“L’altra ELENA” di Simona Martorana, recensione di Vittorio Sartarelli

Recensione di Vittorio Sartarelli

 

download.jpgL’altra ELENA (Edizioni Elison Publishing, 2017) di Simona Martorana è un interessante libro che porta a due importanti considerazioni letterarie e culturali, la prima che è evidentissima, certifica, quasi, che l’autore del libro è una donna, per la delicatezza dell’esposizione letteraria inconfondibile all’occhio attento del critico esperto. La seconda, trattandosi di una tragedia storica, epica e mitologica, esercita una sicura attrazione verso i cultori di un’educazione umanistica e classica. Questa branca del sapere nella quale sono cresciuto, educato e istruito e della quale sono orgoglioso, esercita la propria influenza per una vita sociale sicuramente colta e orientata verso principi morali e umani molto al di sopra del comune sentire, che indirizzano la persona che li riceve nel senso di una vita sociale e umana anzitutto  con l’onestà, la dirittura morale e il buon senso, e una propensione naturale nei confronti di sentimenti come la magnanimità, la lealtà, la generosità  e il rispetto del prossimo che poi rappresenta l’intera umanità. Lasciando adesso queste ovvie ma necessarie considerazione che poi tanto ovvie non sono, mi accingo con piacere a recensire questo magnifico lavoro della Professoressa Martorana.

È innegabile che tutta la storia narrata nel libro oltre a interessarmi dal punto di vista letterario mi ha evocato ricordi piacevoli e, purtroppo, oggi lontani nel tempo, di quand’ero un ragazzetto alle prime armi con lo studio e la cultura, frequentando il ginnasio e poi il Liceo classico “Ximenes” della mia città. Quanti ricordi, leggendo e studiando l’Iliade, ero diventato un fan di Ettore, il glorioso eroe troiano che purtroppo veniva ucciso in duello dall’altro eroe greco Achille che però io non stimavo perché la sua falsa vittoria era stata agevolata dal fatto che Achille fosse invulnerabile. Egli, figlio di Peleo e della Ninfa nereide Teti, appena nato era stato immerso dalla madre nel fiume Stige, tenendolo per un tallone per procuragli l’invulnerabilità, però il suo corpo era invulnerabile ad eccezione del tallone tenuto dalla madre e quindi non immerso per intero nel fiume terapeutico. La cosa avrà un tragico seguito nell’epilogo della guerra di Troia.

Al Liceo poi ho studiato l’Eneide e mi sono sentito quasi legato, sentimentalmente, alla gente di Ilio, perché ho gradito che Enea nel suo soggiorno sul mio territorio dove, proprio alle pendici del Monte Erice, abbia seppellito il padre Anchise, prima di ripartire per il Lazio, dove ha creato i presupposti per la futura fondazione di Roma. Alcuni suoi compagni, però, sono rimasti a Trapani continuando in loco la loro vita.

Il titolo del libro pone un interrogativo retorico alludendo ad una seconda Elena e trattandosi di una Elena famosa non si può che alludere a Elena, moglie del re greco Menelao, la quale rapita dal troiano Paride sarà la causa scatenante della Guerra di Troia, protrattasi per 10 anni. Ma chi è questa Enone di cui parla il racconto?

Si tratta di una ninfa fluviale che viveva sulle pendici del monte Ida, nei pressi di Troia. Qui comincia la vicenda raccontata, con molta immaginazione e tanta cultura e professionalità dell’autrice del libro e l’inizio è piuttosto traumatico perché descrive proprio la fine di Enone. Chi comincia la lettura non fa quasi caso a questo inizio funesto, ma trattandosi del decimo anno della guerra di Troia e quindi prossimo alla sua conclusione, appare normale quello che sembra un suicidio disperato per la perdita di un grande amore è, in effetti la conclusione di tutto il disgraziato contesto di una guerra, annunciata da profeti e premonitori greci di quel tempo, anche molti decenni prima, che avrebbe coinvolto e distrutto un intero esercito ed una intera città compresi gli abitanti dopo 10 anni di guerra. Questo avvenne grazie ad un inganno ideato da Ulisse, un combattente greco, che costruì e fece entrare entro la città di Troia un enorme cavallo di legno entro le viscere del quale erano celati diversi soldati greci che di notte, uscirono dal ventre del cavallo ed appiccando il fuoco alla città ed aprendo le sue porte, consentirono l’ingresso dell’esercito greco nella città che fu distrutta e la maggior parte dei suoi abitanti uccisi.

Il personaggio principale del racconto è Paride la cui figura è un compromesso tra un aitante e abile giovane troiano ed uno spregevole essere violatore di ogni legge dell’onore e della fiducia che viene tradita. E’, alla fine, una figura che, dalla sua nascita, è preparato a compiere degli atti che oltre a danneggiare la sua città, i suoi stessi progenitori e i suoi concittadini, tradirà anche Enone che l’aveva trovato abbandonato in un bosco, lo aveva cresciuto ed alla fine se ne era innamorata. Paride prima di concludere la sua disgraziata esistenza, in un episodio della guerra, ucciderà Achille, colpendolo con una freccia proprio al tallone scoperto dalla protezione di invulnerabilità, ma sarà a sua volta colpito dai dardi di Filottete un combattente greco, zoppo. Egli ferito, invoca la presenza di Enone sperando che possa guarirlo dalle ferite ma Enone giunge troppo tardi e Paride muore. Il resto è la conclusione ripetitiva della scena che ha iniziato il romanzo. Enone, dopo aver scritto una lettera di addio, non resiste al dolore e si getta da una finestra sulle fiamme che sprigiona la pira sulla quale giacciono le spoglie di Paride.  Ma, tuttavia, le sue ceneri risorgono nel corpo di una Fenice che vola alla volta del monte Ida dove c’è suo figlio, Corito, che in volo vuole rivedere per l’ultima volta. La tragedia è finita e la nostra scrittrice ha mostrato, con una prosa accattivante, morbida e leggera, oltre che una fervida immaginazione, serie capacità di regia rappresentativa, supportate oltre che dalla sua diamantina cultura umanistica da una lunga esperienza professionale di educatrice e di insegnante. Complimenti vivissimi.

VITTORIO SARTARELLI

 

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Vindiciae (sentenza), un racconto di Gianluca Paolisso

VINDICIAE ( sentenza )

 “Aveva sessantaquattro anni … ” – Plutarco, vita di Cicerone

 di GIANLUCA PAOLISSO

” Terenzia … cos’è Roma?
– è un’idea. Un piccolo passo verso il cielo.

Dalla terrazza della sua villa, Cicerone osservava il mare, distante pochi passi: una tavola d’azzurro lacerata dai raggi di un sole fugace, che a stento riusciva a scardinare l’aspro dominio delle nuvole. Una leggera brezza accarezzava gli alti pini che, come lance, sembravano bucare il cielo al pari della carne di un barbaro. Sorridendo, Cicerone pensò che il brusio delle piccole onde infrante sulla spiaggia antistante era molto simile alle acclamazioni del pubblico nel Foro: brevi ma intense, violente, carnali come l’amore di una donna. I pensieri si confondevano tra le mille voci del popolo, assetato di gloria e giustizia: solo il momentaneo ritorno del silenzio trasformava la confusione in consapevolezza:” Sono solo un attore … un attore che ha sempre interpretato alla perfezione le parti assegnategli dallo stato, niente di più”.
Cicerone si guardò intorno, sospirando: amava quasi alla follia la natura incontaminata di quelle terre, così lontane dai pericoli di Roma, una città che oramai non riconosceva più. La Repubblica moriva pian piano sotto il giogo delle liste di proscrizione, in cui figurava anche lui, l’antico pater patriae che aveva salvato la città da un uomo come Catilina, dèmone immondo che adesso qualcuno addirittura rimpiangeva. Il ricordo di quelle imprese sbiadiva come la giovinezza, trascinate al cospetto di Plutone dall’eterno incedere del tempo.
Un gracchiare improvviso riscosse Cicerone dai suoi pensieri: decine di corvi si erano appollaiati al suo fianco, aprendo le ali e beccando la sua toga senatoriale come indispettiti. Qualsiasi aruspice avrebbe detto che si trattava di un cattivo presagio, un presagio di morte: nonostante fosse poco superstizioso, in quel momento pensò che gli Dèi volessero ricordargli la sua fine imminente:” Non si può sfuggire al destino, lo so”. In un impeto d’ira, scacciò quegli uccelli portatori di morte con un grido che lacerò l’aria come una lama affilata, poi rientrò in casa, assaporando un intenso profumo di viole. Si distese sul letto, avvertendo improvvisamente il peso della stanchezza: aveva passato le ultime sette notti senza chiudere occhio, organizzando con i servi più fedeli la fuga verso le sue tenute formiane; il viaggio si era rivelato più difficile del previsto, a causa dei capricci più o meno intensi del mare, che avevano messo il suo stomaco in subbuglio. Adesso poteva concedersi qualche attimo di riposo.
“La politica è sempre stata la mia maschera migliore, quella che tutti volevano ammirare nei suoi cambiamenti espressivi, tra le ombre inconsistenti del Campo di Marte … oramai i protagonisti di quel tempo sono scomparsi: Ortensio, Catulo, Hybrida, Sacerdote, sono cenere mescolata ad altra cenere. I lastricati marmorei del Foro non sono più la mia casa. Il Cicerone che tutti hanno conosciuto non esiste più: rimane solo un uomo che ricorda con nostalgia la propria famiglia e i propri amici, che piange ancora una figlia, morta nel dare la vita. Tullia, anima mia, presto torneremo a sfiorarci dolcemente e, chissà, forse abbraccerai le mie ginocchia come spinta da un istinto primitivo, ricordando le tiepide mattine in cui giocavi spensierata tra le braccia di tua madre. Parleremo come allora di tutte le cose che osservavi con il tipico stupore infantile, e rideremo del tempo immobile che avvolgerà le nostre anime. Rideremo,anima mia, non è vero? Rideremo …?”.
– Padrone! – Cicerone scattò in piedi come un giovincello animato dal desiderio: Filologo, uno dei suoi servi, ansimava davanti a lui, la fronte madida di sudore.
– Cosa …
– Padrone, stanno arrivando! – Cicerone si passò una mano sulla fronte, ancora perso nelle ombre del passato. Ad un tratto, la luce di un lampo squarciò lo spesso grigiore delle nuvole. Era tornato alla realtà.
– La lettiga è pronta?
– Sì, padrone.
– La nave?
– Pronta a salpare. – Seguito da Filologo, Cicerone attraversò la villa immersa nel silenzio fino ad un’uscita posteriore dove, come previsto, l’attendeva la lettiga e quattro servi atti al trasporto. Cicerone vi salì senza esitazioni: i capelli arruffati e il pallore del viso lo rendevano simile ad un’anima dell’Oltre Tomba. Solo la toga evidenziava il suo rango sociale, ormai privo della minima importanza.
– Padrone …
– Nessun addio dovrebbe essere così precipitoso – mormorò Cicerone, scuro in volto.
– I disegni degli Dèi sono imperscrutabili.
– è così … Filologo, ti ricordi quando ti dissi di non piangere?
– Avete ragione … – disse lo schiavo, asciugandosi le gote umide con l’avambraccio – “le lacrime sono il sintomo più evidente della debolezza umana”.
– Mi sbagliavo. Le lacrime, ancor più dei sentimenti, rendono l’uomo superiore alle bestie. Piangi, Filologo, piangi … almeno ricorderai sempre di essere un uomo.

I viali ombrosi si intersecavano tra loro a creare un labirinto di piccoli boschi: i voli e i cinguettii dei cardellini erano coperti dal rombo spumoso del mare, agitato e nero come una notte senza stelle. Una pioggerellina fitta come miriadi di frecce si abbatteva sulla terra già umida, desiderosa di vita. Il cielo color rame sprizzava lampi di luce a intermittenza.
L’umidità accentuava ancor di più i dolori corporei di Cicerone, che si dimenava all’interno della lettiga alla ricerca di una posizione accettabile. I servi correvano sotto il peso del legno e del suo corpo, cercando di evitare possibili dossi o buche nel terreno. I loro gridi di fatica e dolore si perdevano nella nebbia.
Cicerone notò, in direzione della sua villa, una lunga scia di fumo nero sollevarsi lentamente verso il cielo: i sicari di Antonio, ottenute con il fuoco e con la spada le informazioni riguardo la sua improvvisa scomparsa, si lanciavano ora verso il mare. E i loro bai da guerra sapevano colmare bene le distanze. Cicerone incitò i servi ad andare più veloce: pochi passi lo separavano dal mare … e dalla salvezza.
Improvvisamente un grido squarciò l’aria: il grido di Erennio. Il rumore degli zoccoli si avvicinava sempre più, come un terremoto lento e devastante. Cicerone udì un sibilo, poi una freccia si conficcò nel legno della lettiga, a pochi centimetri dal suo braccio. Dopo un attimo di smarrimento, i suoi occhi tornarono quelli di un tempo: profondi, imperscrutabili, letali. Improvvisamente il suo corpo riprese il vigore tipico delle migliori giornate forensi; i dolori erano svaniti come neve al sole. Rinasceva a pochi istanti dalla fine.
“Che diavolo sto facendo? Ho dimenticato veramente chi sono? No … sono Cicerone, il primo avvocato di Roma, il più grande oratore che la storia abbia mai conosciuto! Il potere è assetato di sangue: ora vuole il mio, a qualunque costo, ed io non posso impedirlo. è inutile tentare ancora di fuggire a ciò che è stato già scritto … la spiaggia è a pochi passi, ma non sentirà mai il peso del mio corpo; la nave già pronta non salperà mai. Riposerò qui, su questa terra, sotto questo cielo. Basta, basta fuggire!”. – Sporgendosi dalla lettiga, fu investito da vento gelido e pioggia. Non si coprì il volto: in quel momento era insensibile a tutto ciò che lo circondava.
– Fermatevi! – intimò ad uno dei suoi servi, ridotto ad una maschera di sudore e polvere.
– Padrone, sono vicini!
– Ho detto fermatevi! – Il servo ripetè l’ordine agli altri tre, che lentamente deposero la lettiga a terra. Cicerone rimase lì, immobile come una statua.

Erennio, accompagnato da altri dieci uomini armati, si stupì nel vedere la lettiga di Cicerone ferma a pochi passi dalla spiaggia. La nave che avrebbe dovuto ospitare l’oratore nella sua fuga si piegava impotente al volere delle onde.
“Meglio così – pensò Erennio, asciugandosi il naso con l’avambraccio – è più facile uccidere con il consenso della vittima”. Smontò da cavallo, accompagnato dai suoi uomini, poi si diresse verso la lettiga, dove quattro schiavi pregavano in lacrime di non essere uccisi. Non dovevano rimanere testimoni, questi erano gli ordini. La pietà era una concessione proibita. Diede il segnale. In pochi minuti la terra si tinse di rosso. Cicerone osservò la scena in silenzio, il mento appoggiato sulla mano sinistra, nella tipica posa ironica che suscitava tanta ilarità durante le arringhe lente e dispersive di Ortensio.
Erennio gli si avvicinò, salutandolo con un cenno del capo. Cicerone rispose allo stesso modo, sorridendo, apparentemente sereno.
– è la giustizia di Roma, Cicerone … – esordì Erennio, mostrando la scure che teneva fra le mani.
– No: è la giustizia di Antonio.
– Preparati a raggiungere i tuoi avi.
– Morirò per la terra che io stesso ho salvato.

Poco prima di morire, Cicerone ripensò alle ore di festa che seguirono la vittoria contro Verre: durante il pranzo, tra gridi e ovazioni di gioia, aveva chiesto alla moglie:”Terenzia, cos’è Roma?
– è un’idea – aveva risposto lei, accarezzandogli i capelli – un piccolo passo verso il cielo”.
Contemplò per attimi che gli parvero eterni il suo volto riflesso nel metallo lucido della scure, che si sollevò lentamente nel vento di tramontana, pronta a colpire.
Cicerone mormorò, sorridendo:”Vendetta”. Il buio … e poi più nulla.

COMMENTO

a cura di Lorenzo Spurio

Il giovanissimo Gianluca Paolisso, grande appassionato di letteratura e cultura classica, che ha da poco pubblicato il romanzo Saffo, analizzando la società dell’Antica Grecia direttamente dagli occhi della celebre poetessa di Lesbo, ci propone qui un racconto dagli scenari simili. Non siamo nell’Antica Grecia ma nell’Antica Roma e assistiamo alla fuga di Cicerone da Roma incalzato dalle truppe di Marco Antonio. E’ una fuga difficoltosa della quale neppure il famoso oratore romano ne intravede la fine e, anzi, preferisce farsi lasciare con la lettiga sulla sabbia, a poca distanza dal mare da dove sarebbe salpato con una nave che lo aspettava. Ma quello che affascina di più dell’intero racconto è, a mio parere, la suggestiva definizione della Città Eterna:  «cos’è Roma?» chiede Cicerone alla moglie e questa gli risponde: «E’ un’idea. Un piccolo passo verso il cielo». Immagine molto bella che apre e chiude l’intero racconto, descrivendo una struttura perfettamente circolare e compiuta e che ha la pretesa di tener coesa l’intera storia narrata attraverso l’immagine-idea dell’allora centro del mondo, Roma.

Con questo racconto Paolisso ha vinto il Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa “Anna Malfaiera” – sezione narrativa, promosso dalla città di Fabriano (An).

LORENZO SPURIO

10-09-2011