacità: con Facebook, ad esempio, si può ritrovare amici e parlare con loro, anche dopo tanti anni di lontananza e silenzio, e il web è molto positivo perché accorcia le distanze e fa viaggiare più veloce le notizie come sottolinea all’apertura di “Grazie a te web”. La versione digitale del libro, che oggigiorno sta combattendo una prima battaglia con il suo progenitore cartaceo –battaglia che a mio modesto parere sta perdendo e clamorosamente- è motivo addirittura di una lirica, “Ebook”, dove la poetessa ricorda, elogia e innalza il valore del cartaceo, custode di tradizione, fruitore di un contatto diretto e dispensatore del fresco profumo di stampa o acre di invecchiamento.

Il pensiero finale che la poetessa fornisce al lettore e sul quale si appella a una sua maggiore considerazione è quello che verte sul futuro: che cosa ci aspetta nei tempi a venire? Riusciranno le persone veramente brave e sincere a farsi valere in un mondo dominato da tante nefandezze? Anche la poetessa trasmette un sentimento d’incertezza al riguardo: “Da dove dovranno venire questi nuovi tempi/ carichi di profili, scolpiti di albe boreali, rinchiusi/ nell’immane destino che ancora non si profila” (41).

C’è bisogno di cambiamento e di gente valida che possa proporre una svolta. Subito. I tempi attuali sono fermi e stantii, pur nel loro ineluttabile incedere. Un plauso alla poetessa per darci tanti spunti su cui riflettere, predisponendo sulla carta timori che sono di tutti come quello dell’ombrosità di un futuro che si annuncia quale copia sbiadita di un difficile e depresso presente. A dominare incontrastato su tutto sono la centralità del passato e della tradizione, il senso e la validità dell’istituto familiare e la forza dell’insegnamento cristiano. La poetessa è talmente coraggiosa da pronosticare addirittura  un futuro scenario che la riguarderà nel suo rapporto con la poesia: quando la memoria verrà meno – e con essa tutti i vari ricordi- allora non sarò niente ed avrò perso tutto; in un’altra poesia osserva “voglio ricordare tutto, senza azzerare mai nulla”. È la parola che si fa testimonianza e che vive ogni volta che torniamo a leggerla.

LORENZO SPURIO

[1] Anna Scarpetta, Le voci della memoria, Ismeca, Bologna, 2012, p. 9.

[2] Aggiungo che Anna Scarpetta è stata recentemente premiata al I Concorso Letterario Internazionale Bilingue TraccePerLaMeta per la sua poesia religiosa dal titolo “Sulla via di Damasco”, ulteriore segno che evidenzia questa sua nuova apertura nei confronti di un genere poetico molto diffuso e seguito.

“Grazie a Dio. Storie di uomini e donne r/accolti dal mare”

GRAZIE A DIO

Storie di uomini e donne r/accolti dal mare

Racconti veri, di persone, di mare e di speranza.

 

 

copertina_grazieadioAlhamdulilah – Grazie a Dio è un mosaico di storie di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale e opinioni politiche vissute da giovani e giovanissimi ragazzi e ragazze provenienti dall’Africa sub-sahariana che durante la cosiddetta emergenza nord-africa sono stati accolti in Italia nel centro di accoglienza allestito in Calabria, a Falerna Marina in provincia di Catanzaro, tra il 2011 e il 2012. Proprio nel cuore dell’emergenza.

 

Le storie raccontate dall’autrice, la giornalista Valentina Tortelli, raccontano la doppia fuga dei ragazzi del centro. Fuggiti prima dai loro paesi di origine in Libia dove si stabilirono trovando casa e lavoro furono costretti a fuggire di nuovo quando il paese guidato dall’ex colonnello Gheddafi fu sconvolto dalle rivolte della cosiddetta Primavera araba e poi dall’intervento militare occidentale che sfociarono in una vera guerra civile.

 

In molti casi questi ragazzi e queste ragazze sono stati costretti dalle forze armate libiche ad imbarcarsi alla volta di Lampedusa senza neanche sapere dove erano diretti, l’alternativa sarebbe stata quella di diventare miliziani dell’esercito del defunto leader libico o peggio ancora essere scambiati per sostenitori di Gheddafi ed essere uccisi dai ribelli.

 

“Quelle non sono barche, journalist, sono rottami.

E nessun sano di mente si metterebbe là sopra di sua volontà”

 

Questo diranno all’autrice gli ospiti del Centro di accoglienza di Falerna Marina gestito dal consorzio di cooperative sociali CalabriAccoglie durante l’attesa per il riconoscimento di uno status che gli consenta di godere della protezione internazionale.

Nonostante l’assurdità di chi si trova costretto a fuggire due volte, i ragazzi nutrono un’infinita speranza nei confronti della vita e del nostro Paese. “Alhamdulilah” esclamano in continuazione, “Grazie a Dio” in arabo. Da qui prende il titolo l’ebook.

 

L’autrice ci porta in questo viaggio tra storie e culture diverse in un processo di integrazione spesso complesso e delicato; ci racconta dell’incontro/scontro con la nostra burocrazia, con la cucina italiana e con la comunità del piccolo centro catanzarese.

 

I nomi dei protagonisti di queste storie vere sono di fantasia perché la loro vita non è ancora al sicuro ma Grazie a Dio, in un modo o nell’altro ce la faranno.

 

L’ebook Grazie a dio è il primo titolo pubblicato dalla giovanissima casa editrice digitale Asterisk Edizioni per la collana Due punti. Fermarsi per conoscere, dedicata alle inchieste e tematiche locali.

 

L’Ebook Grazie a Dio. Storie di uomini e donne r/accolti dal mare è in vendita presso lo store online di Asterisk edizioni (www.asteriskedizioni.it), Amazon e Google Play al prezzo di 3,49 euro.

 

L’ebook è DRM free.

 

Per contatti

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Per richiedere copie omaggio per recensioni scrivere all’email indicando nome, cognome e testata/blog in cui verrà pubblicata.

 

 

Valentina Tortelli è nata a Roma nel 1981. Giornalista freelance, dal 2009 fa parte della stampa accreditata presso Stato Maggiore della Difesa. Laureata in Scienze della Comunicazione, si è specializzata in Editoria, comunicazione multimediale e giornalismo presso l’Università La Sapienza. Ha poi partecipato al II corso di perfezionamento post-lauream per giornalisti inviati in aree di crisi “M. G. Cutuli” e ha collaborato con diverse testate tra cui Citynews, CNN Italy, Nanopress e Il Quotidiano. Ha scritto reportage di viaggio dal Marocco e, come embedded, dal Libano e dal Kosovo, al seguito del contingente militare italiano.

 

Asterisk edizioni è una casa editrice digitale nata negli ultimi mesi del 2012 specializzata nel racconto dei territori attraverso reportage, racconti di viaggio, inchieste e saggistica. Un focus importante viene dato anche alle tematiche dell’innovazione non solo attraverso la pubblicazione di ebook specializzati ma anche attraverso il blog-osservatorio sull’innovazione nel mondo dell’editoria: http://www.editoriacrossmediale.it.

“Volti bruciati dal sole” di Shimon Adaf

SHIMON ADAF

Volti bruciati dal sole

COLLANA biblioteca dell’acqua

ISBN: 9788865640494

pp. 384 € 18,00

Atmosphere libri

miniAll’età di dodici anni Flora smette di parlare. A nulla servono le visite dallo psicologo, né tanto meno quelle da un santone. Durante una notte insonne Dio le parla attraverso il televisore e le dice di cambiare nome, che diventa Ori e da quel momento la sua vita è segnata da quest’annuncio. Riacquista la parola, scopre i libri. La scrittura diventa la sua ossessione e il suo rifugio, quando gli eventi intorno a lei fanno traballare ogni certezza. Di lì a poco la madre si ammala gravemente e l’ambiente che la circonda – Sderot, una cittadina del sud di Israele prevalentemente abitata da ebrei di origine marocchina che attraversano difficili condizioni economiche e sociali – è sempre più ostile, la schiaccia. La sua ultima risorsa è la fuga.

Ritroviamo Ori a 32 anni, sposata e con una figlia. È una scrittrice per ragazzi e l’universo fantastico cui fa riferimento è il paese delle meraviglie. La sua vita sembra aver raggiunto una stabilità, una normalità, ma solo in apparenza. Riaffiora in lei la ricerca di quella felicità suprema, indecifrabile, che ha assaporato in alcuni momenti della sua esistenza. La fiamma che le brucia dentro la porta a distruggere il suo matrimonio, a sfuggire a ogni buonsenso e a cercare ancora una volta una possibile salvezza nella scrittura e nella fantasia.

Volti bruciati dal sole, con termini realistici e poetici racconta le difficoltà non banali di essere bambina, donna e madre, in una cittadina periferica e svantaggiata di Israele, un paese oppresso da problemi politici e sociali. Questi temi sono però affrontati non in chiave attuale, bensì in funzione di una disamina dell’esistenza umana, della rivelazione, della ricerca di felicità, dello scontro con l’errore e con il dubbio e del tentativo disperato di far prevalere la fantasia sulla realtà.

 

Shimon Adaf è nato nel 1972 a Sderot in Israele, da genitori di origini marocchine; è scrittore e poeta. Nel 1996 ottiene il Premio del Ministro dell’Educazione grazie alla sua prima raccolta di poesie. Ha già pubblicato due raccolte di poesie (Icarus Monologue e What Which I Thought Shadow Is the Real Body). Alcune poesie sono state recentemente tradotte e pubblicate in Poeti israeliani(Einaudi, 2008) a cura di Ariel Rathaus e nell’antologia Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Ed. Salomone Belforte, 2007). Volti bruciati dal sole (Panim tzruve’ khamà) è il suo terzo romanzo ed è in corso di pubblicazione anche in inglese. L’autore, ha anche una passione per la musica, suona la chitarra e scrive testi di canzoni. È del 1996 il suo primo album musicale. Shimon Adaf ha vinto nel 2012 il più prestigioso premio letterario israeliano, il Sapir Prize.

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