a cura di Dante Maffia
Il giudizio espresso da Maurizio Cucchi mi pare che sintetizzi il lavoro di Guido Miano (Lamento dell’emigrante, Milano, Miano, 2017): “…il tuo lavoro è notevole per originalità e forza espressiva, per la febbrile quasi ferocia della parola…”.
Una parola che seppure accesa da lampi e da una fede totale dei suoi effetti benefici, non si è mai incrinata e non è mai scesa a patti con le interferenze che assiduamente Miano ha dovuto scansare per evitare d’essere preso nei virgulti intricati delle sperimentazioni per lo più gratuite. Prova ne è anche l’amicizia con Mario Luzi e con Davide Maria Turoldo.
Non è stato facile lasciare la Sicilia e arrivare a Milano dove il mondo dell’editoria era prepotente e ben asserragliato nei progetti che vedevano le problematiche del Meridione come un’intrusione anomala e assurda. Miano però ha una sua idea precisa che si connota immediatamente: fare emergere la poesia dai significati densi, con una forte carica etica, con una eleganza tutta derivata dai classici e senza concessioni alle stravaganze e alla gratuità.
Questa forza, ovviamente, gli veniva dall’essere lui stesso poeta che seguiva questi principi senza deroghe e li difendeva a spada tratta.
Infatti basti leggere con attenzione e con partecipazione Lamento dell’emigrante per rendersene conto. Non c’è una sola punta di retorica e nemmeno di tendenziosità politica; non si sentono lamenti nel senso tradizionale in cui si intendono quando c’è di mezzo l’emigrazione. Non so, come è accaduto, per fare qualche esempio, con Rocco Scotellaro o con Franco Costabile. In Miano tutto è limpidamente fuori dalle convenzioni e credo che sia un merito da sottolineare, perché, come diceva Rilke, se si vuole attrarre l’attenzione su un argomento bisogna trattarlo con leggerezza, fermo restando il come, la parola appunto, per ricordare ancora il giudizio di Cucchi, “febbrile quasi ferocia”.
E’ un vezzo dei lettori cercare sempre chi sta alle spalle del poeta, consapevolmente o soltanto per affinità, io vi ho scorto la leggerezza ariosa di Arturo Onofri, quel passo felpato che rende le immagini sinfonie, passi di musica orchestrata con sapienza e con esperienza. Infatti non è casuale il rapporto stretto di Guido Miano con la musica, così bene messo in evidenza dallo scritto introduttivo di Franco Lanza. Un rapporto che andrebbe approfondito e studiato e che ci riporta ai bei tempi,in questo senso, di Arrigo Boito ed Emilio Praga.
Ma va dato merito anche allo studio di Gualtiero de Santi che sa accompagnarci, con una profonda analisi, in questa poesia che io trovo accattivante, e direi addirittura lievitante. I versi di Guido Miano hanno qualcosa di dolcemente attraente e riescono a far emergere le emozioni più profonde nel lettore, perché non coprono mai il dettato limpido che scaturisce dall’animo. Leggiamo Il VERSO: “Nel rifugio della verde foglia / la favola si sgrana, / disperde il ritmo arcano / del richiamo fidente. / E’ ora monolitico il verbo, / struggente la voce del deserto / tra pigmei assorti sulla sabbia. / Ma la mia fede al verso, al musicale / ancora mi conforta / con la sua nota trepida, sovrana, / quasi litania perenne”.
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