N.E. 02/2024 – “Il Fato”, poesia di Davide Marchese

A stento lo contiene

la nidiata di pulcini

d’anatra in bocca

alla volpe affamata.


Nel sol che ancor rimane

dai contorni indefiniti

fra le piume, una ciocca

par s’irraggi d’una fata.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“La luna e i falò” di Cesare Pavese, recensione di Anna Maria Balzano

La luna e i falò
di Cesare Pavese
Newton & Compton, 2010
ISBN: 9788854118911
Numero di pagine: 143
Costo: 10 €
 
Recensione di Anna Maria Balzano

LA_LUN~1Non mi sembra un paradosso affermare che La luna e i falò di Cesare Pavese è un romanzo in bianco e nero. Scritto nel 1950, appartiene al miglior neorealismo italiano: si pensi a Roma città aperta di Rossellini (1945), Ladri di biciclette (1948) e Umberto D (1952) di De Sica. Nel romanzo di Pavese, però, non è la città, ma il mondo contadino che fa da sfondo ed è protagonista al tempo stesso della narrazione. Una prosa limpida rende la lettura immediata e scorrevole: la parola corrisponde esattamente al suo significato, senza alcun abbandono a metafore o allegorie, ma con qualche sporadica libertà dialettale.

La narrazione procede in prima persona, nella migliore tradizione autobiografica, che lascia il dubbio sulla perfetta coincidenza tra protagonista e autore; come sempre in questi casi, il racconto viene filtrato dal punto di vista del narratore. Qui la storia procede come un viaggio nella memoria di un giovane emigrato che torna al paese d’origine dopo aver fatto un po’ di fortuna. Ma è proprio sull’origine che si richiama immediatamente l’attenzione del lettore: del protagonista-narratore non ci viene detto neanche il nome, ma solo il soprannome Anguilla; di lui si sa però che è un bastardo, allevato da contadini con la prospettiva di disporre in futuro di braccia valide da impiegare nei lavori dei campi.

Radici fragili, dunque, quelle di Anguilla, radici superficiali come quelle delle viti piuttosto che profonde come quelle di altri frutti. Eppure l’esigenza di un ritorno alle origini è così naturale nell’uomo che Anguilla non esita a tornare nei luoghi dell’infanzia anche a costo di rinnovare umiliazioni e ferite sofferte; e il realismo descrittivo di Pavese suscita profumi e odori penetranti, crea immagini di corpi deformati dalla fatica dei campi, dipinge scene di coralità campestre, con una tecnica quasi cinematografica, dove la parola fa da supporto all’immagine e l’immagine dà significato alla parola.

imagesI ritmi della vita contadina sono inevitabilmente legati al succedersi delle stagioni e alle credenze popolari:  dunque la luna non è solo l’astro che diffonde il suo raggio luminoso accentuando il mistero nascosto tra le vigne delle Langhe, ma è il punto di riferimento per le attività contadine, così come i falò vengono accesi per evocare la pioggia con l’umidità evaporata dal terreno.

Il racconto di Pavese, però, non concede nulla all’idillio: la tragedia della guerra civile che dilania l’Italia degli anni quaranta, è in agguato nel racconto ed esploderà alla fine, come esplode la vita di chi, consumato da ritmi faticosi e stressanti, non regge alla durezza del lavoro quotidiano e compie una strage: è il caso di Valino, che lascia il piccolo storpio Cinto alle cure di Anguilla e Nuto.

L’amore stesso s’accompagna alla morte, come nel caso di Irene e Silvia le cui esistenze si concludono tragicamente: quasi un presagio nella storia personale di Pavese. E la più bella delle tre sorelle, Santa, non sfugge a un tragico destino. In cerca d’una felicità sempre negata, come le sue sorelle, si lascia andare ora all’uno ora all’altro, incurante se siano d’opposti schieramenti politici. Il suo corpo straziato dalla fucilazione verrà arso sul luogo stesso dell’esecuzione: da esso si alzerà il più crudele e macabro dei falò. Come a voler affermare che non c’è luogo, neanche il più lontano dalla lotta civile e politica, dove la pace possa regnare se essa non alberga nel cuore dell’uomo. 

ANNA MARIA BALZANO

QUESTA RECENSIONE VIENE PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE. E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.

Odio, vendetta, sangue e stragi nella Saga dei Nibelunghi

Nelle antiche leggende son narrate cose stupende

di guerrieri famosi imprese immense

di feste e di letizia, di lacrime e di pianto

di lotte d’audaci guerrieri, di ciò vedrete narrar meraviglie.

Questi sono i suggestivi versi d’apertura del poema tedesco Nibelungelied nei quali pur facendo riferimento a momenti felici (feste e letizia) s’inseriscono subito i temi negativi (lacrime, pianto, lotte) che adombrano la tranquillità e la pace dei pochi momenti felici.

La saga dei Nibelunghi è un’interessante lettura che va fatta per chi è appassionato di letteratura epica precristiana teutonica, assieme ai carmi dell’Edda poetica islandese e il Kalevala finlandese. Si tratta di un poema epico anonimo scritto in alto tedesco in un arco temporale che va dal 1190 al 1205.

Sono state fatte varie realizzazioni cinematografiche basate su questa opera tra cui il recente Ring of the Nibelungs (tradotto come La Saga dei Nibelunghi, regia di Uli Edel, paese: Germania, Italia, Gran Bretagna, Usa, anno: 2004).

Come ogni epica che si rispetti il cantar dei Nibelunghi presenta vicende di guerrieri eroici, storie di dame e intrighi di corte, imprese, duelli ed aspetti più chiaramente fantastici quali draghi e oggetti magici.

L’elemento del sogno premonitore come avvisaglia di eventi tragici imminenti è ampiamente presente nel testo. L’anticipazione è presente ma sempre in senso negativo: sogni premonitori, sortilegi, previsioni, eventi naturali interpretati come segni dell’imminente futuro hanno sempre una connotazione negativa, preannunciano la tragedia, le lotte, il sangue che verrà versato, i massacri, la morte. («No, mio Sigfrido! Io temo la tua morte, ho fatto un sogno infausto..», v.924.)

Nel testo si fa inoltre riferimento in più punti alla compresenza di cristianesimo e paganesimo elemento che ha permesso gli storici e i critici di considerare la probabile collocazione dell’opera.

Paganesimo e cristianesimo sembrano convivere pacificamente nella saga dei Nibelunghi («Alla sua corte cristiani e pagani vivevano in accordo», v. 1335) anche se ne vengono sottolineate le differenze nelle rispettive liturgie («Cristiani e pagani non cantavano messa nella stessa maniera», v. 1851). E’ impossibile analizzare il poema sia come una sorta di encomio al paganesimo germanico che come un continuo invocare provvidenzialmente un’entità superiore. Secondo alcuni critici Sigfrido (similmente a Beowulf nell’omonimo poema epico inglese) sarebbe immagine di Cristo. Secondo altri un’interpretazione di questo tipo è inaccettabile.

Il tema del destino, del germanico wyrd, pervade l’intera opera come avviene in tutte le narrazioni epiche. E’ viva e costante la consapevolezza nelle genti dei Nibelunghi che la vita non è altro che una serie di eventi casuali e che tutto è dominato da qualcuno di molto potente, il Fato contro il quale è difficile combattere o imporsi. Frasi come «Morirà chi è destinato: lasciamoli morire» (v. 150) abbondano nell’opera e sottolineano l’ineluttabilità del destino e al tempo stesso la sua spietatezza.

Sarebbe tremendamente noioso riportare nello specifico la serie di avventure, di vicende eroiche e amorose narrate nel poema dato che sono presenti numerosi personaggi e famiglie e spesso le loro sorti si intrecciano tra di loro mediante unioni, matrimoni, separazioni, tradimenti, odi, riscatti e vendette, stragi familiari. Tuttavia è possibile individuare, anche abbastanza facilmente, due grandi nuclei narrativi: le vicende di Sigfrido, re del Niederland e Crimilde che iniziano con l’innamoramento dei due e termina con l’uccisione di Sigfrido (vv. 1-1142) e la grande lotta tra Burgundi ed Unni che è trasformata leggendariamente in una faida familiare (vv. 1143-2379).

Vengono narrate le prodezze di Sigfrido, figlio del re dei Nibelunghi. In possesso della spada Balmung, Sigfrido parte per conoscere la bella Crimilde della quale si è innamorato seppur non l’abbia mai incontrata. Alla corte di re Gunther Sigfrido conosce Crimilde e la chiede in sposa a suo fratello ma Gunther, innamorato di Brunilde, regina d’Islanda (foto a destra), chiede a Sigfrido di aiutarlo a conquistare Brunilde. Se ci riuscirà gli lascerà sposare sua sorella. Con degli stratagemmi Sigfrido riesce a far superare a Gunther le prove che Brunilde aveva imposto per farsi sposare. Come da patti, Gunther acconsente a far sposare sua sorella con Sigfrido.

Sigfrido ottiene, dopo l’abdicazione del padre, la corona regale e dopo dieci anni di regno Crimilde dà alla luce un figlio che viene chiamato Gunther in onore dello zio. Nello stesso periodo Brunilde partorisce un figlio che viene chiamato Sigfrido.

Brunilde invita alla sua corte Sigfrido e Crimilde e in quella sede le due regine iniziano a litigare, a punzecchiarsi tra loro allora Crimilde rivela che era stato proprio suo marito Sigfrido, sotto mentite spoglie, a farle perdere la verginità e non suo marito Gunther. Brunilde comincerà a provare un grande odio verso Crimilde.

Intanto Hagen, un vassallo di Sigfrido, firma inconsapevolmente la condanna a morte del suo padrone rivelando qual’è  l’unico punto del corpo nel quale è vulnerabile. Sigfrido viene ucciso. La vedova, Crimilde, debole dal dolore e dal lutto ordisce la sua vendetta. Ulteriore dolore le viene dopo che viene rubato il tesoro dei Nibelunghi.

A questo punto Attila, re degli Unni chiede in sposa Crimilde e lei accetta con l’idea che Attila l’avrebbe aiutata a vendicarsi di Crimilde. La regina Crimilde ordisce l’inganno e invita nella corte i suoi fratelli, tra cui Gunther con la moglie. Hagen riesce ad uccidere Ortlieb, figlio di Attila e Crimilde e ha inizio la grande lotta tra Unni e Burgundi. Anche Gernot e Giselher, altri due fratelli di Crimilde, entrano nella lotta. Con la feroce strage dei Burgundi Crimilde vendicava la morte di suo marito Sigfrido. Alla fine venne incendiata la sala.

Gunther e Hagen vengono uccisi per volontà di Crimilde e anche Gernot e Giselher muiono nella lotta. I tre re dei Burgundi vengono annientati e con loro la loro stirpe.

Se da una parte l’incipit del poema introduceva al tema del bene e del male, alla compresenza di momenti di festa e di letizia a momenti di sangue e di vendetta, nel finale siamo consapevoli che a dominare siano proprio quest’ultimi. Dopo vari tradimenti, assassini, vendette e massacri a dominare, com’è giusto che sia in un poema epico (per altro germanico) è il sangue versato. Gli ultimi versi ci dicono:

Una grande potenza era annientata.

Tutte le genti avevano pena e tristezza. 

                      La festa di corte era finita nel lutto,                                                                           

 perché sempre la gioia si volge in dolore.

Io non vi so dire quel che accadde dopo

se non che si videro piangere donne e cavalieri,

i nobili scudieri, per la morte dei loro cari

              Qui finisce il racconto : questa è la rovina dei Nibelunghi        

           

LORENZO SPURIO

14-04-2011

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