“Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini. Recensione di Gabriella Maggio

Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, 2024) di Antonio Franchini è un romanzo che affronta diversi temi così intimamente legati da richiedere un lettore molto attento. La storia si svolge tra Napoli e Milano, viste attraverso le impressioni e le esperienze dei protagonisti. Il tema dominante è il racconto della vita e del carattere della madre dello scrittore-narratore, Angela Izzo, orgogliosamente “sgherra “e “sannita” e per questo violenta e volgare nel linguaggio, piena di pregiudizi, avversa a tutto e a tutti: “Non concede mai al vento della sua avversione un rifugio, ma gli lascia davanti una prateria dove soffiare senza requie. Ha bisogno di odiare come di respirare, sente di non esistere se non si contrappone”.

Angela è rappresentata attraverso i ricordi e le emozioni negative che suscita nel figlio: “Mi ha dato un’educazione a rovescio: i valori ai quali si ispira o li esprime in una forma riprovevole o sono disvalori veri e propri. Detestare è il verbo preciso…”. Ma nel romanzo non c’è soltanto l’emotività propria del memoir, lente deformante dei fatti realmente vissuti dal figlio-narratore. Attraverso l’espressionismo del linguaggio napoletano, intrecciato ad un uso sobrio dell’italiano, il lettore trova una riflessione sul mondo contemporaneo.

Attraverso il comportamento di Angela lo scrittore analizza le relazioni familiari, prive di manifestazioni d’affetto e di comprensione. La madre e la nonna stabiliscono rapporti di sopraffazione sugli altri familiari simili a quelli della malavita. Il padre, estraneo alla violenza femminile, vive in un mondo suo, tranquillo e silenzioso, segnato dai lutti familiari.

La famiglia di Angela si può definire borghese, ma rivela la crisi della borghesia cittadina nell’imitazione del linguaggio e degli atteggiamenti della “plebe”, come per esorcizzarne la paura, rinunciando ad un ruolo sociale progressista. Emblematico è il dialogo tra Angela e la vicina che le chiede: “Tuo marito ti picchia? E mentre lei (Angela) mormora un no confuso, quell’altra ribadisce: “E allora vò dicere ca   nun te vò bene!”. Ed anche l’analisi di Zappatore di Mario Merola: “In realtà, l’ingratitudine filiale è solo il tema apparente di Zappatore, perché ciò che la canzone ostenta è soprattutto la fierezza del contadino, la sua superiorità morale sul signore, una  supremazia ribadita dalla posa guappesca (“senza cercà ‘o permesso abballoi’ pure), dall’imposizione di sé e del suo mezzo, dal rovesciamento per cui “Vossignuria se mette scuorno’e nuje/Pur ‘i’ me metto scuorno ’e’ ossignuria”, che è la stessa cosa del “loro schifano a  me, io schifo a loro” di Angela….Questo senso d’inferiorità dello zappatore, che si rovescia nel suo contrario, è lo stesso di tutto il Sud”.

Dal racconto risulta evidente che Angela è sì spontaneamente se stessa, con tutte le sue contraddizioni, ma è anche il “personaggio” che lei stessa s’è cucito addosso, forse per la simpatia che le sue espressioni suscitano negli amici e nei conoscenti o forse per ritagliarsi un ruolo autonomo e non succubo nel rapporto con gli altri.  Tuttavia la simpatia non riesce a conservarla a lungo perché prima o poi prevale la sua indole di “sgherra”. In fondo non le interessa quello che di lei pensano gli altri, tanto è concentrata su se stessa, sul suo risentimento: “Angela si aggira in questo magma combustibile con uno stoppino sempre acceso in mano e solo con l’imbarazzo della scelta su dove innescarlo”. Eppure Angela è un punto fermo nella vita dei familiari, soprattutto dei figli che le saranno vicini quando si trasferisce a Milano: “Eppure non sappiamo che cos’è, in realtà, questo lungo, occulto bisogno dell’approvazione di un genitore, fosse pure un mostro, avvinto a noi più strettamente proprio in ragione della sua mostruosità…”. Il soggiorno milanese dei personaggi offre l’occasione per affrontare il tema del rapporto sud nord. Angela naturalmente rifiuta di accettare il diverso modo di relazionarsi con gli altri, ostinandosi a non comprendere il modo altrui di concepire la vita. Però, sebbene continuino le incomprensioni, il rapporto tra madre e figlio in qualche modo si addolcisce.  Romanzo complesso e stratificato, dunque, è “Il fuoco che ti porti dentro” scritto con grande abilità nel comporre e intrecciare i temi e i piani temporali, nel tenere vigile l’attenzione del lettore, che pure rintracciando qualche aspetto di sé (in fondo de nobis fabula narratur) non riesce ad abbandonarsi alla storia narrata, ma resta sempre vigile e attento.

GABRIELLA MAGGIO


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“Notre-Dame” di Emanuele Marcuccio con una nota critica di Lucia Bonanni

“NOTRE-DAME”[1] DI EMANUELE MARCUCCIO: UNA LETTURA

Contributo critico a cura di Lucia Bonanni

Con la lirica “Notre-Dame” Emanuele Marcuccio aggiunge un’altra perla al suo mondo poetico. Scritta il 28 aprile 2019 e dedicata “[a]lla cattedrale di Notre-Dame di Parigi colpita il quindici aprile 2019 da un incendio che ne distrusse il tetto, la guglia e ne danneggiò la struttura”, come si legge nella nota a piè di pagina dell’autore.

Questa la lirica dell’autore che, di sotto, riportiamo nella sua originale disposizione grafica dei versi: “Madre e il suo universo// soffocato/ sotto il peso// e le fiamme/ a corrodere// il tempo/ passato/ sotto gli archi// la luce per le vetrate// risplende// non più“.

La poesia si compone di undici versi, modulati su una struttura essenziale e un alternarsi di versi lunghi e versi brevi, disposti in quattro unici, due distici e una terzina, separati da spazi bianchi per favorire la riflessione e dare respiro al componimento in quanto “[l]a sua ispirazione poetica è ‘un’ispirazione drammatizzata’ in cui egli si apre agli stimoli che gli giungono dall’esterno come ai luoghi della mente e alle nebulose che avvolgono la memoria e il ricordo, regalando sempre felicità al lettore”[2]. Concisa ma non uniforme, la lirica incanta e seduce per l’acume creativo e la molteplicità delle suggestioni che sa trasmettere. Con piglio felice l’autore descrive l’avvenimento con purezza stilistica e intensità espressiva, ponendo in apertura del testo la parola “Madre” a evidenziare il significato del termine nella sua valenza spirituale che richiama anche quella terrena. Lo splendore solenne di Maria di Nazareth si accentua nel continuum del verso “e il suo universo” come assoluto universale, un cosmo riferito alla sua originale purezza e alla sua maestà celebrata nei tanti dipinti tra cui spiccano La maestà di Santa Trinita di Cimabue, La Madonna di Ognissanti di Giotto e La Madonna Rucellai di Duccio, esposte nella medesima sala alla Galleria degli Uffizi di Firenze, e volge lo sguardo anche all’universo costituito dalla cattedrale. Già nel titolo si nota l’appellativo “Dame”, titolo onorifico, presente negli ordini cavallereschi cristiani che equivale al cavalierato al femminile. Si pensi ad esempio alla Madonna delle Milizie che, secondo la tradizione cattolica, agli inizi dell’anno Mille apparve su un cavallo bianco, vestita da guerriera per liberare la città di Scicli (RG) dalle incursioni saracene.

Uno scatto di quei terribili momenti (foto presa dalla rete)

Nel primo distico del componimento si dice che l’universo della cattedrale è “soffocato/ sotto il peso” della guglia e del tetto, crollati a causa dell’incendio. Il verbo soffocare evoca l’idea del fumo sprigionato dalla combustione, un fumo asfissiante, afoso, che reprime e sacrifica e non si riesce a sedare perché le fiamme continuano ad avvolgere e “a corrodere” la struttura del manufatto insieme a tutto “il tempo/ passato/ sotto gli archi”. Nella terzina il participio passato del verbo “passare” vibra di un percorso temporale, immaginato come ininterrotto, duraturo, permanente, ma anche trascorso ad ammirare le tante bellezze della chiesa madre di Parigi. Costruita tra il primo e il secondo secolo dell’anno Mille, la cattedrale è il primo esempio di chiesa gotica, presenta una pianta a croce latina, cinque navate, volte a crociera con archi rampanti e le belle vetrate colorate che trasformano l’edificio in un tempio splendente. E adesso che la fuliggine ne ha annerito la sfavillante bellezza, “la luce per le vetrate// risplende// non più”. Qui i complementi di moto per luogo e moto attraverso luogo nell’accezione figurata anche di fendere, attraversare, mettono in evidenza l’estetica della luce che dopo l’accaduto “risplende// non più”. Il senso dell’oscuramento luminoso è dato dalla locuzione “non più” in contrasto col verbo risplendere con l’avverbio “non” che nega, modifica e capovolge il predicato e l’avverbio “più” con funzione di cessazione dei raggi luminosi che attraversavano le vetrate.

Di ampio respiro il carattere stilistico della lirica, impostata con tono aulico, naturalezza di espressione e partecipazione emotiva. Ancora una volta “[c]on i suoi scritti [l’autore] offre senso di appartenenza, incuriosisce, si traspone nell’altro e fa vivere speranze in un modo ricco e profondo”[3] perché “l’intento della poesia è sempre quello di celebrare, costruendo un’architettura di parole nei più vari registri, dai più intimistici e introspettivi ai più altisonanti”[4].

LUCIA BONANNI

San Piero a Sieve (FI), 16 settembre 2020


[1] Emanuele Marcuccio, in AA.VV., Rivista di Poesia e Critica Letteraria “Euterpe”, N. 29, Luglio 2019, p. 34.

[2] Lucia Bonanni, “L’Anima di Poesia di Emanuele Marcuccio, dolce poeta.Lettura del suo mondo poetico, partendo dall’analisi della silloge, Anima di Poesia”, in AA.VV., Rassegna Storiografica Decennale. IV, Limina Mentis, Villasanta, 2018, pp. 83-84.

[3] Id., “L’Anima di Poesia di Emanuele Marcuccio, dolce poeta”, in Op. cit., p. 84.

[4] Emanuele Marcuccio, “Introduzione alla poesia”, in Id., Pensieri Minimi e Massime, Photocity, Pozzuoli, 2012, p. 31.

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