“L’urlo e il furore” di William Faulkner, recensione di Anna Maria Balzano

L’urlo e il furore
di William Faulkner
Einaudi, 2005
ISBN: 9788806179557
 
Recensione di Anna Maria Balzano

 

Spegniti, spegniti, breve candela!
La vita non è che un’ombra che cammina; un povero attore
che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena,
e del quale poi non si ode più nulla; è una storia
raccontata da un idiota, piena di rumore e furore,
che non significa nulla.

 

untitledQueste le parole di Macbeth (Shakespeare – atto V, scena V, vv 23-28), a cui Faulkner ha attinto per il titolo del suo capolavoro, che sottolineano l’insensatezza e l’inutilità della vita, una storia raccontata da un idiota, piena di “sound and fury”.

E inizia proprio con il monologo del personaggio dell’idiota, Benjy, la prima parte del racconto intitolata “Sette Aprile 1928” alla quale seguono “Due Giugno 1910”, “Sei Aprile 1928” e infine “Otto Aprile 1928”: quattro giorni descritti e dedicati ai quattro personaggi più importanti del romanzo, senza tuttavia un logico ordine cronologico. Già dai titoli delle singole parti, dunque, si deduce come la narrazione sia improntata sugli schemi della “durée bergsoniana” già sperimentati con tecnica innovativa da James Joyce. La successione temporale degli eventi, disordinata e spesso di difficile comprensione, rappresenta il disordine mentale e morale che regna tra i componenti della famiglia Compson, la cui storia ci viene descritta con impietoso realismo.

La prima giornata, il sette aprile, introduce tutti gli altri personaggi attraverso la figura del ritardato mentale Benjy, che insieme con Quentin, Caddy e Jason costituisce la prole disgraziata e in un certo senso “maledetta” della famiglia Compson. La stessa madre, Caroline appare come una donna debole che si cela volentieri dietro malanni più o meno pretestuosi, al fine di allontanare le responsabilità e gli affanni. Il padre, alcolizzato, morirà prematuramente.

La menomazione mentale di Benjy fa sì che egli, con la sua lagnosa presenza, pur essendo apparentemente lontano dal comprendere gli eventi che travolgono la famiglia, abbia la stessa funzione del clown shakespeariano unico vero e sensibile  interprete della realtà.

La sezione intitolata “Due Giugno 1910” è dedicata al monologo di Quentin: questa è senz’altro la parte più difficile del romanzo, per il complesso flusso di coscienza grammaticalmente sconnesso.

Il balzo indietro nel tempo ci introduce nel dramma vissuto dai fratelli Quentin e Caddy che si macchiano di incesto. Questo peccato, mai superato, condizionerà la vita di Caddy e porterà Quentin al suicidio. Nel racconto di Quentin è continuamente presente il tema del tempo, attraverso il simbolo dell’orologio e del suo ticchettio. Il simbolismo, così importante nella tradizione letteraria americana, da Hawthorne (The scarlet letter) a Melville (Moby Dick), è presente nell’opera di Faulkner, ed emerge in tutti i suoi romanzi. “…il babbo diceva che il tempo è morto, finchè viene rosicchiato dal ticchettio delle rotelle; solo quando si ferma, il tempo torna in vita.” La vita, dunque, è legata al tempo-non tempo, all’immobilità del presente.

In questo capitolo la morte di Quentin viene ripetutamente annunciata dal suo desiderio di calpestare la sua ombra ch’egli vede riflessa nell’acqua e di spingerla in fondo, sempre più in fondo.

Caddy, la sorella amata, viene continuamente rievocata, ma  tornerà molto più prepotentemente nel capitolo successivo, in cui è il fratello Jason a raccontare la giornata del sei aprile 1928. Questo è il fratello a cui si appoggia la madre Caroline, rimasta sola con lui dopo la morte del figlio e la partenza della figlia, sposata e poi separata. Il carattere meschino e egoista di Jason si rivela in tutta la sua tragica dimensione nel rapporto con la giovane Quentin, figlia di Caddy, così chiamata in ricordo del fratello. Jason si macchia di ogni sorta d’azione bassa e disonesta, per sfogare il suo odio nei confronti della sorella e della nipote a cui attribuisce la causa della sua mancata realizzazione nella vita.

L’ultimo capitolo, datato “Otto Aprile 1928, è dedicato all’unico personaggio dotato di sensibilità e capace d’un sentimento d’amore cosciente,  Dilsey, la serva “negra” spesso trattata con disprezzo  dai componenti della famiglia, che tradiscono, in questo modo, i persistenti atteggiamenti schiavistici di certa gente del sud degli Stati Uniti di quell’epoca. La debolezza di Dilsey, appartenente a una minoranza, è la sua forza ed è proprio la forza che le permette di prendersi cura lei stessa, donna di colore, di minoranze bianche, come Benjy, la cui mente vaga fuori del mondo, o di Caddy, emarginata dal suo stesso peccato e dalla vita dissoluta che ha scelto di condurre. Una famiglia tragica e maledetta quella dei Compson, che rappresenta la decadenza della ricca borghesia dell’inizio novecento, una borghesia che necessita di rinnovamento e di nuova linfa. Quasi un drammatico messaggio, quello di Faulkner: se la società non sarà in grado di trovare in sé la forza e la capacità di rinnovarsi e non saprà superare i pregiudizi che le impediscono di assimilare nuove energie provenienti dall’esterno, difficilmente avrà possibilità di salvezza.

ANNA MARIA BALZANO

QUESTA RECENSIONE VIENE PUBBLICATA DIETRO GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE.

“Da me a me” di Anthony M. Paglia, recensione di Lorenzo Spurio

Da me a me
di Anthony M. Paglia
Narcissus.me, 2013
Pagine: 162
ISBN: 9788867558179
Link diretto all’acquisto in formato e-book

 

Recensione di Lorenzo Spurio

41W8v4cRE+L__AA258_PIkin4,BottomRight,-31,22_AA280_SH20_OU29_E’ convinzione comune e per lo più errata che un bambino che  vive in stato di inaffettività genitoriale o sottoposto a singolare vicende durante l’infanzia, possa riportare durante il suo percorso di crescita delle problematiche psicologiche motivate da un certo trauma che ne minino la stabilità. Non è, però, quello che accade a Giacomo, il protagonista di questo romanzo di Anthony M. Paglia intitolato “Da me a me”. La storia contenuta in queste pagine non è facile perché si intesse su una serie di motivi difficili che fanno riferimento al trascorso affettivo del protagonista, un rispettabile uomo sessantenne senza figli a cui viene data in affido una ragazzina non ancora maggiorenne, figlia di un suo amico deceduto. Le immagini che contraddistinguono i vari episodi che l’autore narra si connotano per essere violente e l’autore quasi si domanda se Anthony M. Paglia non abbia in realtà calcato troppo la mano e voluto inserire troppe cose in questo romanzo.

La storia si apre con l’affido di Giulia, una ragazza che ha tentato il suicidio più volte e che è stata rinchiusa in una clinica dove, pure, i medici cercano di curarla dall’anoressia. Piano piano l’autore sviscera le ragioni del mal di vivere della ragazza rintracciandole nel grande amore verso il padre che, però, è venuto a mancare perché assassinato per la strada in circostanza mai chiarite, ma che lo vedono, forse coinvolto nella frequentazione di prostitute o legato a un sistema mafioso, e sua madre che, invece, non si è mai interessata a lei e che l’ha procreata semplicemente per adempiere a un impegno preso con il padre.

Anche la personalità di Giacomo è abbastanza complessa; è un sessantenne solo che ha avuto due grandi esperienze amorose alle spalle, entrambe finite, una a causa del ritiro della donna in un convento di clausura, l’altra a causa di suicidio assistito dopo la scoperta di un tumore. Giacomo ha trascorso la sua infanzia con il calore e l’amore deviato della sua balia con la quale, nel tentativo di ricercare l’affetto che la madre non era in grado di dargli, è finito per unirsi sessualmente. Del padre, al contrario, restano ricordi piuttosto positivi se ricordato da solo, senza la presenza della madre, alla quale era brutalmente assoggettato a livello mentale tanto da diventare una marionetta: “Mi ero convinto che quello di mia madre fosse un meccanismo perverso, dire una cosa e poi negarla, chiederne una e poi dire di non averlo mai fatto per confondere e sottomettere mio padre, rendendolo un fantoccio. Oppure semplicemente per litigarci, poter urlare, fare una scenata, dopo sembrava ricaricata, come se avesse assorbito le sue energie, succhiato la sua linfa vitale. Bastava guardarli. Lei pimpante e rilassata, la schiena dritta e lo sguardo altero, sicuro che guardava verso l’alto, la sua dimensione giusta. Lui con schiena ricurva, gli occhi verso il basso come se fosse lo straccio bagnato che si passa sul pavimento” (p. 52).

La distorsione dei rapporti che Giacomo è portato a sperimentare sulla sua pelle in un clima familiare dove dominano la sopraffazione e l’indifferenza lo porterà ad avere addirittura un rapporto sessuale con la madre quando lei, ormai, è diventata completamente pazza. Di questo il lettore ne verrà a conoscenza solo nelle ultime pagine del libro e nel racconto che fa a Giulia osserva: “Da piccolo mi mancò terribilmente una madre normale” (p. 65). Poi il doloroso e poco imprevedibile atto estremo del padre, il suicidio, l’unico mezzo con il quale riuscì a sottrarsi dalla donna che gli aveva rovinato la vita, gesto che Giacomo non è in grado di condannare, ma che condivide.

La cornice narrativa è quella dei dialoghi serrati che l’uomo ha con la ragazza che le viene data in affido e che si porta a casa con sé, all’interno dei quali si inseriscono i ricordi melanconici e tormentati del passato dell’uomo che, da subito, alla ragazza chiarifica la sua volontà: prenderla con sé nella sua casa per adempiere alla volontà del padre, adducendo che a livello sessuale non è attratto da bambine e, soprattutto, che è impotente. I due trascorreranno molte giornate insieme durante le quali si conosceranno e Giulia, seppur non lo riconoscerà mai verbalmente, comincerà a provare un vero affetto nei confronti di Giacomo. Ed è in questo modo che anche la ragazza racconta il disagio che ha vissuto sulla sua pelle e che l’ha portata in clinica: non solo l’esaurimento dovuto alla morte del padre, ma anche la relazione sessuale con un uomo molto maturo che, in virtù della sua bellezza, le aveva proposto di lavorare nel mondo della moda, forzandola però a dimagrire (“Scoprii di essere grassa, la mia 40 per loro era troppa roba”, p. 87).

L’anoressia, della quale al termine del romanzo, non ci è detto se la ragazza è guarita o no, quale disturbo alimentare non è che la risposta a una serie di condizioni alle quali è stata sottoposta che l’hanno ridotta a pesare cinquanta kili. Essa si lega a una serie di altre condizioni che evidenziano deficienze nell’utilizzo del proprio corpo quale l’impotenza di Giacomo alla quale si è accennato che, come il lettore poi scoprirà, non esiste. A livello sessuale la panoramica delle vicende che vengono raccontate è varia: si va dalla pedofilia (Giulia ha rapporti sessuali con l’uomo che la introdurrà nel mondo della moda quando non ha ancora diciotto anni), al lesbismo (di Giulia con una sua amica, osservato vouyeristicamente, non visto, da Giacomo), all’incesto (di Giacomo con sua madre) e addirittura a uno spiazzante coup de theatre che vedrebbe Giulia essere un ermafrodito.

Nel romanzo assistiamo a manifestazione inaudite di cattiveria e di violenza che possono far chiedere al lettore quale sia il reale intento dell’autore: se dipingere una realtà sociale ormai disfatta, rovinata dalle sue stesse mani o se, invece, far riflettere su quanto la vita a volte possa accanirsi con una sola persona. Suicidi, inaffettività, violenze psicologiche, episodi di pedofilia, drammi personali, amori persi e ritrovati dopo tanto, quando non c’è più tempo per poterli rivivere perché intanto la vita ha fatto il suo tempo e sono sopraggiunti mali incurabili come nella storia di Giacomo con Lucia, chiarificano al lettore quanto la vita umana sia spesso accidentata da episodi non voluti, arrivati per caso e ai quali l’uomo deve sottomettersi per cercare un futuro migliore, convivendo con essi e costruendo la sua personalità, giorno dopo giorno, su queste circostanze.

Quando la desolazione interiore per tanto male di vivere può attanagliare l’anima, la confessione dei propri tormenti a qualcuno può diventare un percorso salvifico ed è ciò che Giacomo fa nei racconti a Giulia nei quali in fondo finisce per parlare quasi sempre di lui, come il titolo del libro stesso evidenzia “Da me a me”. Il discorso è concentrato principalmente sul Giacomo di allora e il Giacomo di adesso, un rimbalzo di palla tra infanzia e maturità, dolori e privazioni che lo porterà, come si è detto ad attaccarsi a Giulia con un reale carico affettivo. Ci sarà tempo anche per un loro rapporto sessuale, è vero, ma come ricorda la ragazza, il sesso oramai nella nostra società e come siamo soliti intenderlo, non è che un gioco atto al puro divertimento: “Scopare non conta niente, importanti sono sole le parole, quelle vere e quelle finte ma comunque dette” (p. 157).

Sembra non esserci troppo spazio ai sentimenti nel personaggio di Giulia che, però, una volta che scopre l’assenza per sempre dell’uomo che ha imparato a conoscere e che con la sua terapia dialogica l’ha effettivamente curata, ne sentirà una profonda mancanza.

Lorenzo Spurio

-scrittore, critico letterario-

 Jesi, 15-08-2013

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