“Federico García Lorca e la Natura Madre”, saggio di Cinzia Baldazzi

Nota introduttiva

Il 22 agosto, ad Assisi, la Sala della Conciliazione del Palazzo dei Priori ha ospitato la presentazione di Il canto vuole essere luce, volume miscellaneo curato da Lorenzo Spurio e dedicato a Federico Garcia Lorca (Bertoni editore, 2021). Coordinato dallo stesso Spurio, il quale ha tenuto una breve conferenza sul soggiorno del poeta a New York, l’incontro è stato introdotto dal saluto dell’editore Jean Luc Bertoni, accompagnato dalla chitarra del M° Massimo Agostinelli su partiture lorchiane, arricchito dal reading di Annalena Cimino, infine corredato dagli interventi critici di Lucia Bonanni e della sottoscritta. La mia relazione, trascritta qui di seguito, è stata dedicata a un aspetto particolare della poetica dell’autore andaluso. (ci.ba.)

Uno scatto durante la conferenza tenutasi ad Assisi il 22 agosto 2021. Da sx: Lorenzo Spurio, Cinzia Baldazzi e Claudio Camerini.
Uno scatto della conferenza tenutasi ad Assisi (PG) il 22/08/2021.
Da sinistra: Lorenzo Spurio, Cinzia Baldazzi e Claudio Camerini

* * *

Anche nel campo della critica vige la consuetudine di lasciare nel lavoro compiuto un’impronta veritiera dei dati sensibili o razionali coltivati sulle tracce autobiografiche del critico stesso, o di quanto sia accaduto o sperimentato dalle persone incontrate.

Perciò questi brevi appunti su Lorca prendono avvìo con il pensiero rivolto al lontano 1967, quando, appena dodicenne, nel secondo anno delle medie inferiori, la professoressa di lettere Anna Maria Perrone Pecchia scoprì per noi l’incanto e la magia dei versi del poeta con il celebre esordio di Los alamos de plata:

I gattici d’argento si piegano sull’acqua:

tutto essi sanno, giammai parleranno.

Il giglio della fonte non urla la sua tristezza.

Tutto è più degno che l’umanità!

All’epoca, il lettore italiano disponeva di poche versioni dal castigliano: a parte qualche tentativo sporadico prima della guerra, si dovrà aspettare il ’52 per le traduzioni del teatro a cura di Vittorio Bodini. Poi, a metà degli anni ’70, a breve distanza, ecco il volume di Carlo Bo con le poesie e quello di Claudio Rendina con gli inediti.

La mia insegnante traduceva in proprio: “los alamos”, ovvero i “pioppi”, diventavano i “gattici”, e il “nunca” venne reso con “giammai”. Più tardi ho creduto di aver compreso la ragione dell’uso di tale termine lessicale, segno denotativo del pioppo bianco, i cui fiori alle estremità dei rami hanno riflessi argentei. Nella raccolta Myricae, pubblicata agli inizi del Novecento, Giovanni Pascoli apre così un famoso componimento:

E vi rivedo, o gattici d’argento,

brulli in questa giornata sementina.

Ho voluto rendere omaggio alla mia insegnante, con la quale sono tuttora in contatto. A lei, all’epoca giovanissima, debbo la prima conoscenza del poeta spagnolo in un periodo della scuola italiana in cui, per le caratteristiche personali e politiche del “personaggio” Lorca, difficilmente se ne parlava ad alunni di dodici anni. Sempre con lei leggemmo alcuni brani della morte di Ignacio.

Perché condivido l’episodio? Poiché la natura antropomorfa risulta centrale nella poësis di Lorca. Gli alberi potrebbero parlare, ma non lo fanno, quasi fossero anziani saggi persuasi di quanto sia inutile comunicare realtà tanto essenziali da non implicare una banalizzazione comunicativa. Da parte sua il giglio – simbolo della forza dell’innocenza – sceglie di tacere, di non violare l’universo urlando ansia, paura, dolore.

Ecco, io credo che l’ars poetica del grande andaluso si possa interpretare, comprendere anche senza aver prima amato e conosciuto la poesia in generale. Però non si può fare a meno di prediligere, di conoscere l’onnipresente Natura, la Φύσις dei nostri fratelli greci: i versi non trasmetterebbero forza, struggimento, impeto, se non presupponessimo un legame saldo e inscindibile dell’autore con il mondo inteso come ordine strutturale, finalistico delle cose.

La Natura sovrana, sia pure sofferente, occupa il terreno utopico preminente del repertorio di Lorca: qui entrano, a pieno diritto, le figure maggiori della produzione teatrale, le protagoniste e i protagonisti di Yerma, La casa di Bernarda Alba, Nozze di sangue.

Il teatro di Lorca è un’immensa area di significati dominata dalla Natura Madre, dal corso degli eventi, dove si celebra – e qui utilizziamo le parole di Lorenzo Spurio – «la frustrazione, la solitudine, l’onore e il sentimento tragico della vita». Lo studioso canadese Northrop Frye scriveva: «Noi pensiamo alla natura come qualcosa di femminile e, in effetti, essa lo è. La natura, in termini più semplici, è Madre Natura».

Un nuovo salto nel passato. Nel 1982, nel pieno dell’attività di cronista teatrale su un quotidiano romano, seguivo soprattutto gli artisti impegnati nell’avanguardia e nell’area sperimentale. Ogni tanto, però, ero incaricata di recensire i teatri stabili. Al Quirino ebbi la fortuna, nonché l’onore, di assistere alla messa in scena de La casa di Bernarda Alba con la grandissima Lilla Brignone, diretta da Giancarlo Sepe.

Quella sera, dinanzi alla tragedia delle donne vestite di nero, riuscìi a capire come a Lorca io fossi legata dal complesso totale dell’amore. Ma non quello vicino allo stupore di un sogno a occhi aperti. L’arte lorchiana mi rendeva felice, consentendo di intervenire nell’angoscia tipica di solitudini, nel tormento di passioni disgregate, tradite, ripudiate.

Era nata così, nell’indole di ragazza, la figura di un “poeta come eroe”, paladino di itinerari di lotta nemica acerrima del male, non in chiave astratta, generica, cioè impersonale: piuttosto, coglievo affascinata l’esito di una personalità pragmatica, fattuale, convincente. García Lorca si rivolge sempre agli interlocutori credendo in tutti noi, uomini, donne, bambini, giovani, anziani, nella scelta di accompagnarli con commovente riserbo e non “trascinarli” in una cerchia intimissima di reazione alle vicende dell’esistenza.

Se molti di noi, dunque, accusano un’umiliante sensazione di impotenza nell’operare su questa terra, altrettanti reputano la ποίησις un’occasione di intervento di ripiego, da gestirsi poiché è l’unica disponibile: essa, del resto si rivelò terribilmente impotente a salvare il poeta dalla morte.

Eppure, ascoltate Yerma, nella tragedia omonima, ammonire il marito Juan:

No, non venirmi a ripetere ciò che dice la gente. Io vedo con i miei occhi che non può essere… Tanto cade la pioggia sulle pietre che le fa ammorbidire e vi fa nascere la ruchetta, che la gente dice che non serve a niente. “La ruchetta non serve a niente”, ma intanto io la vedo agitare nell’aria i suoi fiori gialli.

Nell’immaginario di Federico, la ruchetta costituisce una metafora della poesia: non serve a niente, predilige le circostanze difficili, le idee più improbabili, però rimane lì ad agitare nell’aria i suoi versi.

Uno scatto fatto a Madrid nel giugno 1934 che ritrae Federico Garcia Lorca (primo a sinistra) insieme all’attrice Lola Membrives, che portò sulla scena in Sud America i maggiori successi teatrali dell’autore, e il drammaturgo Eduardo Marquina del quale Lorca si auto-dichiarò il “figlio putativo”

Yerma coincide con l’esempio di testo teatrale lorchiano da me preferito. Ricordate? Lei non riesce a concepire, il marito Juan, da parte sua, non vuole avere figli.

Il dramma ha origine nel vigoroso ambito interiore di un autore omosessuale, dunque lontano dal poter vivere uno stato di gestazione e filiazione naturale del microcosmo della sfera paterna: ebbene, pur non condividendone l’esperienza reale, Federico riesce a colmare le pagine con l’altissimo appello alla ποιητική τέχνη del fenomeno opposto: la sterilità. Il poeta di Fuente Vaqueros personifica con il suo contrario una fecondità partecipata in un delicato spazio da “spettatore”: coinvolto, addolorato nell’animo, non avendo però mai potuto abbracciare un bambino concepito come sangue del suo sangue.  

Sono sempre stata accompagnata da un interrogativo: quale tecnica semantica, quale ispirazione artistica può essere all’altezza di rendere uno scrittore capace di incarnare eventi sconosciuti al suo divenire quotidiano? Come può Lorca parlare così crudamente, con precisione, dell’essere padre, dell’essere madre?

La domanda diventa però un’altra. Perché mai i poeti dovrebbero mentire? Cioè affermare di percepire ciò che non sentono, di amare contesti a loro indifferenti?

Mentre a dodici anni leggevo Lorca, più o meno a quell’età, insieme all’amica Dina Tron, scoprivo i primi dischi di Bob Dylan distribuiti in Italia. Da allora, Dylan non l’ho abbandonato e, modestamente, nel tempo sono divenuta una dylanologa doc. Ora, Dylan – soprattutto da giovane – ha scritto e interpretato numerose canzoni tristi, lamentose, di amori impossibili, di solitudini, di vite sprecate. Nel passato ho tentato di identificare l’aura che gli permetteva di rappresentare così efficacemente le vette dello sconforto e gli abissi del dolore, avendo lui condotto, invece – e per sua fortuna – una vita di tutt’altro genere.

È questo lo scatto semantico-semiotico tipico delle menti eccelse: Lorca, come Dylan, è riuscito a superare, nell’utopica concretezza, il valore del messaggio rispetto al manifestarsi nel reale, perché lo ha avvertito reale, anzi realissimo, nonostante non rispondesse alla legge ferrea, quotidiana, della verosimiglianza.

Così, per il poeta andaluso, la donna appare figura dalla struttura sociale-ideologica composita e variegata, coincidente con un modello di rivolta a soprusi, male, bassi impeti malvagi, ipocrisia, limitatezza nella ragione, tendenze immorali.

Ho iniziato con un breve accenno all’elemento dell’acqua su cui si piegano i gattici dello splendido componimento. Allo stesso modo vorrei concluderlo.

Il mio viaggio lorchiano, l’ho accennato, ha preso il via, da giovanissima, nella sfera volitiva di un Io Conscio sollecitato dalla tensione alla maternità: nell’adolescenza, l’Inconscio registra in atto una sorta di preparazione ad essa, con ansie, desideri, timore di esserne o meno all’altezza, chissà, non volerla affatto.

In una scena di Yerma, la protagonista chiede a una vecchia come si possa combattere la sterilità. L’anziana contadina risponde:

Io? Io non so niente!

Io mi son messa a pancia all’aria e ho cominciato a cantare.

I figli arrivano come l’acqua.

A scuola, in classe, leggemmo uno stralcio del Pianto per Ignacio Sánchez Mejías, in particolare le righe conclusive del Corpo presente:

Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti

perché s’abitui alla morte che porta.

Va’, Ignacio. Non sentire il caldo bramito.

Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!

Due immagini che non dimenticherò mai: l’acqua trasporta i figli, il mare smette di esistere.

Da ragazza ingenua, non sapevo spiegare come mai, di fronte all’illimitato dolore di Federico per la fine dell’amato amico Ignacio, ne sortisse, affascinante e impagabile, l’input di connetterlo a concreti, coinvolgenti flash di maternità realizzata e non: dall’immagine funerea delle “madri terribili” associate allo scontro con il toro, alla figura pallida e lunare della bimba dolente, al bambino che porta il lenzuolo bianco, fino ai versi finali allusivi della improbabile nuova nascita di un uomo come Ignacio.

Adesso, invece, lo comprendo, con l’aiuto dell’anziana amica di Yerma: per esprimere l’immensità della sofferenza provata per la scomparsa dell’innamorato, il poeta ha giudicato fosse indispensabile avvicinarlo alla visceralità, al quid esclusivo del liquido primordiale, del vincolo, del contatto definitivo mamma-figlio, vissuto in absentia, misurandone la mancanza.

Il nostro poeta non accetta di vedere il torero senza vita, addirittura non vuole gli coprano il volto con delle bende perché si abitui al buio assoluto. Infatti, è come se Ignacio volasse oltre la prevaricazione della τύχη, della cattiva sorte, mentre l’autore auspica, anzi stabilisce, che muoia, all’istante, persino il mare. A noi madri, se perdessimo un figlio, la croce, lo sgomento apparirebbero tanto smisurati da essere in grado di stravolgere non la morte – sarebbe poco – ma il θάνατος e insieme il principio medesimo di esistere-sopravvivere nell’elemento simbolico delle distese d’acqua fluviali, oceaniche, la cui presenza rigeneratrice si annullerebbe.

Magari è accaduto a ognuno di voi di conoscere persone colpite da enormi tragedie: può succedere diventino meno sensibili alle pene, ai lutti altrui, poiché inconsciamente, avendo subito il male estremo, per loro è comprensibile che esso abbia annientato ovunque ogni bene. Dunque, anche per gli altri.

Ma, in conclusione, cosa dire? Lontana da noi l’idea di smentire, ma anche solo di correggere, il pensiero di Federico. Nonostante tutto, speriamo che i fiumi continuino a scorrere impetuosi, in eterno si susseguano le onde di mari e oceani, per poter continuare a vivere e a leggerlo.

Cinzia Baldazzi

Roma, 22 agosto 2021


Il presente testo viene pubblicato su questo sito dietro autorizzazione espressa da parte dell’Autrice la quale nulla avrà a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. La riproduzione del presente testo, in forma di stralci o integrale e su qualsiasi supporto, non è consentita senza l’autorizzazione dell’autrice.

“L’azzurro e l’obliquo” di Maria Luisa Colosimo, recensione di Lorenzo Spurio

L'azzurro e l'obliquo - Colosimo.pngTitolo di per sé ambiguo e che apre alle possibilità, a una fertile evocazione, questo dell’opera poetica di Maria Luisa Colosimo, L’azzurro e l’obliquo (Lebeg, Roma, 2017). Il volume, che si apre con una perspicace ed esaustiva nota critica firmata da Giovanni Perrino, si mostra formato da due comparti in sé ben definiti: un poemetto iniziale che copre svariate pagine, una sorta di dialogo con sé stessa, e poi una serie di liriche dalla fattura per lo più affine, numerate in senso progressivo da numeri romani, delle quali si apprezza, invece, la brevità dei contenuti espressi.

Perrino allude a una possibilità di “tonalità corale” nell’opera della Colosimo della fattispecie delle alte opere della classicità greca dove una sorta di rimando echeggiante, di feedback uditivo vien dato di percepire da una danza indefinita di voci e toni che in qualche modo accerchiano i protagonisti principali. C’è senz’altro, nel piglio letterario della Nostra, un dire che è dotato di una pluri-evocatività vale a dire che si realizza – o potrebbe realizzarsi – su piani linguistici e concettuali diversi. Nell’opera si rintracciano varie isotopie, ovvero immagini che, radicate nei versi, vengono reiterate, riproposte e utilizzate più e più volte, anche in contesti versificatori differenti, a intendere una centralità tematica. Non sono, però, come semplicisticamente si potrebbe essere portati a credere, delle vere e proprie unità tematiche, piuttosto delle sfumature di senso, delle aggettivazioni arcane e pertanto insondabili, delle metonimie che la sola autrice ha definito in quanto tali perché rilevanti nel suo percorso di acquisizione della realtà e di trasposizione nel testo. Mi riferisco all’universo, diremmo al grumo, dell’azzurro che, oltre a far capolino nel titolo, come pure nella tonalità dell’iride della donna raffigurata nella copertina, ritorna e accompagna il lettore in questo percorso poetico, scevro da logicismi, definizioni temporali o dettati che abbiano in qualche modo la volontà, pur velleitaria, di ricostruire un passato, una memoria e un presente in forma standardizzata, comune: “Ti parlo dell’erba/ e della memoria/ turchina/ che tutto lega/ come un filo di lana” (10-11).

È evidente il percorso compiuto di conoscenza del dolore e il tentativo d’interfacciarsi ad esso, sia esso dovuto da cause insondabili che la poesia non svela, sia esso più chiaro laddove, ad esempio, ci narra di distanze e difficoltà con la figlia femmina, in un percorso altalenante nel quale non è difficile scorgere il tormento, se non il vero avvilimento della donna poeta (“Nessuno si è mai messo/ in una situazione così/ moglie precaria/ e una figlia/ che non è/ una figlia”, 60; “Non voglio più/ vedere/ mia figlia./ […]/ Tre giorni ancora/ e la pazzia/ mi prenderà”, 66). Si tratta pur sempre di un “dolore/ nel silenzio/ e nell’azzurro invidiato” (12) ossia sospeso in uno spazio che sembra illusorio in quanto dominato dall’assenza e che, invece, è talmente preponderante e assiduo da riuscire finanche a macchiare quell’azzurro incontaminato che domina nel pensiero.

Il ragionamento ermeneutico non deve, però, tralasciare l’altro lemma che figura nel titolo, al quale la Colosimo ha senz’altro voluto attribuire un significato che va ben oltre a quello comunemente inteso. Con ‘obliquo’, infatti, intendiamo una posizione non regolare, non uniformata alla geometria retta, che tende verso un punto distante percepibile, appunto, secondo una direzione a diagonale, piuttosto che rettilinea. Obliqua può essere una direzione, una visuale (“La mia anima/ in fondo/ come occhi/ azzurri/ che guardano obliqui”, 16), la disposizione di un oggetto, la conformazione di un muro ma anche emblema di una stortura, di un’imperfezione che siamo in grado di cogliere. Può riguardare, qui nella materia poematica, un qualcosa che non ha riferimento diretto all’universo fisico e oggettuale piuttosto intimo, personale, dell’animo. Una predisposizione a vedere che ha in sé un vizio, un sentimento di rivolta interiore, un non soddisfacimento completo, un continuo e rivoltante pensiero che zirla nella mente e fastidia.

Ogni verso ha espressione, oltre che nei termini linguistici che lo costituiscono, in forme e tonalità di colori, sfumature, cromatismi spesso esplicitati, altre volte allusi o intuibili ma sempre e comunque assai vividi e presenti. Il colore (“È tardi per dipingere/ in rosso”, 23) è una dominante nell’opera della Colosimo che l’avvicina ancor più a un poeta visivo e tellurico come Federico García Lorca a cui pure Perrino si riferisce, indirettamente, senza citarlo, quando avvicina l’opera in oggetto ad una forma di composizione poetica tipicamente orientale, il divan. Celebre è infatti il Diván del Tamarit, una delle opere lorchiane meno studiate ma senz’altro efficaci per le forme adoperate, erede di un fascino incontaminato verso il gitanismo e, ancor più, la cultura del mondo arabo.

L’autrice riflette sui limiti umani in merito alla sua capacità di serbare fulgenti e concreti i ricordi che appartengono a un’età non più presente (“Vieni più vicina/ nel centro/ della memoria”, 25) come pure non manca di far riferimento a un male assai diffuso che ammorba l’animo degrandandolo, quello della solitudine. Solitudine che non viene dato di comprendere in maniera così asettica e invalicabile se sia in parte una sorta di scelta di distanziarsi dal mondo o se, invece, fa seguito a dati accadimenti che hanno preteso appunto la fine di una storia, la rottura di un legame, la fine delle relazioni sociali prima determinanti. Pare di poter propendere per tale seconda possibilità se consideriamo che mai nessuna persona anela consciamente a una completa solitudine che immancabilmente comporta un doloroso isolamento e separazione coatto dall’ambiente circostante. Oltretutto, nella poesia indicata come “VIII” (le liriche, infatti, non hanno titolo) leggiamo: “Troppo stentata/ la mia vita/ troppo bisognosa/ di riparazione/ troppo bisognosa/ di misericordia” (48). Sono presenti in tali versi due concetti molto importanti per il cristiano: la nemesi, vale a dire il riconoscimento di una problematica che è risolta con un atto di compensazione (s’intende ovviamente non in termini meramente materiali!), quale appunto “riparazione” come la stessa dice e, al contempo, la misericordia che è quel sentimento di autentica e disinteressata vocazione e ascolto verso l’altro. La ricerca di una misericordia e di una riparazione, vale a dire l’esigenza di porre pace con sé prima che con gli altri, possono allora configurarsi come motivi trainanti che potrebbero consentire di rompere la solitudine e di lenire il tormento.

Nelle Diciannove poesie, che è la seconda sezione dell’opera, molte attenzioni vengono riposte nei confronti del rapporto con la figlia, ora distante, ora incompresa dalla madre, ora cercata e riavvicinata. Monologhi che si aprono, dunque, a un’alterità a lei così intima che finiscono per diventare dialoghi sussurrati, talora addirittura moniti per un riavvicinamento e una sana alleanza tra le due. Latente e palpabile quel sentimento di tormento e di pesantezza dal quale la poetessa non sembra capace o volitiva dal distanziarsi, evidenziato così bene in quegli “occhi/ che/ mangiano/ la vita/ poco/ a/ poco” (69), segno di un’erosione continua che non sembra possibile arrestare. Eppure l’occhio che da obliquo ha descritto la realtà circostante e il microcosmo devastato dalla sofferenza, sa anche alzarsi e gettare il suo sguardo rettilineo: “Non è troppo caldo/ non è troppo freddo/ per guardare/ le foglie e l’asfalto” (14).

Lorenzo Spurio

Jesi, 14-02-2018

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.  

“Figli di terracotta” di Katia Debora Melis, prefazione di Lorenzo Spurio

Katia Debora Melis: la fragilità della poesia

Figli di terracotta, Thoth Edizioni, 2016

Prefazione di Lorenzo Spurio 

 

Oggi che tutto si può fare

che niente più stupisce

scandalosa è la poesia.

Due importanti lemmi linguistici coniugati a costituire una sembianza al contempo astratta e concreta costituiscono il titolo integrale della nuova silloge poetica di Katia Debora Melis, Figli di terracotta. Da una parte i “figli” richiamano quella corporeità di immagini legata al senso concreto dell’esistenza e di un vissuto che si tramanda nel corso delle generazioni mediante l’atto riproduttivo (una sorta di palingenesi continua dell’umanità), dall’altra, la “terracotta” quale materiale che esiste non in quanto naturale (come può esserlo la roccia lavica o lo zolfo) ma quale prodotto di lavorazione dell’uomo ci introduce immancabilmente a un universo plastico caratterizzato per la fragilità della materia, per la connaturata finezza dello stesso soggetta a un deterioro e che necessita, dunque, di una maneggiabilità attenta, se non addirittura severa e rigorosa.

A fare da apripista a questa raccolta poetica è una poesia iniziale che funziona come preludio a ciò che la Nostra andrà occupandosi nel corso del volume, non è un caso che essa sia intitolata “Genesi” quasi a voler intendere che questo libro non è che una poeticizzazione dell’atto esistenziale, di analisi di ciò che accade fuori di noi, fatta però con viva coscienza non solo della finitezza delle cose e della loro corruttibilità, ma anche dell’importanza rivelatrice di fatti prodromici, genetici, che hanno in un certo senso permesso l’avvio dell’umanità: bellissima la resa iniziale del “Sole/ [che] ha ingravidato la Terra/ […] [dalla quale] nacquero i figli di terracotta”. Colpisce da subito l’utilizzo di un linguaggio quanto mai diretto e quasi materico, cadenzato in versi per lo più brevi al fine di rendere plasticamente tanto la materialità geofisica (Terra) che celeste (Sole) a descrivere un percorso tra i due emisferi del reale e dell’aldilà, del concreto e dell’ignoto.

Si ravvisa un senso a volte più marcato altre volte meno di desolazione, ma -intendiamoci- non è quella desolazione che priva l’animo di speranze e ammorba in cupe incertezze o conduce alla noia titanica, piuttosto è una desolazione misurata, figlia di un’indifferenza sociale che sembra aver perso misura nei comportamenti e che vive -volente o nolente- in una sperequazione diffusa nei confronti del senso di civismo, una disattenzione (o piuttosto si tratta di incapacità?) nel colloquiare con il proprio ambiente, le proprie emozioni, se stessi. Ed ecco che le farfalle, più che anticipare la bella stagione e arricchire l’idillio di una giornata campestre, finiscono per risultare compromesse in quel sistema perverso della contemporaneità dove ogni cosa sembra aver perso logica e finalità e così le intuiamo volteggiare stanche o distratte anche se la Nostra non ce le indica e, piuttosto, ci parla della loro disarmante assenza: “Neanche le farfalle/ ormai/ escono di giorno”.

13466331_10209598678067163_7161364544256503490_n (1)In questa silloge Katia Debora Melis sembra aver approfondito, e di molto, le tematiche che nel corso del tempo ha trattato nelle sue varie sillogi precedenti tanto da giungere a una poetica in cui l’evoluzione matura di scelte linguistiche, sistemi poetico-architettonici e resa di immagini con relative suggestioni conoscono una espressività più diretta che nel lettore produce soprattutto in relazione a certe liriche un’empatia della quale egli stesso può rimanere felicemente impressionato.

La poetessa ravvisa una fragilità di fondo tipicamente accomunata all’età post-post-moderna nella quale siamo chiamati a vivere, fragilità che non concerne solo il tortuoso sentimento nei confronti dei propri quesiti esistenziali ma che guarda oltre, spesso con criticità anche i rapporti umani che sembrano essersi deteriorati, falsificati (c’è un riferimento al “sorridere falso” nella poesia “Suggestioni”) e plastificati, cioè resi in forma in-autentica, surrogata, sostitutiva in maniera imperfetta. Una perplessità di fondo tendente a un grigio pessimismo cuce la silloge intera dove non mancano i riferimenti a una società manchevole, disinteressata o, ancor più colpevole, tanto da far “latitare” (linguaggio della nostra) il “seme dei nostri giorni”, vale a dire il significato della nostra vita, la ricerca della nostra esistenza, la compiutezza del nostro Sé cosciente. L’utilizzo di un determinato lessico è nella Nostra di fondamentale importanza e non potrebbe trovare la stessa forza espressiva e presa sul lettore se, ad esempio, si impiegassero dei sinonimi. “Latitare” di cui si diceva appena sopra, è un chiaro esempio: il “seme dei giorni” latita, cioè manca fuggevolmente, come se l’uomo stesso fosse in fuga da sé, disorientato e fuggiasco, ma allo stesso tempo sta ad individuare qualcosa di non visto, di nascosto, di celato, che sappiamo esserci stato e che, per qualche ragione, è invisibile ai nostri occhi.

L’uomo -dai versi della Nostra- ne esce come un automa quasi irresponsabile nei confronti di quell’apparato cerebrale che, se in passato è stato in grado di usare con profitto, al presente sembra aver sofferto una qualche calcificazione tanto da renderlo “ergastolano del tempo”, cioè relegato alla spoliazione del proprio essere, indifferente ed apatico di un’apatia assordante che dà fastidio chi, invece, ha fatto dell’attivismo e della consapevolezza i suoi cavalli di battaglia. La Melis ravvisa un’inettitudine di fondo nella realtà contemporanea che non è quella inettitudine caratteristica dei protagonisti dei grandi romanzieri italiani del primo ‘900 (Pirandello, Svevo) ma che è, piuttosto, la conseguenza di un disinteresse per la vita e la società in senso generale, più che per questioni prettamente familiari o personali. Ciò talvolta prende addirittura la forma di una preoccupante manifestazione anosognosica ossia di uno stato di disaffezione o disturbo del quale si è coscienti ma che facciamo di tutto per negare ed eliminare dalla nostra mente pensando, forse, che il processo di oblio forzato possa in effetti condurre a un ritrovato stato di sanità o, per lo meno, di tranquillità. Sembra non essere così e gli uomini nella silloge della Nostra sembrano pedine mosse dalla volontà di qualcuno che ha una capacità beffardamente ipnotizzante, sono esistenze sbiadite che neppure hanno nulla di caricaturale (la caricatura, per quanto possa sfociare nel mondo dell’ironia e dell’assurdo, ha pur sempre una connotazione particolare che la identifica), spaventoso o che reclama una data verità. Ed è bene a questo punto osservare che il “ridicolo” di cui la nostra parla nella lirica “Lamentazione” non ha parentela alcuna con il mondo del paradosso o del grottesco, dove il riso ne rappresenta la manifestazione concreta di un atteggiamento di stravaganza, ma piuttosto è viva in questa terminologia una volontà accusatoria (in senso generale, la nostra non punta il dito contro nessuno in particolare) e di denuncia.

12771994_1663904807207036_6963345753692209929_o
Katia Debora Melis, autrice dell’opera

A tratti quell’oscurità della silloge che cuce le varie poesie travalica il grigio, la zona d’ombra di cui si parlava, per sprofondare in una desolazione più ampia e che sembra priva di una qualsiasi consolazione: “Regna/ il lamento/ ovunque” scrive in “Linfa nera”. All’uomo d’oggi, a cui è venuta meno anche la consapevolezza della sua esistenza e nel quale si ravvisa una debolezza attitudinale, una passività fiaccante e un’idiosincrasia nei confronti di un atteggiamento sano e responsabile nei confronti della vita, sembra che non resti altro da fare che perseverare nel nutrimento da quella “linfa nera” che degrada ulteriormente l’essere inquinandone il corpo e marginalizzando ulteriormente l’anima. Ancora una volta la Nostra contrappone l’astrattezza delle forme (la linfa) alla quale l’uomo, stolto ed ignavo finisce per essere soggetto e poi vittima, alla necessità di concretezza (di vedere, di toccare, di sapere che esiste materialmente ciò di cui parliamo) come avviene nella lirica “Berlino 27 gennaio” dove la Nostra utilizza una delle pagine più amare della storia europea in una chiusa altamente significativa e da un punto di vista etico-civile e in maniera polisemica istituendo allegorie che possiamo intuire: “La più dura realtà/ è che abbiamo bisogno/ di pietre/ per ricordare”.

Il tema della falsità connaturata nella natura umana è riproposto in maniera ancor più approfondita in una sorta di lamentazione interrogativa nei confronti di un pubblico condiviso, che è la società tutta, nel quale la Nostra senza avvisi di retorica, ma piuttosto con crudeltà, chiede: “Perché è bugiarda la vita?” per passare poi a darsi la risposta, contenuta già nella domanda, chiarificatrice di quel pessimismo concreto di cui si è sin qui parlato: “La tua mente fragile e offesa/ non lo capirà”.

Parole chiave della presente raccolta di poesie restano nero, falsità e fragilità ad individuare una esistenza depressa, incapace di colloquiare razionalmente, improntata all’ipocrisia, alla scappatoia e alla bugia rendendo ancor più l’uomo schiavo di se stesso, privo di punti di riferimento, in balia delle onde di quella incoscienza alla quale egli stesso si è votato, in quel “gorgo indefinito dell’ottundimento”, inconsapevole del pericolo e del deterioramento di tutto.

È importante soffermarsi a una disanima più attenta e circoscritta attorno alla poesia “Spudorata” che contiene quelle che sono le leggi morali della poetica della nostra. Si riscontra, nella forza e nell’urgenza che la nostra ravvede nel bisogno di sincerità della poesia, un richiamo sabiano al celebre saggio “La poesia onesta” nel quale il grande poeta parlava della poesia quale espressione di autenticità (nel bene e nel male) nelle forme d’essere dell’uomo; onestà e sincerità che debbono esser messe in campo per il benessere stesso della poesia affinché questa non diventi macchinazione edonistica o deteriorata rappresentazione della realtà già di per sé abbastanza restia al concetto di onestà. La nostra parla della “spudora[tezza] di sincerità” che deve avere la poesia. Non esiste, dunque, una scala di sincerità: o essa è presente oppure non lo è; non si può essere sinceri in parte o solo su alcune cose, ed ecco, allora, che la nostra con questa attestazione di poetica del vero non fa altro che denunciare la realtà fondata sull’ipocrisia e il doppiogiochismo. Affinché la poesia parli del vero, è necessario che nella vita ci sia il vero e si attui per ricercarlo e conservarlo. Questa necessità di realtà (e non di realismo, che è diverso) ricorda un po’ anche i crepuscolari la cui poetica era semplice, effimera, tristemente casalinga, ma quanto mai reale e concreta.

Completando la lettura di questo nuovo lavoro poetico di Katia Debora Melis di cui l’ultima sezione  è fortemente intimista e legata al ricordo, si ha l’impressione di avere tra le mani qualcosa di estremamente fragile, addirittura friabile, che potrebbe danneggiarsi di colpo con un brusco movimento. Questa sensazione ci è data non dall’essere fisico del libro che teniamo tra le mani che ovviamente, per quanto possa essere di fattura delicata non risentirà del nostro strofinio delle pagine, ma piuttosto per il complesso delle immagini che la poetessa descrive, ci fa immaginare o alle quali allude fornendoci flash veloci, ma ricchi di suggestione.  Per rispetto a una scrittura così squisita e profonda è bene, allora, che ci approssimiamo a leggere questi versi con cautela, che non significa solo con calma ed attenzione, ma anche con quel senso di scrupolo e di riverenza verso un’esperienza poetica, immagine di un vissuto, talmente ricco e degno di analisi.  Proprio come “I passi/ [che] sempre/ devono essere leggeri/ sulla terra/ come se volassimo/ radenti/ sull’acqua”.

LORENZO SPURIO

Jesi, 12-02-2015

 

“Persecuzione” di Alessandro Piperno, recensione di Anna Maria Balzano

Persecuzione
di Alessandro Piperno
Milano, Mondadori, 2010
Pagine: 417
Costo: 17 €
 
Recensione di Anna Maria Balzano

 

cop“Persecuzione” di Alessandro Piperno è il primo volume di un’opera complessiva, che con evidente riferimento alla Recherche di Proust l’autore ha intitolato “Il fuoco amico dei ricordi”.  D’altra parte ciò non può né deve stupire, dal momento che Piperno è uno straordinario studioso del grande scrittore francese con cui condivide l’origine ebraica. La funzione della memoria è, proprio in tale prospettiva, di grande importanza e offre lo spunto a numerose riflessioni e considerazioni.

La citazione dal De consolatione di Boezio “Sei rimasto in silenzio per la vergogna o per lo stupore?” posta prima dell’inizio del romanzo, pone subito il lettore di fronte a un enigma che lo accompagnerà fino alla fine del racconto.

Il celebre professore primario di oncologia pediatrica, Leo Pontecorvo, amato e stimato nell’ambiente di lavoro come tra le mura domestiche, si trova improvvisamente costretto a difendersi da un’accusa infamante avanzata contro di lui da una tredicenne, fidanzatina del figlio.

La personalità di Leo è delineata, all’inizio, a mio avviso, con intenzionale ambiguità, per lasciare nel lettore un certo dubbio sulla sua effettiva integrità morale.

Certamente Leo è l’opposto di Rachel, sua moglie, che è pura razionalità.

Anche lei di origine ebraica, ma di estrazione sociale assai più modesta,  spesso rinfaccia al marito la sua appartenenza a quella ricca borghesia che s’era potuta permettere di risiedere in Svizzera negli agi, durante le persecuzioni naziste e fasciste. Leo e Rachel sembrano rappresentare i due opposti stereotipi dell’ebreo, uno remissivo e rassegnato di fronte ai soprusi, l’altra più aggressiva e determinata nel raggiungere e conservare i privilegi conquistati faticosamente.

Ed è in questa prospettiva che il personaggio di Rachel si delinea in tutta la sua ferocia e la sua negatività: senza esitare e senza neanche chiedersi se le accuse contro il marito abbiano un sia pur minimo fondamento, lo allontana dalla sua vita e dall’affetto dei figli, costringendolo a un isolamento fisico e spirituale, chiuso nel seminterrato della loro villa, da cui lui avrà della vita dei suoi cari solo una visione parziale e dal basso, sbirciando dalle finestre a livello terra.

Certo la descrizione del carattere di Leo suscita più di una volta il dubbio che la sua generosità sia piuttosto dabbenaggine, che la sua superficialità sia solo apparente e nasconda invece una forma di repressa consapevole perversione; tuttavia, l’evoluzione del personaggio che va perdendo ogni connotazione umana, fino a identificarsi con l’orrido scarafaggio di creazione kafkiana, induce ad amare considerazioni su quello che è tutto il mondo che lo circonda, dall’avvocato Herrera, al piccolo paziente salvato, Luchino, che ormai adulto ipocrita si è trasformato in un incubo ricorrente, all’assistente che lo accusa di strozzinaggio, dopo aver ricevuto da lui soldi in prestito senza interesse.

Ciò che sembra essere più devastante nella mente di Leo, però, è lo svanito rapporto con i figli, di cui ripercorre la vita dalla nascita, rivivendo con angoscia i momenti difficili e problematici.

E dunque la fine di Leo è segnata: è una fine squallida, come può esserla quella d’un insetto o d’un topo di fogna, anche se poco prima di morire si rivede sul grande letto matrimoniale dove trovano posto tutte le persone da lui amate, dalla madre, a Rachel, ai figli, in un tentativo immaginario di abbraccio consolatorio.

E dunque l’interrogativo iniziale si ripropone alla fine, rimanendo senza sicura risposta   : “Sei rimasto in silenzio per la vergogna o per lo stupore?” .

ANNA MARIA BALZANO

QUESTA RECENSIONE VIENE PUBBLICATA SU QUESTO SPAZIO PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE.

E’ SEVERAMENTE VIETATA LA DIFFUSIONE E/O LA RIPRODUZIONE DI QUESTO TESTO SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.

“Luar Park” di Bret Easton Ellis

Lunar Park

di Bret Easton Ellis

Torino, Einaudi, 2005

Recensione a cura di Francesca Mazzucato

Lunar ParkChe cos’è Lunar Park di Bret Easton Ellis? E’ possibile definirlo, raccontarlo, “dirlo”? Sentivo davvero il bisogno di rileggerlo.  E’ uscito sei anni fa, ma ci sono libri ai quali occorre tornare. La “rilettura” è un’attività fondamentale per chi la compie ed è un modo per opporsi a questa vita così rapida dei libri, nelle librerie. Dei libri di carta, che vivono e restano pochissimo sugli scaffali ( quando ci arrivano). Non è necessario che accada questo. Di ebook e di editoria digitale parleremo  un’altra volta, anzi, più volte, ma c’è un valore e una lentezza che vanno ogni tanto concessi. A se stessi. Alle storie.

Dicevo quindi. Cos’è questo libro? Una sorta di autobiografia immaginaria e reale, anzi più reale che immaginaria? Un’autocitazione, un farsi il verso cominciando dal gioco degli incipit per passare a quello della cocaina e della vita spericolata? 

” -Sei una perfetta caricatura di te stesso- Questa è la prima frase di Lunar Park, e nella sua brevità e semplicità doveva essere un ritorno alla forma, un’eco, della frase iniziale del mio primo romanzo, Meno di zero- La gente ha paura di buttarsi nel traffico delle autostrade a Los Angeles- Da allora le frasi iniziali dei miei romanzi- per quanto ben costruite- sono diventate sempre più complicate ed elaborate, sovraccariche di un’enfasi pesante e inutile sui minimi dettagli…. e nell’inverno del 1983 avevi tirato fuori un manoscritto che alla fine era diventato Meno di zero. Raccontava per filo e per segno le vacane di Natale a Los Angeles- per la precisione a Beverly Hills- di uno studente ricco, alienato e sessualmente ambiguo, iscritto a un college della costa orientale, descrivendo tutte le feste per cui vagava e tutte le droghe che prendeva e tutte le ragazze e i ragazzi con cui faceva sesso e tutti gli amici che osservava passivamente mentre si perdevano nella tossicodipendenza,nella prostituzione e in una smisurata apatia; giorni passati correndo strafatti di Nembutal con bellissime bionde su cabriolet scintillanti verso la spiaggia; notti perdute nelle sale vip dei club alla moda e tirando cocaina …” 

Che cos’è questo? Un horror, una storia di demoni e spiriti (che non si sa se sono più demoniaci e spaventosi gli amici di famiglia con tanto di villetta e grondanti rispettabilità che le presenze intermittenti e violente all’interno della casa)? Forse è uno dei più bei romanzi degli ultimi tempi sul rapporto padri- figli, figli- padri, sull’inutilità dei padri, sui figli che non li vogliono e che diventano attori perfetti recitando la commedia dimessa del figlio che accetta il padre per tranquillizzarlo, padri che restano impressi con terrore nella memoria, tremende immagini di genitori cannibali alcolizzati che ritornano quando meno te lo aspetti. Attraverso flash improvvisi. Attraverso avvisi, frasi, insiemi di coincidenze, impensabili e impalpabili presenze. E’ perfetto questo libro, nella sua costruzione, dove alcune parti raggiungono l’apice di una scrittura magistrale energica e furibonda, e altre parti si appiattiscono insieme alle cene che devono raccontare, ai discorsi banali, (“Ma quando Nadine filtrava senza ritegno con me-allora la noia e i cliché della provincia soffocavano qualsiasi entusiasmo per la mia nuova vita di uomo deciso a trasformarsi nell’adulto responsabile  che probabilmente non sarebbe mai diventato….eravamo un gruppo qualsiasi di normali papà,insomma, e ci crogiolavamo nella morbida luce del benessere che avevamo creato unendoci alle nostre genericamente belle consorti nel tentativo di assicurare un posto al sole ai nostri figli perfetti..”) ai colloqui da incubo con gli insegnanti della scuola così in che mette soggezione. C’è riflessione e poi fantasmagoria, proiezione visionaria e quotidiana apatia fra le pagine di questo grande libro sospeso fra il post moderno e il passato,  c’è una critica neanche tanto nascosta al folle degrado di una certa società americana che imbottisce di psicofarmaci i bambini di sei anni e li rende imbambolati fantocci davanti a terroristici e violenti videogames. E’ un libro malinconico, a tratti morale, anche se pare che a quella morale, poi, Ellis voglia infondere un cinismo nascosto che riesce a far capolino, un libro capace di disorientare, stupire, commuovere, spostare il centro della narrazione, rimetterlo al posto in cui non era(come i mobili in casa), farsi inseguire. E’ un auricolare collegato al proprio passato e a quel presente che le droghe  e l’alcol impediscono di vivere fino in fondo, un auricolare che manda strani segnali a intermittenza, o rassicuranti onde lunghe o un silenzio che sa di fine e di cenere, è una sarabanda di sorprese, è la realtà che apre mondi immaginari e l’immaginazione che apre mondi reali. Un romanzo capace di regalare momenti altissimi di narrazione, fra i tanti questo.

” Le ceneri si alzarono nell’aria salmastra sparpagliandosi al vento e tornando indietro, ricadendo nel passato e coprendo le facce dei presenti, impolverando ogni cosa, e poi si accesero in un prisma e cominciarono ad assumere forme e a riflettere le immagini degli uomini e delle donne che avevano creato lui, me e  Robby. Turbinarono sul sorriso di una madre e coprirono la mano tesa di una sorella e scivolarono lungo le cose che volevo condividere con tutti…le osservai mentre continuavano ad alzarsi e a danzare sopra una quantità di immagini del passato, cadendo giù e poi tornando a volare in aria, e le ceneri si alzarono sopra una giovane coppia che guardava in cielo e poi la donna fissò l’uomo che le porgeva un fiore e i loro cuori battevano forte mentre si aprivano lentamente e le ceneri si posarono sul loro primo bacio e poi su una  giovane coppia che spingeva una carrozzina al Farmer’s Market …

Difficile pensare a cosa potrà scrivere Ellis dopo questo libro in cui entra con nome, cognome, vita ,vizi, entrate uscite e vitalizi, in cui ipnotizza e devasta il lettore con le sue esilaranti descrizioni di fameliche e opulente vite, sia normali che fuori dagli schemi, tanto è sempre la stessa allegoria, lo stesso demone, fino a quando non sono proprio gli schemi a vacillare, a franare come una diga devastata dall’impeto alluvionale del capolavoro.

E’ SEVERAMENTE VIETATA LA RIPRODUZIONE DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

Un sito WordPress.com.

Su ↑