N.E. 02/2024 – Le “Poesie mistiche” di Rumi. Recensione di Laura Vargiu

Affrontando il discorso sull’affascinante connubio di poesia e spiritualità, il pensiero non può non correre alla tradizione poetica sufi di ambito islamico. Al suo interno spicca in particolare l’opera di Rumi, tra i massimi poeti mistici della letteratura persiana.

Una breve, ma necessaria premessa: il sufismo, la corrente mistica dell’Islam, affonda le sue radici in un’epoca assai lontana, man mano che prese a diffondersi la nuova fede a partire dalle grandi conquiste arabe; sufi è il mistico musulmano, così chiamato per via degli indumenti di lana ruvida indossati dai primi asceti (la parola araba sūf, infatti, significa “lana”). La poesia sufi si contraddistingue per il suo messaggio di pace universale, l’amore verso Dio, cui ci si rivolge in maniera incessante, e la sua contemplazione, lungo un percorso ascetico e spirituale che conduce l’uomo a prendere coscienza della propria dimensione cosmica. In generale, si tratta di un tema alquanto complesso, nonché di nicchia, ma ciò non impedisce di leggere con estremo piacere le importanti opere letterarie nate in seno appunto al sufismo. E tra queste, come anticipato sopra, non può mancare quella di Rumi.

“Dopo la morte, non cercare la tomba mia nella terra: nel petto degli uomini santi è il sepolcro mio!”

Nato in una famiglia di lingua persiana in territorio afghano agli inizi del nostro XIII secolo, Jalal ad-Din Muhammad Balkhi meglio noto con il nome di Rumi, fu teologo e poeta, nonché fondatore della confraternita sufi dei famosi dervisci danzanti. A parte una serie di spostamenti in varie località del mondo islamico in determinati periodi della sua esistenza, egli visse a Konya, nell’attuale Turchia, dove morì nel 1273. 

Due sono le sue opere principali, entrambe di notevoli dimensioni: il lungo poema a rime baciate denominato Masnavi e il Dīwān; un breve, ma significativo estratto di quest’ultimo titolo è rappresentato dalla raccolta antologica Poesie mistiche, pubblicata agli inizi degli anni Ottanta dalla casa editrice Rizzoli a cura e traduzione di Alessandro Bausani (1921-1988), nome senza dubbio tra i più importanti dell’orientalistica italiana.

Il Dīwān (Canzoniere) di Rumi è costituito da un numero impressionante di odi per un totale di circa cinquantamila distici distribuiti in numerosi volumi. L’opera, per forma e contenuti, rientra nei canoni classici della lirica persiana, riprendendo metri e simboli a essa tutt’altro che estranei. Un’emozione particolare, tuttavia, permea i versi del poeta che risuonano con pregevole originalità, mentre spezzano rigidità per così dire tecniche e conducono – come sottolinea il curatore dell’antologia – “a licenze poetiche non sempre perfettamente «canoniche»”.

“[…] O viandante! Non legare il cuore a nessuna dimora,/ perché soffrirai quando te ne strapperanno via./ E poi che tante dimore hai percorso/ da quando eri goccia di sperma fino all’adolescenza,/ prendile a scherzo, che a scherzo le possa lasciare:/ rinuncerai a poca cosa e alto compenso ne avrai!/ Prendi invece sul serio Colui che ti ha preso sul serio;/ Primo è Lui ed ultimo: cerca Lui solo! […]”.

L’Islam, cultura alla quale Rumi appartiene per nascita, in queste pagine è presenza certa e costante attraverso riferimenti espliciti (come alla Fātiha, sura aprente del Corano, alla qibla, la direzione verso cui il devoto musulmano prega ogni giorno, o ancora alla Ka’ba meccana stessa) che contribuiscono a dar vita a scenari orientali di notevole fascino in un intreccio di immagini variegate che abbracciano distese di cieli e deserti, colori di aurore e tramonti, ombre di carovane, voli di falco e profumi di giardini fioriti; quello di Rumi, popolato tanto da maestri spirituali quanto da cammellieri, è un mondo semplice dove l’anelito verso il divino si mostra quasi assillante. Le odi in questione, come del resto la poesia sufi in generale, fanno però propria anche la tolleranza in materia religiosa, tant’è che alla morte del poeta, secondo gli studiosi, presero parte ai funerali sia i musulmani che le comunità di ebrei e cristiani di Konya.

“Vieni, deh vieni! ché da quando partisti più non mi resta né ragione né fede,/ e ogni calma e ogni pace partirono da questo povero cuore.”

La scrittura di Rumi si rivela intrisa di una spiritualità profondissima; un senso di devozione autentica e sincera che, inoltre, si prodiga dispensando consigli: tra i vari, evitare l’attaccamento alle cose materiali, viaggiare anzitutto dentro se stessi, addirittura non intraprendere lunghi viaggi (all’epoca ancor più lunghi e rischiosi) per andare in pellegrinaggio nella lontana Arabia, malgrado l’hajj alla Mecca – da compiersi almeno una volta nella vita – sia uno dei pilastri fondamentali dell’Islam.

“O gente partita in pellegrinaggio! Dove mai siete, dove mai siete?/ L’Amato è qui, tornate, tornate!/ L’Amato è un tuo vicino, vivete muro a muro:/ che idea v’è venuta di vagare nel deserto d’Arabia?”

Nell’insieme, un’opera poetica antica che, grazie al lavoro di selezione e traduzione di Alessandro Bausani, riesce ancora a offrire un testo molto interessante e coinvolgente anche al lettore di oggi. Un classico della letteratura persiana (e mondiale) intramontabile!


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“Il poeta danzante. Vita, opere e insegnamenti del mistico Rumi”, saggio di Giuseppe Guidolin

Recita un antico proverbio turco: “Vedi il mondo, ma vedi soprattutto Konya”.

Konya, città di cupole e minareti, è situata al centro della penisola anatolica, nella regione della Galazia, su un altopiano stepposo posto a circa 1000 metri d’altezza. Abitata sin dal III millennio a.C., da sempre ha esercitato un fascino particolare, capace di attirare ed incantare generazioni di viaggiatori. Ribattezzata dai Romani con il nome di Iconium, si convertì ben presto al Cristianesimo, grazie alla predicazione di San Paolo e San Barnaba.  Nei primi secoli dopo Cristo essa raggiunse una discreta prosperità ed un notevole sviluppo culturale, ma anche sotto il dominio bizantino non arrivò mai a quel grado di splendore che avrebbe toccato dopo la conquista da parte dei Turchi Selgiuchidi, che la resero, nel 1097, capitale del loro regno. Nel XIII secolo Konya visse il suo periodo aureo sotto il regno del sultano Alaeddin Keykobat (1219-1236), che dotò il complesso urbano di una robusta cinta muraria provvista di più di 100 torri difensive. Sulla collina posta al centro della capitale egli fece erigere il suo sontuoso palazzo, di cui restano oggi solo il portale in marmo e alcuni resti dei muri perimetrali. Ma il merito principale del sultano fu quello di richiamare presso la sua corte uomini d’arte e di scienza e tra questi, nel 1228, anche il poeta mistico sufi Jalal al-Din Rumi, fondatore dell‘ordine dei Mevlevi o Dervisci danzanti e soprannominato dai suoi allievi Mevlana (“Nostro Signore”). Della sua vita a Konya resta l’interessante Monastero (tekke).

Esso comprende una Moschea, la Sala rotonda della danza (Semahane), le celle dei dervisci e il Mausoleo di Mevlana, alto 25 metri, riconoscibile per l’originale cupola conica di smalto verde (Kubbe-i handra). Al suo interno sono riposti i sarcofagi, sormontati da un turbante, in cui riposano le salme del grande mistico, del padre Bhaeddin, del figlio Sultan Veled e di altri famigliari e capi spirituali dell’ordine. In esso sono custoditi anche i più vecchi manoscritti delle opere del maestro, del figlio e di altri artisti mevlevi. Sopra la porta d’ingresso al mausoleo sono riportati questi due versi di Sultan Veled in persiano: “Oh colui che cerca, ammetta con fede il mio consiglio / poggi la testa alle soglie della verità”. Sulla cupola del mausoleo appaiono due versi in persiano che recitano: “È qui il tempio degli innamorati di Dio / Coloro che qui vennero viziati andarono integrati”. Una finestra attigua riporta invece la seguente quartina di Mavlana: “Oh tu che spargi la luce della dignità e della generosità / Sono schiavi tuoi il sole, la luna, e le stelle, tutte le porte sono chiuse / Affinché il povero innamorato non possa trovare / una porta diversa dalla tua”.

Il monastero, detto anche la “Mecca degli innamorati”, è ancora oggi visitato da migliaia di persone. L’ordine dei Dervisci, al pari di tutti gli altri, venne infatti sciolto nel 1925 dal Presidente turco Atatürk, e il monastero di Mevlana fu trasformato in museo. Anche se non esiste più ufficialmente come tale, oggi la Confraternita dei dervisci continua a prosperare e ad esibirsi nel suo complesso rituale, durante il quale i ballerini (semazen), vestiti nei tipici abiti (mantello di lana e cappello a tronco di cono), eseguono, sotto la direzione di un maestro (sey), la loro roteante danza rituale (sema) accompagnata dal suono di flauti (ney), tamburi (tef) e violini (rebab). Dal 1982 la cerimonia è stata aperta anche alle donne.

Jalal’d-din Rumi era nato nel 1207 a Balkh, città del Khorasan, nel territorio dell’odierno Afganistan. La madre di Mevlana, Mümine Hatun, era figlia dell’emiro di Balkh. Il padre, Bhaeddin Veled, era invece figlio di Hüseyin Hatibi, uomo di scienza molto noto nel paese. Con l’appellativo di Sultan’ül-Ulema (“Sultano dei saggi”), Veled godeva di grande popolarità, per la sua vasta cultura e grazie alle prediche che egli pronunciava nelle moschee e nelle madrase (scuole teologiche) della città. Come rivelano alcune fonti storiche, molti dei suoi oppositori e detrattori scrissero al Governatore di Balkh accusandolo di voler “conquistare completamente i cuori della gente, senza tenere in dovuto rispetto alcuno”. Ma egli rispose al governatore con il seguente messaggio: “Esprimo il mio profondo rispetto al sultano dei musulmani, cui si addicono tesori e troni. Ma per noi dervisci il territorio ed il potere non hanno nessuna importanza. Noi andremo dal di qua con cuore sereno, lasciando il sultano a tu per tu con i suoi amici”.

In quel periodo l’esercito mongolo aveva varcato i confini del Khorasan, facendo piazza pulita e saccheggiando città e campagne. Inorriditi da tali atrocità gli abitanti di questa terra iniziarono ad emigrare verso ovest, in direzione della Persia e dell’Anatolia. Prendendo pretesto da tali avvenimenti Bhaeddin Veled decise, con la sua famiglia, di abbandonare definitivamente Balkh. Fu così che il giovane Jalal’d-din, ancora adolescente, dovette lasciare il paese, iniziando un lungo viaggio. Una serie di peregrinazioni lo avrebbe portarono in varie città della Persia e della Siria, dove egli sarebbe entrato in contatto con il Sufismo e lo Sciamanesimo, e avrebbe conosciuto il misticismo orientale, musulmano e cristiano.

La prima tappa del pellegrinaggio fu Nisabur, ove incontrò Farid al-Din Attar, famoso filosofo e mistico dell’epoca. Il giovane Mevlana destò una sincera ammirazione in Attar, che stimava la sua profonda erudizione ed intelligenza. In seguito la famiglia si diresse verso Bagdad. Qui il Califfo di Bagdad, impressionato dai saggi discorsi di Sultan’ül-Ulema, volle personalmente incontrare il padre di Mevlana. Ma Egli non rimase per molto tempo a Bagdad, preferendo proseguire verso la Mecca e Medina. Dopo aver visitato questi sacri luoghi la famiglia proseguì verso Gerusalemme per poi raggiungere Damasco. Dopo una breve sosta essa si diresse verso l’Anatolia, al confine con lo stato selgiuchide. Qui, nel 1221, il gruppo si fermò a Larende (l’attuale Karaman).

Negli anni successivi Jalal’d-din crebbe in erudizione, seguendo le lezioni del padre e continuando a studiare assiduamente. Nel 1225 si sposò, a Larende, con Gevher Hatun, figlia di Seraffedin Lala, uno dei discepoli di Bhaeddin Veled che l’aveva accompagnato dalla sua partenza da Balkh. Poco dopo il matrimonio nacquero i suoi due primi figli, Sultan Veled e Alaeddin Celebi. 

La maggior parte del territorio anatolico si trovava sotto il dominio selgiuchide che, in quell’epoca, aveva raggiunto la massima espansione. Nel 1219 Alaeddin Keykobat era un sovrano molto stimato, perchè dotato di profonda saggezza e conoscenza, oltre che di un interesse per le arti e la cultura. Konya, capitale del regno selgiuchide di Rum (da cui il nome Rumi, assegnato in seguito a Jalal’d-din), fu pertanto abbellita e impreziosita da numerose opere artistiche e da rinomate istituzioni educative. La corte selgiuchide e le madrase divennero i punti di riferimento per numerosi studiosi del tempo e gli insegnamenti mistici si diffusero rapidamente. Noti filosofi come Necmeddin Daye, IbnʿArabī, Sadr al-Din al-Qunawi fecero di Konya la capitale della scienza, della sapienza e della cultura. Il sultano non appena seppe del soggiorno di Bhaeddin Veled a Larende lo invitò subito a Konya. Nella primavera del 1228 la famiglia di Jalal’d-din giunse nella città, dove venne accolta dal sultano e alloggiata nella madrasa di Altun-Aba, la più grande della città. Il padre di Mevlana tenne prediche ed insegnò a Konya fino al 1231, anno in cui morì. Dopo la morte del padre Jalal’d-din ereditò il gruppo di discepoli e gli allievi di Sultan’ül-Ulema, che considerò sempre il figlio come suo unico erede in campo spirituale. Nei tristi giorni che seguirono la perdita del padre Jalal’d-din conobbeSeyyid Burhaneddin di Tirmiz, vecchio discepolo di Bhaeddin Veled a Balkh, che ora viveva ritirato in montagna. Mevlana, dopo aver ricevuto importanti insegnamenti da Seyyid, partì per Aleppo e Damasco, dove rimase due anni facendo conoscenza con noti filosofi dell’epoca. Quando tornò a Konya il suo maestro Seyyid gli disse: “Figlio mio, sei ormai maturo. Adesso sei un maestro incomparabile nel campo delle scienze razionali e naturali. Vai, quindi, ad inondare di luce l’anima degli esseri umani per una vita nuova, dai una grazia infinita e fai rinascere i morti con i tuoi ideali ed il tuo amore”.

“Rumi. In the blink of the eye”
di Bob Wilson e Kudsi Erguner
©️ Giuseppe Guidolin
Teatro Alighieri (Ravenna), 2009

Qualche anno dopo, in seguito alla morte di Sayyid, Mevlana rimase di nuovo solo. Non smise però di allargare il suo orizzonte spirituale, dedicandosi agli studi per acquisire maggiori conoscenze in materia teologica. Si dedicò anche allo studio della letteratura persiana, indiana, araba e imparò il greco per capire meglio le opere dei filosofi greci classici. A Konya formò un importante circolo di eruditi, verso i quali la corte del sultano si dimostrò sempre accogliente e rispettosa. In questo periodo della sua vita Mevlana assunse le vesti di maestro religioso che dava lezioni nelle madrase, quelle di predicatore che offriva consigli alla gente nelle moschee e quelle di dottore della legge (müftü). Le sue prediche furono successivamente raccolte in un volume intitolato Mecalis-i Seba, in cui i commenti e le visioni mistiche venivano espressi in forma narrativa e poetica. Questo stile preparò il terreno alla redazione della sua futura opera più significativa, il Mesnevi, che scrisse in uno stato di estasi mistica. In questo periodo morì la moglie. Egli si risposò in seconde nozze con Kerra Hatun, che gli darà altri due figli: una femmina, Melike, e un maschio, Muzafferüddin Emir Alim Celebi. Col passare del tempo, tuttavia, egli si incupì, rinchiudendosi sempre più in se stesso. Ma il 25 novembre 1244, mentre tornava a casa dalla madrasa, qualcuno lo fermò improvvisamente in mezzo alla strada. Questi era un derviscio errante che gli pose alcune domande strane. Le risposte di Mevlana, brevi e precise, entusiasmarono il derviscio, proiettandolo in uno stato di estasi. Jalal’d-din discese dal suo mulo, abbracciò l’uomo e lo portò a casa sua. Da quel giorno egli si sentì liberato e “la sua porta si smaltò con la chiave dell’amore”. Fu così che egli conobbe il derviscio Muhammed Samseddin di Tabriz, detto dai suoi seguaci “Sole della Fede”, con il quale instaurò un intimo connubio spirituale. Il luogo in cui i due mistici si trovarono è oggi noto come Marc’al-Bahreyn, ossia “luogo d’incontro tra due oceani”. L’incontro con Samseddin, infatti, creò un profondo turbamento e determinò un decisivo mutamento nell’esistenza di Jalal’d-din. Quell’uomo, colto ed erudito, non tarderà a precipitarlo nell’oceano dell’amore, esaltando la sua sapienza mistica. Dalla comunione delle loro anime nacquero i più bei versi mistici di Mevlana. Su questi presupposti, nonostante l’opposizione dell’ortodossia islamica, egli volle dar vita ad un particolare Ordine sufi, i Mevlevi o Dervisci danzanti, che vedevano nella simbolica danza circolare (detta sema) e nella musica che l’accompagnava la via privilegiata per quell’estasi a cui Mevlana stesso alludeva quando scrisse: “Specchio sono io, specchio sono io / niente parole, niente parole / potrai vedere l’estasi mia, se si fa occhio l’orecchio tuo! / Agito a danza le mani come albero, turbino in tondo come la luna / il mio rotare colore di terra è più puro dei cerchi del cielo”.

Secondo fonti mevlevi Samseddin (o Sams) era stato discepolo, fin dalla tenera età, di Ebubekir Selebaf, per poi entrare come novizio in vari ordini monastici del tempo, Nessuno di questi, tuttavia, aveva saputo soddisfare la sua sete di spiritualità. Pertanto Sams, dopo aver vagabondato di paese in paese, era giunto finalmente a Konya dove, dopo aver ascoltato le risposte di Jalal’d-din, si era reso conto di aver trovato la perfetta intesa mistica che cercava. Jalal’d-din, dal canto suo, aveva visto in lui “l’assoluta perfezione e il bagliore della luce divina”. Tuttavia l’improvviso ritiro dalla società di un uomo impegnato come Mevlana, le cui lezioni e preghiere erano molto apprezzate e le cui concezioni spirituali erano state accolte con fervore dal popolo, causò grande stupore e sconcerto tra i suoi amici e conoscenti, una delusione che presto si mutò in rabbia e ostilità verso Sams, incolpato per questo repentino cambiamento del maestro. La gente si lamentava dicendo: “Chi è questo Sams che separa la guida dai suoi discepoli? Come si permette di allontanarlo dai suoi libri e dall’insegnamento che egli impartiva? Sarà forse opera di una magia o stregoneria? Non doveva privare tutto il popolo di un suo predicatore”.

Ad un certo punto i fatti presero una cattiva piega e Sams scomparve improvvisamente nel febbraio del 1246. Questa sparizione rimase un mistero, come il suo incredibile arrivo a Konya. La scomparsa di Sams fu per Mevlana motivo di grande dolore. Chiuso nella sua casa si consumava “nel crogiolo della sofferenza”, scrivendo tristi poesie nostalgiche. Le prime notizie concernenti Sams giunsero a Konya alcuni anni dopo. Si seppe così che egli si trovava a Damasco. Mevlana gli scrisse tre lettere implorandolo di tornare, ma non ricevette mai risposta. Suo figlio, Sultan Veled, decise allora di recapitargli direttamente la quarta lettera a Damasco. Egli incontrò Sams e lo convinse a tornare a Konya. L’8 maggio del 1247 Mevlana accolse nuovamente Sams nei sobborghi della città, deciso a trattenerlo a Konya per sempre. Poco tempo dopo, purtroppo, gli avversari di Sams si ricompattarono e, con la complicità del secondo figlio di Jalal’d-din, Alaeddin Celebi, studiarono un piano per allontanarlo definitivamente dal maestro. Nella notte del 5 dicembre 1247 Sams venne ucciso in un agguato, ma Mevlana venne tenuto all’oscuro di tutto. I suoi amici più fedeli cercarono di consolarlo facendogli credere che Sams era nuovamente partito, ma che sarebbe certamente tornato in futuro. Jalal’d-din si recò più volte a Damasco, con la vana speranza di incontrarlo, finchè non capì che Sams continuava a vivere nella sua propria anima. Per questo egli soleva dire: “O tu che cerchi, vedere lui è sinonimo di vedere me, io sono lui”.

Il mistico Rumi

Così, avvolgendo la testa in un turbante grigio e vestendosi con una giubba, continuò ad abbandonarsi all’amore divino e alla “sema” (danza mevlevi), consumando l’esistenza in estasi. Dopo la morte di Sams, Jalal’d-din era destinato ad incontrare un altro spirito illuminato, Hüsameddin Celebi. Costui apparteneva ad una famiglia di ricchi mercanti di Bagdad emigrati nel XII secolo d.C. verso l’Anatolia. Rimasto orfano in tenera età egli aveva frequentato i corsi tenuti da Mevlana nella madrasa di Konya, partecipando alle esercitazioni di “sema”. Divenuto adulto era entrato a far parte dei Mevlevi, fino a divenire, dopo la morte di Selahaddin, amico intimo del maestro. Nell’ordine mevlevi egli maturò e perfezionò la sua conoscenza spirituale e fu promosso “prezioso guardiano della conoscenza segreta”. Considerato da Mevlana come “luce della verità e anima illuminata”, Hüsameddin restò accanto a lui come fedele consigliere per oltre dieci anni. Jalal’d-din gli era così affezionato che non poteva assolutamente viaggiare senza di lui.

Con Sams Mevlana aveva raggiunto la perfezione e la vetta dell’amore divino e attraverso Hüsameddin egli lo espresse e condensò per iscritto. Negli ultimi anni di vita, infatti, Jalal’d-din raggiunse la tranquillità e il suo entusiasmo e la sua estasi si orientarono verso la conoscenza meditativa. Hüsameddin, che osservava attentamente questa trasformazione, si impegnò a divulgare l’ideale d’amore e di sapienza del maestro. Pensò, quindi, che fosse necessario comporre un’opera poetica in metrica distica che soddisfacesse i desideri spirituali dei cuori ardenti d’amore divino. Quando Hüsameddin suggerì a Mevlana un’opera di questo genere, egli rispose che ciò sarebbe stato possibile solo se lui stesso si fosse reso disponibile a trascrivere i versi. Da allora giorno e notte, per strada ed in giardino, Hüsameddin scrisse accuratamente ogni parola che Mevlana pronunciava e dettava con amore. Questo lungo lavoro sfociò nella compilazione del Mesnevi, capolavoro assoluto del maestro e specchio del dominio poetico e filosofico della sua coscienza.

Nell’inverno del 1273 Jalal’d-din, indebolito dalla vecchiaia e dalle fatiche per i lunghi periodi di digiuno, si avviò verso la fine della sua esperienza terrena. Dopo aver sofferto per 40 giorni, nell’ultima notte della sua vita dettò la seguente poesia a Sultan Veled, che non si era mai allontanato dal capezzale paterno: “Va e poggia la testa sul guanciale / lasciami solo / abbandona questo povero consumato / che passa le sue notti errando / Noi le notti le passiamo / lottando fino al mattino / dibattendoci nelle onde d’amore / Vieni se vuoi, vieni e perdonaci / Vattene se vuoi, e tribolaci”.

L’indomani, domenica 17 dicembre 1273 (anno 672 dell’egira), mentre il sole tramontava la sua luce si alzava dal mondo dei mortali per prendere il volo verso il mondo dello spirito e dell’eternità. Egli fu sepolto accanto alla tomba del padre, nel mausoleo, dove giace tuttora. Mevlana aveva così arricchito spiritualmente Konya che con la sua scomparsa la città intera apparve improvvisamente vuota. Ma in realtà la sua morte fu un atto di rinascita della verità e dell’amore raggiunto. Fu il giorno della definitiva e universale comunione con l’Assoluto. Prima di morire egli infatti aveva detto: “Dopo la morte non cercate la nostra tomba sulla terra / Essa è nel cuore degli intenditori”.

Dopo la morte di Mevlana, a capo dell’ordine mevlevi gli successe lo stesso Hüsameddin Celebi. Quando morì, nel 1284, fu sostituito da Sultan Veled, figlio del maestro, il quale attuò le riforme già iniziate dal padre e fondò il mausoleo che accoglie le spoglie dei capi mevlevi, rendendolo un importante centro spirituale ed artistico. Dopo il suo decesso, avvenuto nel 1312, il figlio Ulu Arif Celebi prese il suo posto. Egli giocò un ruolo fondamentale nella riorganizzazione e nel consolidamento dell’ordine, che lasciò in successione, nel 1320, al fratello Semseddin Emir Alim. 32 Celebi della famiglia di Mevlana divennero, in seguito, capi spirituali dell’ordine. Nei secoli successivi la scuola mevlevi superò i confini di Konya estendendosi a tutto il territorio anatolico, per poi diffondersi ad altri paesi. Essa esercitò una sensibile influenza sulle idee, le credenze e la cultura di diversi popoli. Sotto il dominio dell’Impero Ottomano l’ordine crebbe ulteriormente e in numerose città sorsero diversi Derghan (Conventi di dervisci) osservanti della regola e della tradizione dei dervisci.

Mevlana ha lasciato in eredità ai posteri 5 fondamentali opere letterarie di alto valore poetico, religioso e culturale. Il Mesnevi, composto di 6 volumi, raccoglie, in forma di racconti, i pensieri mistici di Mevlana. Scritto in persiano con metrica classica della poesia cortigiana turca, esso è costituito da 25.168 poemi in forma distica. L’amore fervente e l’esplorazione dell’universo interiore trovano la loro massima espressione in quest’opera limpida e raffinata, compilata in uno stile agevole e gradevole. In essa Mevlana, nella veste di guida spirituale, rivela e mostra all’uomo la via divina che porta alla verità. Dopo la stesura definitiva il Mesnevi fu apprezzato ed ebbe larga diffusione a livello popolare. Numerosi erano gli insegnanti (mesnevihan) che lo leggevano e commentavano nelle scuole religiose. L’opera fu anche pubblicata e tradotta in diversi paesi orientali, oltre che in varie lingue europee.

Il Divan-i Kebir (“Grande raccolta”) è un’opera monumentale, composta da Mevlana in stato d’estasi, che consta di 40.000 distici, comprendenti 21 divan mistici, un divan in quartine e i gazel che Mevlana scrisse con lo pseudonimo di Sams. Il libro è un diluvio d’amore esaltato, in cui Jalal’d-din trova “l’esistenza nell’estasi e nella passione” e, libero da costrizioni, canta l’amore divino. La raccolta è compilata in modo conforme alla tradizionale metrica del divan, ossia alfabeticamente ordinata. Benchè scritta in persiano, essa contiene anche alcuni poemi in turco, greco ed arabo. Questo scritto ebbe numerosi ed assidui lettori nei paesi orientali, ma fu pubblicata anche in occidente in forma di testi scelti.

Il Fihi-Mafih (letteralmente “C’è ciò che c’è”Libro delle profondità interiori nell’edizione italiana) è un’opera in prosa e poesia, scritta in persiano, che contiene le prediche di Mevlana. La filosofia mistica della vita e della morte, l’iniziazione ad una vita mistica e le sue diverse fasi, i rapporti tra guida spirituale e discepoli, nonchè argomenti come la fede, l’amore, la morale e la preghiera vengono trattati come nel Mesnevi, attraverso racconti ed esempi. In questa raccolta Mevlana appare come un pensatore mistico maturo che insegna al genere umano i mezzi per giungere alla perfezione.

Il Mecalis-i Seba è una raccolta di sette orazioni erudite pronunciate da Mevlana in arabo. In quest’opera, scritta in prosa ed in versi, i versetti del Corano e le parole di Maometto vengono illustrati in modo piacevole, per mezzo di racconti e poesie.

Il Mektubat è un compendio di 147 lettere scritte da Mevlana ai sultani selgiuchidi e agli uomini di stato del tempo. Questi documenti hanno un importante valore storico.

Mevlana non fu mai un filosofo in senso stretto, ma semplicemente un grande mistico e un poeta erudito. Per lui la filosofia era un sistema debole ed incompleto, in quanto basato esclusivamente sulla speculazione razionale. Egli scrisse che “La ragione è incapace di esprimere l’amore. La verità dell’amore e dello stato amoroso non possono essere rivelati ed espressi che solo dall’amore stesso”. Nella sua concezione artistica la poesia era uno strumento d’insegnamento. Un concetto espresso in versi, secondo la sua opinione, si incideva meglio nella memoria del lettore, rendendo più facile e piacevole la lettura.  Non gradiva il ritmo e la rima, in quanto imponevano restrizioni alle idee da trasmettere: “Mentre penso alla rima mia amata mi dice: non pensare a nient’altro che alla mia faccia … Oh te, pensatore di rime, accanto a me tu sei la rima di prosperità. Siediti tranquillo di rimpetto. Vicino a me la rima essenziale sei tu. Cosa c’è in una lettera che tanto ti fa pensare? Cos’è una lettera? Null’altro che un recinto che cinge una vite. Annulla dunque la lettera, il suono e la parola … e lasciami parlarti senza questi tre pensieri”.

I temi e le visioni mistiche dominano la sua opera e il suo pensiero, sviluppando e definendo un’autentica ed intima “Teologia della Bellezza”. La purezza e tensione spirituale che egli esprimeva abbracciava l’uomo e la vita nella sua totalità, in quanto alimentate da un carattere di tolleranza illimitata il cui scopo era il raggiungimento della pienezza d’amore: “Il cammino dei nostri profeti è il cammino dell’amore / Non rimanere senza amore se non vuoi morire /muori nell’amore se vuoi restare vivo”.

L’amore che egli intendeva era innanzitutto l’amore divino che si manifesta nell’uomo capace di raggiungere la perfezione spirituale. Questo amore si tramutava nella fonte dell’estasi che gli consentiva di realizzare l’Unione suprema con Dio. Così egli riassunse la sua vita amorosa ed estatica, trascorsa nel crogiolo di un’Amore sublime: “Ero crudo, mi sono maturato ed arso”.

Mevlana nutriva la poesia d’amore, esprimendo i suoi sentimenti attraverso la musica e la danza. Poesia, musica e danza rappresentavano degli elementi indispensabili per il raggiungimento della perfezione dell’anima: la poesia rivelava, la musica nutriva, la danza esprimeva la manifestazione dell’estasi divina. In tal modo lo spirito si purificava e prendeva il volo verso un mondo di comunione universale. Saturo d’amore spirituale, Mevlana fu un pensatore profondo che illuminò il suo tempo. In un epoca in cui le guerre continue creavano ansia, inquietudine e conflitti violenti tra opposte fazioni egli esercitò un’influenza positiva sulla gente e, aprendole gli occhi ad un mondo spirituale nuovo, pose le condizioni per procurarle una pace interiore. Egli amava l’uomo ed il genere umano, trovando in esso la perfezione dell’essere assoluto. Rifiutò sempre di prendere al suo servizio uno schiavo od un servo e, per il gran rispetto che aveva verso la donna, si oppose alla poligamia. Sempre in cerca della verità, della bontà e della bellezza associò nello stesso amore gente di fede diversa. All’ingresso del mausoleo in cui riposano le sue spoglie sta infatti scritto: “Vieni, vieni chiunque tu sia / Vieni lo stesso / Che tu sia infedele, idolatra o pagano / Vieni lo stesso / Nostro convento non è luogo di disperazione / Seppure hai reciso cento volte un pentimento / Vieni lo stesso”. La forza dei suoi insegnamenti durò per molto tempo, poiché milioni di persone trovarono conforto e serenità nelle sue sagge parole. Le sue idee, la poesia, la musica e la danza consolarono i cuori aridi suggerendo loro desideri di pace e ideali di libertà, fiducia, carità, amicizia e fratellanza. Perché, come disse il poeta e filosofo pakistano Muhammed Ikbal, “Egli è la guida dell’amore / il sacerdote degli amanti della verità / la fontana inesauribile per gli assetati”.

GIUSEPPE GUIDOLIN


Bibliografia

Mehmet Önder, Mevlâna, ed. Ajans-Türk, Ankara, 1972

Jalâl âl Dîn Rûmî, Mathnawî, a cura di Gabriele Mandel Khân, ed. Bompiani, Milano, 2006

Rûmî, Poesie Mistiche, a cura di Alessandro Bausani, ed. BUR, Milano, 2001


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