XXIX Concorso Int.le di Poesia “Città di Porto Recanati” – Premio Speciale “Renato Pigliacampo” (edizione 2018): il bando di partecipazione

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Il concorso internazionale di poesia “Città di Porto Recanati”, fondato e organizzato per quasi trent’anni dal prof. Renato Pigliacampo, poeta, scrittore e professore sordo, è uno dei più longevi dell’intera Regione Marche. Negli anni esso ha raccolto testi poetici di pregevole fattura e di elevato valore civile, frequentemente incentrati sulle difficoltà sociali, sulla disuguaglianza, sulla denuncia delle ingiustizie e sul riscatto degli oppressi, tematiche centrali dell’impegno umano del suo fondatore.

Nel 2015, al decesso del professore, la famiglia Pigliacampo – incoraggiata e sostenuta tecnicamente dal poeta e scrittore dott. Lorenzo Spurio che collaborò col professore negli ultimi anni – ha deciso di portarlo avanti con lo stesso impegno e finalità: dar voce a coloro che spesso nella società non hanno la capacità di dire la propria. Da allora si è aggiunto un ulteriore premio identificato come “Premio Speciale Renato Pigliacampo”, conferito a una poesia che viene considerata particolarmente vicina alla vita e ai contenuti lirici del fondatore del concorso, quali la disabilità sensoriale o la battaglia per i diritti degli handicappati. Tale premio è stato assegnato a Rita Muscardin – Savona (2016), Rosanna Giovanditto – Pescara (2017) e Flavio Provini – Milano (2017).

  

BANDO DEL CONCORSO

  

1 – Ogni partecipante può inviare un massimo di due poesie.

I testi possono avere una lunghezza massima di 50 versi.

I testi possono essere editi o inediti ma l’autore dovrà dichiarare di possedere i diritti a ogni titolo e di esserne proprietario a ogni diritto. Essi potranno essere, indifferentemente, risultati meritori di premi da podio o speciali in precedenti premi letterari.

I testi possono essere in lingua, dialetto o lingua straniera. Nel caso di testi poetici in dialetto e lingua straniera è necessario allegare anche la traduzione in lingua italiana.

Il tema è libero, tuttavia si consiglia di trattare tematiche relative alle problematiche sociali, alle discapacità sensoriali, alle disuguaglianze, alla disabilità, alla povertà, alla solitudine degli anziani, all’odissea dei migranti e dei profughi, ecc., tematiche per le quali fu istituito il Premio quasi trent’anni fa.

 

2 – Per prendere parte al concorso a ogni partecipante è richiesto di inviare le proprie poesie esclusivamente per posta elettronica a poesia.portorecanati@gmail.com

Le poesie dovranno essere inviate entro e non oltre il 25 luglio 2018 specificando nell’oggetto “XXIX Concorso Città di Porto Recanati”.

Il poeta dovrà inviare in un’unica e-mail in seguenti materiali:

  1. I testi delle poesie senza riferimenti alla propria identità in formato Word. Ogni poesia va presentata su un file a parte.
  2. Un file Word contenente i seguenti materiali:

nome, cognome, data e luogo di nascita, indirizzo di residenza completo (Via, città, cap), telefono fisso e cellulare, indirizzo mail e queste attestazioni come seguono:

  • Dichiaro di essere l’unico autore delle poesie e di detenere i diritti a ogni titolo.
  • Acconsento il trattamento dei miei dati personali secondo la normativa vigente nel nostro Paese per i fini istituzionali legati alla organizzazione, promozione e diffusione del Concorso di Poesia “Città di Porto Recanati”.
  1. La copia della ricevuta di versamento del contributo a copertura delle spese di segreteria.

 

3 – È richiesto il contributo di partecipazione a copertura delle spese di segreteria fissato a 20 €. Il versamento potrà avvenire con una delle seguenti modalità:

 

  1. PostePay n. 5333 1710 2372 6843

Intestazione: Marco Pigliacampo

Codice fiscale: PGLMRC75E07E958C

Causale: XXIX Concorso Città di Porto Recanati

(Il versamento si può fare dagli Uffici Postali e dai tabaccai abilitati)

 

  1. Bonifico bancario

IBAN IT29J 07601 05138 276234476237

Intestazione: Marco Pigliacampo

Causale: XXIX Concorso Città di Porto Recanati

 

4 – La Commissione di Giuria leggerà le opere pervenute in forma rigorosamente anonima e provvederà a scegliere le dieci poesie vincitrici.

I primi tre classificati riceveranno premi in denaro, così ripartiti: 1° Classificato 500€, 2° Classificato 300€ e il 3° Classificato 200€. Tutti i poeti premiati dal 1° al 10° posto riceveranno una targa personalizzata. Nell’eventualità di punteggi pari-merito la Commissione di Giuria ha la facoltà di proporre ex-aequo per le posizioni dal 4° al 10° che dovranno ottenere il parere ultimo e definitivo da parte del Presidente.

La Commissione di Giuria assegnerà il Premio Speciale Renato Pigliacampo 2018 a una poesia che sarà considerata particolarmente vicina alla vita e ai contenuti lirici del fondatore del concorso, il prof. Renato Pigliacampo, quali la disabilità sensoriale o la battaglia per i diritti degli handicappati. Infine si riserva la facoltà di riconoscere ulteriori premi speciali, menzioni d’onore, menzioni di merito o attestati d’incoraggiamento.

 

5 – La Commissione di Giuria è composta da esponenti del panorama culturale e letterario ed è presieduta dal poeta e critico letterario dott. Lorenzo Spurio. Essa è formata da Rosanna Di Iorio (poetessa), Rita Muscardin (poetessa), Emilio Mercatili (poeta) e Lella De Marchi (poetessa).

Oltre a stilare la graduatoria dei dieci poeti vincitori, la Commissione di Giuria scriverà e renderà pubbliche le motivazioni relative ai primi dieci premi e al Premio Speciale “Renato Pigliacampo”. Il Verbale della Giuria, con l’elenco di tutti i nominativi dei premiati e dei segnalati e le decisioni ultime della Commissione di Giuria, sarà inviato via e-mail a tutti i poeti partecipanti e reso pubblico online.

 

 

Per maggiori informazioni: 

Segreteria del Premio: poesia.portorecanati@gmail.com

Evento FaceBook: https://tinyurl.com/yanajebw

 

 

Verbali di giuria delle passate edizioni:

XXVIII Edizione (2017): https://blogletteratura.com/2017/08/28/xxviii-concorso-di-poesia-citta-di-porto-recanati-premio-speciale-renato-pigliacampo-il-verbale-di-giuria/

XXVII Edizione (2016): https://blogletteratura.com/2016/03/19/xxvii-concorso-int-le-citta-di-porto-recanati-premio-speciale-r-pigliacampo/

XXVI Edizione (2015): https://blogletteratura.com/2015/08/18/xxvi-concorso-int-le-di-poesia-citta-di-porto-recanati-il-verbale-della-giuria/

“Da Jack Fruciante a Razorama: leggendo Enrico Brizzi da vicino”, a cura di S. Bardi

Articolo di Stefano Bardi

Letteratura generazionale fu definita, quella dello scrittore Pier Vittorio Tondelli riferita agli anni ’80 e i primi ’90. A mio giudizio chi meglio incarna tale definizione al giorno d’oggi è lo scrittore Enrico Brizzi (Bologna, 20 settembre 1974). Scrittore degli anni Novanta le cui trame sono ispirate agli anni Settanta-Ottanta, dove ampie classi giovanili hanno espresso con urla e fiamme tutte le loro esigenze.

Letteratura, quella brizziana, che nasce quando ancora il giovane autore, da studente liceale, collaborava con la rivista di fumetti Frigidaire, in cui redasse articoli aggressivi contro l’antiquato insegnamento scolastico, articoli accompagnati da ben espresse denunce contro i media spesso disattenti. Una letteratura che ha come scopo principale quello di creare opere letterario-cinematografico-televisive, grazie anche all’utilizzo di un registro cantilenato, composto da intonate melodie vocali e linguistiche.

Un linguaggio in cui a volte si esprime volutamente con un dizionario rozzo, blasfemo e lubrico per rappresentare e denunciare le virtù esistenziali. Dizionario composto da un italiano medio mischiato e fuso con diverse placche linguistico-verbali angloamericane, ispaniche e francesi, che sono concepite dallo scrittore bolognese come vocaboli graziosi da contrapporre alla lingua quotidiana. Anche i latinismi e i culturismi fanno breccia nelle sue opere, per essere però usati come canzonature sulle nozionistiche degli adulti, sulle mente dei giovani. Accanto a questo complesso linguaggio, Brizzi usa gerghi musicali e sociali, con neologismi della generazione giovanile degli anni Novanta. Possiamo dire che i suoi romanzi hanno la stessa funzione della letteratura orale, ovvero sono stati pensati dallo scrittore per una lettura a voce alta, in modo che possano prendere una loro melodia, possano perseguire determinati scopi e possano realizzare sentiti attacchi sociali. Per fare tutto ciò il Nostro s’ispira a piene mani alla cosiddetta “letteratura minore”, ovvero ai fumetti, al cinema e alla musica per rileggere nel profondo, la società italiana degli anni Novanta e anche degli anni Duemila. Un veloce excursus tra le sue maggiori opere letterarie.

jackfrusciante.jpgIl 1994 è l’anno del romanzo Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Una maestosa storia d’amore e di rock parrocchiale; vi è raffigurato un tipico scenario degli anni Novanta, uno spazio in cui gli adulti sono accentuate nella loro condizione di emarginazione. Gli amori vissuti sono perennemente tristi e la vita è immensamente illuminata. All’interno di questo mondo c’è il giovane diciassettenne Alex D. del quale è narrata la storia attraverso un lungo flash-back mediante una voce onnisciente. Alex, dopo varie peripezie, riuscirà a consumare un’esistenza “anarchica” e oltre il “piccolo mondo facile”, che i suoi genitori hanno creato attorno a sé. Punto vitale del romanzo è la storia d’amore platonico, fra il giovane Alex D. e Adelaide, che è una storia a sua volta colma di rimandi melodici e cinematografici collocati all’interno di una scenografia composta da accadimenti quotidiani, dell’età dei protagonisti (scuola, ore d’aria amici, vacanze-studio, litigi genitori-figli). Una storia d’amore che è consumata dai due ragazzi, senza nessuna cornice precettistica, ma unicamente con un pungente sarcasmo studentesco. Un Alex D. che è in realtà un finto ragazzo vestito da “hardcore boy”, al tempo stesso è anche un ragazzo coraggioso, millantatore, dolce e maledettamente punkettaro. Ci troviamo dinanzi a un ragazzo con un “io” ben affermato, che non riesce a imporsi universalmente ma per frammenti. Ben diversa, invece, è Adelaide, rappresentata da Brizzi come una ragazza borghese indossatrice di vestiti trasgressivi e follemente innamorata della letteratura zen. Un altro punto fondamentale all’interno del romanzo in questione è rappresentato dal suicidio di Martino (amico di Alex), che si è tolto la vita poiché scoperto come drogato. Questo suicidio apparirà agli occhi del suo miglior amico come un gesto per l’affermazione totale della sua autonomia e della sua identità. L’unico lato oscuro dell’opera brizziana è rappresentato dalla famiglia di Alex, rappresentata come una pesante ombra antisociale, come una piatta e scialba realtà etico-umana e come una creatura relegata ai confini del romanzo. Una rappresentazione famigliare quella del Brizzi, che è creata dall’autore come un forte atto di denuncia contro i protagonisti del ’68 che, dopo aver abbandonato i valori e i principi rivoluzionari, si rintanarono nell’oscura intimità collettiva, che prende ancora oggi il nome di famiglia. Tale giovane, metafora di un’ampia generazione, desidera follemente scappare e svincolarsi da tutto ciò che significa omologazione, per poi rinascere e vivere un’esistenza in nome dell’insicurezza, dell’ineguaglianza, dell’indifferenza, dell’assenza di valori programmati,

Il 1996 è l’anno del romanzo “Bastogne”, ambientato durante la finale offensiva nazista dopo lo sbarco in Normandia, avvenuta nella città di Bastogne nel 1944. Romanzo che rappresenta un Resistenza al contrario, essendo concepita dallo scrittore bolognese come un’immagine simbolica e “sacrale”. I personaggi sono “selvaggi” e questo denota la concezione dello scrittore volta a un intendimento di denuncia contro la città in guerra e allo stesso tempo. Immagine fondamentale dell’intero romanzo è quella del gruppo, concepito dallo scrittore come un luogo sociale in cui si può trovare rifugio e protezione dall’uggia esistenziale, combattuta attraverso la follia omicida, il sesso selvaggio e l’estrema violenza.

Il 1998 è l’anno del romanzo “Tre ragazzi immaginari”, narrazione dalle tinte autobiografiche in cui viene compiuta un’auto-analisi da parte dello scrittore sulla sua passata esistenza adolescenziale e sui suoi “peccati” fatti, per ricavarne da tutto questo una nuova strada. Autoanalisi divisa in due parti: Brizzi rivive mentalmente il suo passato attraverso l’odio verso la scuola, la famiglia, i ragazzi “casa e chiesa”, e contro tutti quei ragazzi senza spina dorsale. Nella seconda parte, invece, il Brizzi del passato vede già mentalmente il Brizzi attuale attraverso i fanciulleschi amori consumati nel 1994.

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Lo scrittore bolognese Enrico Brizzi. – Foto tratta da http://librinews.it/flash/matrimonio-mio-fratello-nuovo-romanzo-enrico-brizzi/ 

Il volume “L’altro nome del rock” viene pubblicato nel 2001; esso è composto da un romanzo breve e otto racconti scritti a quattro mani, con l’amico e compaesano Lorenzo Marzaduri che dà voce ai crucci dei quarantenni, mentre Brizzi dà spazio e voce ai crucci della leva giovanile. Un romanzo che gli scrittori bolognesi costruiscono come si “costruisce” un vinile, ovvero le vicende al pari delle canzoni si legano insieme attraverso un fitto sistema di equivalenze logico-geometriche. Tale opera è un riflesso dell’Uomo e delle sue intense emozioni, delle sue lacrimanti nostalgie esistenziali, delle sue quotidiane guerriglie spirituali, delle sue intime cadute psico-fisiche e delle sue sopravvivenze etico-morali alle emarginazioni, alle sofferenze, e agli avvilimenti. Tutto questo sempre nel nome del rock, concepito dagli autori come uno strumento mutativo e come unica via da percorrere, per raggiungere e approdare alla verità.

Il 2003 è l’anno dell’ultimo lavoro brizziano, il libro “Razorama”. Romanzo che nasce da esperienze personali fatte dall’autore: viaggi compiuti in Africa nel 1999 e nel 2001. Personaggio principale dell’opera è Rodrigo, che è dislocato da Brizzi all’interno del romanzo fra l’avidità dell’uomo occidentale e la magia della popolazione africana, ovvero fra la vita e morte. Un uomo bianco Rodrigo, che ha volutamente voltato le spalle al suo paese per vivere nell’Africa e da essa farsi curare attraverso i suoi riti. Accanto a Rodrigo altri due personaggi, seppur minori, bisogna ricordare: Adriano e Mauro. Il primo è assai rispettoso della cultura africana, concepita come l’unica cura in grado di curare tutti mali degli Uomini e del Mondo, mentre il secondo rimane maggiormente attaccato alle tradizioni e conoscenze occidentali.

STEFANO BARDI

 

L’autore del presente articolo dichiara, sotto la sua unica responsabilità, di essere frutto del suo unico ingegno e di non riprendere in tutto o in parte testi di terzi tutelati da DD.AA.

L’autore acconsente alla libera pubblicazione del suo articolo su questo spazio digitale senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro al gestore del blog.

XXVII Concorso Int.le “Città di Porto Recanati” – Premio Speciale R. Pigliacampo

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Il concorso di poesia “Città di Porto Recanati”, fondato e organizzato per quasi trent’anni da Renato Pigliacampo, poeta, scrittore e professore sordo, è uno dei più longevi d’Italia e interessanti delle Marche. Negli anni ha raccolto testi poetici di elevato valore civile, incentrati sulle difficoltà sociali, sulla disuguaglianza, sulla denuncia delle ingiustizie e sul riscatto degli emarginati. Oggi il premio continua, nonostante la scomparsa del fondatore, la missione di dare voce in forma poetica alle problematiche sociali.

 

BANDO DEL CONCORSO 

1 – Ogni poeta partecipante può inviare una sola poesia.

Il tema è libero, tuttavia l’organizzazione consiglia di trattare tematiche relative alle problematiche sociali, alle disuguaglianze, alla disabilità, alla povertà, alla solitudine degli anziani, all’odissea dei migranti e dei profughi, ecc., tematiche per le quali fu istituito il Premio quasi trent’anni fa.

La poesia non deve superare i 35 versi, può anche essere stata edita, ma non vincitrice del primo premio in altri concorsi.

2 – La Giuria del concorso sceglierà dieci poesie vincitrici.

I primi tre classificati riceveranno premi in denaro, così ripartiti: 1° Classificato 500,00 € e Pergamena; 2° Classificato 300,00 € e Pergamena; 3° Classificato 200,00 € e Pergamena. I poeti classificati dal 4° al 10° posto riceveranno una Targa.

La Giuria assegnerà il Premio Speciale Renato Pigliacampo 2016 ad una poesia che sarà particolarmente vicina alla vita e ai contenuti lirici del fondatore del concorso, quali la disabilità sensoriale o la battaglia per i diritti degli handicappati.

Infine, la Giuria si riserva la facoltà di riconoscere premi speciali o di incoraggiamento.

3 – La Giuria è composta dallo scrittore e critico letterario Lorenzo Spurio (Presidente) e da Susanna Polimanti (scrittrice, recensionista), Rosanna Di Iorio (poetessa) e Rita Muscardin (poetessa). Oltre a stilare la graduatoria dei dieci poeti vincitori, la Giuria scriverà e renderà pubbliche le motivazioni relative ai primi tre premi del Concorso e al premio ‘Renato Pigliacampo’. Il Verbale delle decisioni della Giuria, con l’elenco di tutti i premiati/segnalati, sarà inviato via e-mail a tutti i poeti partecipanti.    

4 – Ogni poeta partecipante dovrà inviare la propria poesia esclusivamente per posta elettronica all’indirizzo e-mail: poesia.portorecanati@gmail.com  La poesia dovrà essere inviata entro il 25 luglio 2016.

Il poeta dovrà inviare un’unica e-mail con tre documenti allegati (word o pdf):

  1. testo della poesia senza riferimenti alla propria identità;
  2. testo della poesia con i propri dati personali (nome cognome, indirizzo domicilio, e-mail, telefono) e con dichiarazione di autenticità (“Dichiaro di essere l’unico autore della poesia”);
  3. ricevuta di versamento della quota di partecipazione di 20 €.

5 – La quota di partecipazione al concorso è di 20 € e può essere versata con con una delle seguenti modalità:

  1. versamento su PostePay n. 5333 1710 2372 6843 intestata a Marco Pigliacampo, Codice fiscale PGLMRC75E07E958C. Il versamento si può fare dagli Uffici Postali e dai tabaccai abilitati.
  2. bonifico bancario su conto IBAN IT29J 07601 05138 276234476237 intestato a Marco Pigliacampo.

La quota è necessaria per la copertura del monte-premi e delle spese di organizzazione.

6 – La cerimonia di premiazione con il recital delle poesie premiate/segnalate si terrà a Porto Recanati, un sabato pomeriggio del mese di settembre 2016. Tutti i poeti partecipanti al concorso saranno informati per tempo, via e-mail, e invitati all’evento.

L’evento culturale sarà pubblicizzato sulle televisioni e i quotidiani regionali, sulle riviste nazionali specializzate e i siti web di poesia, sul sito www.ilsalottodegliartisti.it

L’organizzazione potrebbe decidere, in base al numero di partecipanti, di pubblicare un libro di raccolta delle poesie, eventualmente presentato il giorno della cerimonia.

 

Per informazioni ulteriori: 

Marco Pigliacampo (Segretario del Premio): poesia.portorecanati@gmail.com

Lorenzo Spurio (Presidente di Giuria): lorenzo.spurio@alice.it

 

Si prega di diffondere il bando a tutti i possibili interessati.

Lucia Bonanni su “L’opossum nell’armadio”, nuova silloge di racconti di L. Spurio

L’OPOSSUM NELL’ARMADIO 

PoetiKanten Edizioni (2015)

di Lorenzo Spurio

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“L’opossum nell’armadio” (2015) di Lorenzo Spurio

“Tutti abbiamo una vita interiore. Tutti sentiamo di far parte del mondo e nello stesso tempo di esserne esiliati. Bruciamo tutti nel fuoco delle nostre esistenze. Abbiamo bisogno di parole per esprimere ció che abbiamo dentro.” (P. Auster) e Spurio riesce a fissare ogni parola dei suoi racconti sulla pagina, in un miraggio, in un dubbio, in un grano di luce, nei cuori appassiti, nei silenzi del tempo, tra le spume del mare e negli sbuffi di vento per comunicare ciò che hanno dentro i personaggi delle sue scritture che altro non sono che lo specchio letterario di quelle persone in cui incontriamo noi stessi. Se ne “La cucina arancione” la dominante cromatica erano i due colori primari, il giallo e il rosso, mescolati insieme a formare l’arancione, in questa nuova fatica letteraria, “L’opossum nell’armadio”, la dominante cromatica è il bianco. Il bianco è dato dalla somma convenzionale di tutti i colori dell’iride, ma in esso tutti i colori scompaiono perché tale colore è un muro di silenzio, un non-suono, è la pausa tra una battuta e l’altra di un’esecuzione musicale che preclude ad altri suoni. Il bianco è uniforme e immobile, ma sa addolcire i dissidi di una vita difficile; resta pur sempre un topos pauroso, incognito, vuoto, indefinito, ambiguo, rifugio anche del proprio doppio mostruoso. Colore che spaventa gli artisti perché crea l’angoscia della pagina e della tela vuota, una superficie in attesa di un segno, di una parola, di un colore. I poeti futuristi usarono gli spazi bianchi in maniera forte e visiva per dare maggior rilievo alle analogie mentre per i poeti ermetici gli spazi bianchi rappresentavano pause lunghe, attesa, silenzio. Nelle arti visive il rapporto tra vuoti e pieni crea tensione e immaginazione, infatti l’uso del chiaroscuro é finalizzato ad inserire le figure nello spazio; in letteratura il vuoto coinvolge chi legge nella narrazione. L’ambiguità del colore bianco è annullamento, quiete, riposo dall’infelicitá e precorre le maggiori opere della letteratura fantastica per cui il contrasto che si nota in una certa letteratura “perturbante” non è il bianco opposto al nero, che è un non-colore, ma che fa risaltare qualsiasi colore, ma è il bianco opposto al rosso che è il colore del sangue, figure al contempo di contenuto e di significato, rintracciabili nelle opere di M. Shelley, B. Stoker, J. Verne, E. Melville. Nell’antichità classica la bellezza era Leukos e Omero ci dice che bianche erano le braccia di Nausicaa; ma candido è anche l’abito delle spose e quello dei comunicandi; di un bianco mortale sono gli spettri, il viso e la camicia dei condannati, le solitudini glaciali e il freddo, i denti del vampiro, la pelle della balena bianca, ed anche la dentatura dell’opossum che ha denti acuminati e taglienti. Chi ama il bianco tende al fatalismo, ma non per questo è privo di idee creative e sa andare oltre il visibile. Come ho già detto, a dominare il testo di Spurio è proprio il colore bianco, dalla copertina a quelle pagine interne che fanno da spartiacque tra un racconto e l’altro , fogli bianchi a creare suspance, pausa, attesa e dove la definizione scientifica del piccolo marsupiale, l’opossum, fa da contraltare e da nota introduttiva al titolo di ogni singolo racconto. Nella narrazione il bianco è per lo più alluso, evocato e soltanto poche volte nominato come nel caso della rosa bianca, delle particole dell’ostia, della velina dei confetti, delle foto in bianco e nero… La stessa copertina è uno spazio bianco, una distesa di ghiacciai millenari, le cime innevate, una maschera veneziana, il vestito di Pulcinella e il viso di Pierrot. È anche una pagina bianca, una tela bianca su cui sono caduti i segni grafici del titolo a significare una specie di archetipo dell’assoluto, lo spazio labile ed evanescente della mente su cui si è posato il tratto grafico di un armadio in stile antico, stilizzato nelle linee, ma angosciante per i rimandi di senso; un disegno preparatorio di un quadro più ampio, allusivo, ad indicare un ingresso verso l’ignoto, il vuoto, il niente, l’illusione e l’oblio che è la mente umana. Ma è anche un richiamo ineludibile alla lettura che essa offre e riesce a mediare. Il significato intrinseco delle diverse definizioni scientifiche dell’opossum si palesa solo a posteriori con epifanie intuitive, manifeste ad una seconda lettura veramente analitica, successiva ad un primo approccio che si appoggia alla globalità della narrazione. Ogni citazione trova posto in cima alla pagina un maniera da lasciare vuoto lo spazio bianco per creare attesa e dare modo al lettore di annotare le proprie impressioni e creare un sunto introduttivo delle caratteristiche di ciascun personaggio coinvolto nella storia e completamento del titolo stesso. Quelle che Spurio enuncia sono come proporzioni matematiche del tipo 36:9 = 24:x e in cui esiste sempre un’incognita da risolvere e ciascuna caratteristica del marsupiale si rivela non solo in linea col titolo del racconto, ma ambedue si annullano e si completano a vicenda in una circolarità temporale. Ed ecco allora che la coda prensile rimanda alla corda con cui il povero Saverio pone fine alla propria vita, è un animale che patisce la luce sta a comportamenti e fatti che non avvengono alla luce del sole e sono attuati da animi scuri, è un animale opportunista rimanda al cinismo del protagonista che da bravo giovane qual era, divine un approfittatore senza scrupoli. Ancor prima dei racconti Spurio colloca citazioni letterarie a lasciar presagire le tematiche del testo: “… non avrei potuto chiederlo a qualcun altro perché dopo tutto era sangue mio” e “Il manicomio è pieno di fiori, ma nessuno riesce a vederli” sono i periodi estrapolati dalle opere di J Laughlin e M. Tobino. Quindi sangue e mente, le due essenzialità dell’essere umano , quali argomenti introduttivi e “nervatura psicologica dei personaggi”; quindi il colore del sangue, il rosso, e quello della mente, il bianco, a delineare i contenuti di un testo che si configura come una sorta di diario, scritto non dall’autore, ma dagli stessi protagonisti-persone “apparentemente slegati fra loro, ma uniti da un senso esistenziale” all’interno di quel manicomio chiamato vita. “A volte cade un nome in questo spaventoso deserto, e ogni granello di sabbia fiorisce” (E, Canetti). “Recuperare le strutture di significato, il segno cifrato dell’angoscia e dell’invisibile e dell’oltre realtà che ci circonda”(E. Borgna) richiede di attenzionare gli orizzonti tematici di ombre, contraddizioni, antinomie, speranza, disperazione, possibilià, impossibilità, angosce. deliri, naufragi, trionfi.

Lorenzo Spurio

L’uomo inserito nei rapporti con la comunità diviene consapevole della sua persona, della propria coscienza e della propria intimità per cui la solitudine come scelta personale e come libertà di scelta nei confronti di certe situazioni, smorza il sopraggiungere del disagio e favorisce la riflessione. L’angoscia è corrosiva e spesso è la solitudine che innesca comportamenti devianti ed è sempre la solitudine come lontananza e separazione dagli altri a portare solitudine interiore in cui tutto si riflette in modi ambigui e abbaglianti da cui si liberano sofferenze acute e dolorose. Ma anche”solitudine di nascondimento e come difesa dalle angosce e dalle aggressività spietate e opache”(E.Borgna). “… fuggi nella tua solitudine! Io ti vedo assordato dalla fracasso dei grandi uomini e punzecchiato dal fracasso degli uomini piccoli” sono le parole di F. Nietzsche a dire la propria condizione. Nell’isolamento l’individuo fa esperienza di vuoto che tende a riempire con forme esistenziali effimere e prive di senso. “La solitudine e l’isolamento come metafore dell’ansia. Nella solitudine il tempo interiore scorre nella sua tensione di passato, presente e futuro, nell’isolamento si frantuma e passato, presente e futuro si rincorrono inutilmente”.(E.Borgna). “Sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: il presente del passato che è memoria, il presente del presente che è visione e il presente del futuro che è attesa” dice S. Agostino. Ma nel nelle vicende dell’esistenza e nel linguaggio delle cose, l’ansia, che fa parte della vita, può far emergere possibilità nascoste e nuove negli individui che presentano sintomi di tal genere anche perchè “la sensibilità e l’intelligenza sono molto più alte e questo accresce la sofferenza”(E.Borgna) e conducono ad uno Stimmung (stato d’animo) in cui “Quando tu fissi Medusa, è lei che fa di te quello specchio dove,trasformandoti in pietra, ella guarda la sua orribile faccia e riconosce se stessa nel doppio, nel fantasma che tu sei diventato dopo aver affrontato il tuo occhio”. (J.P. Vernaut). Nel testo di Spurio ci sono le tante persone “lontane dal rumore della terra e dal silenzio del cielo”(F. Pessoa), ci sono i vagabondi dell’anima, i reitti, i derelitti, ci sono quelle fasce sociali emarginate a cui non si dà spazio in un programma di aiuto e reinserimento nel tessuto etico-sociale. Si potrebbe anche eccepire, dicendo cosa ha che vedere il discorso sull’ansia, se quella che si nota nei racconti è una gamma di comportamenti per lo più dettata da veri e propri istinti. Però c’è da dire che l’istinto, che deriva dal verbo “eccitare”, è la spinta ad agire in un determinato modo, è un impulso, un’esigenza naturale senza l’intervento del ragionamento e che determina le conseguenti reazioni. “La contemplazione del tempo è la chiave della vita umana. È il mistero irriducibile sul quale nessuna scienza fa presa”(S.Weil) e sono “Le esperienze letterarie come quelle artistiche (che) ci fanno cogliere immagini diverse e radicali dell’ansia e dei modi di viverla… e le esperienze poetiche e narrative ci consentono di viverle come condivise e come vissute da altri in una circolarità che oltrepassa la distanza del tempo e dello spazio”(E.Borgna). “Nella casa tutto rimaneva fermo ai tempi andati (e) l’olio si guastò dentro quei silos di acciaio” (da racconto Livello –1). L’immobilità del tempo che si protrae nel piano sotterraneo, ovvero nel livello –1, in cui la famiglia aveva riposto sempre cianfrusaglie; la fissità del tempo del vecchio pentolame di rame che contrasta con oggetti della modernità; lo stereotipo del tempo che rende indifferenti al dramma interiore, vissuto da Saverio allorché è costretto a licenziare del personale; l’inesorabilità del tempo che esplode nella violenza delle immagini che Manolo è costretto a vedere; la crudeltà del tempo che innesca una certa insensibilità nell’animo di Mariuccia che “pianse qualche giorno, ma poi tutto tornò come prima; le fauci spalancate del tempo “in (quella) cantina (dove) i vetri infranti non vennero rimossi e nessuno vi si recò più”. “Quando la cattiveria trova validi alleati, allora si è spacciati” e Valentina si ritrova a dove subire tormenti e offese con momenti di esclusione e profonda solitudine perché “era bastato un attimo per catapultarla nel mondo infelice delle donne, manipolate dai vigliacchi inganni degli uomini”. Lei che mai aveva incespicato a causa di quella incoerenza emotiva che contraddistingue gli adolescenti; lei che si era persa a fare una cosa senza pensare e non aveva fatto molta resistenza a Renato, suo coetaneo, che altri non era,se non un “ingannatore seriale; lei che “era stata una conquista maledettamente facile” e adesso vedeva le sue foto sui cellulari degli altri compagni; lei che aveva provato grande vergogna, ma che poi era tornata a rinascere proprio come l’Araba Fenice. (dal racconto Un paio di scatti). ”… e col ricavato me ne andai con i miei amici a Forte dei Marmi. Non riuscii a bagnarmi in quell’acqua, sapendo che la diffusione della nonna ormai era completa e che abitava ogni parte dle pianeta”. In questo racconto, Dal fiume al mare, Spurio più che trattare il tema della morte, tratta quello della sepoltura; ne “La cucina arancione” lo fa con ironia e una punta di scetticismo, parlando dell’ibernazione, ma qui affronta quello della cremazione ed il protagonista pur non avendo verso di lei un affetto profondo per “una questione di intenti taciuti, di messaggi empatici, (per) un sapersi guardare negli occhi e accettarsi per come siamo” si costruisce come persona che dimostra pietà e compassione per la nonna defunta e si distingue per “un qualcosa di indignato” verso le cugine che per mancata accortezza fanno scivolare l’urna e spargere la cenere sui tappetini dell’auto. (dal racconto Dal fiume al mare).

La definizione dello yapok acquatico richiama l’acqua, sia essa di fiume che di mare; l’uno come metafora della vita che scorre e l’altro come simbolo della vita nel suo ritmo immutabile, ma anche di nutrimento, di maternità, di misteriosità dell’animo e desiderio di entrare in contatto con le proprie emozioni. “ Di là del finestrino sfilava un mare scuro e fisso, difficile da comprendere del tutto. Alla mente non affioravano ricordi e quell’acqua oleosa sembrava pretendere alla mia coscienza una condanna spaventosa: l’annegamento”. Studente in medicina, il protagonista del racconto Due o nessuna, si impegna in ogni modo a trovare un rimedio efficace per il “riavvio del sistema cognitivo” della propria madre che ha perso la memoria, “nostra coscienza e nostra ragione”, e poi, preso dallo sconforto, la asfissia col gas, tenta egli stesso il suicidio e alla fine, pur non ricordando più nulla, cerca di “far capire al mondo che (mia) sua madre era già morta da tempo e che (io) lui non (sono) è un assassino” “ Mi ero ribellato. Qualcosa dentro di me aveva deciso di mettere fine alle caricature del mio compleanno.” E il ragazzo di buona famiglia, dalla reputazione immacolata, si defila, cerca degli escamotage per negarsi ai parenti, diviene insofferente, se ne va a vivere per conto suo e proprio mentre girovaga alla ricerca della “calma interiore” si scopre “quale animale opportunista” verso le “seducenti professioniste del lavoro più antico del mondo” mentre egli stesso le ricompensava adeguatamente. Così, per propria convenienza, convince la ragazza a “continuare il suo lavoro” cosa che a lei “sembrò una buona idea” senza minimamente pensare che “aveva solo cambiato città e padrone” mentre lui, l’uomo dabbene, lascia gli studi universitari, si trova un lavoretto e passa le ore a casa a sorseggiare birra, “visto che il buon stipendio di Klara consente (loro) di vivere agiatamente”. (da L’ultimo compleanno). “A sedici anni aveva già letto più di quaranta romanzi e non sapeva chi fosse sua madre”. La sua era una vita monotona, triste, solitaria, talmente immutabile e vuota che un giorno che arrivò persino ad immaginare che dietro al bancone del bar a servire la Coca Cola non ci fosse una vecchia arcigna, ma Luana, la bella ragazza, con la quale poteva parlare e confidarsi. Certo quella era soltanto una visione “smelancolata” come le circonferenze che cercava di tracciare a mano libera e “Le due valigie”, lasciate in eredità dalla nonna in cui si aspettava di trovare una cospicuo vitalizio che permettesse a lui e al padre di condurre una vita più rilassata. Continuò comunque gli studi e all’università non scoprì “una legge sulle circonferenze smelangolate”, ma dalla letteratura imparò molto di più. La vita è ciò che immaginiamo in essa”, dice F. Pessoa, e Spurio non dimentica di trattare l’inquietudine e il disagio in modo partecipe e accessibile per veicolare temi e contenuti quantomai attuali e lo fa con grande maestria senza mai perdere di vista il piglio felice della propria scrittura. All’interno dei dialoghi narrativi di questa silloge, “dal taglio leggermente più intimista”, non ci sono i vari Franknstein, i Dracula, le Moby Dick, le ballate dei vecchi marinai, gli spettri luminosi e neppure il gusto per l’orrido, ma tali stralci di contenuto appaiono sotto forma di ansia, solitudine, abbandono, pazzia, indifferenza, distanza, cattiveria, cinismo, violenza di genere, erotismo, sfruttamento, atti di carattere che sfociano in equilibri fugaci, tradimenti, pedofilia, suicidio, disagio giovanile, vulnerabilità, isolamento e conflitto interiore. Attraverso la connaturata sensibilità e l’attenzione alle problematiche sociali, l’autore delinea un quadro autentico del dinamismo sociale, vero nella stesura dei contenuti che talvolta possono fornire motivo di sconcerto, ma che alla fine si rivelano sempre discreti nella forma didascalica per profonda riflessione in un progetto che non è soltanto narrativo, ma anche scientifico. E non manca nelle parole di Spurio l’attenzione all’ambiente, alle città, ai luoghi, all’ecologia, ai danni ambientali, ai disastri, alle marginalità ed egli ne scrive in maniera sobria, discreta, velata, quasi accennata. Nel racconto “L’ultimo compleanno”, fa muovere i suoi personaggi in una città, associata all’immaginario collettivo per il sisma avvenuto nel corso dell’anno 2009: L’Aquila. L’autore vi richiama l’attenzione per dire che, sì, gli eventi che l’anno investita, sono stati assai disastrosi, ma che ancor più disastroso è stato il terremoto burocratico che non ne ha permesso una vera e propria ricostruzione in un “paese di pozzi, dove sempre si beve l’acqua con la paura che sia avvelenata”(da F.G. Lorca a pag. 93 del testo), “Eppure (ognuno come) l’erica resiste, rimane attaccato alla (propria) terra, sempre e comunque) (dal film Cime tempestose a pag. 45 del testo).

Onorata di questa ulteriore lettura, per richiamare ancora una volta il bianco nella simbologia della neve e in quella del mare e rendere omaggio all’autore per questo nuovo lavoro, “L’oppossum nell’armadio”, testo di grande valore scientifico, letterario e umano, termino con i versi di due poeti del ‘900, suoi conterranei: Paolo Volponi e Franco Scataglini:

Sono scesi i passeri a branchi/dai calanchi di neve;/si sono posati tutti insieme/sulle peste davanti a casa/come se la tua veste/tenessero per gli orli,/sfrenati nel volo/quasi per una pena nel cuore”.

Le case sopra un lembo/de scoio, i pini a vento;/ansava il mare,/ el grembo de l’aria in movimento”.

Ad maiora

LUCIA BONANNI

 

San Piero a Sieve 3 febbraio 2015

“Da me a me” di Anthony M. Paglia, recensione di Lorenzo Spurio

Da me a me
di Anthony M. Paglia
Narcissus.me, 2013
Pagine: 162
ISBN: 9788867558179
Link diretto all’acquisto in formato e-book

 

Recensione di Lorenzo Spurio

41W8v4cRE+L__AA258_PIkin4,BottomRight,-31,22_AA280_SH20_OU29_E’ convinzione comune e per lo più errata che un bambino che  vive in stato di inaffettività genitoriale o sottoposto a singolare vicende durante l’infanzia, possa riportare durante il suo percorso di crescita delle problematiche psicologiche motivate da un certo trauma che ne minino la stabilità. Non è, però, quello che accade a Giacomo, il protagonista di questo romanzo di Anthony M. Paglia intitolato “Da me a me”. La storia contenuta in queste pagine non è facile perché si intesse su una serie di motivi difficili che fanno riferimento al trascorso affettivo del protagonista, un rispettabile uomo sessantenne senza figli a cui viene data in affido una ragazzina non ancora maggiorenne, figlia di un suo amico deceduto. Le immagini che contraddistinguono i vari episodi che l’autore narra si connotano per essere violente e l’autore quasi si domanda se Anthony M. Paglia non abbia in realtà calcato troppo la mano e voluto inserire troppe cose in questo romanzo.

La storia si apre con l’affido di Giulia, una ragazza che ha tentato il suicidio più volte e che è stata rinchiusa in una clinica dove, pure, i medici cercano di curarla dall’anoressia. Piano piano l’autore sviscera le ragioni del mal di vivere della ragazza rintracciandole nel grande amore verso il padre che, però, è venuto a mancare perché assassinato per la strada in circostanza mai chiarite, ma che lo vedono, forse coinvolto nella frequentazione di prostitute o legato a un sistema mafioso, e sua madre che, invece, non si è mai interessata a lei e che l’ha procreata semplicemente per adempiere a un impegno preso con il padre.

Anche la personalità di Giacomo è abbastanza complessa; è un sessantenne solo che ha avuto due grandi esperienze amorose alle spalle, entrambe finite, una a causa del ritiro della donna in un convento di clausura, l’altra a causa di suicidio assistito dopo la scoperta di un tumore. Giacomo ha trascorso la sua infanzia con il calore e l’amore deviato della sua balia con la quale, nel tentativo di ricercare l’affetto che la madre non era in grado di dargli, è finito per unirsi sessualmente. Del padre, al contrario, restano ricordi piuttosto positivi se ricordato da solo, senza la presenza della madre, alla quale era brutalmente assoggettato a livello mentale tanto da diventare una marionetta: “Mi ero convinto che quello di mia madre fosse un meccanismo perverso, dire una cosa e poi negarla, chiederne una e poi dire di non averlo mai fatto per confondere e sottomettere mio padre, rendendolo un fantoccio. Oppure semplicemente per litigarci, poter urlare, fare una scenata, dopo sembrava ricaricata, come se avesse assorbito le sue energie, succhiato la sua linfa vitale. Bastava guardarli. Lei pimpante e rilassata, la schiena dritta e lo sguardo altero, sicuro che guardava verso l’alto, la sua dimensione giusta. Lui con schiena ricurva, gli occhi verso il basso come se fosse lo straccio bagnato che si passa sul pavimento” (p. 52).

La distorsione dei rapporti che Giacomo è portato a sperimentare sulla sua pelle in un clima familiare dove dominano la sopraffazione e l’indifferenza lo porterà ad avere addirittura un rapporto sessuale con la madre quando lei, ormai, è diventata completamente pazza. Di questo il lettore ne verrà a conoscenza solo nelle ultime pagine del libro e nel racconto che fa a Giulia osserva: “Da piccolo mi mancò terribilmente una madre normale” (p. 65). Poi il doloroso e poco imprevedibile atto estremo del padre, il suicidio, l’unico mezzo con il quale riuscì a sottrarsi dalla donna che gli aveva rovinato la vita, gesto che Giacomo non è in grado di condannare, ma che condivide.

La cornice narrativa è quella dei dialoghi serrati che l’uomo ha con la ragazza che le viene data in affido e che si porta a casa con sé, all’interno dei quali si inseriscono i ricordi melanconici e tormentati del passato dell’uomo che, da subito, alla ragazza chiarifica la sua volontà: prenderla con sé nella sua casa per adempiere alla volontà del padre, adducendo che a livello sessuale non è attratto da bambine e, soprattutto, che è impotente. I due trascorreranno molte giornate insieme durante le quali si conosceranno e Giulia, seppur non lo riconoscerà mai verbalmente, comincerà a provare un vero affetto nei confronti di Giacomo. Ed è in questo modo che anche la ragazza racconta il disagio che ha vissuto sulla sua pelle e che l’ha portata in clinica: non solo l’esaurimento dovuto alla morte del padre, ma anche la relazione sessuale con un uomo molto maturo che, in virtù della sua bellezza, le aveva proposto di lavorare nel mondo della moda, forzandola però a dimagrire (“Scoprii di essere grassa, la mia 40 per loro era troppa roba”, p. 87).

L’anoressia, della quale al termine del romanzo, non ci è detto se la ragazza è guarita o no, quale disturbo alimentare non è che la risposta a una serie di condizioni alle quali è stata sottoposta che l’hanno ridotta a pesare cinquanta kili. Essa si lega a una serie di altre condizioni che evidenziano deficienze nell’utilizzo del proprio corpo quale l’impotenza di Giacomo alla quale si è accennato che, come il lettore poi scoprirà, non esiste. A livello sessuale la panoramica delle vicende che vengono raccontate è varia: si va dalla pedofilia (Giulia ha rapporti sessuali con l’uomo che la introdurrà nel mondo della moda quando non ha ancora diciotto anni), al lesbismo (di Giulia con una sua amica, osservato vouyeristicamente, non visto, da Giacomo), all’incesto (di Giacomo con sua madre) e addirittura a uno spiazzante coup de theatre che vedrebbe Giulia essere un ermafrodito.

Nel romanzo assistiamo a manifestazione inaudite di cattiveria e di violenza che possono far chiedere al lettore quale sia il reale intento dell’autore: se dipingere una realtà sociale ormai disfatta, rovinata dalle sue stesse mani o se, invece, far riflettere su quanto la vita a volte possa accanirsi con una sola persona. Suicidi, inaffettività, violenze psicologiche, episodi di pedofilia, drammi personali, amori persi e ritrovati dopo tanto, quando non c’è più tempo per poterli rivivere perché intanto la vita ha fatto il suo tempo e sono sopraggiunti mali incurabili come nella storia di Giacomo con Lucia, chiarificano al lettore quanto la vita umana sia spesso accidentata da episodi non voluti, arrivati per caso e ai quali l’uomo deve sottomettersi per cercare un futuro migliore, convivendo con essi e costruendo la sua personalità, giorno dopo giorno, su queste circostanze.

Quando la desolazione interiore per tanto male di vivere può attanagliare l’anima, la confessione dei propri tormenti a qualcuno può diventare un percorso salvifico ed è ciò che Giacomo fa nei racconti a Giulia nei quali in fondo finisce per parlare quasi sempre di lui, come il titolo del libro stesso evidenzia “Da me a me”. Il discorso è concentrato principalmente sul Giacomo di allora e il Giacomo di adesso, un rimbalzo di palla tra infanzia e maturità, dolori e privazioni che lo porterà, come si è detto ad attaccarsi a Giulia con un reale carico affettivo. Ci sarà tempo anche per un loro rapporto sessuale, è vero, ma come ricorda la ragazza, il sesso oramai nella nostra società e come siamo soliti intenderlo, non è che un gioco atto al puro divertimento: “Scopare non conta niente, importanti sono sole le parole, quelle vere e quelle finte ma comunque dette” (p. 157).

Sembra non esserci troppo spazio ai sentimenti nel personaggio di Giulia che, però, una volta che scopre l’assenza per sempre dell’uomo che ha imparato a conoscere e che con la sua terapia dialogica l’ha effettivamente curata, ne sentirà una profonda mancanza.

Lorenzo Spurio

-scrittore, critico letterario-

 Jesi, 15-08-2013

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

E’ uscito il nuovo libro di racconti di Iuri Lombardi: “Il grande bluff”

Il grande bluff
di Iuri Lombardi
Lettere Animate Editore, 2013
ISBN: 9788897801887
Pagine: 123
Costo: 10 €
Link alla vendita del libro
 
 
9788897801887SINOSSI: Il libro è una raccolta di racconti scritti negli ultimi dieci anni dell’autore e affrontano tematiche diverse legate tra di loro ad un filo sociale e civile. Una certa attenzione, presente in tutti i racconti, è il tema della emarginazione, di ogni tempo e luogo. Un libro sulla società e sul mondo “moderno” che vuole far riflettere e stuzzicare idee e pensieri di persone forse assopite nel consumismo.

 

 

 

 

 

 

 

L’AUTORE

23119048_la-sensualit-dell-erba-di-iuri-lombardi-recensione-di-lorenzo-spurio-0IURI LOMBARDI nasce a Firenze nel 1979.
All’età di diciannove anni inizia a fare il giornalista presso alcune testate locali. Nel 2005, dopo anni di costante rapporto con la stampa, sia come free-lance sia come pubblicitario, approda in radio con un programma sul cinema presso Novaradio di Firenze dietro i microfoni di Universo di celluloide. Nel 2006 esce il primo romanzo, scritto a quattro mani con lo scrittore Vincenzo Labanca, Briganti e Saltimbanchi: una storia storica-antropologica, ambientata in Lucania al tempo dei briganti; del 2009 è il secondo, Contando i nostri passi; un romanzo di formazione sugli anni della gioventù universitaria. Nel 2011 esce il terzo romanzo, La Sensualità dell’erba; una storia complessa e fortemente attuale sugli intrecci di sesso e potere.Nel 2013 pubblica per Photo City Iuri dei Miracoli e sempre nello stesso anno per Lettere animate la raccolta di racconti Il Grande Bluff-l’efebo ed altre coincidenze.
Da anni attivo collaboratore e protagonista della cultura fiorentina tramite eventi, spettacoli, dibattiti organizzati, collabora a diverse riviste letterarie. É presidente dell’associazione culturale PoetiKanten ONLUS.
http://www.iurilombardi.altervista.org/bio.html
http://www.facebook.com/iuri.lombardi

“Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile”, Edizioni Agemina (2012)

Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile
di AA.VV.
Curatore: Pina Vicario
Edizioni Agemina, Firenze, 2012
ISBN: 978-88-95555-52-5
Pagine: 134
Costo: 10 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio
Uomo!
Riprendi il tuo posto,
evita il danno e l’imbarazzo
di un mondo spogliato.
(“Uomo” di Sandra Carresi, p. 91)

Antologia-2Appena una settimana fa ho avuto il piacere di conoscere la signora Pina Vicario, poetessa e dirigente di Edizioni Agemina, una realtà editoriale di piccole dimensioni ma che sta seguendo numerosi e validi autori del panorama culturale contemporaneo. In quell’occasione la signora Vicario mi ha omaggiato di una copia del volume poetico-antologico dal titolo Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile, edito per l’appunto dalla sua casa editrice. Ne sono stato molto contento, perché un’antologia di poesia civile è probabilmente quello di cui avevamo realmente bisogno in questo oggi difficile e alienante, come pure la stessa Vicario osserva nella sua interessante nota di prefazione. Parlare di poesia civile significa imboccare un percorso il cui inizio va rintracciato in decenni e secoli a noi distanti perché, anche se i testi di storia di letteratura dedicano uno spazio approssimativo al genere, la poesia civile, voce dell’uomo e del popolo (ossia dell’uomo che si unisce) sulle problematiche che soffre sulla sua pelle, è sempre esistita. Diversi i problemi, le esigenze, le denunce o gli “inganni sociali”, ovviamente, uguale, invece, il senso di oppressione, emarginazione e sconfitta del “povero cristo” che soffre direttamente sulla sua pelle condizioni d’indigenza che contrastano, invece, con l’opulenza di chi comanda per il bene del paese. O che dovrebbe farlo.

Per questo l’antologia si apre con una prima parte nella quale si da’ spazio ad alcuni grandi poeti di sempre: William Blake, il precursore del romanticismo inglese, l’esistenzialista Ungaretti, il pessimista Leopardi, Neruda e vari altri scrittori di altissima levatura che, a loro modo, danno la rappresentazione del dramma sociale. Tra questi ci sono versi “potenti” e dolorosi come quelli di San Martino del Carso di Ungaretti e delle considerazioni amare sul senso del nascere, il genio recanatese scrive in “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”: “Nasce l’uomo a fatica,/ ed è rischio di morire il nascimento” (cit. p. 10).

La seconda parte del volume, quella più ampia, da’ invece voce ai poeti contemporanei, più o meno noti, presentando anche una scheda biografica per ciascuno di essi. Un’analisi esaustiva dell’intero volume presumerebbe una scrittura critica attenta per ogni componimento; mi soffermerò brevemente solo su alcuni testi e versi, invitando però il lettore a leggerli tutti, con altrettanto interesse ed attenzione.

Marzia Carocci, poetessa e critico-recensionista fiorentino, celebra il valore della donna nella lirica “8 Marzo 1908” che rievoca la tragica morte in un rogo scoppiato in una fabbrica americana, evento attorno al quale poi nacque la “festa della donna” che tutti gli anni celebriamo. La Carocci ammonisce il lettore invitandolo a ricordare quel sacrificio e il valore-dono che la Donna stessa rappresenta: “E tu donna, che ancora lotti invano/ musa, mistero, madre del tuo tempo/ ricorda che quel fiore profumato/ è rosso sotto un giallo camuffato/ del sangue delle donne forti e fiere” (p. 31). Rosalba Satta Ceriale in “Ma la poesia non muore” riconosce il valore di questo genere letterario: difesa, approdo, consolazione e forza per concludere “Ma la poesia non muore con l’inganno” (p. 39). Nicoletta Corsalini, invece, dipinge in una lirica incalzante con dei versi reiterati, la violenza dell’uomo che si macchia di peccato, reato e prepotenza con le sue atroci azioni senza rendersi conto che ferisce se stesso nel momento in cui le compie.

Parlare di sociale non significa parlare solo di povertà, ma di tutte quelle realtà che pongono l’uomo in una difficoltà inarrestabile nel condurre una vita dignitosa: abbandono, esilio, l’essere orfani, la violenza sessuale (si legga la poesia “Broken” di Davide Rocco Colacrai, basata su di un doloroso episodio d’incesto, p. 67), l’offesa ricevuta, la prostituzione (si legga la bellissima lirica di Loretta Giannangeli intitolata “La giovane prostituta nera”, p. 55), la denigrazione, lo schiavismo, lo sfruttamento lavorale (leggere “La fabbrica che uccide” di Paolo Tonelli, p. 114), la sofferenza per la guerra (leggere “Partigiani” di Giorgia Francesconi, p. 105 che si chiude con dei versi magnifici: “Fammi lottare per il meriggio della Vita”), il vagabondaggio, la mancanza di un lavoro, la discriminazione religiosa, il razzismo e così via. C’è dolore, ma non rassegnazione in queste pagine, le lacrime si mescolano alla nuda terra, alla polvere e le grida sembrano squarciare il silenzio. In “11 settembre” Maria Grazia Castagna rievoca l’attacco più doloroso che la società contemporanea abbia mai subito scrivendo “l’umanità si accartoccia/ opulente e sciocca/ nel delirio” (p. 108).

Questo volume regala al lettore pepite d’inestimabile valore, pagina dopo pagina. Solo dalla riflessione sul mondo e dalla comprensione, che giungono solo grazie alla compartecipazione e alla condivisione d’idee, si può modificare la società nel bene, proprio come “L’uomo di fumo” di Daniele Carboni in cui l’uomo, dopo aver “emarginato, rifiutato e cancellato”, giunge a una riflessione aperta sul senso dell’esserci.

Non ci sono migliori parole che quelle usate da Anna Maria Folchini Stabile nella sua poesia “Corrono gli anni…”, un quadretto di consapevole e riconoscente storia dell’uomo, dell’italiano nella fattispecie, con riferimenti ad eventi storici dolorosi. La speranza e l’ottimismo, che sono elementi comuni in molte poesie di questo libro, non sono una manifestazione effimera dell’utopia che tutti i giorni rincorriamo, ma sono esse stesse rivelatrici di una lucida volontà di migliorarsi, aiutarsi e scoprirsi utili all’altro a partire dai più piccoli gesti:

Ci saranno
giorni migliori
quando tutto
avrà compimento,
quando ognuno,
conosciuto il suo ruolo,
farà della storia
il suo Credo (p. 113).

Lorenzo Spurio

Jesi, 13-02-2013

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

“Tenere a bada la pantera identitaria” – Una riflessione sul concetto di identità, a cura di Lorenzo Spurio

di LORENZO SPURIO

 

 

“L’intera umanità non è fatta d’altro che di casi particolari, la vita è creatrice di differenze, e se c’è “riproduzione”, non è mai in maniera identica” (p. 26).

 

 

Questo scritto-analisi a continuazione è ispirato alla lettura dell’interessante saggio di Amin Maalouf intitolato “L’identità” che venne pubblicato per la prima volta in Italia nel 1999. L’edizione alla quale mi riferisco e dalla quale sono tratte le citazioni è Amin Maalouf, “L’identità”, Milano, Bompiani, 2009. La riflessione che di seguito viene fatta sulla centralità del tema dell’identità con le conseguenti spiegazioni di carattere storico-politico-religioso sull’animosità tra nazioni, razze o religioni, serve inoltre per affrontare tematiche importanti e di dominio pubblico nella nostra attualità quali l’internazionalismo, l’intercultura, la cooperazione e la fratellanza tra paesi stranieri, l’affratellamento, l’integrazione o al contrario, fenomeni meno positivi quali la disintegrazione, l’omofobia, la violenza, la supremazia, la segregazione e così via.

L’intera dissertazione parte dall’idea che secondo Maalouf ogni persona ha sì una sua identità, ma essa stessa è a sua volta una “identità composta” che differenzia ad esempio un italiano dall’altro[1], parafrasando potremmo chiamare in causa Pirandello che con i suoi romanzi e commedie ha messo in scena proprio la complessità e allo stesso tempo la fragilità dell’identità umana. O addirittura si potrebbe far riferimento alla nascita di una corrente filosofica, l’esistenzialismo, che fa dell’analisi ripiegata sul sé la ragione primaria. Ma senza dover necessariamente citare gli altri per esemplificare un concetto, credo che il testo di Maalouf possa dar adito a una serie di riflessioni su temi cruciali per il quieto vivere e d’interesse globale.

Amin Maalouf, scrittore e saggista di origini libanesi, nel saggio  “L’identità” traccia in maniera teorica quelle che sono le basi per l’integrazione sociale, la spiegazione del contrasto tra Occidente e Oriente, l’animosità tra culture, lingue ed etnie diverse facendo spesso riferimento a particolari e dettagliati momenti storici dell’umanità (guerre, contrasti per lo più). L’intera indagine è volta a sondare quelle che sono le “apparenti insanabili” differenze tra l’io (o il noi) e l’altro. Il bisogno di riconoscere e di manifestare un’identità nasce, infatti, proprio dalla necessità di auto-differenziarsi, di descriversi, di tipicizzarsi e questo processo porta necessariamente a una comparazione con altre “auto-differenziazioni”. Se possiamo definirci italiani ad esempio, oltre alla grande ragione dell’unità d’Italia dei vari territori, è perché esiste un qualcosa esterno che non è Italia… la Francia, la Spagna o l’America ad esempio. Sono luoghi (nazioni per la precisione) che non sono Italia perché non hanno la lingua, la cultura, le tradizioni e le problematiche italiane. Ovviamente questo discorso può essere fatto all’incontrario e da ogni angolazione venga fatto risulterà valido e sensato.

Malaaouf nel saggio dice di più: ci fa intendere che è necessario partire dalla religione (dalle grandi religioni monoteistiche) per comprendere a pieno quelle che sono le culture presenti nel mondo –presenti e passate, vive o morte, maggioritarie o minoritarie, riconosciute o segregate.

L’animosità dunque tra cattolici e islamici, che tante volte viene richiamata dalla Stampa italiana o internazionale in occasione di tragici episodi deve, forse, essere rintracciata nel pensiero stesso dei due credo. Ma come hanno osservato in tanti nel corso della storia –studiosi, critici, religiosi- nessuna delle due religioni ha in sé qualcosa di negativo o di violento e laddove questo è presente è una cattiva, erronea, personalistica e pretestuosa interpretazione delle Scritture. Se ognuno di noi ad esempio ha ben a mente gli attentati terroristici che alcune cellule fondamentaliste islamiche hanno prodotto in Occidente (l’11 Settembre 2001 a New York o l’11 Marzo 2003 a Madrid, solo per citarne un paio), non deve tuttavia dimenticare la crudeltà ad esempio della Santa Inquisizione, organo “giuridico” della Santa Sede alcuni secoli fa. Allora si potrebbe opinare che quelli erano altri tempi, che si tratta del passato e che nel corso della storia l’uomo ha dato prova di crescita morale e di raggiungimento completo dei fondamenti civici per la conservazione dell’umanità. Tuttavia e purtroppo non è così perché nel mondo esistono e persistono forme di diseguaglianza, estremizzazione e di denigrazione – con forme e modi differenti- in relazione a ciascuna identità, etnia, religione o manifestazione culturale intesa come “identità”.

Il critico ricorda, infatti, il clima di profonda tolleranza che si respirava in alcune città spagnole sotto il dominio arabo: Toledo, fra tutte. Tolleranza pura tra cristiani, ebrei e musulmani. Tuttavia la storia fa il suo corso e purtroppo la storia viene fatta dagli uomini. L’uomo è per sua natura un essere imperfetto perché creato da Dio perché è puntualmente sottoposto a errori (sbagli, peccati, vizi, crimini, abusi, a seconda di come si analizzino tali “errori”). Ed è così che l’uomo in un certo momento della storia ha cominciato a farsi guerra e capendo che in realtà non poteva esserci una ragione tanto valida che corrispondesse al valore della vita umana, ha innalzato la differenza, la distinzione, la varietà a motivo di rivolta, ribellione, disputa, conflitto o guerra. In questo modo sono nati – non sto dicendo niente di nuovo- i peggiori mali della storia: l’emarginazione, la violenza, la segregazione, lo schiavismo, l’omofobia, i totalitarismi e più in generale ogni forma di odio verso l’altro.

Verso la parte finale del saggio il critico sottolinea principalmente due aspetti quali elementi fondanti, cruciali e inalienabili del concetto di cultura: la lingua e la religione. Essi sono ambiti che possono essere legati tra loro (inglesi ed irlandesi parlano inglese, ma i due popoli non hanno la stessa religione) ma il più delle volte non è così. Il critico osserva inoltre che questi due ambiti, queste due “forze motrici” sono state la causa, il motivo scatenante, la miccia che, accesa, ha originato la lotta. Non è interesse del saggio accennare in termini storici e geopolitici a guerre di questo tipo perché ciascuna persona sarà in grado di individuarne da sé almeno tre o quattro esempi.

Maalouf affronta anche i casi di bilinguismo presenti in una sola area geografica portando l’esempio dell’Islanda dove l’islandese –lingua ufficiale- viene usata per lo più in ambiti domestici mentre l’inglese –obbligatorio nelle scuole dall’infanzia- è di fatto la lingua veicolare, del commercio, della politica etc. Ciò che è interessante è l’importanza di salvaguardare le tipicità (linguistiche e di altro tipo), poiché come si estinguono le specie animali si estinguono le lingue ed è importantissimo proteggerle, tramandarle e far in modo che non si perdano. Nel caso del bilinguismo dell’Islanda –che è possibile estendere a ragione a Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia-, il critico osserva “Ciascuna lingua sembra avere il proprio spazio, ben delimitato” (p. 125) ossia ognuna delle due lingue ha una sua finalità e un suo utilizzo e per questo entrambe si conservano e si tramandano non mancando di paventare, però, l’idea che con il trascorrere del tempo la lingua meno utilizzata finisca per esserlo sempre di meno tanto da passare da lingua a dialetto popolare.

Tuttavia non avviene nel mondo esattamente ciò che Maalouf con il suo saggio descrive egregiamente. Se uno straniero che conosce un po’ di spagnolo a Bilbao ferma un passante per chiedere delle informazioni e quest’ultimo gli risponde in basco, allora dobbiamo concludere che la lingua non è esattamente ciò che il critico definisce “fattore d’identità e strumento di comunicazione” (p. 125), ma piuttosto “il perno di ogni diversità” (p. 125) che porta chiusura, marginalità e in alcuni casi emarginazione (nel caso citato motivato da un orgoglio autonomista e patriottista). Può trattarsi di un caso singolo? Può darsi. Ma essendo i casi “singoli” che dettano le leggi del comune vivere dell’umanità allora non dovrebbe essere un qualcosa sul quale sorvolare.

Il critico osserva in più punti che la ricchezza dell’uomo risiede proprio nell’apertura all’altro, nella condivisione di idee e cultura, nell’abbattimento di frontiere, nella cooperazione e federalizzazione, tutti procedimenti che almeno in campo economico-finanziario sono stati raggiunti se si pensa all’Unione Europea o in campo politico-amministrativo se si pensa agli USA, agli Stati Uniti del Messico etc. La cooperazione culturale e l’integrazione sono, invece, aspetti di carattere sociologico e antropologico che sono stati raggiunti felicemente solo in pochi ambienti e la fragilità stesso di questo procedimento –il cui segnale sono i continui fatti di cronaca che puntualmente ci informano di storie tremende- rende il raggiungimento di questo obiettivo una sorta di chimera che ogni volta si sfuma, un sogno al quale vogliamo credere ma dal quale troppo spesso veniamo svegliati. Il critico osserva nella prefazione all’opera datata 2005: “Non basta deplorare una evoluzione così inquietante, né basta scaricare la colpa sull’Altro, chiunque egli sia. Dobbiamo cercare di domare la pantera identitaria prima che ci divori. E, per iniziare, è essenziale che la osserviamo con attenzione” (p. 8).

Il concetto di identità, come si è detto o come si è cercato di far capire, si gioca tutto in un campo di frontiera, di limbo, spesso difficilmente individuabile e sfumato ai cui apici si trovano da una parte la civilizzazione nel senso completo del termine dall’altra le barbarie o per dirla con Maalouf “armonizazzioni e dissonanze” (p. 89). In molti si adoperano per cercare di avvicinare e unire culture tra loro e farle colloquiare, o semplicemente fare ammenda in maniera coscienziosa su errori ingiustificabili fatti dai propri popoli nel corso della storia. Purtroppo sono molti anche coloro che tendono a dividere e a fare delle proprie tipicità il motivo per sopraffare o soggiogare le altre, adoperando pure il revisionismo storico in maniera poco appropriata e col solo fine di portare l’acqua al proprio mulino. Per riassumere, ricorro ancora una volta alle parole di Maalouf: “Gli uomini hanno avuto tante cose in comune, tante conoscenze in comune, tanti riferimenti in comune, tante immagini, tante parole, tanti strumenti condivisi, ma ciò che spinge gli uni e gli altri ad affermare di più la loro differenza” (p. 89).

LORENZO SPURIO

Pamplona, 10/09/2012


[1] Entrambi condividono la nazionalità-cultura-lingua italiana (e questi sono aspetti importantissimi per la determinazione di una identità), ma moltissimi altri aspetti saranno sicuramente diversi: l’italiano che ha madre italiana e padre francese avrà di certo una identità differente (maggiormente composita, se vogliamo) rispetto a quella dell’italiano che, invece, è figlio di due italiani. Ovviamente esempi di questo tipo – non solo a livello linguistico- potrebbero riempire pagine intere di manuali senza fine. Per concludere: “In ogni uomo s’incontrano molteplici appartenenze che talvolta si contrappongono fra loro e lo costringono a scelte penose” (p. 13).

 

 

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