La guerra degli Scipioni, Intervista a Luca Rachetta

INTERVISTA A LUCA RACHETTA

Autore di La Guerra degli Scipioni

L’Autore Libri, Firenze, 2009

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

LS: Qual è stata la genesi di questo romanzo? Qual è stata l’idea iniziale da cui è partito tutto?

LR: La guerra degli Scipioni è il risultato dell’unione di tre racconti lunghi che avevo concepito per un’ipotetica raccolta ispirata alle quattro stagioni. Oltre al racconto sull’inverno, La missione di San Silvestro (pubblicato nel 2010 come e-book), disponevo di tre tracce su cui costruire la storia autunnale (il professore che riprende la scuola e vive l’autunno della propria vita), quella primaverile (il buffo personaggio che attende la rinascita della società) e quella  estiva (l’esplosione dei sensi che ritroviamo, all’interno del romanzo, nel sogno di Paolo Scipioni). L’idea è stata quella di convogliare le tematiche dei tre racconti in un solo testo, per poi amalgamare il tutto in modo coerente. E per amalgamare in modo coerente spunti apparentemente così diversi ho fatto del personaggio più complesso, il professore, il filo conduttore del testo, modellando gli altri due personaggi in modo da farli somigliare a due versioni amplificate ed esagerate  del protagonista, Giovanni Scipioni: se questi dunque ha problemi familiari e nel rapporto con gli altri, Paolo e Antonio riprendono rispettivamente questi due ordini di problemi, che Giovanni riesce a tenere a bada, seppur a fatica, ma che in loro esplodono fin quasi a travolgerli.

LS: Pur non conoscendoti so che sei un professore della scuola secondaria. Il protagonista della storia è proprio un professore e possiamo immaginare che alcune caratteristiche di Giovanni Scipioni in realtà ti appartengono. Quanto c’è di autobiografico nel tuo romanzo?

LR: Molto, anche se Giovanni Scipioni, rispetto al precedente Silvano Rupestro (protagonista de La torre di Silvano), è un personaggio meno scopertamente autobiografico, a dispetto della comune professione: l’età difatti non corrisponde, così come lo stato civile e la composizione della famiglia. Eppure chi mi conosce bene ha ritrovato tanto del sottoscritto nel professor Scipioni, forse anche di più che nei personaggi che hanno caratterizzato la mia produzione precedente. Penso che il caro Giovanni  cerchi, come il suo autore, quel qualcosa in più che non è sempre dato scorgere all’orizzonte, ma che pochi idealisti si affannano comunque a cercare: un pizzico di senso che dia più sapore alla vita. E poi Giovanni Scipioni ha coscienza di quanto sia difficile agire in campo scolastico oggi come oggi, non solo perché talvolta è la stessa istituzione scolastica a non mettere gli insegnanti nelle migliori condizioni per operare (classi troppo numerose, risorse finanziarie inadeguate, poca convinzione nel tutelare la dignità e la professionalità dei docenti e altro ancora), ma anche perché, se la società è sempre più complessa, labirintica e priva di valori, una volta che essa fa irruzione nelle aule sotto forma di alunni o di genitori, tutti col loro gravoso fardello di problemi, chi si trova dietro la cattedra viene chiamato a compiere un’impresa di contenimento e di educazione di proporzioni assolutamente titaniche, dunque di assai incerta realizzazione. Anche questi convincimenti “sospetto” di averli regalati io, al buon Giovanni.

 LS: Nella copertina del tuo libro figura il ritratto del pittore francese Manet. Perché lo hai scelto? Ha qualche nesso con la storia che racconti?

LR: In realtà non ho scelto io la copertina, bensì il settore grafico della casa editrice. Non mi è stato chiesto nessun suggerimento in merito alla scelta dell’immagine, perciò non posso rispondere alla tua domanda. Posso comunque dirti che il soggetto mi piace, come mi sono piaciute le copertine dei libri precedenti, La teoria dell’elastico e La torre di Silvano, perché amo la pittura contemporanea e l’abbinamento della stessa coi miei testi mi lusinga e mi offre molti spunti di riflessione. Gli stessi che mi auguro possano nascere in colui che osservi la copertina del libro prima o dopo la lettura. Per il prossimo romanzo, invece, la nuova casa editrice mi ha chiesto un parere riguardo alla scelta dell’immagine da promuovere a copertina del volume. Ma per adesso non mi azzardo ad anticipare alcunché, perché i lavori sono ancora in corso.

 LS: Dal romanzo fuoriescono dei personaggi particolarmente singolari ma ben tratteggiati che non sono per nulla stereotipati, in maniera particolare il misantropo Antonio e il sentimentale Paolo. Perché hai deciso di caratterizzare ciascun personaggio in maniera così marcata con le loro convinzioni ed ossessioni?

LR: Credo che sia una peculiarità del mio stile di scrittura caratterizzare i personaggi mettendone in risalto tic, manie, ossessioni, vale a dire gli aspetti della loro indole che li dominano e che debordano al di fuori di essi fino a investire gli altri e a condizionarne i rapporti sociali instaurati nella vita di tutti i giorni.  E siccome lo stile è diretta emanazione della sensibilità di chi scrive, sarei portato a ricondurre questa mia propensione a un certo mio modo di vedere e di vivere la vita, che mi fa sentire molto vicino a quegli autori di inclinazione umoristica (Brancati, Pirandello, Palazzeschi, Gogol) assai attenti a scomporre la realtà e a descriverla cogliendo particolari che sfuggono ai più, nei quali però risiede spesso l’essenza di un’umana vicenda.

LS: In più punti del romanzo, soprattutto per bocca del personaggio di Antonio, fuoriescono delle idee completamente condivisibili riguardo la politica attuale e la nostra società. La figura del pazzo, come dimostra Shakespeare o anche il menestrello tuttofare del Medioevo, si identifica sempre con colui che parla senza freni ma che nella sua follia rivela sempre una qualche verità. Quanto il problema della meritocrazia, espresso da Antonio Scipioni, è secondo te importante nella nostra società?

LR: Certo, Antonio Scipioni è eccessivo nel giudicare impietosamente il prossimo e finisce così con lo scivolare in una forma di misantropia che lo rinchiude in un mondo tutto suo, organizzato secondo un criterio manicheo che fa di lui il bene assoluto e degli altri il male incarnato. Tuttavia mi piace pensare che Antonio Scipioni, nella sua ossessione maniacale, dimostri comunque sprazzi di lucidità nel sentire che nel mondo c’è qualcosa che non va, qualcuno che approfitta della propria posizione e rimane per di più impunito. Sì, direi proprio che prima di bollare Antonio come folle “tout court”, bisognerebbe pensarci un attimo, come quando ci si trova davanti a certi “folli” pirandelliani o a quella galleria di inetti e di buffi che la letteratura umoristica, a me molto cara, ospita nelle proprie pagine. La meritocrazia? In Italia, e forse non solo da noi, non si fa che parlare di caste di privilegiati, di clientele elettorali, di raccomandazioni, di baronie universitarie, di concorsi truccati, di perfetti incompetenti “parcheggiati” in posti di pubblica responsabilità. Se Antonio è pazzo, ciò conferma appieno il sospetto che il pazzo, in fin dei conti, è colui che dice la verità.

LS: Nella tua scheda biografica ho potuto leggere che ti sei molto occupato dell’analisi critico-letteraria di un famoso autore siciliano che in passato è stato forse un po’ eclissato da grandi altri siciliani quali Tomasi di Lampedusa, Elio Vittorini e Sciascia. C’è qualche riferimento a Brancati nel tuo romanzo?

LR: In realtà nessun riferimento diretto e voluto, se non quel debito implicito e inconsapevole che deriva dal fatto che qualunque scrittore, prima di divenire tale, è stato un lettore attento e vorace che si è cibato delle opere di scrittori preesistenti, le quali, ingerite e assimilate, hanno poi finito con l’alimentarne l’immaginario e lo stile. Non saprei dunque dirti quanto di Brancati possa essere scorto nella mia scrittura, ma posso senz’altro dirti che un omaggio non troppo criptico al grande autore di Pachino l’ho comunque fatto. Don Giovanni in Sicilia, Bell’Antonio e Paolo il Caldo: ecco da dove provengono i nomi dei tre protagonisti de La guerra degli Scipioni.

LS: A quali autori italiani ti ispiri o ti senti più vicino nella tua scrittura?

LR: La lettura di Pirandello, Brancati, Palazzeschi, Landolfi ha probabilmente alimentato il mio spirito critico, per sua natura orientato in una precisa direzione, quella di chi ama denunciare ipocrisie, storture sociali e l’incapacità, prima ancora che di dialogare, di ascoltare l’altro. Questo perché, quando si scrive, anche se si finisce col presentare la propria personalità e col raccontare la propria esperienza, non ci si limita a questo, a mio modo di vedere. Nelle proprie pagine finiscono anche la personalità, l’esperienza e l’abilità stilistica di qualcun altro, in genere mai conosciuto di persona, ma assai frequentato con la lettura. Una sorta di sensibilità gemella o in ogni caso assai prossima alla tua, ritrovata in una persona magari assai lontana da te dal punto di vista geografico o cronologico.  

LS: Ci sono una serie di scene in cui Antonio Scipioni in virtù del suo ligio dovere nei confronti del lavoro cerca di far valere presentandosi prima dal sindaco, poi scrivendo al presidente della Repubblica, recandosi poi da un vescovo e pensando anche di rivolgersi a un prefetto. Da cosa nasce questo desiderio del protagonista di appellarsi a forme di potere sempre più alte e quasi irraggiungibili a un comune mortale?

LR: Nella sua lucida follia Antonio coglie il senso e la ragion d’essere delle istituzioni: organizzare la vita dei cittadini in modo efficace e nel pieno rispetto dei diritti di tutti, tutelando il merito e scoraggiando i comportamenti scorretti. Le autorità che tenta di avvicinare senza successo non dovrebbero dunque essere così distanti e irraggiungibili, proprio a ben considerare la funzione che esse devono esercitare. Pur partendo da presupposti errati e pur sbagliando le modalità di approccio, come ho già avuto modo di dire rispondendo a una domanda precedente,  Antonio coglie una fondamentale verità, consistente nel fatto che talvolta mancano davvero i punti di riferimento cui inoltrare una richiesta di giustizia, ovvero una richiesta di chiarimento riguardo ai valori su cui, almeno in teoria, dovrebbe reggersi la nostra società.

LS: Il personaggio di Giovanni Scipioni finisce per assorbire tutti i problemi dei suoi fratelli senza che nessuno lo aiuti ad affrontare i suoi. Giovanni non è forse sotto questo punto di vista un personaggio troppo buono, disponibile, solidale verso gli altri e poco attento a se stesso?

LR: Forse è vero, perché Giovanni ricopre a tutti gli effetti il ruolo di capofamiglia, che porta assai spesso a trascurare la propria persona a favore della salute fisica e psichica dei propri congiunti. D’altro canto in una storia che ha come protagonisti tre personaggi alla ricerca dell’autenticità, quindi, se vogliamo, di una forma di equilibrio, seppur precario, da contrapporre al divenire e alla mancanza di punti di riferimento,  è proprio la famiglia che può rappresentare la base su cui fondare un’esistenza più stabile e piena. Giovanni Scipioni ne ha una che sta attraversando una fase di incomprensioni e di divisioni, ma che è intenzionato a difendere a tutti i costi: per questo Paolo, in grave difficoltà nel tentativo di fondarne una propria con la moglie Eleonora, e Antonio, privo di un suo personale focolare, gravitano attorno a Giovanni, quasi che volessero essere risucchiati nella sfera familiare retta da questo imperfetto e vacillante pater familias contemporaneo, per essere da lui accuditi e confortati. Forse perché Giovanni è l’unico che possiede la ricetta per costruire qualcosa e tenerla in piedi in mezzo ai marosi della vita.

LS: Stai lavorando a qualche nuova narrazione? Hai dei progetti in cantiere?

LR: A settembre uscirà, per i tipi della Edizioni Creativa,  La setta dei giovani vecchi, il mio nuovo romanzo. Di cosa parla La setta dei giovani vecchi? Beh, nella cittadina di Castel Chimerico vive il quarantaduenne Giovanni Eufemi, precario nella professione, in politica e in amore. Insegnante con contratto a tempo determinato, membro del partito di maggioranza relativa in seno al consiglio comunale senza però un effettivo peso politico all’interno dello stesso, eterno fidanzato della quarantenne Eleonora: su Giovanni Eufemi pare che gravi una maledizione che lo condanna all’incompiutezza, che il nostro protagonista attribuisce allo Stato, ai compagni di partito e, in definitiva, alla vita in genere, le cui trame sembrano essere state ordite da pupari attempati impegnati a boicottare i più giovani. Una sorta di gerontocrazia imperante tiene infatti lontano dai posti di maggiore responsabilità e soddisfazione coloro che insidiano l’ordine costituito, ai quali si appioppa l’appellativo di “giovani” anche oltre i quarant’anni per convincerli ad attendere, ad avere pazienza, nell’attesa di completare un iter di formazione che a Giovanni sembra tuttavia infinito e, in fin dei conti, insensato. I suoi più cari amici, tutti coetanei, non è che se la passino meglio, essendo alle prese con una condizione di instabilità esistenziale complicata da un forte scoraggiamento, venato in aggiunta di vittimismo e di malcelata rassegnazione. Il protagonista e i suoi amici, gravati dal peso insostenibile di un inesorabile fallimento, giungeranno infine a un punto di non ritorno… Alla “setta dei giovani vecchi”, ossimorica e mostruosa creazione della nostra società, non rimarrà così che riunirsi per l’ultima volta, per l’ultima, terribile “cospirazione” di protesta contro la società stessa. O forse contro la natura umana…

Ringrazio Luca Rachetta per avermi concesso questa breve intervista.

LORENZO SPURIO

 10 Luglio 2011

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La guerra degli Scipioni, di Luca Rachetta

La guerra degli Scipioni di Luca Rachetta

L’Autore Libri, Firenze, 2009

Recensione di Lorenzo Spurio

A dispetto del titolo il romanzo breve di Luca Rachetta, professore di scuola secondaria con varie opere alle spalle, non tratta di guerra, né di storia e neppure ha niente a che fare con Scipione l’Africano. Il libro narra invece le vicende dell’inquieto animo di Giovanni Scipioni, professore in una scuola della sua città, riferimento autobiografico del Rachetta. Altro riferimento autobiografico presente in Giovanni Scipioni è il fatto che sia un amante della cultura, viene detto che progetta romanzi e che in gioventù era un «aspirante poeta» (33). C’è una particolare attenzione nel dipingere i vari personaggi che ci vengono presentati non solo nel loro aspetto fisico e come appaiono agli occhi degli altri ma anche negli scandagli della personalità, facendo riferimento alle loro ossessioni, frustrazioni o debolezze.

La scelta di un narratore onnisciente in terza persona, che tutto sa della storia, può apparire inizialmente un po’ fastidioso e rimandarci alla lettura di romanzi ormai antiquati ma grandi classici della letteratura, dove pure il narratore interveniva direttamente per anticipare o informare il lettore di ciò che si apprestava a leggere. Non è un vizio di forma, ma la tecnica che il Rachetta fa sua per questa narrazione suggestiva, che non cade mai nella banalità e che riesce a mantenere alto il coinvolgimento del lettore.

Attraverso il personaggio di Giovanni Scipioni siamo in grado di vedere il mondo della scuola, delle lezioni e dello studio non tanto attraverso gli occhi di un giovane insoddisfatto ma attraverso quelli di un docente capace, stimato, il cui unico difetto, forse, è quello di essere un po’ troppo all’antica. Così, dopo una breve descrizione della sua giornata lavorativa alla scuola, il primo giorno dell’anno scolastico e l’attentissima caratterizzazione dei colleghi (tra cui l’affascinante docente di storia dell’arte e la tremenda direttrice) veniamo catapultati nella sua famiglia: la moglie Elsa e la figlia Beatrice, adolescente che sta crescendo troppo velocemente agli occhi del genitore e che, com’è tipico nella nostra società, è assoggettata dalle “mode” più in voga. C’è una scena curiosa nelle primissime pagine del libro in cui Giovanni si sente attratto da una ragazza appariscente che vede per la strada e poi entrare nel suo stesso condominio e, solo in un secondo momento, si accorge che si tratta di sua figlia. Forse è presente in Giovanni Scipioni un qualche lieve e vago riferimento a un altro Giovanni della letteratura italiana, ossia Giovanni Percolla, protagonista di Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati, autore quest’ultimo che Rachetta ha studiato attentamente e di cui ha pubblicato un’opera di critica letteraria dal titolo Vitaliano Brancati. La realtà svelata (Maremmi Editore, Firenze, 2006). Come nel personaggio di Brancati, Giovanni Scipioni è affascinato dal gentil sesso, pur avendo in questo caso una famiglia e addirittura una figlia ed entrambi i Giovanni non mancano di guardare affascinati ragazze e donne in giro per la città.

Tra gli altri personaggi troviamo i due fratelli di Giovanni, diversissimi tra loro ma, ad ogni modo, ognuno affetto da qualche problema. Antonio è celibe ed è sempre propenso a parlare di politica, della necessità di meritocrazia e dei mali della società contemporanea. L’altro fratello, Paolo, sta invece facendo i conti con un matrimonio che sta finendo perché è diventato semplicemente un insieme di rituali che vengono ripetuti. E’ però a Giovanni che tutti ricorrono per parlare dei loro problemi come se in realtà lui fosse scevro da ogni inquietudine. E così pian piano su di lui si riversano tutte queste preoccupazioni («Ci si erano messe anche quelle due zavorre dei fratelli», 32), che gli altri, nell’intenzione di alleviare, gli hanno esposto e vanno a sommarsi alla pesantezza del suo essere docente. Non è però un romanzo di adulti carichi di problemi ma una narrazione che potremmo definire “generazionale” o, per utilizzare un linguaggio più accademico, di formazione in quanto sono descritti sia fisicamente che psicologicamente gli studenti, in maniera particolare alcuni ragazzi un po’ ambigui nel contesto scolastico: il secchione sempre ansioso e il taciturno pensieroso.

L’insofferenza di Antonio nei confronti di alcuni colleghi non così ligi al loro lavoro come lui lo porta a barricarsi direttamente nella stanza del primo cittadino, dove cerca di far valere le sue ragioni basate su idee nevrotiche ma la sua azione finisce per ridicolizzarlo e, ormai bollato da tutti come pericoloso e pazzo, si congeda dal suo lavoro. Non soddisfatto della sua condizione e ormai chiaramente fuori di senno, tenta di mettersi in contatto con altre sfere del potere pubblico avanzando sempre le stesse pretese: scrive una lettera al presidente della Repubblica e incontra un vescovo. Entrambe le situazioni non sortiscono nessun effetto e, anzi, l’incontro con il vescovo si configura come un grottesco siparietto e noi, in qualità di lettori, ci rendiamo conto, mai come in precedenza, che Antonio ha ormai superato il limite della ragione ed è pericoloso per la società. Per suo fratello Giovanni non è che un ulteriore fardello e preoccupazione di cui occuparsi.

Si fa viva nel corso del romanzo la convinzione che ogni personaggio sbagli, o perlomeno confonda, il vero destinatario delle sue inquietudini: il nevrotico Antonio più che appellarsi al sindaco, al presidente della repubblica o al vescovo avrebbe, forse, bisogno di un consulto psicanalitico o addirittura psichiatrico; Paolo riversa la sua titubanza e sofferenza circa la decisione o meno di lasciare sua moglie sul fratello Giovanni piuttosto che confrontarsi direttamente con la moglie e anche Giovanni, appesantito dall’eccessivo rigorismo della scuola e intimorito dall’austera figura della direttrice finisce per non avere mai la parola sulle sue inquietudini. Rachetta ci fornisce un attentissimo e vivido spaccato tutto contemporaneo di una famiglia che apparentemente sembrerebbe fuori dagli schemi ma che, a una rilettura più attenta, si configura invece come una realistico labirinto di sofferenze, pensieri, inquietudini e comportamenti maniacali. Molti sono i personaggi-tipo che tratteggia con particolare cura: il professore sposato, forse un po’ snobbato e che deve fare i conti con la figlia adolescente con la quale spesso è in disaccordo («Doveva accettare i cambiamenti della figlia, della società, dei costumi. Erano finiti i tempi del Dolce Stil Novo. Restava solo di farsene una ragion», 58), l’uomo ossessionato dalle sue convinzioni che agli occhi di tutti si configura come pazzo, l’uomo un tempo innamorato e ora vacillante nei suoi sentimenti, indifeso e tra i personaggi femminili quello che meglio è tratteggiato è sicuramente Beatrice, la figlia trasgressiva secondo il bigottismo paterno mentre Elsa e Eleonora sono personaggi un po’ sfocati.

Un curiosissimo intrico di pensieri che va di pari passo a una certa passività dei personaggi che fa quasi pensare ai famosi indifferenti dell’omonimo romanzo di Moravia ma che mettono in luce le problematiche e le inquietudini tutte contemporanee dell’uomo nel dover vivere la vita di tutti i giorni.

LUCA RACHETTA è  nato a Torino ma risiede oggi a Senigallia (An) dove lavora come insegnante in una scuola media. Ha studiato con particolare attenzione l’opera narrativa di Vitaliano Brancati e ha pubblicato nel 2006 il saggio Vi­taliano Brancati. La realtà svelata con la Maremmi Editore di Firenze.  Con la stessa casa editrice ha pubblicato sillogi di racconti: Dove sbiadisce il sentiero (2006), La teoria dell’elastico (2008), il racconto lungo La torre di Silvano (2008) e il romanzo La guerra degli Scipioni (2009). Per settembre prossimo è prevista l’uscita del nuovo romanzo dal titolo La setta dei giovani vecchi. L’autore ha un suo sito personale:  www.lucarachetta.it 

LORENZO SPURIO

09-07-2011

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