Dono del presente, scommessa per il futuro: “l’altra scuola” di Eraldo Affinati. Lettura di “Via dalla pazza classe” a cura di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini 

Via dalla pazza classe (Mondadori, 2019) è, anzitutto, la confessione appassionata e sincera di una vocazione che Eraldo Affinati – studente “fuori posto”, in gabbia, figlio di genitori orfani nell’Italia anni ’60 uscita dalle macerie della guerra e “proiettata come un astronave verso il futuro”, precocemente afflitto dall’ipocrisia delle convenzioni sociali soprattutto quando si traducono nel “carbone” riservato a chi ha sbagliato, insofferente verso i canonici rituali della stessa esperienza universitaria – avverte, “puntando un faro dentro se stesso”, per la pratica dell’insegnamento che ha significato immediatamente scoprire la propria identità, “accettare la finitudine” e, in equilibrio fra consapevolezza della tradizione e tensione progettuale, consegnare, al di là della nozione, “vertigini positive” al sorriso di un alunno che bisogna saper guardare negli occhi con fiducia e spontaneità (“vegetazione affettiva ideale per aggirare pregiudizi ed equivoci educativi”) evitando il diffuso, narcisistico meccanismo teatrale-istituzionale della finzione pedagogica per sciogliere i grovigli, allentare le tensioni, superare i contrasti, mettendo in conto “ritardi, atrofie, negligenze, noia” e da parte indecisioni, titubanza, autoreferenzialità.

978880471228HIG.jpgChi accetta/sceglie il “Mestiere dei fiaschi” (splendido il capitolo, pp. 47-48) “offre a tutti le maschere poi le stacca dal volto, disegna e cancella, scolpisce e distrugge, prova le voci, evoca i fantasmi” e, “artigiano del tempo”, vero specialista dell’avventura interiore (prima che di competenze disciplinari), esplora il passato, ricompone il presente ed elabora il domani. In questo senso il libro costituisce una straordinaria riflessione complessiva sul villaggio educativo italiano, troppo spesso precettistico, competitivo, autoritario, pedantesco, non luogo deputato alla trasmissione della conoscenza e della cultura ma sede istituzionale per misurazioni, valutazioni (“tiranniche” secondo A. Del Rey), esperimenti docimologici, prove oggettive che si traducono in “caricatura della meritocrazia” reiterando una “struttura binaria bloccata” sul ruolo frontale contrapposto e non comunicante del professionista che somministra materiale scientifico e del discente il quale, passivo, subisce l’ascolto rispondendo a verifiche modulari raramente calibrate e commisurate alle proprie esigenze profonde di Persona “sacra, solenne e ingiudicabile”. Convinzione radicata dell’autore è che proprio la scuola costituisca, invece, lo spazio privilegiato “per migliorare la qualità delle relazioni umane, piazza di scambi e stupori, riconoscimento e scoperta di ragazzi che hanno bisogno di certezze da distruggere, tesi da contestare, padri da uccidere, nemici da sconfiggere”, strumento decisivo – fra i pochi rimasti – di “resistenza etica” per diagnosticare l’atonia della società contemporanea, contrapporre – ricorrendo alla potente arma del linguaggio, “espressione strutturale e strutturante delle emozioni” – i valori guida di un’esistenza ben spesa (“rigore, coerenza, responsabilità”) ai falsi miti di una precaria contemporaneità e, alla fine, “scendere nella notte spirituale degli adolescenti”, nel loro malessere latente/inconfessato, tanto maggiore quanto più è marcato da miseria e squallore (“Non si può educare solo nella zona di sicurezza”, Bergoglio 2013).

Dolorosamente cosciente che “da una parte e dall’altra del tavolo siamo comunque pezzi mancanti, bobine da sostituire, chiodi da piantare, viti da stringere” e il senso di una vita che si avvia, di un’altra che riprende “tra occasioni sfruttate e combinazioni incontrollabili” assume ragioni se possibile ancora più essenziali e vitali in presenza del disagio, lo scrittore avverte l’urgenza – sull’esempio degli amati Don Bosco e Don Milani (“dicesi maestro chi non ha alcun interesse culturale quando è solo”…con buona pace degli estenuati e conturbanti modelli giovanili decadenti di Mann e Rilke) – di corroborare e saldare la propria proposta didattica alla dolente/indignata attenzione per i “dannati della terra”, i minorenni immigrati non accompagnati vittime di insensibilità, “paura delle contaminazioni e della promiscuità razziale”, abbandonati dalle loro famiglie in mare (non metaforicamente) aperto. Così per il timido e silenzioso Habib (hazaro) e Puja (Teheran), che riesce a leggere Solo e pensoso di Petrarca, per il musulmano bengalese Rehan, che avverte il fascino d Jissah/Gesù e i “festanti, irruenti” egiziani del Delta del Nilo, per Camara “giovane delle pietre insanguinate, dei pensieri in frantumi, dei chiodi sparsi nella sabbia subsahariana” e quanti – tragici, mesti eredi del bambino selvaggio di Lacaune e di quelli ebrei internati nelle anticamere dello sterminio – vivono la vergogna di essere analfabeti nella lingua madre subendo la violenza di non poter progettare un’idea di sé nasce, dopo l’esperienza della “Città dei Ragazzi”, la Penny Wirton, istituto di italiano per extra-comunitari che, sostenuto dalla luce di un affetto e di una missione condivisi (la moglie Anna Luce Lenzi, collaboratrice instancabile) egli dedica al protagonista smarrito e volitivo di una favola di Silvio D’Arzo, che tanto deve all’apprezzamento di Montale e qualcosa a Spoon River: una sorprendente, “non pazza” struttura scolastica divenuta, dopo “gli esordi faticosi, itineranti e precari” (dalla originaria sede romana di S. Saba all’ex Cinodromo con i suoi suoi locali “precipitati dal cielo come meteoriti di Che Guevara e Malcom X” sino all’”ortodosso” Liceo Keplero delle circolari ministeriali e all’ostello universitario di Via De Dominicis) scommessa vinta e circuito di comunità diffuse sull’intero territorio nazionale. In clima (stavamo per scrivere regime, il termine a Penny non piacerebbe) di volontariato gratuito ed entusiasta alla Wirton ti accolgono con un sorriso, non si chiedono permessi di soggiorno (l’istruzione è “di” e “per” tutti, l’accoglienza vera non prevede/ammette schede o moduli), si segnano solo le presenze e anche cinque minuti vanno bene per insegnare a trovare se stessi in un rapporto “uno a uno” al termine del quale il riconoscimento delle vocali, la coniugazione di un verbo affascinante e impervio come il nostro, il corsivo e il lessico arrivano – se arrivano, non è determinante – come traguardi esaltanti e segnali di gratificante emancipazione per chi riesce ad uscire, grazie al potere liberatorio e libertario della parola, da uno stato di intollerabile minorità. Se sbagli non si arrabbiano, se non impari tanto meno, ti stanchi? giochi (magari chiedono di rifare l’esercizio…ci sta) perché quello che conta (e quanto questo vale per la scuola tout court!) è evitare il giudizio per mettere in fuga il pregiudizio, riuscire ad insegnare senza spiegare e ad incoraggiare senza valutare ricorrendo alla Ludodidattica di alfabeti mobili, puzzle interativi, CD inventastorie e “storie arrotolate” e ad una Predidattica informale che si affida a meccanismi associativi, non a processi deduttivi: basta “essere assetati e afferrare nomi e aggettivi come frutti di un albero” per diventare italiani insieme. E’ Barbiana, non Collodi. È l’altra scuola di Eraldo Affinati che “nello spettacolo della durata si emoziona, protesta, ama, puntella le stagioni evitando che scorrano come vapori evanescenti, educa per vivere, risana le piaghe, cuce gli strappi, lega il tempo allo spazio e i sogni alla realtà”, consente – pure questo conta – ad un pedagogia d’avanguardia di divenire (ottima) letteratura, nel senso meno retorico del termine, come emerge chiaramente dai passi che abbiamo volutamente riportato. Ci sembra, in proposito, importante sottolineare come, senza che il lettore se ne renda conto, Via dalla pazza classe costituisca anche un ricco, autorevole, prezioso prontuario per avvicinarsi alla letteratura otto-novecentesca che ognuno potrebbe/dovrebbe trasformare in autonomo itinerario di lettura, esaustivo se solo riuscisse a leggere la metà delle opere menzionate…e a vedere alcuni dei non meno fondamentali film citati. Si tratta, evidentemente, di modelli/incontri/riferimenti imprescindibili nella formazione della sua poetica, tutt’altro che sbilanciati – sarebbe lecito attenderselo – sul versante realistico, a meno che ci si metta d’accordo in merito alla categoria narratologica, ma il discorso si farebbe troppo ampio: del resto tutta la “buona prosa” è, o dovrebbe, essere “vera” per Hemingway Dai russi (Tolstoy, “il più grande scrittore insegnante che guarda le sue creature come Dio gli uomini” preferito a Dostoevskij “sconvolto sull’orlo del baratro”, il Cechov dell’inesistente Monaco nero – per riconoscersi i conti con la montaliana ombra bisogna pur farli…voltandosi – Goncarov…Oblomov “fichissimo” per un alunno sedicenne e abbraccio d’obbligo del prof.) agli americani S. Bellow di Herzog, Conrad (d’ufficio), Singer, con il suo “spaesamento ironico”, Yates, D. Thomas, il “miracoloso J. London e il misconosciuto Ph. Levine, senza dimenticare il “pedagogico” McCarthy de La strada, dagli esponenti/testimoni dell’Olocausto (A. Appelfeld, G. Perec, T. Borowski, E. Hillesum) a Kafka, che aiuta i profughi ebrei a Berlino “perché vi si può ricavare più miele che da tutti i fiori di Marienbad”, Bonhoeffer, Paul Celan (“distillano grumi di senso opachi e luminosi le sue liriche, schegge roventi ed enigmatiche”), Breton e i surrealisti, emblemi irriverenti della provocazione contro il sistema (altro termine assai poco amato alla Penny W.), il libico Matar, Camus più del “maestro del sospetto” J.P. Sartre. Fra gli italiani (il sodale M.R. Stern, Pascoli – Italy, evidentemente – Manzoni, il Pirandello dei tanti “Lanternoni “ spenti e dei precari “Lanternini”) ricorderemo solo il tributo, frequente e trasversale, a Leopardi da parte, fra l’altro, di un allievo dell’indimenticabile W. Binni: vittima di un’educazione sbagliata, fu promotore di “un’energia fantastica” contro l’illusoria fiducia in magnifiche sorti progressive e seppe consegnare a ciascuno la speranza in un solidale, non utopistico rapporto con la realtà insieme alla lucida testimonianza di una disperazione mai sterile e renitente, per questo tanto più eroica e propositiva. Nell’impossibilità anche solo di accennare alle numerose pellicole dedicate alla diversità, alla denuncia, alla difficoltà di accettare e farsi accettare (molto Truffaut, tra accattoni e umanissimi replicanti), un’osservazione finale merita lo stile di scrittura. Referenziale, oggettivo, paratattico e sequenziale, con enunciati spesso aforistici che condensano efficacemente le tesi emotive, si apre ad improvvisi squarci lirici (“il lirismo mai pienamente riconosciuto del naturalista Verga”), particolarmente suggestivi e riusciti quando tracciano intense, mai convenzionali immagini di Roma. E “i cieli scorticati delle precoci primavere romane restano sempre uguali, trofei incustoditi che non si rubano e non si perdono […] mentre una bolla rossastra rappresa sul vetro illustra il declino del giorno e un’altra magnifica primavera, trionfante nei papaveri fiammeggianti e negli aspri rami di fichi cresciuti selvaggi fra le crepe dei muri, sembra spargere intorno al cielo di Testaccio la sua sovrana indifferenza” (passim).

“Prosa lirica? A professo’, ma cos’è?” (pp. 224-225, prima prova Esami di Stato)…il candidato non sapeva che il commissario esterno ne era un esponente né mai lo saprà, ma questo a Penny non cambia la vita.

Marco Camerini

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“Con la GLI di coniGLIO” di Anna Maria Boselli Santoni, recensione di Lorenzo Spurio

“Con la Gli di ConiGLio” di Anna Maria Boselli Santoni

Edizioni Pragmata, 2014

Pagine: 132 – Costo: 12 €

Isbn: 9788897792659

 

Recensione di Lorenzo Spurio

I nostri programmi di allora ci chiedevano di formare le teste degli scolari e non di riempirle fino all’orlo di nozioni slegate tra loro e perciò non riutilizzandoli in altri passaggi dell’apprendimento perché fini a se stesse, destinate probabilmente ad un veloce irreparabile oblio. (55)

1412756640_10495862_327186277462773_8694612666861528296_oIl nuovo libro di Anna Maria Boselli Santoni è una nuova folgorante scoperta su una donna dall’animo gentile che ha fatto un patto di sangue con la scrittura e con la rievocazione del ricordo. Ha alle spalle una nutrita carriera letteraria dove ha spaziato sapientemente tra i generi più disparati, soprattutto in campo narrativo, di cui ricordo con vivo piacere le letture fatte delle sue opere più recenti, lavori dai titoli che richiamano da subito l’interesse del lettore, interesse che non cala mai man mano che ci si prodiga nella lettura. Mi riferisco a Forse là, dove danzano i girasoli e Rosetta e le ciambelle, entrambi editi da Marco Serra Tarantola Editore di Brescia e il più recente La dolce Rua Sovera (Edizioni Pragmata, 2014) dove i luoghi si animano di personalità e l’universo del piccolo borgo costruisce una fitta rete di collegamenti tra la protagonista e tutto ciò che ne definisce l’essenza urbana.

Anna Maria Boselli Santoni si definisce maestra e teologo laica; in questa nuova pubblicazione dal titolo Con la Gli di Coniglio (Edizioni Pragmata, 2014) è contenuta propria una densa biografia della Anna donna di istruzione, impegnata quale maestra non solo nell’istruzione dei giovanissimi, ma anche nella loro educazione, comprensione e lettura delle personalità. La componente di teologia laica (espressione impiegata con parsimonia nel panorama letterario culturale in virtù forse di un timore che essa contenga una contraddizione di fondo) la si ravvisa in Anna Maria invece in ogni singola frase che compone i propri libri dove è un animo altamente sociale (pure con i suoi momenti di necessità della solitudine per una maggiore comprensione di sé stessa e di ciò che accade attorno a lei), di vicinanza empatica al prossimo non solo in termini di aiuto al bisognoso, ma di comprensione degli stati di disagio e di compartecipazione alla vita personale degli altri. Sono, queste, componenti peculiari di una caratterialità votata all’esigenza di espressione e di ricerca di convivialità, di spiccate doti d’estroversione, costruttività e interrelazione che descrivono in maniera al quanto limpida la caratterialità di una donna energica e solare proprio come Anna Maria.

Ma per attenerci al nuovo volume in particolare dirò che è un libro-ricordo sull’esperienza di insegnamento della scuola, ma anche un manifesto di quanto la scuola primaria sia importante e determinante nella formazione culturale dei futuri giovani e soprattutto nel modo di integrazione e di interagire con il mondo di fuori dalla scuola e dalla famiglia.

10711004_321565521358182_5765807423940646735_n (2)Anna Maria senza puntare il dito in maniera eclatante contro qualcuno, sottolinea quanto i modelli didattici spesso si configurino come troppo freddi e distaccati nell’atto del loro insegnamento, troppo tabulari e schematici, senza consentire la libera espressione del soggetto o incentivarne le sue particolari inclinazioni o preferenze a determinate tematiche. La scuola che fuoriesce da questo tipo di insegnamento è un sistema standardizzato di moduli didattici che vengono trasmessi in maniera troppo rigorosa senza permettere una viva compartecipazione della classe possibile con l’introduzione di una dimensione di tipo ludica, di laboratori artistici ed espressivi, quindi applicativi, di diversa forma. La Anna Maria insegnante è anche una attenta indagatrice della psicologia dei piccoli che ha intorno a sé e, da buonissima insegnante ma anche amica (tutti avremmo voluto una maestra come lei), non fa difficoltà a scorgere episodi di disagio, di isolamento o di incapacità ad esempio nella scrittura, individuando casi di dislessia che all’epoca venivano duramente repressi dagli insegnanti con obblighi di continui esercizi di ricopiatura.

Il volume traccia un po’ quello che è stato il diverso approccio dell’insegnante nei confronti degli allievi nelle prime fasi della istruzione e la Nostra cita numerosi autori e testi, sociologi, studiosi e pedagoghi che si sono occupati proprio della formazione del giovane; non è un caso che il metodo Montessori provvedesse a indirizzare i genitori dei piccoli verso l’adozione di scelte, se non le più ovvie e a un primo acchito le più logiche, di sicuro quelle che a lungo termine avrebbero avuto una funzione decisiva sul comportamento del giovane. Il seminario di Asiago in cui la protagonista Mira, felice proiezione della Nostra, partecipa è per lei ulteriore motivo di avvicinamento a quella materia di interesse sociale-pedagogico che lei metterà in atto nella sua classe riscotendo vivo entusiasmo da parte dei giovani.

Entusiasmo che si conserverà poi nel corso degli anni quando la maestra, per ragioni sue personali dovrà abbandonare l’universo della scuola, ma ancora a distanza di tanti anni durante i quali i suoi allievi sono diventati maturi, non potrà non sentirsi ancora molto legata ad essi percependoli un po’ come suoi figli. Ed è così che il ricordo della bocciatura di un giovane e del decesso in piscina di un altro ragazzino, sono memorie dolorosissime che salgono alla mente della maestra ormai in età pienamente matura mentre la vediamo passeggiare con il suo bastone in giro per la città.

Un amore indissolubile verso la scuola che si respira in ogni singola frase del presente volume, attorno al quale Anna Maria intreccia con sapienza e con originalità la storia del suo privato: del suo matrimonio, dell’attrazione quasi fatale verso un giovane incontrato alla scuola, del dramma di scoprire un figlio dislessico che, grazie alle sue conoscenze e profonda empatia con la materia, riuscirà di certo ad aiutare, contribuendo anche a far conoscere questo tipo di disturbo che ha un’alta incidenza nei giovanissimi ma che raramente viene diagnosticato con precisione e in tempo.

Il ricordo dei momenti vissuti e la vita rutinaria del presente si fondono in un unico magma incandescente dove la forza delle parole e le immagini dei ricordi sono estremamente potenti tanto da riportare la Nostra nel dolore più lancinante o anche farle rivivere splendidi momenti. Su un ogni vicenda dell’esistenza resta la percezione di una maestra-ascoltatrice rarissima, di una donna che più che insegnare, si è lasciata cullare e stupire dai ragazzini, un genio indomabile nella ricerca di forme di insegnamento alternative come il giocodramma e la capacità di saper interagire con il mondo, facendo ogni volta sue le varie sfaccettature di questo mondo come quando, ricorda: “Penso, sorridendo, a come ogni piccolo essere umano di auto percepisce” (75).

Questo è ciò che dovrebbe star a cuore ad una maestra, ancor più dei compiti del giorno prima proprio perché: “Non è il giudicare che […] interessa, ma il capire e il comprendere ciò che è giusto e necessario sapere, come insegnante” (94).

Il mio plauso ad Anna Maria per questa nuova ricca pubblicazione, capace di chiamare a una sana riflessione.

Lorenzo Spurio

Jesi, 11-12-2014

Salamanca, luogo perfetto per studiare lo spagnolo

800px-Catedral_SalamancaSalamanca si trova a circa 200 km da Madrid, nella provincia di Castiglia e Leon. La zona in cui sorge la città, sulle rive del fiume Tormes è una zona strategica per l’insediamento e la difesa di centri abitati e vi sono tracce di possibili insediamenti già in età preistorica. Sicuramente si hanno notizie di una fortezza costruita dalle popolazione iberiche, chiamata Helmantica. La fortezza venne conquistata da Annibale nel III secolo a.C. In seguito fu conquistata dai romani, durante il I secolo a.C, che ne riconobbero l’importanza come nodo commerciale e costruirono un ponte per guadare il Tormes che è tutt’oggi agibile. Con la caduta dell’Impero romano la città passò sotto il domino di Alani, Goti e Visigoti; durante l’espansione musulmana la città venne conquistata dagli arabi nel 712 e divenne territorio di contesa tra cristiani e musulmani fino al 1085 quando, con la battaglia di Toledo, le truppe cristiane si riappropriarono definitivamente della città.

 

Nel 1243 il re Alfonso IX de León fondò l’Università di Salamanca che ospitava già una importante scuola vescovile dal 1130. Salamanca diventò così sede di una delle più antiche università europee oltre che della più antica università spagnola ancora in attività. Iniziò ad attirare professori e studenti grazie alla qualità dei suoi corsi e la sua fama si diffuse in tutta Europa. Da questa università, come studenti o come professori, passarono alcune tra i più importanti esponenti della letteratura spagnola, solo per citarne alcuni: Fray Luis de León, Bartolomé de las Casas, San Giovanni della Croce, Antonio de Nebrija, Fernando de Rojas, Pedro Calderón de la Barca.

 

Una menzione particolare merita Miguel de Unamuno, scrittore poliedrico, filosofo e poeta appartenente alla corrente della Generazione del 98, che con la città e l’università di Salamanca ebbe un rapporto particolare. Unamuno vinse il concorso per la cattedra di greco nel 1881 e nel 1900, a soli 36 anni, venne nominato rettore dell’Università, prendendo il posto di Esperabé. Restò in carica fino al 1914, quando a causa delle sue idee politiche, venne allontanato forzatamente. A causa della sua opposizione per nulla celata al regime dittatoriale di Primo Rivera, nel 1924 è costretto all’esilio. Farà ritorno solamente nel 1930, quando il regime era ormai caduto, verrà accolto dalla città con gran trionfo. Ricevette nuovamente l’incarico di rettore che mantenne fino al 1934, anno in cui si pensionò volontariamente e gli viene conferito il titolo di Rettore a vita. Morì qualche anno dopo, nel 1936.

 

La città di Salamanca, oltre ad essere un centro culturale di grande importanza, si trova nella provincia di Castiglia e León, famosa per la purezza dello spagnolo, detto anche Castigliano, che viene parlato senza inflessioni dialettali, o regionali, di alcun tipo. Per questo motivo, oltre gli studenti spagnoli, l’università è frequentata da un gran numero di stranieri che sceglie Salamanca come destinazione per il proprio periodo di studi all’estero.

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La scuola don Quijote nasce a Salamanca nel 1986 e si dedica all’insegnamento dello spagnolo come lingua straniera da oltre 25 anni. Oltre al programma di lingua spagnola, completamente personalizzabile in base alle esigenze, è possibile anche frequentare dei corsi di cultura e letteratura spagnola, tenuti da professori madrelingua.

 

Come dice un antico detto popolare: “Chi vuol imparare venga a Salamanca”. Non lasciarti sfuggire questa occasione, scarica la brochure  e consulta le offerte disponibili!

 

Lorenzo Spurio intervista il poeta campano Ugo Piscopo

LS: La critica ha analizzato la sua ampia produzione poetica come un colloquio tra classicità e modernità e come una curiosa altalena tra continuità ermetica e affiliazione allo spirito “elettrico” delle avanguardie. Per la componente della poetica classica sono stati sottolineati nelle sue liriche sabismi e montalismi in linea con una poetica di tipo elegiaca e dal tono sofferente ripiegato sull’animo dolente dell’uomo. Si ravvisa, però, anche una sua vicinanza ai nuovi fermenti letterari delle cosiddette neo-avanguardie e un’assonanza con lo spirito del gruppo’63 e la categoria dei poeti ricordati come i “nuovissimi”. Può parlarci di questa fase letteraria italiana e dirci quanto è stata importante per la sua formazione di poeta nel corso degli anni?

UP: Preciso subito i miei rapporti col lessico: sia “classicismo” sia “modernismo”, li tengo in sospensione. Non è perché mi facciano venire le allergie, ma ne faccio uso con estrema cautela. Ben altro è il rapporto con “classicità” e “modernità”, che sono referenti valoriali in cui credo. E credo soprattutto nella forza dei loro scambi sinergici, come ci hanno creduto nel Novecento Quasimodo e Sanguineti, Yeats, Eliot e Rilke, Savinio e Bontempelli, e prima ancora (andando à rebours) Baudelaire, Shelley, Keats e Byron, Goethe e Novalis e tanti altri. Con la neoavanguardia e con i movimenti sperimentali del secondo Novecento, sono stato compagno di strada, ma in totale autonomia. Avrei dovuto essere a Palermo per la costituzione del Gruppo 63 e conservo ancora una cartolina di invito di Luciano Anceschi. Con Edoardo Sanguineti, c’è stata amicizia. Ha recensito dei miei libri, una volta per dodici settimana di seguito mi ha mandato una cartolina illustrata, ha scritto per una collana da me diretta un volume[1], e, quando è scomparso, stava scrivendo un  volume dedicato a Salerno sempre per la stessa collana.

  

LS: Anche la sua attività di acuto saggista è stata rivolta a testi/autori appartenenti a generazioni innovative catalogabili all’interno delle cosiddette “avanguardie storiche” quali il futurismo e il surrealismo. Si è dedicato, ad esempio, a studiare Alberto Savinio[2] che fu, assieme a Tommaso Landolfi, l’esponente di spicco del surrealismo italiano votato all’indagine dei recessi dell’io tra il fantastico, il misterioso e il perturbante. Tra gli altri studi che ha condotto va ricordato anche un saggio su Massimo Bontempelli[3], padre del cosiddetto “realismo magico”. Può parlarci della sua fascinazione nei confronti delle avanguardie e del suo rapporto con poeti e scrittori che appartennero a questo filone?

UP: Nella mia produzione saggistica, futurismo e surrealismo occupano uno spazio notevole. Oltre a quanto pubblicato, ho un articolato e polposo volume (che resterà inedito) concernente il profilo del surrealismo in Italia. Ho anche un contratto, che finora non ho onorato, con la Casa editrice Guida di Napoli per una rivisitazione del surrealismo alla luce della sensibilità e delle mitologie del mondo contemporaneo. Ma, oltre all’avanguardia storica, ho studiato anche movimenti, situazioni e autori di indirizzo sperimentale del secondo Novecento. Per tale aspetto, rinvio alla mia produzione critica riguardo al settore delle arti figurative: ho scritto volumi, curato cataloghi e mostre concernenti l’informale, l’astratto geometrico, il postmoderno, sono stato responsabile per la critica d’arte di “Paese Sera”, redazione di Napoli. In questi giorni, è comparsa in vetrina una mia robusta monografia[4], dove si analizza lo svolgimento di un significativo artista sperimentale attraverso la specola delle interrelazioni fra individuo e ambiente e fra Napoli e il mondo contemporaneo nella seconda metà del secolo scorso e nei primi anni del nuovo secolo.

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LS: William Butler Yeats (1865-1939), poeta irlandese, vinse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1933. E’ considerato, assieme a Virginia Woolf e James Joyce, uno dei padri del modernismo inglese, quella fase poetica anglosassone più aderente alle problematiche ed esigenze dell’uomo, che sviscerò il disagio psichico e per la prima volta smitizzò la coscienza dell’artista per renderla, invece, materia dalla quale partire per fare letteratura. Le propongo qui una sua poesia intitolata “I vecchi che si ammirano nell’acqua”[5] per chiederle una sua interpretazione personale:

 Ho udito i vecchi, i vecchissimi, dire:
«Tutto muta,
E a uno a uno noi scompariamo»,
Avevano mani simili ad artigli, e le ginocchia
Contorte come i pruni antichi
Presso le acque.
Ho udito i vecchi, i vecchissimi, dire:
«Tutto ciò che è bello trascorre via
Come le acque».

 

UP: All’irlandese Yeats dedicai trentenne (1964) una conferenza presso l’Istituto Italiano di Cultura di Tripoli, nella città dove mi trovavo per conto del Ministero degli Esteri, Relazioni culturali con l’estero. A lui e all’Irlanda del primo Novecento (in particolare, a Joyce) mi piace pensare di frequente. La composizione qui proposta è deliziosa, avvolgente e comunicativa e appartiene meno al filone yeatsiano sperimentale che a quello simbolista-visionario, che si costituisce su una cifra ermeneutica tutta personale di interrogazione degli aspetti primari dell’esistenza, per ricavarne spunti di riflessione sulla storia e sul destino dell’uomo. Il quale, come soggetto attivo delle contraddizioni e degli intrecci di tensioni vitali, diventa icona di una condizione patica di verifica dell’esser-ci. In questi versi, estremamente trasparenti ed essenziali, il dramma esistenziale si cala in toccate e fughe lievi e allusive sulla liquida mobilità del vivere, sottolineata da “presso le acque” e “come le acque”. Sul bordo delle acque sono collocate statuariamente delle sculture umane di figure lavorate dal tempo con «mani simili ad artigli» e «ginocchia contorte come pruni antichi». Intanto, nell’atmosfera attorno fluiscono parole, narrazioni brevi sul senso del tutto: «tutto muta», «tutto ciò che è bello trascorre via».  

  

LS: L’idea di questa intervista è quella di poter diffondere le varie interpretazioni sulla Poesia e in questo percorso ho ritenuto interessante proporre a ciascun poeta il commento di due liriche di cui la prima è di un poeta contemporaneo vivente e ampiamente riconosciuto dalla comunità letteraria e un’altra di un poeta contemporaneo, esordiente o con vari lavori già pubblicati, per consentire l’articolazione anche di una sorta di dibattito tra poeti diversi, per esperienza, età, provenienza geografica, etc e di creare una polifonia di voci e di interpretazioni su alcune poesie appositamente scelte. La prima che Le propongo per un’analisi è “Fior di cactus” tratta dalla silloge La grazia di casa mia[6] del poeta di origini brasiliane Julio Monteiro Martins[7]:

Cambiali e minotauri,
saturnali e minestroni,
angurie e folgorazioni.
 
Soldi e versi.
 
Tristi accoppiamenti.
 
E intanto
arrivano bollette
e il poeta soffre.
 
La vita intera
sull’orlo dello sfratto.
 
Gli spazi chiusi
sempre instabili,
Le pareti costano.
 
Al poeta povero,
sgradito ai proprietari,
respinto dalle mura,
resta l’aperto.
L’addiaccio.
 
 
Sulla mia vita
all’aperto
ve ne racconto una,
gratis come sempre.
 
Esiste un luogo
dove non c’è televisione
e non arrivano giornali.
È una sorta di deserto.
È bello visitarlo all’alba
quando fioriscono i cactus.
 
Lì ho conosciuto
l’ironia vegetale.
Il cactus più brutto
è quello dal fiore più bello:
un gigantesco giglio,
profumato,
variopinto,
che si apre solo all’alba.
Si capisce.
Da quelle parti
il sole è così ardente
che il fiore
non ha scelta
e deve rimanere chiuso
per tutta la giornata.
 
Ma state tranquilli.
Trattenete pure
le interpretazioni.
Questa storiella
non è una metafora
della miseria del poeta.
 
È soltanto un ricordo.
Un richiamo forse.
Una fitta.
Una piccola cosa,
mentale
e inestimabile.

 

UP: Non conosco l’autore di questa poesia. E’ la prima volta che leggo dei suoi versi. Intanto, questa composizione non mi lascia indifferente con la sua immediatezza comunicativa, con le sue movenze rapide, pressoché sussultorie, con gli umori sarcastici e lievemente dissacratori tenuti sotto controllo, ma garbatamente, giocosamente lasciati trasparire in superficie. L’autore non si pone frontalmente nei confronti di chi legge o ascolta, anzi si colloca da quest’altra parte della scena, come uno del pubblico, col quale ha il piacere di colloquiare provocatoriamente con allegra tristezza di dietro o lateralmente. Entro questo scenario, si viene progressivamente formando un’atmosfera di perplessità e di attesa su stigmi di una modernità tutta cose e contraddizioni, che non concedono spazi all’evasione, alle regressioni, alle confortanti rassicurazioni. Il linguaggio fatto di concretezza e di oralità, tuttavia, non si nega al momento magico dello stupore, quando al centro di una condizione di rudezze esperienziali si apre improvvisamente un varco all’apparizione dell’inatteso, del diverso, quel fiore di cactus, che è una delizia, proveniente dalla pianta più ostica e retrattile, che è il cactus.

 

 LS: Di seguito, invece, Le propongo la poesia “Il drago infuocato”[8] della poetessa Anna Maria Folchini Stabile[9]:

 

Un fiume di parole si inseguono
nell’aria ferma
che si fa di ghiaccio.
Pensieri e visioni di passato rotolano sul presente,
eruttati dall’urna di cristallo.
 
Il vuoto,
il rammarico
riempiono, poi, il cuore
di infinita e sconsolata
 
Meglio sarebbe stato inghiottire il drago adirato
con tutto il suo pennacchio di fumo…

 

UP: Egualmente, come già per Julio Monteiro Martins, devo segnalare che adesso per la prima volta sto prendendo contatto con la scrittura di Anna Maria Folchini Stabile. Trovo anche questa composizione significativa. Essa mi mette a contatto con una voce che, in una stanza illuminata dalle pareti lisce e rigorosamente prive di ornamentazioni e altre aggiunzioni, sul filo di una disciplinata pazienza, evoca situazioni in cui il complessivo e la complessità stessa si assoggettano a processi e a linee di essenzializzazione. Lo stile è del suggerimento e della confidenzialità estremamente sobri, se non cauti. Poi, improvvisamente avviene uno scarto, un’impennata. Mentre, il discorso stava avvolgendosi tutto all’interno di una stanza di castigata meditazione, il cavallo dell’immaginazione balza oltre l’ostacolo. Un guizzo, un salto e via… Non a caso anche la poetessa adopera i puntini sospensivi, per suggerire a chi legge che di là in poi deve correre (collaborativamente) con la sua fantasia e immaginare quello che oggi potremmo chiamare il sequel, che sta diventando sempre più tema ricorrente nei dibattiti e sui media.

  

LS: La sua prima silloge, Catalepta, appare al lettore come una prima summa di esperienze con il mondo viste con uno sguardo mesto e leggermente sofferente; va rintracciando, infatti, quelle che sono le amarezze, le “fragili speranze”, la debolezza (intendiamo fisica, ma anche morale) degli uomini, i dolori della guerra e della dittatura («ci sono ancora le camice nere»[10]) e ne fuoriesce a tratti un’indagine di carattere crepuscolare che, però, rifugge ciascuna forma di vittimismo dopo aver preso coscienza che la vita, pur gravata da dolore, è importante e va rispettata e considerata il dono più grande in nostro possesso. Nella penultima lirica della raccolta, intitolata “Vita”[11], scrive appunto:

 

Guazzando in una pozza
di luce
affondo le mani
Son vivo.
Riconosco la  vita
in quel poco di carne
che noi soffriamo
caldi d’un soffio oltramondano.

 

Può dirci come è nata questa poesia e quanto secondo Lei è importante il dolore, la sua percezione e contestualizzazione, come elemento esperienziale nel percorso dell’uomo?

 

UP: Prima qualche precisazione su questa poesia: la scrissi negli anni universitari, quando ero molto suggestionato dai classici antichi e moderni, a cominciare dagli autori greci (soprattutto, i lirici e i tragici). Tra i moderni, incalzavano particolarmente Leopardi, Baudelaire e Rimbaud, Ungaretti e Quasimodo, i romantici inglesi, Lorca e Guillén. Sul piano del pensiero, l’attenzione era assorbita dalle interrogazioni sull’esistenza che vanno da Kierkegaard a Sartre. Passiamo, poi, al dolore. Già, il dolore, il sale della vita. Chiediamolo a Montaigne, a Leopardi. Attraverso questo filtro, acquistiamo senso nel mondo e diamo senso ai nostri rapporti col mondo. La sua esperienza è, dunque, condicio sine qua non di partecipazione e dell’acquisto di consapevolezza della partecipazione a una situazione generale in divenire in una condizione, purtroppo, di individualità mortale, di limitatezza e parzialità che si vorrebbe ricongiungere al tutto. Sul diagramma del dolore registriamo la nostra storia, l’avventura della nostra presenza. Il dolore, però, rispetto alla poesia e all’arte è un primum soltanto. Non è col dolore che si fa poesia, ma con le parole, come dice Valéry. Con la scrittura, come sostiene Derrida.

  

LS: Una delle sue opere maggiori è considerata Quaderno a Ulpia, la ragazza in mantello di cane (Guida, 2002) che è completamente ispirata e dedicata alla sua compianta cagnetta, legata a lei da un rapporto molto stretto. Il libro, oltre ad apparire come un lungo canto soave volto a rimembrare  momenti felici e giocosi vissuti con Ulpia, si offre al lettore come un vivido testo di impronta esistenzialista. In un certo senso parlando di un cane è come se volesse mettere in luce quanto l’animale da lei amato possedesse qualità inenarrabili e fosse capace di ricambiare quell’affetto donato che, invece, oggigiorno trova sempre una maggior reticenza e latitanza nel comportamento dell’uomo. Può dirci come è nato questo libro e qual è stata l’intenzione che ha mosso l’intera opera?

UP: Questa raccolta, insieme con le raccolte e con le composizioni che la precedono a partire dagli anni Novanta del secolo scorso (connotati dal ripiegamento sul minimale e sulla ragione debole, dalla sempre più accentuata diffidenza nei confronti delle grandi narrazioni e delle spiegazioni ultime e ultimative, dagli scandagli non neutri e freddi della fine dei tempi, dal ricorso come risorsa alla non-coerenza in risposta all’andata in crisi del mito del progresso e della fede nell’unidirezionalità del cammino della storia) e insieme con le raccolte e con le composizioni che la seguono, segna decisamente un punto di svolta. Di qua in poi, la ricerca avviata sin dall’inizio (anni Cinquanta), ma prevalentemente in maniera allusiva e simbolica, acquista un atteggiamento di maggiore esplicitezza sulla probabilità di una Weltanschauung libera dai condizionamenti e dall’autoreferenzialità dell’antropocentrismo. Si tentano recuperi di linguaggi dimenticati nel sottosuolo della coscienza, contattazioni di snodi e intrecci fra l’Io del singolo e l’Io più complessivo, con cui ci muoviamo in sincronia, di ciò che non è umano (il cane in questo caso, poi le erbe (Haiku del loglio e d’altra selvatica verzura), poi le pietre (Esistenze preesistenti. Pietre di Serra di Pratola Serra), poi…

 

LS: Negli ultimi anni un numero sempre maggiore di intellettuali, tanto scrittori quanto artisti afferenti ad altre forme d’espressione, hanno posto al centro della propria attività un chiaro interesse ecologico, volto cioè, ad evidenziare come la sconsiderata azione dell’uomo provochi gravissimi danni alla natura, alcuni dei quali non visibili direttamente ma che si manifestano inaspettatamente con un’inaudita violenza (terremoti, frane, ecc.). L’utilizzo del tema ha significato, oltre a un chiaro intento dell’artista di sensibilizzare nei confronti di realtà che riguardano indistintamente tutti, un nuovo modo del poeta di relazionarsi alla natura. Si pensi come è cambiato nel corso dei secoli il rapporto dell’uomo con l’elemento naturale e nel sistema dei comportamenti e nella rappresentazione che la letteratura ne ha fatto (si pensi al mito dell’Arcadia, all’esaltazione del paesaggio fatta dai romantici inglesi, al saggio Nature di R.W. Emerson e al romanzo Walden[12] di H.D. Thoreau). Che cosa ne pensa dell’utilizzo del tema con chiari intendimenti legati alla salvaguardia del benessere ecologico? Conosce o ha letto poeti che sono particolarmente sensibili al tema?

UP: Io provengo dal mondo contadino (Irpinia), i miei nonni paterni e materni erano contadini, il mio immaginario e la mia sensibilità hanno avuto un imprinting per sempre dal mondo della natura. Le mie nonne (la paterna e la materna) erano analfabete, ma sapevano usare e decifrare linguaggi complessi di interpretazione e di relazione con la vita e ne facevano uso di grande sapienzialità. La mia nonna materna, che è stata la mia seconda madre e che ha esercitato un grande ruolo nella mia prima formazione, mi ha trasmesso un grande rispetto per la vita, nella sua ricchezza, nella sua varietà e nelle sue meraviglie o, meglio, nei suoi miracoli. Negli scritti creativi (prosa e poesia), la mia fantasia si riferisce puntualmente a quelle frontiere, sia quando ne tratto esplicitamente, sia quando tratto situazioni altre e lontane. Allora, forse, ancora di più. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, con un amico artista, Toni Ferro, oggi scomparso, dopo un manifesto sul teatro totale, elaborammo un progetto di un nuovo linguaggio artistico ispirato alle esigenze ecologiste e ne nacque una rivista dal titolo Arte ed Ecologia. All’ecologia ho dedicato grandissimo spazio nelle mie pubblicazioni per la scuola. Mi si chiede se conosca o abbia letto poeti particolarmente sensibili a questo tema. Rispondo così: ce ne sono tanti soprattutto oggi di questi poeti. Ma sempre la poesia, in quanto poesia, è stata per un’ecologia sostanziale della parola, della sensibilità, dell’immaginario. Certo, è stata anche di parte. A cominciare da Omero e da Esiodo, passando per Teocrito e Virgilio, fino a Guillén, che dedica tante poesie al trifoglio, a Montale intriso nella memoria dei profumi dei limoni, a Zanzotto che fa rifluire storia ed esistenza nella corporeità di selve e di fiori. E oltre ancora.

  

LS: Lei ha alle spalle una lunga attività di docente nella scuola secondaria, di preside di liceo e di dirigente superiore del Ministero della Pubblica Istruzione con funzioni ispettive, che le ha consentito di rapportarsi direttamente con le nuove generazioni. Perché, secondo lei, i giovani considerano la poesia, e più in generale lo studio della letteratura, come una grande noia che non ha nessuna utilità pratica nel mondo concreto? Si è mai trovato a spiegare a dei giovani l’importanza della letteratura e, se sì, portando quali argomentazioni?

UP: Per la scuola e per i giovani ho scritto tanto: libri, saggi, articoli, relazioni. Alcuni miei libri sono stati dei bestseller.[13] Conosco bene il problema proposto: in effetti, i giovani, nel corso degli anni di istruzione e di formazione a scuola, vengono prevalentemente disgustati (se non intossicati) nei riguardi della letteratura, della poesia, del tema della bellezza. Ciò accade, anche se non dovrebbe accadere, spesso per colpa degli operatori stessi della scuola, che adoperano questi argomenti in maniera sbagliata o inadeguata: atteggiamenti iussivi e coercitivi e perfino punitivi, ripetitività fino alla noia, moduli generalizzati non tarati sulla sensibilità e sulle motivazioni dei soggetti in apprendimento, celebrazioni panegiristiche di autori e indirizzi. Ma, purtroppo, con indirizzi carenti o distorti interni alla scuola, interagiscono molteplici fattori esterni, che influenzano oggettivamente i processi formativi: i diffusi pregiudizi sulla scuola, sulla letteratura, sulla poesia, sull’arte, le vulgate iconografie del letterato, del poeta, dell’artista, che adeguano queste figure a mammolette e a sempliciotti scollegati dalla realtà. Anche l’uso improprio, che si fa sui marciapiedi, al bar, altrove del concetto di poesia e di arte dà il suo contributo in negativo. Oggi, poi, sempre più massicciamente hanno effetti negativi di ricaduta gli usi dei nuovi media, che distolgono dalla lettura, dall’esercizio critico, abbreviano i tempi di applicazione dell’attenzione, sollecitato ricezioni di carattere dilettevole. E ciò avviene non per colpa dei media stessi, ma per le strategie di eterodirezione delle coscienze dall’alto e per le relazioni che si stabiliscono in maniera frettolosa e rude con i linguaggi mediatici dal basso.

   

LS: Oggigiorno, anche grazie alla spasmodica filiazione di case editrici non a pagamento, book-on-demand e altre soluzioni di facile utilizzo, tutti si improvvisano scrittori. Ognuno ha probabilmente un suo modo di intendere il libro, l’opera e la letteratura, ma sta di fatto che la crescita esponenziale di opere sul mercato, rende estremamente difficoltosa da parte dei lettori la scelta dei testi. Dall’altra parte, il fenomeno è ulteriormente negativo, se si pensa che molti validi scrittori –magari incompresi e non spalleggiati da grandi marchi editoriali- finiscono per soccombere prima ancora di nascere. Che cosa ne pensa del panorama editoriale italiano e quali consigli si sente di dare agli esordienti?

UP: Che penso dell’editoria, io che sono stato consulente di case editrici, fondatore e direttore di collane? Che è un continente a geografia variabile, con profonde insenature, con massicci sistemi montuosi, ma anche con sabbie mobili e con profonde depressioni al di sotto del livello del mare. Non va né condannato, né celebrato, ma va studiato e possibilmente aiutato a migliorarsi, se il contesto sociale e culturale sa/vuole incalzare le politiche editoriali, se l’utenza sa scegliere e non funzionare unicamente come utilizzatrice finale che si lascia guidare dai clamori e dalle persuasioni (non sempre occulte) dei produttori e dei distributori. Ma come orientarsi, mi si chiede, in mezzo all’attuale alluvione di pubblicazioni dei nostri giorni? La situazione, non solo italiana, ma globale è pressoché babelica: questo, però, non deve spaventare, perché l’offerta così abbondante offre anche l’opportunità di imbattersi nel buono e perfino nell’ottimo. Molto dipende dalla credibilità e affidabilità della mediazione critica e recensiva. Oggi, un ruolo intellettuale ed etico/civile sempre più determinante è affidato oggettivamente dalle situazioni a chi lavora in questo campo e si fa carico di leggere e valutare per sé e per gli altri, immune da partigianerie e da allettamenti di mercimonio. L’educazione che si deve elaborare e trasmettere è dell’autonomia dalle seduzioni del gregarismo e della spettacolarizzazione, e dell’innalzamento dei livelli di criticità e di responsabilità di ognuno e di tutti. Perché oggi leggere, proprio come scrivere, è a rischio maggiore di connivenza e di colpa, rispetto al passato.                                                             

 

 Napoli, 6 giugno 2013

 

[1] Edoardo Sanguineti, Genova per me, Napoli, Guida, 2005.

[2] Ugo Piscopo, Alberto Savinio, Milano, Mursia, 1973.

[3] Ugo Piscopo, Massimo Bontempelli. Per una modernità delle pareti lisce, Milano, Mondadori, 2001.

[4] Ugo Piscopo, Carmine Di Ruggiero. Nel vento solare della luce, San Sebastiano al Vesuvio, Alfa Grafica, 2013.

[5] Il titolo della poesia in lingua originale è “The Old Men Admiring Themselves in the Water”. La poesia è contenuta nel volume The Collected Works of William Butler Yeats, Halcyon Press Ltd, 2010.

[6] L’intera silloge alla data odierna è inedita e verrà pubblicata probabilmente nel 2014, come mi è stato comunicato dall’autore stesso.

[7] Per maggiori informazioni sul poeta si legga la sua biografia nel capitolo-intervista a lui dedicato.

[8] Anna Maria Folchini Stabile, Il nascondiglio dell’anima, Avola (SR), Libreria Editrice Urso, 2012, p. 18.

[9] Anna Maria Folchini Stabile è nata a Milano nel 1948. Attualmente vive tra la Brianza e il Lago Maggiore. Ha alle spalle una lunga carriera nel mondo dell’insegnamento. E’ poetessa, scrittrice e presidente dell’Associazione Culturale TraccePerLaMeta. Di poesia ha pubblicato Spuma di mare (Lulu Edizioni, 2009), Il nascondiglio dell’anima (Libreria Editrice Urso, 2012), A volte non parlo (Libreria Editrice Urso, 2013); di narrativa ha pubblicato le raccolte di racconti L’estate del ’65 (Lulu Edizioni, 2008), Un topolino di nome Anna (Lulu Edizioni, 2010) e Noccioline (Lulu Edizioni, 2010). Ha curato, inoltre, per il sito Racconti Oltre dove scrive regolarmente, il manuale Come si scrive? – piccolo prontuario per l’autocorrezione dei più comuni errori ortografici, assieme a Luca Coletta. Partecipa a concorsi letterari ottenendo buone attestazioni.

[10] Ugo Piscopo, Catalepta, Napoli, L’arte tipografica, 1963, p. 15

[11] Ivi, p. 26.

[12] Walden o La vita nei boschi, pubblicato nel 1864, è il romanzo più celebre dell’autore. Esso contiene in forma romanzesca un’analisi sul rapporto dell’uomo con la natura.

[13]  Cfr. Ugo Piscopo, Antologia di cultura contemporanea, Palermo, Palumbo 1969, il primo libro interdisciplinare (dalle molte edizioni e ristampe) dedicato alle questioni aperte nel mondo giovanile e nella cultura in movimento dopo la prima ondata della contestazione (1968); Carlo Salinari – Ugo Piscopo, Noi e gli altri, ibidem, 1973, antologia per i bienni delle scuole secondarie superiori; Ugo Piscopo – Giovanni D’Elia, La società civile, Napoli, Ferraro, 1979, testo di educazione civica, che tra la fine degli anni Settanta e nella prima metà del decennio successivo fu il più diffuso in Italia, con tre milioni di copie vendute. 

“Ritrovarsi a Parigi” di Marta Lock, recensione di Lorenzo Spurio

Ritrovarsi a Parigi
di Marta Lock
Albatros – Il Filo, Roma, 2013
Pagine: 408
Isbn: 978-88-567-6238-9
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

Ritrovarsi a Parigi - Copertina singolaIl nuovo romanzo di Marta Lock si apre in maniera spigliata con una coppia di giovani che, per caso, hanno la fortuna di provare quel famoso “colpo di fulmine” che sembra essere un momento molto filmico e poco reale, ma che pure accade. E così la veloce conoscenza dei due giovani porterà, forse troppo velocemente, all’inaugurazione di una nuova quotidianità in cui Lizzy dovrà imparare ad adeguarsi  («È che sono abituata ad avere i miei spazi e a non doverli dividere con nessuno, e poi non c’è posto nel mio arma­dio per i vestiti di un altro!», 12). Cambio di sentimenti (o piuttosto bisognerebbe dire “scoperta”) e di casa. Sono gli aspetti principali che dominano nelle pagine iniziali del romanzo in questione che si legge molto bene, un po’ per l’aspetto consuetudinario –e direi quasi rituale- di due modeste esistenze, con la complicità della scrittrice che ha predisposto una scrittura tendenzialmente piana, senza particolare formalismi e ricerche lessicografiche: semplice, ma chiara, la sintassi rifugge la mania del neologismo, ingrediente della narrativa postmoderna, come pure l’atemporalità degli accadimenti, per iscriversi, invece, in uno stile prevalentemente di fattura “classica”.

Una nuova vita che s’inaugura senza una pretesa di un futuro saldo e che, paradossalmente, si fortifica sulla necessità che il tutto conservi un alone di provvisorietà: niente di definito, nessuna certezza. La nuova relazione viene presentata al lettore come veloce, quasi illogica, voluta-ma-temuta. Da un primo piano su Lizzy e Robert, la luce si sposta a un grandangolo per poi sintonizzarsi su una panoramica della sua storia familiare della quale ci viene tratteggiato l’abbandono del genitore paterno al momento dell’annuncio di Hèléne, la futura madre, di essere incinta. Di rilievo il tema antiabortista inserito nel variegato e complesso mondo della società libertaria e ribelle dell’Inghilterra degli anni ’60. Il padre, gravato dalle responsabilità e impreparato a quella grande novità, preferirà abbandonarle entrambe. Ma, si badi bene, non è che questo fatto sia di poca importanza nel proseguo della storia in quanto all’apertura del secondo capitolo viene subito sottolineato che «In realtà la mancanza di un padre aveva causato a Lizzy non pochi problemi nelle relazioni con i ragazzi» (22). Freud, parlando dei sistemi comportamentali del soggetto nelle prime fasi della crescita, non poteva mancare di osservare che per il complesso di Elettra (più o meno il corrispettivo nel maschile del complesso di Edipo), la bambina, soffrendo del complesso di castrazione, si attacca ossessivamente alla figura paterna, ricercando in essa protezione e arrivando al desiderio di conquista del genitore –entrando in una logica di conflitto con la madre. E’ studiato che nei casi in cui venga a mancare la figura genitoriale maschile, la bambina potrà sviluppare uno dei seguenti comportamenti: 1. Fiducia e attaccamento ad altri uomini nei quali cercherà di vedere/vivere la figura del padre –avendo vissuto la privazione del padre come evento in sé doloroso, ma accidentale-; 2. Repulsione nei confronti della schiera maschile –avendo vissuto la privazione del padre come scelta arbitraria e sconsiderata del genitore. Che cosa succede a Lizzy, invece?: «Lizzy si sentiva attratta da uomini in apparenza sfuggenti, di­sinteressati a una relazione, molto presi dai loro impegni e dalla loro libertà; questo la portava a desiderare con tutte le forze di conquistarli completamente, come se volesse dimostrare al mondo di essere capace di farsi amare, ma poi quando otteneva il suo scopo perdeva interesse perché la paura di legarsi e di rinunciare alla propria libertà erano troppo forti» (24). Ancora una volta la provvisorietà, l’attimo, la fugacità del momento: il saper cogliere l’attimo e saperselo godere ma nei tempi giusti, mai troppo lunghi e fuori da ogni terapia di accanimento per far durare un qualcosa. Ed è proprio per questo che quando la routine s’impone, che la problematica Lizzy comincia a sentirsi meno libera: «Dopo un anno di convivenza però Lizzy iniziò a sentire il bisogno di prendere aria» (28) e che addirittura lui «la soffocava» (39).

Dai primi capitoli s’insinua subito l’idea che quell’amore, pure vissuto per un periodo in senso autentico e con convinzione, stia diventando malato con viva preoccupazione della protagonista che si sente privata della libertà o ossessivamente tallonata (“avevo paura fosse Robert”, 50) tanto da costringerla alla decisione di andarsene via per un anno, cambiar aria, allontanarsi dal suo passato e crearsi una nuova vita. Se ne andrà così a Parigi ad abitare in una casa del suggestivo quartiere latino.

Parigi apre a un ampio ventaglio di nuove possibilità: incontri, amicizie, uscite serali, tentativi d’approccio e quant’altro, ma la capitale francese sarà anche il luogo del recupero della memoria in quanto visiterà il nonno, a lei tanto simile per temperamento, che a tratti racconterà della sua storia, della sua difficile infanzia vissuta nell’abbandono e nell’indifferenza del padre e del suo approdo in territorio francese (“sentiva che attraverso quel racconto avrebbe trovato se stessa”, p. 87). La Parigi descritta è quella della capitale bohemien, ma anche la Parigi notturna di locali, discoteche e delle luminarie della Torre Eiffel che stemperano l’aria donandole un effluvio armonico e chiaramente romantico. La multietnica Parigi infonde un aroma di coloniale (si cita la Martinica e un suo ballo tipico, lo zouk) nella figura di Yannik, il ragazzo nero che in un locale, prima molto gentilmente, poi prepotentemente si relaziona con Lizzy facendo nascere in lei un misto d’attrazione e incomprensione: “Mentre saliva le scale non riusciva a cancellare dalla propria mente il sorriso di Yannik, il suo sguardo pene­trante e le sue spalle larghe, domandandosi come fosse possibi­le che tanta bellezza si accompagnasse ad altrettanta antipatia!” (86).

E la storia di Bruno, suo nonno, di come anni prima avesse avuto un vero e proprio colpo di fulmine per una donna che sarebbe poi diventata sua moglie, serve a Lizzy per meditare sul fatto che l’amore, inteso in senso romantico, può esistere e che esso non è solo un prodotto di tempi ormai andati, basta solo trovare la persona giusta. Nel frattempo, alla festa di compleanno di Etienne, c’è un riavvicinamento tra Lizzy e Yannik, ma esso è brevissimo e ancora una volta viene vissuto da Lizzy come tentativo di oppressione alle sue libertà. L’incontro tra i due finirà pressappoco come il precedente: una sorta di attrazione-repulsione, amore-odio difficile da spiegare completamente se non attraverso la sfacciata prepotenza di Yannik e forse, il taboo dell’uomo di colore in Lizzy, come pure la sua amica non manca di farle osservare. La narratrice a questo punto della storia osserva: “Yannik diventava sempre più un enigma, e più si infittiva il mistero intorno alla sua personalità, più le veniva voglia di af­frontarlo, non con le aggressioni verbali, come era abituato a fare lui, bensì attraverso il dialogo” (122).

Ma questo è un libro che scoperchia quel vaso di Pandora che si nutre della cattiveria e dell’insensibilità dell’uomo, delle convinzioni errate dalle quali nascono sempre le sopraffazioni e del pregiudizio: l’emarginazione e il vero e proprio razzismo che il nonno sperimenta sulla sua pelle, in quanto italiano da parte dei francesi (“i france­si che erano così pieni di pregiudizi da catalogare una persona come buona o cattiva a seconda del paese nel quale era nata”, 146) e nella storia di Lizzy la sua iniziale diffidenza verso Yannik perché uomo di colore. Nelle pagine di questo libro si respira un sentimento di noia e di oppressione nei confronti di idee reazionarie, come pure nei confronti di chi è osservatore o portatore di differenze all’interno della società. Ma poi, grazie ad una serie di altre circostanze –neppure troppo fortuite- i due ragazzi hanno la possibilità di interagire e di rapportarsi sul loro passato, sulle loro professioni e proprio dal parlare, dal conoscersi, Lizzy si scoprirà innamorata dell’uomo. Seguiranno scene di cene in locali esclusivi descritte con maniacale attenzione, passeggiate romantiche, dialoghi idilliaci inframmezzati alle continue visite del nonno con il quale, di pari passo, la narratrice porta avanti l’altra storia contenuta nel romanzo: quella della storia d’amore non semplice del nonno con la nonna e della loro famiglia, le loro gioie e i loro momenti di difficoltà sino ad arrivare al momento in cui è il nonno a far luce sulla vicenda dell’abbandono del padre avvenuta sulla nascita. L’anziano, nel suo parlare saggio e concreto, mette subito in luce che per avvicinarci alla realtà di un fatto è sempre necessario ascoltare più voci e non affidarsi solo a una faccia della medaglia. Così le convinzioni su suo padre, irrobustite in lei dalle parole della madre, vengono ben presto minate alla base e si sgretolano. Sentendosi tradita dalla madre, Lizzy romperà con lei i rapporti e sarà investita da un misto di sensazioni contrastanti che la animeranno a ricercare suo padre.

Il tempo incombe sempre impetuoso in ogni colloquio con l’anziano e questa tecnica narrativa a singhiozzi, volutamente basata su briciole di analessi e poi rallentamenti improvvisi, è caratteristica dell’intero romanzo.

E quell’amore prima allontanato, quasi snobbato e nel quale non aveva creduto molto, si trasforma ben presto per Lizzy in uno dei punti fermi della sua permanenza a Parigi attaccandosi ad esso in maniera addirittura ossessiva: l’assenza di messaggi sul cellulare da parte di Yannik è in grado di far dubitare la donna, creare apprensione e smaniare. (“Doveva smetterla di spremersi le meningi in quel modo, altrimenti sarebbe impaz­zita”, 239).

E’ chiaramente nelle ultime quaranta pagine che la storia conosce continui colpi di scena e che la trama si attorciglia su se stessa in maniera impressionante: la scrittrice  si trasforma in equilibrista e destabilizza il lettore con una serie di singolarissime coincidenze, agnizioni, scoperte e veri e propri ribaltamenti di fortuna. Il finale che il lettore anticipa tingersi di sentimenti cupi e mesti darà alla fine l’occasione di risollevarsi, passando attraverso momenti ed episodi focali e addirittura epifanici che, oltre a mettere in chiaro una volta per tutte il vero temperamento di Lizzy, danno manifestazione e concretezza della validità degli insegnamenti del nonno.

Si può trarre una morale da questo libro, o addirittura se ne possono trarre diverse ed è proprio compito del lettore a cui Marta Lock consegna questo romanzo quello di rintracciarle, scorgerle e farle sue affinché anche nella sua vita non si cada in errore, fraintendimento o non ci si lasci condizionare dalla diceria o dalle false convinzioni che, innalzate al valore di tabù, rendono l’uomo schiavo di se stesso e cieco della genuinità dei rapporti con gli altri.

Un romanzo d’impostazione classica in cui molte donne potranno ritrovarsi con facilità nell’ampio spettro delle emozioni, convinzioni, angosce ed ambizioni e che molto fa riflettere sui concetti di multi-culturalità, rispetto nei confronti della tradizione, amore ed orgoglio nei confronti della famiglia, intraprendenza nell’ambito professionale e grande amore per la vita.

Una parabola sui buoni sentimenti che, pur macchiati da un passato di disagio e di privazioni, debbono avere la forza di risplendere con una luce continua, proprio come accade all’amore di Lizzy verso gli altri (la madre, il padre, Yannik, il nonno, gli amici, il bistrot, la città di Parigi, etc). Ci possono essere tentennamenti, difficoltà e momenti di dolore, ci dice Marta Lock, ma bisogna avere la forza di elaborarli con spirito di analisi e voglia di migliorare e soprattutto essere propensi a rivalutare e riconsiderare i fatti accaduti da una nuova prospettiva.

Un affascinante romanzo sull’importanza delle possibilità e sulla frenetica ricerca di se stessi dal felice connubio di relazioni con gli altri.

 

Lorenzo Spurio

“Dal bisogno di sapere al desiderio di capire” di Ettore Bonessio di Terzet

Quando l’essere umano ha iniziato a pensare qualcosa ( sapendo di pensare), ha pensato come relazionarsi alla Natura e agli altri esseri umani, dapprima dello stesso gruppo.

Un problema si presentò ogni volta che gruppi diversi, magari della stessa etnia, venivano in contatto. Per lo più, ci dicono i dati archeologici, lo scontro era inevitabile, ma talora i gruppi si integravano, si allargavano e aumentavano la capacità del “nuovo gruppo “ di vivere meglio e di raffinare la propria tecnologia.

Che cosa pensavano e si dicevano gli esseri umani di questo gruppo ipotetico?

Certamente erano meravigliati di quello che vedevano sentivano provavano. Contemporaneamente erano curiosi di vedere e di sapere che cosa fossero le cose che vedevano, come funzionassero, come fossero “fatte” e come poterle utilizzare ai propri fini benefici.

Meraviglia curiosità emozioni voglia di sapere che cosa.

Questi i primi movimenti della mente e dello spirito degli esseri del nostro gruppo, mantenutisi per via genetica negli umani ulteriori.

Anche noi ci meravigliamo di fronte ad una cosa nuova, siamo stupiti dall’architettura di un tempio antico o di un palazzo modernissimo; siamo curiosi di avvicinarli di toccarli di vedere che cosa siano; siamo emozionati e vogliamo sapere come sono fatti. Poi li nomineremo secondo il nostro linguaggio in generale ed alcuni daranno loro un nome secondo la propria lingua, distinguendosi dai più.

E via così, venendo sempre più alla mente ed allo spirito il senso dell’ignoranza, il desiderio di sapere sempre di più e il sentimento disturbante di sapere che non sappiamo tutto, se non si intenda per tutto il mondo degli oggetti circostanti. Il che pare una limitazione da non prendere in considerazione.

Allora dobbiamo aggiungere ai primi moti che abbiamo detto, anche l’ignoranza, il sapere di non sapere.

Ignoranza che porta uno squilibrio, la sensazione che “muovendoci” incontreremo cose che non conoscevamo e che non sappiamo che cosa siano e come si comporteranno.  Queste cose ignote portano un nuovo moto della mente e dello spirito: la paura.

Sappiamo soddisfare la nostra meraviglia lo stupore la conoscenza, ma non subito il sentimento di ignoranza e quello della paura.

Ignoranza e paura sono i sentimenti che hanno guidato gli esseri umani nella progressione positiva e negativa dell’evoluzione che va verso la completezza dell’essere umano.

Con che cosa si può combattere l’ignoranza è ben intuibile: con lo studio e la continua conoscenza degli oggetti. Ma la paura non è così facile da superare.

imagesMa anche l’ignoranza non è estinguibile giacché le cose da conoscere “aumentano” con il progredire del conoscere e del sapere.

Che cosa fare?

Per l’ignoranza non c’è scampo.

Possiamo arrenderci non procedendo più nella conoscenza e rientriamo, per sicurezza di sopravvivenza, nella “norma media del gruppo”.

Altrimenti possiamo continuare a conoscere a studiare e indagare “le cose del mondo nostro e altrui”, vicino lontano lontanissimo, ma nella consapevolezza che non raggiungeremo mai la conoscenza totale. Così alcuni esseri continueranno ad accumulare e raffinare il proprio conoscere tentando di pervenire ad un sapere più completo (più profondo) in campi relativamente ristretti e circoscritti, ossia si specializzano. Ma anche in questo caso, l’essere umano non può non riconoscere che ha un limite oltre il quale non può andare e, ragionevolmente, accetta (alcuni non lo accettano) tale limite come il limite di se stessi.

Bisogna ammettere che l’ignoranza si può contenere, ma non sconfiggere.

Più si conosce e più entriamo nella consapevolezza che un vasto territorio di conoscenze rimane da esplorare e che a noi, esseri umani, non è concesso toccare la fine di esso.

L’ignoranza non si sconfigge, ma fa riconoscere in particolare il limite del singolo essere, e in generale i limiti dell’umanità.

Vediamo che cosa succede con la paura.

Dapprima abbiamo paura di tante cose, dal buio al fuoco, del nuovo, del diverso sino a costruirci un nemico su cui scatenare la nostra paura che trasformiamo in aggressività.

Quando ci sembra di aver sconfitto la paura con l’aver individuato il perché del suo insorgere, ecco che un altro evento, cosa o persona, fa rinascere la paura.

E così via, possiamo andare più avanti per giungere alla matrice della paura: la morte.

Abbiamo paura perché sentiamo che siamo limitati dalla fine del nostro essere umani. Abbiamo paura di qualche cosa esterna ed interna perché abbiamo paura della morte. In generale, e oggi più di ieri, non siamo educati alla morte, se non attraverso pedagogie che inibiscono le nostre capacità e possibilità e ci portano se non alla rassegnazione, alla depressione.

Come superare la paura della morte?

Respingere il pensiero di essere immortali come quello dell’inutilità del fare, soprattutto non lasciarsi prendere dal naturale e vitalistico scorrere della vita, manifesto in certi modi di dire: è il destino, doveva andare così ecc.

Ogni essere umano è padrone e responsabile del suo destino e possiamo agire secondo quello che siamo. Ritorniamo all’accettazione del nostro limite, di noi stessi.

Nessuna rassegnazione, nessuna depressione, nessun fatalismo quindi.

Anche l’idea di immortalità può essere riportata, con una conversione mitica, al fatto che un tempo siamo stati immortali e che poi per qualche evento che non sappiamo e per una ragione ignota alla nostra ragione, siamo adesso mortali. Dobbiamo accettare di essere mortali e meglio lo faremo se migliore sarà stata l’educazione a questa condizione.

Solo con la consapevolezza che il nostro vero limite è la morte e non l’ignoranza, possiamo liberarci da questi due sentimenti e possiamo vivere nella libertà e responsabilità verso noi stessi e gli altri. Anch’essa limitata e non assoluta.

Sappiamo, adesso, che sin dall’Inizio l’essere ha saputo di esser limitato a tal punto che sparisce, muore agli affetti agli amori alle cose che per lui erano piacere gioia e lo soddisfacevano anche per un altro sentimento che aveva bussato alla sua mente e al suo spirito: la Bellezza.

La morte ci porta via il sentimento della Bellezza e del Bello.

Che fare a questo punto? Entra in gioco il pensiero.

Per una buona parte dei secoli, dalla Grecia ad oggi, il pensiero è stato confuso con la filosofia, con una certa filosofia che si presenta, troppo spesso sotto mentite spoglie, come una retorica per convincere e guidare la massa verso predeterminate finalità economico-politiche.

La scienza del potere è questa certa filosofia.

Dicevamo che entra in gioco il pensiero. Abbiamo molte tipologie di pensiero: metaforico, simbolico, mitico, metafisico, pragmatico, pratico, scientifico, tecnico e tecnologico (tutti di ordine operativo questi ultimi) ecc.

Entra, può entrare in gioco il pensiero totale, somma dei vari pensieri e che si può esprimere come pensiero trasformativo, a differenza del pensiero filosofico che si esprime  come normativo e ripetitivo.

Il pensiero trasformativo è il pensiero che può salvare l’essere dalla sua paura fondamentale, la morte.

Gli impulsi che il sentimento della morte agita nel nostro interno ed esterno come atti e azioni possono non essere repressi (per paura), ma trasformati in possibilità positive per l’essere. Vale l’esempio di Van Gogh che, ossessionato dalla paura di non essere accettato e quindi isolato, respinto e negato come artista, ha trasformato le energie della paura della morte in opere d’artepoesia. Ed altri esempi esistono.

Trasformare la morte in vita attraverso l’opera d’artepoesia e non per raggiungere una immortalità orizzontale, ma per se stessi prima di tutto ovvero per esprime tutto quello che si poteva dire all’interno del limite riconosciuto e accettato. All’interno di questo limite l’artistapoeta esplode tutte le proprie energie non pensando a se stesso, ma mirando oltre la propria vita, alla vita dell’umanità, alla vita che non muore, ma si trasforma.

Oltre lo spazio e il tempo, verso lo spaziotempo, verso gli universi mondi indefiniti, forse infiniti. Grande scommessa anche senza fede in un Dio, avendo fede nella propria attività, nell’arte scelta per segnarsi nella massima umanità.

Ogni segno è parola.

L’essere trasforma il limite in una luce di Bellezza, siccome l’artistapoeta cerca nel suo “fare artistico”  primariamente, se non solamente, la poesia. E sappiamo, nessuno può negarlo, che nel nostro complesso gruppo etnico europeo la poesia cerca l’idea che esprime la Bellezza.

Semplicemente possiamo dire che l’essere per esistere umanamente al massimo non può che essere un artistapoeta, un essere trasformativo che agisce e opera per la Bellezza, sconfiggendo ignoranza e morte, perché ha capito il grande gioco del pensiero e della parola a cui è stato chiamato.

  

Ettore Bonessio di Terzet

1 settembre 2013

QUESTO ARTICOLO VIENE PUBBLICATO DIETRO GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTORE.

“Battiti d’ali nel mondo delle favole” di Sandra Carresi, recensione di Lorenzo Spurio

 Battiti d’ali nel mondo delle favole

Di Sandra Carresi e Michele Desiderato
TraccePerLaMeta Edizioni, 2012
Pagine: 141
ISBN: 9788890719011
Costo: 10 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

untitledL’anno scorso assieme a Sandra Carresi, scrittrice fiorentina, ho scritto e pubblicato un libro di racconti dal titolo “Ritorno ad Ancona e altre storie” (Lettere Animate, 2012) che abbiamo felicemente presentato a Firenze ed ha ottenuto varie recensioni positive. In molte di esse si sottolineava come due autori distanti per provenienza geografica ed età avessero dato vita a un libro la cui scrittura era fluida e senza zone di confine che dicessero al lettore dove terminasse la scrittura di un autore e iniziasse quella dell’altro. Devo confessare che è stata un’esperienza di scrittura molto positiva e interessante che ha dimostrato una certa affinità letteraria con Sandra, persona che si caratterizza per la una grande disponibilità e collaborazione con gli altri. Non è un caso che prima di quel libro scritto con me avesse pubblicato con ilmiolibro “Battito d’ali nel mondo delle favole”, scritto assieme a Michele Desiderato. Quel libro, rivisto, ampliato e dotato di illustrazioni opera di Michela Del Degan, è stato pubblicato da TraccePerLaMeta Edizioni con lo stesso titolo. Il procedimento di collaborazione che ha interessato Sandra e Michele, però, è stato differente dal nostro operato con “Ritorno ad Ancona” in quanto Desiderato ha principalmente ricoperto la vena ispiratrice delle storie narrate che poi Sandra, grazie alla sua abile penna, ha trasposto e “fatto nascere” sulla carta.

Il libro in questione è una raccolta di racconti piuttosto brevi che utilizzano un linguaggio semplice e pulito, facilmente accessibile a tutti e proprio per questo essi possono essere visti anche come delle favole, ossia dei testi che, pur basandosi molto sul fantastico, hanno però un fine pratico, cioè quello volto a trasmettere un certo tipo di insegnamento.

Come viene tratteggiato egregiamente nella nota di prefazione al testo nella quale si richiama il padre della favola moderna, Propp, che con i suoi saggi contribuì a dare uno studio sistematico sul genere, questo libro può essere iscritto senza difficoltà all’interno di questo genere. Alcuni dei racconti che compongono la raccolta presentano vari elementi caratteristici del genere; solo per citarne alcuni l’importanza del mondo naturale con il quale i personaggi colloquiano conoscendo ad esempio il linguaggio degli uccelli; il fatto che i personaggi siano degli animali in grado di intendere, ragionare e parlare; l’intenzione morale che spesso si contraddistingue con la chiusa del racconto e i ribaltamenti di fortuna, episodi che improvvisi e non ipotizzati, cambiano di fatto le pieghe della storia completamente “ribaltandola” (ciò può avvenire sia in bene come avviene ad esempio in “La magia della polvere d’oro”, che in negativo). La favola in parole minime è una narrazione in cui c’è sempre qualcosa di “magico” da intendere con questa parola un sinonimo di “sorprendente”, perché lontano dalla nostra realtà come gli autori scrivono in maniera chiara in quello che sembrerebbe essere un paradosso, ma che non lo è: “La verità non era credibile”(p. 104). Ma se è vero che esse sono delle favole, va anche detto che non sono delle favole nel vero senso della parola, poiché gli autori con questo esperimento letterario hanno voluto espressamente dare al lettore qualcosa di più. La peculiarità dei racconti è che ci si trova in un mondo geografico che, pur descritto nella sua toponomastica, è irreale, difficile o addirittura impossibile cercarlo su un atlante, tanto da richiamare spazi reconditi, manifestazioni dell’immaginifico, ma nei plot che vengono raccontati, o ancor meglio bisognerebbe dire “dipinti”, si insinuano anche le problematiche sociali che sono dell’uomo d’oggi: si veda ad esempio il problema dell’inquinamento visto e dibattuto da due lattine che campeggiano anche sull’immagine di copertina o il riferimento ai centri commerciali che viene fatto nel racconto iniziale “Una fermata utile a Middleton”. Si osservi che questi richiami al mondo contemporaneo sono connotati sempre negativamente quale espressione di massificazione, industrializzazione e caos, configurandosi come anti-eden degli spazi bucolici in cui, invece, si dipanano normalmente le varie storie.

Più generalmente l’attenzione è volta a rappresentare le vicende di una data realtà geografica solitamente molto ridotta (l’isola, il paesello) dove, per quanto avvengano cose abbastanza improbabili nella nostra realtà, tutto sembra diventare magicamente vero.

Centrali i temi dell’educazione (con l’immagine della scuola e dei libri), della formazione, della crescita, della volontà di sviluppare le proprie capacità intellettive e pratiche e nell’importanza di una condivisione delle proprie abilità e un fascino verso il diverso (“Io penso che in un’atmosfera diversa, bambini con culture diverse, si sono incontrati e si sono regalati qualcosa che veniva dal cuore”, p. 33).

Le perle di saggezza che fluiscono dalle pagine di questo libro sono molte e fruibili a tutti con semplicità, basterà avere una certa predisposizione a saper ascoltare ciò che gli autori vogliono dirci: “tutti si erano arricchiti di un oro che non era pirite e avrebbe continuato a brillare per la vita” (p. 22).

Se ancora oggi, la società post-postmoderna dominata dal disagio, dalla frenesia, dalla spersonalizzante logica “commerciale” delle nostre esistenze, fosse ancora improntata nelle primissime fasi della crescita a un certo tipo di insegnamento, che non è niente di retrogrado né anacronistico, allora sì, forse si potrebbe avere un mondo migliore dove emarginazione, violenza e xenofobia sarebbero messi a tappeto.

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 29 Agosto 2013

“La taverna di Alfa Ninnino” di Giovanni Sollima, recensione di Lorenzo Spurio

La taverna di Alfa Ninnino

Di Giovanni Sollima

 

Recensione di Lorenzo Spurio

Q540uesto libricino, che si compone di vari racconti tra essi legati, ciascuno con un proprio titolo e corredato di un bozzetto in bianco e nero, sono stati pensati dall’autore, il catanese Giovanni Sollima non tanto in virtù di espressione letteraria, ma come strumento da poter essere utilizzato all’interno di dinamiche psicosocioriabilitative. Lo scrittore, infatti, è uno psichiatra e criminologo, storico della medicina, oltre che poeta e saggista. Una delle peculiarità della sua scrittura si ravvisa nella ricerca di un sistema espressivo adatto, efficace e significativo all’interno della didattica pedagogica e soprattutto come sistema d’applicazione per la riabilitazione all’interno di ambiti in cui si ravvisano deficienze di vario tipo.

Ecco dunque perché di questo libro dobbiamo sottolineare una serie di elementi centrali per il perseguimento dello scopo che Sollima si è proposto con questa pubblicazione: l’utilizzo del disegno semplice e facilmente comprensibile, la predilezione per i capitoli corti, succinti e in sé chiusi, la scelta di titoli evocativi e che suscitano interesse, l’utilizzo di un linguaggio perlopiù semplice e di dominio pubblico. Lo scrittore cala le vicende del simpatico Alfa Ninnino in un mondo che non è completamente quello della fiaba e che, anzi, ha molto in comune con quello della nostra realtà odierna anche se si preferisce soffermarsi su aspetti/immagini che appartengono sostanzialmente a un universo carico all’espressione ludica, di vicinanza con il mondo animale e di arrovellamento su perché alcuni eventi sostanzialmente avvengono.

La narrativa fluida e la narrazione perlopiù incalzante incuriosiscono di sicuro il giovane lettore che sarà portato a domandarsi, proprio come i personaggi della storia, perché alcune cose sono accadute e, analogicamente, il significato recondito di maschere, azioni e accadimenti. 

Lorenzo Spurio

-scrittore, critico letterario-

 

Jesi, 2 Agosto 2013

 

La taverna di Alfa Ninnino

Di Giovanni Sollima

Prefazione di Melania Mento

C.u.e.c.m., Catania, 2011

Pagine: 69

ISBN: 9-788866-000167

Costo: 7€

 

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.