“Chiantulongu / Piantolungo” di José Russotti. Recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

L’ultima opera in ordine di tempo del poeta siciliano José Russotti (Ramos Mejía, Buenos Aires, Argentina, 1952) è Chiantulongu (Edizioni Museo Mirabile, 2022) che, in doppia lingua (siciliano variante malvagnese – comune della provincia di Messina – e italiano), propone un suggestivo percorso poetico tra le vene più profonde dell’interiorità del Nostro.

Il suo è un “pianto lungo”, un’opera che, pur snodandosi in varie sottosezioni, è idealmente e potenzialmente un percorso lirico continuo e infinito, un canto di dolore e malinconia per l’età andata che tratteggia il passaggio del tempo, l’assenza delle persone amate, il ricordo nitido dei momenti del trapasso dei suoi cari.

Con quest’opera si propone quella polarità studiata dalla critica lorchiana, in ambito spagnolo, attorno a un componimento elegiaco quale il noto Pianto per Ignazio Sanchéz Mejías che il celebre Granadino dedicò nel 1934 all’amico torero deceduto per una cornata di un toro. Se il titolo originale dell’opera parlava di Llanto (ovvero Pianto) nel procedimento di traduzione nella nostra lingua vide prediligere la forma di Lamento. Non sempre il lamento, però, è assimilabile a un vero pianto. Sta di fatto che – per smarcarsi da Bo e Rendina – Caproni decise di mantenere fedeltà all’originale traducendo con Pianto. L’opera di Russotti mi fa pensare a tutto questo: il suo è un Pianto vero e proprio ovvero un componimento che, pur non avendo la forma del poemetto ma delle singole poesie, muove attorno all’idea del dolore e del compatimento, della sofferenza lacerante e della costernazione. Il lutto, pur individuato in specifici piani temporali, non si stempera col passare del tempo e i versi contengono, come raggrumate, le lacrime di disperazione e strazio dell’uomo. Siamo dinanzi a una sorta di romanzo di formazione in versi: l’esperienza del dolore è elemento di cerniera, si configura come un rito di passaggio ineliminabile. Passando per questa fase l’individuo non sarà più come prima della sperimentazione del cordoglio, dell’assenza. Della pena. Ecco che Russotti, poeta versatile grande amante della lingua orale della sua zona, ci consegna una delle opere più sentite e personali che abbia mai scritto, più accorate e dolenti, più strazianti e, proprio per questo, più vivida e potente.

Il volume si apre con una dotta prefazione a firma di Maria Nivea Zagarella e si chiude, come in un percorso circolare innervato su riflessi poetici e bagliori esegetici attorno al percorso dell’Autore, con un nutrito apparato critico nel quale sono riportati estratti di analisi, recensioni e valutazioni ermeneutiche di altrettanti poeti, scrittori e intellettuali sull’opera di Russotti. Tra queste “considerazioni amicali sulla poesia” vi sono, tra le altre, note del professor Tommaso Romano e dei poeti Santina Paradiso, Pietro Cosentino e Francesco Giacalone.

Possiamo dire che José Russotti è poeta – in italiano e in lingua siciliana – per nascita e vocazione, per spirito innato, per caparbietà, per la sua grande diluizione nel mondo socio-etno-antropologico della provincia di Messina che ha contribuito a narrare anche in altre forme: con la musica (ha pubblicato un cd su sonorità etniche dal titolo Novantika, Ballate sulle rive dell’Alcantara edito da Novantika nel 2004) e mediante un’apprezzatissima opera fotografica (Malvagna miain bianco e nero, tra suggestioni e fantastici ricordi edita dal marchio da lui stesso creato denominato Fogghi mavvagnoti, nel 2022.

Tuttavia è in campo letterario che Russotti ha raccolto i maggiori consensi[1] grazie a una intensa attività autoriale di libri ma anche di curatore editoriale: notevole la pubblicazione di tre tomi della Antologia di Poeti contemporanei siciliani edita per i tipi di Fogghi mavvagnoti (I volume, 2020; II volume, 2021; III volume, 2022)[2]. Come autore la sua produzione si è dispiegata in varie sillogi: Fogghi mavvagnoti (autoedizione, 2000), Spine d’Euphorbia (Il Convivo, 2017), Arrèri ô scuru / Dietro il buio (Controluna, 2019) ai quali ora si aggiunge quella che – senza infatuazioni o piaggerie – definirei opera magnum ovvero Chiantulongu (Edizioni Museo Mirabile, 2022).

Parlando della sua poesia il poeta, scrittore e saggista modicano professor Domenico Pisana ha sottolineato che «i suoi versi hanno il sapore di un sincero scavo interiore che si fa dono e che la sua anima traduce in canto poetico di autenticità e di vita». Ce ne rendiamo conto piuttosto bene inoltrandoci con adeguata attenzione e spirito di riflessione nelle pagine che compongono Chiantulongu.

Il libro si snoda tra poesie dedicate agli affetti: il padre, la madre, la moglie e la figlia Elyza. Una sezione è anticipata dall’iscrizione “Nei giorni chiusi” dove si ritrovano riflessioni che sembrano essere state partorite nel tempo infausto del Covid-19 (leggiamo, infatti, in una di esse «In questi istanti di morbo infame / il cuore si gonfia a mantice e scoppia», p. 59); segue “A Malvagna, il paese della memoria ritrovata” con liriche di pregevole caratura euritmica riferite al borgo – se non natale, dato che l’Autore è nato in Argentina – ancestrale, del suo ceppo familiare.

Cospicua è, infine, l’interrogazione dell’io lirico sulle questioni di ampia risonanza che coinvolgono l’approfondimento esistenziale, inserite nella sezione conclusiva, “Sulla vita e sulla morte”. Il pensiero attorno al trapasso si fa qui particolarmente pronunciato: intere poesie sono dedicate a sorella morte come “Ci sono giorni” il cui explicitQuando morirò! (Se morirò!) / vorrei restare per sempre / nel cuore e nella mente di chi mi ha voluto bene, / come un qualcosa che mai si marcisce / o un lampo splendente, / prima del buio!», p. 83) ricorda, ancora, il Lorca del Cantejondo (la struggente “Memento”) quando scrisse: «Quando morirò, / lasciate il mio balcone aperto. / Il bambino mangia aranci. /Dal mio balcone lo vedo». Quello di Russotti è un richiamo alla terra, all’estrema volontà di ricongiungersi anche in un al di là alle tracce del suo passato ma anche un desiderio di essere ricordato. Da notare la vena autoironica e giocosa dell’autore quando, tra parentesi d’incisi e non di specificazioni, annota vagamente e con un fare illusorio, «Se morirò».

La morte non è solo un’immagine, pur nella forma vacua di un’idea, ma diviene in Russotti uno dei motivi principi che muovono l’esigenza del dettato lirico da farne un topos, un elemento ricorrente, un vero e proprio assillo che, comunque, tratta di volta in volta con velature inedite, mai repliche delle stesse. In “Questa morte che ci teniamo addosso” è possibile fruire di questi versi: «Quando spunti nel buio della notte / come la morte quando vuole arrivare, / nera di scorza dura, con il mento / che trema e il sangue che ghiaccia. / Questa morte che ci portiamo addosso / come il vinavil appicciato fra le dita / o un vecchio motivo che frulla in testa» (p. 95).

Viene alla mente una celebre frase dell’attrice Anna Magnani che ebbe a dire: «Morire è finire: perché si deve finire? Un uomo dovrebbe finire quando decide di finire, quando è stanco, pago di tutto: non prima. Oddio, c’è una tale sproporzione tra la dolcezza con la quale si nasce e la fatica con la quale si muore». Eppure per Russotti la morte, pur cantata, fatto oggetto dei sui lamenti per i genitori venuti a mancare, non sembra concepita realmente come destinazione ultima, come atto definitivo e concluso in per se stesso. Vita e morte, come nella più alta letteratura di tutti i tempi – innervata su un sentimento cristiano – non sono facce di un Giano bifronte, antipodi invalicabili e recalcitranti ma, al contrario, l’una contiene l’altra, ne è una sua progressione e sfaccettatura. La morte s’iscrive nella vita e non è solo il completamento finale, inderogabile e ultimo. Ecco perché Russotti parla di vinavil, di qualcosa che è attaccato al nostro essere, inglobato alla nostra epidermide di esseri coscienti. Volenti o nolenti.

Toccante il ricordo della morte del padre (citiamo in italiano ma ricordiamo che l’intera opera è proposta anche – anzi in prima battuta – è in lingua siciliana nella variante malvagnese): «Quanto ti chiamai quel mattino. Quanto? // […] / ma tu non sentisti e mai ti voltasti» (p. 15). Il dolore di quell’addio persevera al presente, in ogni momento che l’Autore riflette sul percorso del padre e lo ricorda nei momenti di condivisione: «[P]iango aspettando ancora / il canto dell’ultima volta. / Vivo e mi consumo / dietro il ceppo di un sorriso amaro / inseguendo il tempo che sfugge. // […] [F]in quando insacco ricordi / e mi nutro di malinconia» (p. 21). Di grande intensità è anche la successiva poesia “Grappolo d’amore”, questa volta dedicata alla figura della madre: «La morte è una croce da sopportare, / un canto amaro che mai si spegne / in questi giorni di calca e pianto» (p. 29).

La poesia rimane comunque imprescindibile, una costante sicura, un faro nel quale appigliarsi in ogni circostanza della vita, in ogni ora della giornata. Russotti ne è convinto. Sa che il canto lirico vive della contemplazione e della solidarietà dell’uomo, dell’impegno all’ascolto e alla conoscenza dell’animo. Ne è certo. Come quando in “L’ora sospesa” annota «Si vive d’amore e di nulla, / di stenti e sostentamenti / ma non toglietevi la poesia dal cuore!» (p. 87). E persuade anche noi lettori.

LORENZO SPURIO

Jesi, 15/04/2022


[1]Consensi che sono giunti tanto dalla critica che dal giudizio di numerosi premi letterari nazionali, contesto nel quale ha ottenuto numerosi e importanti riconoscimenti tra cui: Premio “Vann’Antò-Saitta” di Messina, il Premio “Città di Chiaramonte Gulfi – La città dei Musei”, il Concorso letterario “Salva la tua lingua locale” di Roma; il Premio “Pietro Carrera” di Catania, il Premio “Luigi Einaudi” di Paternò (CT), il Premio “Poesia Circolare Epicentro” di Barcellona Pozzo di Gotto (ME), il Premio di Poesia “L’arte in versi” di Jesi (AN) e l’ambito Premio “Città di Marineo” a Marineo (PA); il Premio di Poesia “Colapesce” di Messina.

[2] Al primo volume ho dedicato un’articolata recensione pubblicata su varie riviste: «Lumie di Sicilia» n°150 (65 online), maggio 2021, pp. 19-20; «Culturelite», 03/05/2021; «Tony Poet – Dialogo con la rete», 03/05/2021, «Xenia», anno VI, n°1, marzo 2021, pp. 82-86; «Vesprino Magazine», n°129, aprile 2021, pp. 33-35. Nel secondo volume di quella che, per il momento, è una trilogia, figura un mio contributo critico quale Prefazione del volume.


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“Dolore della casa: compianti dal Covid” di Gian Piero Stefanoni

Segnalazione di Lorenzo Spurio

A continuazione, con il consenso dell’autore, il poeta e critico letterario Gian Piero Stefanoni, si dà pubblicazione su questo spazio al suo intervento dal titolo “Il dolore della casa: compianti dal Covid” apparso per la prima volta sulla rivista Artcurel: arte, cultura e religione, web-rivista cristiana cattolica sull’espressione artistica e culturale universale pubblicata in seno all’Apostolato Cristiano Cattolico Artistico Culturale (ACCARCU) in data 27/05/2020. Esso si compone di una nota di introduzione dello stesso Stefanoni che anticipa e spiega il motivo dell’opera e come è stata intesa e, a seguire, una serie di poesie, ciascuna con una specifica dedica a persone, tanto italiane che straniere, tanto nell’ambito medico che non, che sono cadute nel corso dell’epidemia del Corona Virus. Il poeta dedica una rosa di componimenti a specifiche persone comuni, che appartengono alla vita pubblica del nostro Paese e non solo, finanche a personaggi pubblici e vip (com’è il caso di Lucia Bosé) chiudendo la collana di liriche con una dedica, indistinta, a tutti coloro che hanno sofferto direttamente questo dramma del nostro Secolo. Il testo è pensato come un omaggio riconoscente a coloro che, facendo il proprio lavoro e avendo messo il prossimo all’attenzione della propria esistenza, sono caduti “sul campo” e a quanti, contaminati dal maledetto virus, non sono potuti guarire. Ma è rivolto anche a noi tutti superstiti, noi che leggiamo, che continuiamo a vivere (e sperare) in questa lenta fase di ripresa dopo l’acme dell’emergenza. Per conservare vividamente e responsabilmente, nel ricordo, chi ha combattuto, per non dimenticare, per tenere a mente che la tragedia che ha portato all’aldilà tante esistenze appartiene al mondo intero. A tutti, indistintamente.

(Lorenzo Spurio)

DOLORE DELLA CASA: compianti dal Covid

di Gian Piero Stefanoni

Poiché tutto si compie in un altrove sconosciuto.

(Françoise Dolto)

per Vito, medico e uomo buono

INTRODUZIONE

Raccolgo nella brevità e nel ricordo di questi pochi ritratti, il senso di un comune, partecipato sgomento. L’evento Covid-19 che ci ha risucchiati da una terra ai nostri occhi, nelle nostre vite non più ospitale ci ha scoperti nel nervo teso di una condizione di limite forse dimentico ed ora così tragicamente esposto tra coabitazioni coatte ed economie in azzeramento. Così se non più eludibile la necessità del ripensamento ciò che a me interessa adesso – perché bene adesso – è il raccoglimento in un dolore (e in un pianto) che è anche il nostro per chi (per operatività di servizio e di lavoro ma anche per caso e per destino) lontano dagli affetti, nelle sepolture veloci, in veloci benedizioni ci ha lasciato in solitudine entro una procedura di sottrazione subdola, vorace nella traccia di uomini, donne, ragazzi – anonimi o meno – che ho voluto riportare nella presenza viva di ciò che nell’agire li ha connotati indicando allora nel passaggio la vita stessa come misura dell’amore e del pensiero- e per questo, in questa memoria, restando. Pensiero che allora va anche ai cari nella consapevolezza di una fratellanza che ora ci appella nel sacro.

Come ricordare e vedere la ghianda

nel becco martellante dell’uccello

questo affacciarsi incontrollabile di mondo

nel grido riposto del suo seme.

È sempre questo silenzio,

questo avvicendarsi inascoltato delle forme,

la morte nel suo deposito di àncora

che chiama dal fondo un altro mare.

L’ombra non è che una stagione

in questo passare infetto.

Nell’accorpare timoroso dei nomi-

il respiro condiviso dell’orma-

il volto regale e già sanato della terra.

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CHIARA FILIPPONI (anestesista di Portogruaro, primo medico deceduto in Italia per concausa da Coronavirus il 07/03/2020)

Sei stata la prima,

da te che gestivi il sopore del corpo

la coscienza: il camice

pronto a cedere ha ceduto,

persa la presa nel sonno.

Del virus hai detto

l’acritica funzionalità del colpo,

la fragilità della scienza

nell’immagine di un silenzio

che però ora non tocca.

Le perle infatti

ancora circondano la bocca,

nel sorriso, nella luce digitale della nostra foresta.

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DIEGO BIANCO (operatore del 118, quarantasei anni, scomparso per Covid-19 a Bergamo il 14/03/202)

Al tempo del non tradire

va di là ma è da qui che viene

il cielo raccolto nella terra.

Come nel salmo, esposto

e scoperto, freme dalle postazioni

nel messaggio che il giorno

trasmette alla notte.

Nella voce che ha saputo udire

il patire di Bergamo, il professare

per bene di una vita per bene.

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DON PAOLO CAMMINATI (parroco della Parrocchia di Nostra Signora di Lourdes a Piacenza, assistente diocesano dell’Azione Cattolica, scomparso il 21/03/2020 a cinquantatré anni).

Allo stato iniziale non si torna-

lo comprendi dall’acqua della roccia

di nuovo mischiata al sangue.

Il numero- ad oggi, purtroppo ad oggi,

centoquindici – dice la parola nei Numeri;

dell’esodo, delle comunità ferite

il terrore della promessa.

Ma è iscritto- ad ognuno-

il suo monte Nebo; la discesa

verso Gerico- in fase due,

in fase tre- città delle palme.

Tu, caduto prima, hai avuto paura

ma ti sei fidato ancora una volta

mostrando la strada.

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HART ISLAND (ma anche campo 87 del cimitero Maggiore di Milano)

kaddish

Vorremmo dirvi

che siete la nostra lettera per il futuro

con la dignità di parole

che non abbiamo saputo scambiarci.

Composti tra i ruderi

sapervi insieme ai nomi di chi osserva

dentro una terra che si allarga nell’accoglienza del fiume.

Ma non so- o forse so ed è questo che pesa-

se qualcosa d’umano avanzerà

in questa barca

nello scompenso di un mare che già rigurgita.

Rimozione è lo spirito

del tempo malato

e per questo da sempre,

continuiamo a morire:

al fiore che oggi vi scarta

altri, in altri giorni, seguiranno

nell’eterna anonimia della calce.

Perché brevemente la vita ascolta la morte,

e più forte è la voluttà del ventre,

l’uomo animale carico.

Liberi da questo, allora sì per voi

sia lieve il silenzio,

lo scandalo del sabato santo.

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DANIELA TREZZI (infermiera di trentaquattro anni della terapia intensiva del San Gerardo di Monza, uno dei maggiori fronti della pandemia) Si è tolta la vita il 24/03/2020, “Viveva in un pesante stress per la paura di aver contagiato altri”, come ricorda la Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche alla quale apparteneva).

Dobbiamo ricordare i vivi

grazie anche a chi, per loro,

vivo non è più. Che non è

un facile bando la regola della memoria

ma nei fatti del sangue il passaggio,

l’ossigenato fluire dalle mascherine

da una esistenza offesa.

Con te però il sudario

raccoglie lo scrupolo, il terrore

esploso negli occhi di un dare infetto,

dentro le corsie una malattia d’amore

probabilmente vinta.

Resta un qualcosa di più grande

però in ciò che t’ ha spazzata,

di più vasto. La donna che teme,

e che avanza se cade infatti non è muta

nel grido della terra che reclama,

che in te ancora può. E non cessa.

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ISMAIL MOHAMED ABDULWAHAB (giovane studente londinese di tredici anni, una tra le vittime più giovani della pandemia in Europa)

Io con te penso ai miei nipoti,

piccolo budda delle nostre periferie

se il cuore è il primo organo malato.

Con te come con Vitor[1] e gli altri

la statistica ha aggiornato le sue definizioni-

“millenial” nella carne adesso

per questo modello che non vi ha preservato.

Si dice che eri un bravo studente-

fisico sano/mente sana- a Brixton, Londra est,

terra di immigrazioni e di scontri.

Io che non lo ero sono qui a pregarti

presso il Dio dei tuoi e nostri padri;

delle sconfitte che non abbiamo saputo insegnare

ma patire entro quell’indice mesto

ormai in sovrannumero.

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VITTORIO GREGOTTI (architetto, urbanista, teorico dell’architettura, scomparso a novantaquattro anni a Milano)

LUCIA BOSÈ (attrice, scomparsa per complicanze dovute anche al Covid-19 a ottantanove anni a Segovia, in Spagna)

Vittorio, maestro del razionalismo,

la storia hai insegnato non è un’astrazione

e si sposa coi luoghi che tu Lucia,

signora degli angeli e senza camelie,

da Milano a Segovia hai nella sfida,

nel nostro immaginario incarnato.

L’arte di ben restare a fronte del negare-

o del sovrapporre: questo nell’offesa

della morte il lascito. Un’ Italia

che ha del mondo perché del mondo

nel circolo di grazia pronunciato dal colore.

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RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali)

Qui l’attentato è alla piccola patria

se saltata la rete da fuori

per chi ha dato la vita è venuta la morte.

Qualcuno giudicherà

ma è un segno quest’uccisione di geni,

la calata di padri e di madri dai piani.

Tolto almeno allo sguardo

il silenzio di ogni protezione,

caricati e spostati sui camion,

la coscienza adesso avrebbe il peso della pietra.

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LI WENLIANG (oculista all’ospedale centrale di Wuhan, uno dei primi medici a riconoscere la pericolosità della polmonite di Wuhan, lanciando l’allarme sul virus il 30/12/2019. Ammonito dalla polizia “per aver fatto commenti falsi su internet” morì dopo aver contratto il Covid-19 sul lavoro il 07/02/2020. Il 2 aprile dello stesso anno è stato dichiarato martire ed eroe nazionale)

La legge smentisce-

e punisce- i fabbricatori

di notizie fuori dallo stato.

Per questo ti pronuncia del virus

il primo segno, l’incredulità

nel destino di Cassandra.

Ma tu giovane oculista

hai risposto

all’elementare rispondenza

del dato, al confine invisibile

che pronuncia della scienza l’allarme.

A questo educato,

a questo esposto

nella norma della cura,

nella norma dell’assenso

che è della vita ora riposi.

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DONATO SABIA (mezzofondista, campione europeo indoor degli 800 metri piani a Goteborg nel 1984. Scomparso nella natia Potenza l’8 aprile a cinquantasei anni)

Determinato e fermo,

così oggi una fotografia ti restituisce

prima di una partenza.

Di quest’ultima però

nessuna immagine

se non quella dello stupore,

per un uomo, per un atleta ancora

a cui è stato strappato il numero.

A Goteborg, nel 1984,

ti salutò l’oro nell’europeo indoor;

adesso, nella prece, al tempo delle assenze

la benedizione veloce dell’incenso.

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SAMAR SINJAB (medico sessantaduenne siriana di base di Mira, città metropolitana di Venezia, scomparsa il 09/04/2020 presso l’Ospedale di Treviso)

Lo si legge dai tuoi figli

l’incontro declinato a fondo

di un desiderio che qui ha portato salvezza.

Anch’essi medici, nell’italiano

di un accento pronto, ci mostrano

il rovescio di una terra ai nostri occhi scomparsa.

Siria deserto di pane e di rose,

fertile pianura in te declinata nella scienza

hai impresso in Veneto, del mondo,

la sua eterna narrazione.

La vita è una tensione che non si misura

ma si raccoglie dove il solco

che è uno ha bisogno di storia.

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ANTONIO NOGARA (imprenditore di cinquantasette anni toltosi la vita a San Giovanni a Teduccio, nel Napoletano, il 06/05/2020)

Eppure il killer si serve

(anche) di sicari silenziosi

a colpire piano dai varchi uomini e sistemi.

La vita cede

dove la prospettiva simula

ma poi mina la bocca

là dove la dignità pare perdere veste-

e credo se all’umana pietà

non si somma l’attenzione.

Quel che resta

non sia a svanire ma a crescere

nel percepire solido delle identità;

la caduta in alto altrimenti

avverte solo del crollo.

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FABRIZIO GELMINI (maresciallo maggiore della stazione dei Carabinieri di Pisogne, Brescia, scomparso il 27/03/2020 a cinquantotto.

È vero lo si legge negli occhi,

in te il bene della terra,

il servizio dalla strada alla morte

proprio nella mia terra del padre.

Non è retorica l’ordine

ma pronuncia nella disposizione regolare delle cose,

esserci dove si è chiamati ad essere.

Così non è dazio la fedeltà-

né giuramento- se alimento

nella vita che anche da te, dagli altri colleghi (sono sette)[2]

ora riprende.

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GLI ALTRI

Come gli altri, anche voi

dalle strade, dalle case, dal lavoro

anonimi nell’anonimia della morte.

Quale veste allora dalle ombre

mi chiedo, quale ruggito a espandervi

là dove il vivo non arriva.

Non la paura che più non appartiene,

o una memoria in quell’apertura

che certo lo sguardo non protegge.

Ma della terra la sua frammentazione-

la grande scheggia- che nell’incandescenza della perdita

a nuovo Adamo vi risillaba.

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NEONATO DI CINQUE MESI DEL CONNECTITCUT

Con quale piccolo verso

vai a chiudere tu

che non hai portato la fiaccola?

Forse uno:

“Non mi ricorderò di voi”.

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LAMENTAZIONI

Ricomincia da ciò che sai,

da ciò che puoi cuore mio

ora che la sera muta i legami

e la notte non ha corpo

a cui cedere il sangue.

Ricomincia dalle tue morti,

dagli abbandoni precoci,

reimpara l’assenza, la misura

esatta e sola della carne.

Qui freme la sottrazione

la parte mutila del mondo,

accorda in una medesima nota

una vita che non ha terra,

e che non torna.

Siamo nel grande pianto.

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“…compianto per gli scomparsi del Covid

nei ritratti di figure che tra le altre

hanno colto con più forza la mia attenzione e la mia risonanza…

il momento del lutto, e del lutto partecipato,

è essenziale nel riconoscimento di un’identità sociale e collettiva

in questo tempo così provata.

Necessaria anche per una corretta, compresa interrogazione di se stessa…”

GIAN PIERO STEFANONI

https://artcurel.blogspot.com/2020/05/il-dolore-della-casa-compianti-dal.html


[1] Vitor Godinho, quattordici anni, Portogallo, campioncino del futsal.

[2] Al 21/04/2020 sono otto i Carabinieri scomparsi per Coronavirus. Questo testo naturalmente vuole ricordare, però, tutti gli operatori delle Forze dell’ordine mancati per la pandemia.

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