La poetessa e scrittrice toscana Franca Canapini ha recentemente pubblicato, per i tipi di Helicon di Arezzo, un importante lavoro letterario tra poesia, traduzione e saggio. Si tratta della rilettura commentata, oltre che della traduzione, del celebre testo del poeta Federico García Lorca (1898-1936) letto nel settembre 1931 all’atto dell’inaugurazione della Biblioteca Pubblica di Fuente Vaqueros, suo luogo natale, nei dintorni di Granada.
L’opera, che ho avuto il piacere e l’onore di poter leggere in anteprima e in progress durante il suo sviluppo e che mi ha dato la possibilità di stilare la prefazione, è uno studio attento e meticoloso, ricco di riflessioni della Nostra sul mondo dei libri, dell’importanza della cultura e della comunicazione a partire dalla alocución del Granadino che, se non è tra i testi maggiormente noti e citati del suo ampio repertorio, merita senz’altro una particolare attenzione.
La Canapini ha individuato nelle varie parti che costituiscono questo brano le parole chiave, i punti cruciali di svolta del pensiero lorchiano e, mediante una fertile attività esegetica e interpretativa, ne ha costruito un libro in cui non solo legge l’autore spagnolo – nel contesto della guerra civile che l’avrebbe visto, indirettamente, coinvolto e una delle più celebri vittime – ma lo rilegge in relazione al contesto odierno, alla società globalizzata nella quale viviamo. La nuova contestualizzazione dell’opera nello scenario odierno è funzionale a far emergere in maniera ancor più decisiva i temi fondanti del discorso lorchiano. Puntuali note a piè di pagina forniscono ulteriori approfondimenti su date, momenti decisivi o persone – tra amici e intellettuali – con le quali Lorca fu in contatto ma anche – in un’ottica più ampia e generale – a tutta la storia della scrittura (che è storia della civiltà) passando attraverso le fasi della trasmissione del libro nelle sue varie forme, all’editoria come scienza e soffermandosi anche sul valore del libro come oggetto prezioso, per contenuti ma anche per fattura e tradizione.
La scomposizione del testo di Lorca in vari capitoli facilita questo lavoro di studio e lettura di Franca Canapini dei tanti elementi degni di essere presi in esame, approfonditi, sviscerati[1]. La successione delle varie parti, con la traduzione in italiano (importante il supporto e la supervisione dell’argentina Cecilia Casau in questo) e il relativo commento, sono di particolare utilità anche per chi non ha padronanza della lingua spagnola e potrà, in tal modo, usufruire di un mezzo molto efficace, preciso, attento a ogni approccio. Non di minore importanza è la scelta dell’apparato fotografico che correda in maniera proporzionata e visivamente adeguata la componente testuale. Tra le immagini uno scatto del 1914 di un giovanissimo Lorca in compagnia dell’amata sorella Isabel (1909-2002) mentre le insegna a leggere ma anche uno scatto del 1976, nel quarantennale dell’uccisione del poeta, per il primo evento-omaggio Cinco a las cinco (che da allora annualmente si tiene in sua memoria) a Fuente Vaqueros. Nella prima fila, del foltissimo pubblico presente all’aperto (6.000 persone, riportano le cronache) di questo spettacolo corale (uno dei primi eventi pubblici in cui fu possibile partecipare ed esprimersi con la riappropriata libertà dopo il buio della dittatura), si distingue l’allora sessantasettenne sorella Isabel al centro e poco lontano, alla sua destra, probabilmente Antonina Rodrigo, l’unica donna della “Commissione dei 33” che organizzò l’evento celebrativo.
Particolarmente rilevanti risultano, tra i tanti, i capitoli 6 e 7 dell’opera che contengono lo studio di quelle parti di testo di Lorca forse più note e da Canapini contraddistinti con i titoli che richiamano le sue stesse parole “Non solo di pane vive l’uomo” e “Libri! Libri! Orizzonti, scale per salire sulla vetta dello spirito e del cuore”.
Lo scritto di Lorca, mediante la circumnavigazione delle vicende dell’oggetto-libro, è una storia condensata della cultura dell’uomo, delle vicende proto-editoriali che hanno contraddistinto l’evoluzione delle tecniche di stampa, nella convinzione che il libro sia un potente fattore di conoscenza, cultura e di socialità, ben al di là della mera erudizione. Ed ecco perché il tono impiegato dallo spagnolo è quello di un oratore lieto e soddisfatto: con la fondazione della Biblioteca non si prende parte a una cerimonia istituzionale ma a una festa collettiva, un momento di felice condivisione tra chi (come lui che tanto lesse e altrettanto scrisse) ama i libri e ne difende l’importanza. Riconosce e consacra la libertà del singolo e delle masse. La tutela e la promozione del libro, in qualsiasi modo si realizzino, attengono a un fenomeno di spiccata rilevanza poiché garantisce “unica salvezza dei popoli”. Libertà d’espressione e riconoscimento di diritti che di lì a poco sarebbero stati duramente messi al bando dall’oppressione fascista nel duro conflitto civile (1936-1939) e poi del dominio dittatoriale franchista (1936-1975) che, come ogni dittatura, introdusse una dura attività di censura preventiva e organizzò indici di libri proibiti.
Il capitolo che chiude l’opera, il ventottesimo, contiene l’estremo omaggio di Lorca in difesa di quel mondo di libertà e di conoscenza per il quale sempre si impegnò nel corso della sua breve vita e ha la forma anche di un riconoscimento verso coloro che, a vario titolo, hanno difeso nel corso del tempo le medesime libertà. Qui troviamo, in un climax lirico che non può rimanere inavvertito, il senso compiuto dell’intera alocución che è e permane, in fondo, il suo testamento universale:
“E un saluto a tutti. Ai vivi e ai morti, giacché vivi e morti compongono un paese. Ai vivi per augurargli felicità e ai morti per ricordarli con affetto perché rappresentano la tradizione del popolo e perché è grazie a loro se siamo tutti qui. Che questa biblioteca doni pace, inquietudine spirituale e allegria a questo paese e non dimenticate questo bellissimo detto che scrisse un critico francese del secolo XIX: Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei”.
Lorenzo Spurio
Matera, 05/04/2025
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L’autrice
Franca Canapini è nata a Chianciano Terme (SI), risiede ad Arezzo dal 1975. Laureata in Materie Letterarie presso l’Università degli Studi di Perugia, è stata docente di Lettere nella Scuola Secondaria di primo grado. Ha pubblicato nove raccolte di poesia: Stagioni sovrapposte e confuse (2010), Tra i solstizi (2011), Il senso del sempre (2013), Viaggio nella poesia (2014), Gente in cammino (2014), La bellezza tragica del mondo (2016), Semi nudi (2021), Haiku per un anno (2022), Misteri d’amore – Poema ispirato al Simposio di Platone (20249. Al suo attivo ha anche un romanzo (Un giorno, la vita, 2017) una raccolta di favole (Favolette per grandi e per piccini, 2017), un romanzo breve (Melina – Una storia surreale, 2019) e un racconto di memorie (Dal fondo – I miei primi dieci anni, 2019). Ha ricevuto premi e riconoscimenti per la sua opera poetica e narrativa. Per la saggistica ha pubblicato: Una luce perenne contro l’oscurità. Alocución al pueblo de Fuente Vaqueros di Federico García Lorca (2025). È stata Consigliere e Vice Presidente dell’Associazione degli Scrittori Aretini “Tagete” dal 2013 al 2023, nonché membro di giuria in alcuni premi letterari.
[1] L’autrice ha dedicato anche un interessante articolo a questo libro di Lorca focalizzando l’attenzione sull’importanza della lettura come “buona pratica”: Franca Canapini, “Dalla Alocución al pueblo di Fuente Vaqueros di Federico Garcia Lorca del 1931 alla necessità odierna di creare una consuetudine con il libro, «La casa del vento», 16/03/2025, Link: https://tinyurl.com/ypz3a8jz (Sito consultato il 05/04/2025).
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La poetessa e scrittrice marchigiana Luciana Salvucci, già dirigente scolastica, ha di recente dato alle stampe un libro interamente dedicato a padre Matteo Ricci (Macerata, 1552 – Pechino, 1610), suo celebre conterraneo elevato agli onori di “Venerabile” nel dicembre 2022 da Papa Francesco. In Cina, in particolare a Pechino dove arrivò per la seconda volta nel 1610 e rimase fino alla morte, fu portatore della cultura umanistica e scientifica dell’Europa.“Lì Mǎdòu”, come chiamavano Matteo Ricci in Cina (il suo nome nella traduzione in cinese mandarino), “si presenta in qualità di europeo”, scrive Fang Hongjing in Qianyi lu 千一录 (Uno su mille), edizione stampata durante il regno di Wanli. Ricci rileva delle somiglianze tra la cultura confuciana e le filosofie greca e latina; inoltre, il tema dell’amicizia è presente anche nel confucianesimo, rendendo possibile un dialogo tra la sapienza cinese e quella europea, attraverso argomentazioni razionali.
Il ricco e approfondito volume, che è anche un ricco compendio di interventi di altri studiosi, s’intitola La forza del dialogo. Matteo Ricci, ponte tra Europa e Cina ed è stato edito dalle Edizioni Cantagalli con il contributo della Direzione Generale Educazione, ricerca e istituti culturali (DG-ERIC) del Ministero della Cultura (MIC). Dario Grandoni, Presidente della Fondazione Internazionale Padre Matteo Ricci, con il quale si è collaborato per la pubblicazione, è autore della Postfazione.
Ha nella prima parte i saggi di Frediano Salvucci, Francesco Solitario, Antonio Spadaro e Antonio De Caro, Andrea Fazzini.
La Salvucci, che si è in precedenza occupata di saggistica, narrativa, poesia e teatro, ha approfondito tematiche legate alla pedagogia della formazione, alla comunicazione di massa e al rapporto tra scienza e letteratura, sia in ambito prettamente saggistico che artistico-culturale.
Nell’introduzione di questo nuovo lavoro, a firma dell’Autrice, vengono chiariti i motivi di tale approfondimento che sono da ricercare nella versatile figura di padre Matto Ricci che, oltre a evangelizzatore cattolico nel mondo orientale e celebre sinologo, fu appassionato costruttore di ponti umani, di legami tra culture, come pure tra scienze spesso pensate distanti e impermeabili tra loro.
L’età nella quale padre Matteo Ricci si colloca è il Rinascimento, in quell’età fertile di scoperte e nuove conoscenze, dettata da due fatti d’indiscutibile valore: la nascita della stampa (la prima stamperia, quella di Gutenberg, sorse a Mainz, ovvero a Magonza, nel 1448) che, con l’età degli incunaboli (1450-1500), segnò la nascita del mondo proto-editoriale e diede avvio a un’ampia diffusione dei saperi e la scoperta dell’America (1492) che diede impulso alla stagione delle grandi navigazioni e della scoperta dei Nuovi Mondi.
Padre Matteo Ricci, gesuita, visse gli influssi di entrambe le esperienze: in campo editoriale la sua opera di catechesi cattolica tradotta in cinese fu una delle prime prove decisive della stampa di testi religiosi col motivo evangelizzatore in contesti ben distanti dalla Vecchia Europa. D’altro canto, fu immerso anche nelle nuove rotte verso i territori dell’Oriente. Egli stesso fu cartografo e, una volta giunto e impiantatosi in Cina (esattamente a Macao) nel 1582 non abbandonò più il Paese sino alla sua morte, avvenuta nel 1610. Venne sepolto a Pechino.
Fu esperto di scienze ma anche di lettere, pervaso da un atteggiamento conciliante e arricchente tra dottrine ed esperienze diverse. Come ricorda la quarta di copertina, il religioso favorì “la relazione tra le due civiltà più importanti della storia del tempo: l’Europa cristiana, impregnata di Umanesimo e di Rinascimento, e la Cina, sotto la dinastia dei Ming”.
Le pagine del volume, con la preziosa prefazione di Luigi Lacchè, già Presidente dell’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Macerata, consentono di esaminare con attenzione la figura di padre Matteo Ricci e le sue spiccate doti umane, filantropiche e sociali, la sua figura di lucido conciliatore le cui tesi sono state fatte oggetto di dialoghi, conversazioni tra più parti, confronti. L’Autrice ha, infatti, rivelato: “Quello del dialogo è un genere letterario molto conosciuto sia nella tradizione cinese che in quella occidentale, per questo viene spesso utilizzato dai missionari gesuiti”.
Nel maggio del 2023 nella facciata della cattedrale della città natale di padre Matteo Ricci – Macerata – sono state inaugurate due imponenti statue, dono delle comunità cattoliche dei cinesi, realizzate nella provincia dell’Hebei. Esse raffigurano rispettivamente lo stesso Ricci e Paolo Xu Guangqi (1562-1633) noto letterato cinese attivo alla corte dei Ming, amico di Ricci e ritenuto suo discepolo e primo iniziatore della comunità cattolica di Shangai. Il Segretario di Stato Vaticano Cardinale Parolin, che ha presieduto la celebrazione eucaristica, ha parlato in quel contesto di un “incontro nell’amicizia che genera amicizia”, un simbolo positivo da prendere come ispirazione.
LORENZO SPURIO
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Con la silloge Le Istantanee di un Atmonauta (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2024) l’autore, Domenico Guida, si presenta al lettore prendendolo teoricamente per mano conducendolo, mediante un percorso tematico, alla scoperta di un ideale viaggio sensoriale tra parole, profumi, musica e immagini elaborate, su un pentagramma di diversi versi sciolti e liberi, mostrandosi abile nell’arte della “Retorica” con un linguaggio evocativo-figurativo, servendosi di molteplici figure: di suono, di significato, di costruzione atte a creare svariati effetti per il tramite di versi modulati in un concetto d’insieme: l’io e te, il “Noi”.
Il poeta, musicista, scrittore e cantautore, definisce la sua opera composta, con la frase, nel sottotitolo di copertina, riportata a caratteri leggeri, chiari, in corsivo Raccolta di pause e poesie aprendo la sua anima anche al dialogo con se stesso, nella profondità del suo “io”, nello spazio-tempo del “qui e ora”, atto a fermare il momento, l’istante fatto di respiro e tempo: un’istantanea che lascia traccia, impronta, forma nella voragine più profonda del suo essere, con il suo linguaggio dell’amabilità che, nell’espressione multiforme, avvalendosi dei quattro elementi e i cinque sensi fusi tra loro, si fa viatico di vibrazioni di quell’istante cristallizzato ed ecco allora che il suo mezzo espressivo apre a un linguaggio universale e “la verità del poeta” traspare nel dare colore ai toni di grigio.
Con Le Istantanee di un Atmonauta Guida si offre al lettore con la sua silloge svelandoci il suo “Alter-ego”: Atmo, un personaggio di sua creazione (materializzatosi in una graphic novel e facente parte, insieme al libro e al concept-album, del suo ultimo progetto “Retorika”). Atmo, capace di “lasciarsi andare e fluttuare veloce ed alto, decide di navigare l’aria ed il tempo… fuggevole” (scrive il poeta), ma anche per intraprendere un volo “dagli occhi al cuore” occorre avere un punto di partenza e questo il Guida lo sa bene perché inizia il suo viaggio dai riferimenti certi con la lirica “A mio Padre”, una dedica al suo “eroe/impavido, guerriero/; ed ecco, il prosieguo, /tu ed io in successione come un verso/…Un cuore grande come il tuo/… trabocca da ogni dove…”.
Nell’emozione che il lettore raccoglie, ogni parola, ogni riferimento creano colore, evocano immagini, Lidia Tavani, che ne ha curata l’introduzione, tra gli svariati temi affrontati da Guida nel suo tomo, sceglie quello dell’istante e dell’istinto senza pero tralasciare l’intensità del sentimento ed “il ritmo dei fonemi” che accompagna tutta l’opera.
FIORELLA CAPPELLI
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Il poeta e aforista Emanuele Marcuccio ritorna con una seconda raccolta aforistica (suo quinto libro): Lo stupore e la meraviglia. Aforismi e pensieri, per i tipi di Youcanprint (Lecce) e la cura editoriale della poetessa e promotrice culturale Gioia Lomasti; sua è l’immagine di copertina, realizzata attraverso una rielaborazione grafica di uno scatto originale dello stesso Autore dell’agosto 2015 sulle Madonie.
Aprendo il libro da pagina 11 possiamo leggere una prefazione del critico letterario e poeta marchigiano Lorenzo Spurio, a cui segue una breve nota di edizione della stessa Lomasti, si prosegue nei suoi ottantotto numeri tra aforismi e pensieri, il cui tema principale rimane la poesia, non mancano pensieri e aforismi dedicati al progetto di poesia “Dipthycha”, ideato e curato dallo stesso Marcuccio; chiude l’opera un saggio di postfazione “Con stupore e meraviglia: un approccio alla scrittura aforistica di Emanuele Marcuccio” della compianta poetessa, critico letterario e saggista Lucia Bonanni (1951-2024), alla cui memoria l’Autore dedica lo stesso libro. Degno di nota l’inserimento in esergo al libro di una poesia inedita della stessa Bonanni, in cui è palpabile il panismo, la meraviglia e lo stupore innanzi allo spettacolo della natura.
In appendice un saggio di presentazione del progetto di poesia “Dipthycha” redatto dall’Autore, un progetto che ad oggi conta quattro volumi antologici editi (2013-2022) e la partecipazione di quarantadue voci poetiche contemporanee.
Il libro è presente sui maggiori store online e ordinabile in libreria attraverso il web-store “Bookdealer.it”.
«Questa silloge di Aforismi e pensieri – come ricorda il sottotitolo – raccoglie frammenti creativi che l’Autore ha vergato su carta in sei anni di tempo, dal 2012 al 2018, e possiamo concepirla come la naturale prosecuzione di una prima stagione di aforismi ricondotti poi alla precedente pubblicazione Pensieri Minimi e Massime del 2012. La nuova opera è anticipata da una suggestiva quanto misteriosa chiosa lorchiana nella quale viene chiamato in causa il concetto di “meraviglia” che Marcuccio nel corso dell’opera fa suo. La meraviglia proviene da un atto partecipativo dell’uomo che, mediante l’osservazione – non solo visiva ma anche interiore ed emozionale, dell’auscultazione – con passione si lega all’oggetto (e al mistero) della sua attenzione». (Dalla Prefazione di Lorenzo Spurio)
«[O]gni aforisma è come una perla di saggezza in grado di dare una profonda impronta al lettore. Questi testi sono intrisi di conoscenza dell’animo umano e sono in grado di toccare in pochi istanti di lettura pensieri complessi e universali». (Gioia Lomasti)
«La realtà storica dell’intero corpus delle opere marcucciane rivela una gamma di contenuti assai ampia, organica e finemente strutturata, sempre alimentata e curata dal genuino senso d’amore per le Lettere e dove ciascun testo prodotto “rimane sempre una cara creatura” (dall’aforisma N. 62), quasi come un individuo che abbisogna di essere lasciato libero di essere letto e in cui ciascun lettore può riconoscersi e sentirlo come proprio, se pure per onestà intellettuale “[u]n autore non è mai soddisfatto di ciò che ha scritto” (dal pensiero N. 66) perché, se lo fosse, smetterebbe di scrivere». (Dalla Postfazione di Lucia Bonanni)
Emanuele Marcuccio(Palermo, 1974), poeta, aforista, curatore editoriale. Per la poesia ha pubblicato Per una strada (2009), Anima di Poesia (2014), Visione (2016); per l’aforistica le raccolte Pensieri Minimi e Massime (2012), Lo stupore e la meraviglia (2024); per il teatro il dramma epico in versi di ambientazione islandese Ingólf Arnarson (2017). Presente in numerose antologie di autori vari, tra cui «L’evoluzione delle forme poetiche. La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio (1990 – 2012)» (2012), è ideatore e curatore del progetto di poesia “Dipthycha” con quattro volumi antologici editi, dove la forma del dittico e trittico poetico è declinata rispettivamente a due e tre voci di autori diversi.
Ciò che rende la Sicilia una dimora letteraria unica e veramente speciale è il racconto ininterrotto e serrato che i suoi scrittori ne hanno fatto con maggiore intensità e con una pronuncia sempre più riconoscibile, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento per arrivare ai giorni nostri. Una realtà di frontiera, a cavallo di culture diverse, che è un crogiuolo di esperienze esistenziali e storiche, è stata proposta, per forza di scrittura, come metafora del mondo attraverso una varietà di voci e di sguardi acuminati e dolenti costituendo una tradizione forte e vitale. (Domenica Perrone- “In un mare d’inchiostro- ed. Bonanno).
In questa dimora letteraria si colloca l’opera di Simona Lo Iacono, voce intensa e originale della narrativa contemporanea non soltanto siciliana. Da Le Streghe di Lenzavacche del 2016 a Il morsodel2017, al Mistero di Anna del 2022 fino al recentissimo Virdimura la scrittrice siracusana narra la Sicilia attraverso la storia di donne “contro corrente” dotate di uno sguardo divergente sul mondo, fedeli alle storie et alla fantasia et alla pietate, seguendo la strada tracciata da Corrada Assennato. “Forte come le mura che cingono Catania. Verde come il muschio che affiora dal duro… ti chiamerai Virdimura” con queste parole il medico Urìa dà il nome a sua figlia dopo una lunga ricerca del “segno” propizio alla scelta di un nome non casuale, legato alla sacra liturgia della natura. Insegna alla figlia, come ha promesso alla madre, morta nel partorirla, le cose che “reputava importanti nella vita, stare con le persone che leggono, che amano, che hanno compassione”.Virdimura è nata nella Catania nel XIV sec. da una donna ebrea impurae con coraggiosa determinazione comprende che deve dedicarsi come il padre Urìa a curare i diseredati, creature fraterne, cariche di mistero, consapevole che l’arte medica non cura soltanto il corpo ma anche l’anima con l’ascolto e la compassione. Non c’erano solo le piante a fornire la cura, le insegnava Urìa, ma la musica. Il ritmo. Il bagno in mare. La conversazione con i poeti. L’osservazione delle stelle.
Nel 1376 Virdimura è la prima donna ad ottenere “ licencia praticandi in scientia medicine circa curas phisicas corporum humanorum, maxime pauperum” davanti alla Commissione di giudici presieduta dal Dienchelele. Di questa antica donna medico l’Archivio di Stato di Palermo conserva un documento assai scarno, quello in cui le si conferisce la licencia.
Simona Lo Iacono ricrea con fine sensibilità ed empatia la storia di Virdimura dall’epilogo, dal racconto di sé che la donna fa ai giudici che l’esamineranno nell’arte medica. Virdimura, come Urìa ed il marito Pasquale, vive in armonia con la natura e gli uomini, lontana dalla città talvolta ostile, dove regnano l’avidità ed i pregiudizi. Tutti e tre avvertono lo grido degli ultimi che sale dalla terra, e si mettono al loro servizio.
La Catania di Virdimuraera la più bella delle città. Popolosa. Gloglottante. Colma di ebrei, musulmani, arabi, cristiani. Nessuno parlava una sola lingua, masticavamo un po’ tutti i dialetti…non diversa dalle città d’oggi multietniche. Da quel tempo antico a noi moderni giunge un messaggio, un invito a considerare preziosa la nostra vita, a viverla con consapevolezza attraverso lo studio, l’amore, la compassione, prendendoci cura dell’altro soprattutto se è debole, senza dimenticare “la sacra liturgia della natura”.
La frase di Veronica Roth, in limine, è emblematica e guida il lettore nell’interpretazione attualizzante: “Ma ora ho imparato un’altra cosa. Possiamo guarire, se ci curiamo a vicenda”. Nel romanzo Virdimura senza fratture né conflitti conquista la propria identità e la sua reale parità con gli uomini. Mentre intorno a lei le altre donne sono succube di pregiudizi di uomini autoritari. Il convincimento che l’uomo è un essere confinato che cerca eternamente di sconfinare è la filosofia sottesa alla storia e fa da freno e da guida al comportamento dei personaggi principali. Un alone di favola avvolge la narrazione per la continua allusione a un sapere antico e saggio che lega l’uomo all’uomo e alla natura; per il senso del viaggio che con le diverse esperienze che offre ai personaggi maschili, Urìa, Josef, Pasquale, li forma e ne mette in luce la tempra che oggi possiamo definire eroica; per il luogo separato dalla città dove vive la protagonista sulla riva del mare, presso una saia, e organizza nella sua casa –laboratorio-ospedale-biblioteca, un asilo per chi ne ha bisogno, offrendo in maniera disinteressata le sue cure, frutto di un sapere armonioso e vitale acquisito studiando le piante e le pietre; per la lingua poetica con intarsi dialettali e di italiano antico.
GABRIELLA MAGGIO
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Quando ho conosciuto per la prima volta la poesia di Alfredo Pérez Alencart, ne sono rimasto letteralmente affascinato al punto da viverla come una autentica boccata d’aria: quel viaggio impossibile durante il periodo del lockdown pandemico che i suoi versi invece consentivano di fare con altri strumenti e altri sguardi. Non saprei dire se quel fascino da cui fui catturato dipendesse dal fatto che, avendo trascorso circa un decennio in America Latina, fossi rimasto immediatamente folgorato da quegli elementi che inevitabilmente e fascinosamente affiorano nei suoi versi da quella parte del mondo e tornano in modo costante a declinarsi nelle mille sfumature che a quella cultura rimandano: penso di getto a Presagios e a Luciérnagas così come a Trocha o alla straordinaria Perù o, ancora, più in generale alla raccolta Selva que cabes en el tamaño de mi corazón e alle tante altre liriche e sillogi che ho avuto modo di sfogliare.
Il punto, tuttavia, non è tanto identificare quegli elementi ed isolarli. Non è esercizio utile dal momento che i profumi, i sapori e le sfumature delle albe latine, i giochi di luce, i disegni delle ombre lunghe e lo sguardo ai cieli di quella parte del mondo è facile trovarli un po’ dovunque nella sua poesia. Perfino quando Alfredo prova a disegnare i contorni dell’anima ne vengono fuori suoni e immagini che rimandano a una antica danza rituale – celebrativa, propiziatoria o funebre che sia – delle lande amazzoniche dove anche chi non vi ha mai messo piede riesce ad addentrarsi, guidato da questa sua intima essenza «con un piede su entrambe le rive dell’Atlantico» (Carlos Aganzo); attraverso un ponte di corda: magnifica immagine che José Manuel Suarez utilizza nel suo saggio, presente in apertura del volume. In realtà l’immagine è quella di una «scala» dove, attraverso il verso breve, folgorante e intenso, «come fosse fatto d’aria», il poeta consente che «saliamo e scendiamo, torniamo indietro per recuperarne il senso o ci fermiamo un momento per osservare, per ascoltare. Poggiamo il piede sulla corda e continuiamo», perché «così è una scala di corda: solo filo». Che sia una scala o un ponte, ciò che conta, oltre al fatto che sia solo fatta di corda (e proprio per questo), è esattamente l’avventura di quel percorso da parte di chi lo compie e, soprattutto, il fatto che dall’altra parte del ponte c’è il territorio nel quale il poeta ci invita a sostare e dall’altro capo della scala il vero e proprio orizzonte del panorama dell’anima che Alfredo dipinge con tutte le sfumature dei colori che conosce e possiede, indicando la luce la cui percezione è nulla senza un’ombra che ne testimoni l’essenza: quell’immancabile «profilo adombrato che dà profondità» a tutto il resto.
Un panorama variegato e ricco, come testimoniano i diversi saggi inclusi in questa raccolta, ciascuno dei quali coglie sfumature e nuances come tasselli di un puzzle, come segmenti di un disegno da ricostituire secondo l’ottica e il pensiero del poeta o, com’è giusto che sia quando si ha a che fare con la poesia, secondo la percezione del lettore che finisce per ricostituire un’ottica nuova, talvolta inedita, pur sempre con assoluto diritto di cittadinanza. Perché, si sa, quando il poeta ha scritto, ha anche consegnato ogni parola, ogni significante e ogni significato, all’anima del lettore. Il quale entrerà nel giardino panoramico di Alfredo ma affronterà quel percorso con le sue “scarpe”, la sua bussola e secondo i suoi propri riferimenti cardinali. Ed è proprio questo che rende ecumenica la poesia; è questo che rende il nostro poeta «una voce universale di un uomo ispano-peruviano» (Sandra Beatriz Ludeña).
Così, tra le sfumature dell’arte del Nostro prendono parte tanto i pastelli delicati quanto i colori a tinte forti declinati anche attraverso quella scelta dialogica che trascina il lettore all’interno della realtà e del vissuto del poeta. A giusta ragione Jeanette L. Clariond sottolinea la presenza del “tu” nella poesia di Alfredo: un “tu” al quale imprescindibilmente va legata la figura della sua princesa, come sottolineo nel mio epilogo, ma che si arricchisce anche di slarghi di vedute che trasformano quel “tu” in un veicolo di superamento della realtà stessa fino a farsi perfino il «Tu che sta nell’alto» al quale viene consegnata la didascalia di un umanissimo afflato verso l’alto che supera i confini del credo fideistico e dogmatico e diviene tendenza all’Assoluto, tutta umana, al di là di ogni confine, fosse anche quello spirituale, al di là di ogni religione in quanto tale. È così che «il suo cristianesimo (…) non è neppure esente da un misticismo erotico», tutt’altro! Perché tutto è incluso nel disegno panoramico dell’esperienza di vita del poeta. È una fusione esperienziale che non tralascia alcuna dimensione e che, al contrario, le fonde mirabilmente: non è un caso che il titolo di questa raccolta sia proprio La carne y el espiritu e, una fra tante, si legga l’intera poesia Creación e in particolare la sua chiusa che così recita: «Ti insalivo, / donna, / ti impasto a me», mirabile sintesi in una declinazione erotica con un evidente richiamo all’atto stesso della Genesi biblica.
Così anche Leocádia Regalo che rafforza questa presenza “metareligiosa” (perché tanto al di là della corporeità terrena quanto al di là della solitudine spirituale) sottolineando la presenza di «un “io” e un “tu” che si compenetrano in una assunzione della poesia a conoscenza del mondo e di se stesso». Un «misticismo erotico – come sottolinea Fermin Herrero – la cui fonte potrebbe ben essere identificata nel Cantico dei Cantici, che innerva e tende l’espressione». Così, stagliandosi la parola come oggetto assoluto della poesia, attraverso essa il poeta «invita ad addentrarci nella profondità delle perplessità condivise» attraverso una lettura che necessita di un suo tempo per essere “sbrogliata”, goduta e fatta propria da ciascuno.
Guardare alla realtà dall’alto di un sistema di valori spirituali che non restano fermi nell’iperuranio inutile della contemplazione ma si calano profondamente nella traduzione esperienziale del vissuto, è la cifra ermeneutica di Alencart che, attraverso questa architettura, riesce a conferire ai suoi versi quel valore universale che fa guardare a Asunción Escribano alla «cecità física come símbolo della cecità morale». Allegoria e metafora, certo, che nell’ossimoro letterario che unisce l’immagine del sole e della cecità non si traduce in una contraddizione quanto piuttosto nella «incapacità razionale dell’uomo di captare l’unità e la realtà» che solo all’interno della poesia può trovare l’esatta coniugazione, irrazionale eppure inconfutabile, del vissuto esperienziale che la metafora stessa disvela. «Ebbene, ogni poesia di questo libro merita un riconoscimento che ci riempie di mistica speranza in mezzo alle tragedie quotidiane» (Juan Mares).
In questo continuo andirivieni dell’indagine umana che si consuma in questa poesia, i capisaldi restano evidentemente fermi né si può tacere l’apporto e la continua “religiosa” comunione con i classici («il maggior premio a cui può arrivare qualunque poeta degno di esserlo davvero») della tradizione iberica, ispano-americana, latina e perfino italiana (si veda in proposito lo studio di Yordan Arroyo qui incluso), metro e misura di una evoluzione poetica che porta il verso di Alencart a cercare e trovare la sua sintesi migliore in una contrazione strutturale tutta finalizzata all’esaltazione del contenuto evocato da quella struttura. Juan Suárez Proaño scrive di «una brevità nata della ripulitura della lingua, una lingua tutta sua che in questa silloge finisce per emulare il bagliore» e gli fa eco Victor Coral sottolineando «la sua voce riuscita e personalissima.
La dinamica dei sensi che mette in gioco con parole semplici e profonde è la vera comunicazione». E direi anche comunione. Una evoluzione anche stilistica, dalla descrizione all’evocazione che, attraverso la Parola (si ricordi che è il verbo il protagonista del fiat lux della Genesi), rende compiuto e rotondo l’atto della poiesis nella quale meglio collocare anche la funzione e il compito del lettore («l’intensità della sua parola, (…) si costituisce in un sole salvifico per tanta vita odierna preda dell’oscurità», José LuisOchoa); lettore che ad essa si accosta e che di questo tempo, insieme al poeta, è l’uomo, il protagonista assoluto. Destinatario e quasi compartecipe dell’atto creativo. Un «confronto su due livelli con l’essere in se stesso e per se stesso» (José Carlos de Nóbrega). El sol de los ciegos, rende visibile il percorso strutturale che, attraverso un finissimo labor limæ, conquista “artigianalmente” un senso della misura interamente riprodotto e tradotto nelle architetture lessicali e liriche del verso («Un dettato misurato che rende cristallino in modo intenso, radioso, il legame della memoria, l’immaginazione e cerca di recuperare ciò che è stato cancellato dal tempo», Gerardo Rodriguez) e così sintetizza in sé «una poetica che incanala la trasmissione di ciò che avverrà lungo tutta la silloge, come un perfetto avvertimento della finalità e del senso profondo della poesia e dei suoi percorsi attraverso l’anima umana» (José Maria Muñoz).
Parola poetica e realtà esperienziale trovano così il punto di congiunzione definitivo nell’elaborazione della poetica di Alencart giacché – come sottolinea David Cortéz Cabán – «Se al principio la poesia era l’origine delle cose, ora influenzerà anche la percezione del mondo fisico e spirituale» e così «la parola poetica, in nome proprio, ribattezza col fuoco l’universo» (Amarú Vanegas).
Bene dunque ha fatto Alfredo Pérez Alencart a voler organizzare un percorso lirico selezionato all’interno de El sol de los ciegos, ponendo evidentemente gli accenti giusti, illuminando e lasciando in ombra le zone più appropriate perché dall’alto contrasto – non a caso – di luce e ombra, di chiari e scuri, meglio risultassero definiti e comprensibili (per quanto la poesia, quella vera, lo consenta) dettagli, livelli e chiavi di lettura che danno un senso compiuto alla sua poetica e al contenuto generale da essa veicolato. «La luce acceca, non scopre forme, le nasconde mentre l’ombra, l’oscurità diventa perseveranza nella ricerca dei significati» (Alberto Hernández). Così Alfredo unisce a filo doppio il senso dell’esperienza e l’impatto della percezione, il valore del passato, la consistenza del presente e la speranza del futuro, la forza della ragione e l’intensità della passione in un gioco di contrasti solo apparentemente ossimorico e che, soprattutto, non chiede affatto di essere risolto quanto forse di essere vissuto per quello che è giacché il mondo interiore di Alfredo è «un mondo senza frontiere, – come scrive Esmeralda Sánchez Martín – un universo aperto che oltrepassa i limiti del tempo e dello spazio. Carne e spirito, dolore e placidità, desideri e realtà, passato, presente e futuro, virtù e difetti, accettazione e sforzo… i versi di A.P.A. si muovono nel chiaroscuro e nel contrappunto dell’esistenza». È così che il panorama dell’anima di Alfredo non chiede affatto che si risolva una contraddizione, che sia sciolto un dilemma, che sia appianato un contrasto, che sia uniformata una diversità: tutto – e il verso poetico ne è lo strumento divino – è «come fiore, come spina, come speranza» (Anibal Fernando Bonilla) e quel panorama è fatto anche di carne; di percezione del dolore, di sensorialità della felicità; prevede e contempla una coesistenza esaltante dell’umana essenza generata e disegnata dal confine sul quale luce e ombra si sfiorano, vissuto e vivibile si incontrano, carne e spirito si abbracciano, ben al di là di una “semplice” guerra fra Bene e Male quanto piuttosto nella piena consapevolezza che «il poeta non può separarsi dalla propria condizione di essere umano, non può allontanarsi dal vero cammino, dallo splendore della parola come unico strumento di trasformazione del mondo» (José Antonio Santano).
Ed ecco compiuto l’atto creativo. E rivoluzionario. Ecco la poiesis! Un panorama che vada al di là dell’orizzonte fisico attraverso uno sguardo allegorico a palpebre strette: «Come fare – si domanda Sixto Sarmiento – per aprire gli occhi e alzare lo sguardo se in quel preciso istante l’orizzonte svanisce?». C’è bisogno di un altro sguardo, di occhi nuovi che non contemplino l’osservazione com’è comunemente concepita: «lo sguardo capace di vedere oltre i domani». E di un nuovo atto generatore che, attraverso la parola stutturi e ristrutturi «la poesia come costume di vita» (Harold Halva).
Ognuno di questi saggi è un nuovo passo, un’ulteriore conquista, una nuova acquisizione, un nuovo punto segnato dall’ago di una bussola ermeneutica, una nuova trocha che taglia il cammino secondo sentieri inediti ma, se si alza lo sguardo e si mira all’orizzonte, quel cielo è lo stesso per tutti; quel panorama e ciò a cui tutti finiscono per guardare. Ed è il panorama dell’anima, la meno terrena caratteristica dell’umanissima realtà, che Alfredo cesella finemente, parola per parola, lungo un percorso esteso di produzione lirica nel quale è ben visibile come l’artista concentri e concretizzi l’attenzione sempre più sulla Parola, sulla tessera singola di quel mosaico che va costituendo con pazienza certosina e forza comunicativa sempre più intensa e concentrata. Ma è nella distanza che al lettore è offerto il miglior godimento di percezione: che siano passi indietro o in avanti, è il lettore, attraverso questi saggi, a scegliere quanto avvicinarsi o distanziarsi nella contemplazione e nell’osservazione alencartiana. Un mosaico può essere goduto davvero e per intero quando «noi possiamo vederlo ma solo a una certa distanza» perché solo nella distanza può essere abbracciato tutto. «Ecco perché i termini chiave sono radicati nella problematica dello sguardo».
Così, per converso, la contemplazione del dettaglio, diventa esercizio di maestria da godere su un livello diverso e a più livelli e ciascuno di questi saggi offre la possibilità di fermarsi a riflettere, leggere, interpretare e godere di tessere che hanno la loro esatta posizione, colore, dimensione e intaglio dentro il disegno generale. E questo si propone – senza la pretesa di risolverlo tutto – questa raccolta di saggi: offrire insieme uno sguardo sul panorama dell’anima, sulla mappa emozionale che è parte fondante del disegno generale della poetica di Alfredo Pérez Alencart.
E allora: «Entrino, entrino con me in questo tratturo, / […] / Vi invito dentro un percorso arricchito / dal distillare delle reminiscenze».
[1] Grazie al consenso del curatore Vito Davoli e del poeta Alfredo Pérez Alencart, oggetto di questo studio, pubblichiamo in anteprima, la prefazione alla raccolta La carne y el espíritu (Trilce Ediciones, Salamanca 2023), una collettanea letteraria in lingua castigliana che raccoglie ben 24 saggi, intervallati dalle opere pittoriche dell’artista Miguel Elias (intervenuto anche in copertina), quali contributi di intellettuali, accademici, poeti e letterati provenienti da tutto il mondo ibero-americano a proposito dell’ultima silloge del poeta ispano-americano dal titolo El sol de los ciegos, (Vaso Roto 2021) interamente curata dal critico pugliese. Il volume in spagnolo include i contributi di José Manuel Suárez, Asunción Escribano, Fermín Herrero, José María Muñoz Quirós, Esmeralda Sánchez Martín, Carlos Aganzo, José Antonio Santano (Spagna), Jeannette L. Clariond, Gerardo Rodríguez (Messico), Leocádia Regalo (Portogallo), Yordan Arroyo (Costa Rica), Juan Mares (Colombia), José Luis Ochoa, José Carlos De Nóbrega, Amarú Vanegas, Alberto Hernández (Venezuela), David Cortés Cabán (Porto Rico), Juan Suárez Proaño, Sandra Beatriz Ludeña, Aníbal Fernando Bonilla (Ecuador), Víctor Coral, Sixto Sarmiento, Harold Alva (Perù) e Vito Davoli (Italia). Anteprima giacché il testo, già edito in Spagna nello scorso giugno, vedrà la luce anche nella versione tradotta in italiano dallo stesso Vito Davoli, per il nuovo anno 2024. Di seguito la prefazione in italiano del critico pugliese che ha contribuito anche con un suo proprio saggio in postfazione. Edizione originale spagnola: AA.VV., LA CARNE Y EL ESPÍRITU: Aproximaciones a “El sol de los ciegos” de Alfredo Pérez Alencart, Trilce Ediciones, Salamanca, España 2023, ISBN: 979-8398610628
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Ad aprire il ciclo di incontri letterari promossi da “Cento4 – Idee in Circolo” a Bergamo dal titolo “Abitare la poesia al cento4 – poeti incontrano i poeti” sarà Edoardo Zuccato che giovedì 16 maggio a partire dalle 17:30 incontrerà il poeta Maurizio Noris per presentare il suo libro in dialetto bergamasco della Media Val SerianaSantì d’Andolöséa (Santini d’Andalusia) edito da Teramata nel 2023.
Nel sottotitolo del libro si legge Omaggio a Federico Garcia Lorca. L’opera si apre con un testo critico introduttivo scritto dal sottoscritto (dal titolo “Inizia il pianto della chitarra”, che è possibile leggere online cliccando qui) e contiene opere di Sara Oberhauser. Traduzione e voce a cura di Maurizio Noris. Le letture sono state trasposte in registrazioni audio-video in cui è Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti. Il libro si chiude con una postfazione di Vincenzo Guercio.
Gli eventi successivi vedranno la presenza di Paola Loreto che incontra Cristiano Poletti con il libro Un altro che ti scrive (Marcos y Marcos, 2024) il 23 maggio; di Franca Grisoni che incontra Nadia Agustoni con il libro Avrei voluto da giovane solo vivere (Nino Aragno, 2024) il 30 maggio e infine di Maurizio Cucchi che incontrerà Marco Pelliccioli con il libro Nel concerto del tempo (Mondadori, 2024) il 6 giugno.
Tutti gli incontri si terranno al Cento4 a Bergamo, sito in Via Borgo Palazzo 104 e saranno coordinati da Gabrio Vitali.
Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.
Memoria e magazzino: la sorgente, nel cuore della vita, il laccio e uncino, il continente che addita a ruota il divieto e la licenza amore e disamore gioia e rimpianto. L’ostacolo abbattuto infranto, nel sé volato intanto sul magico tappeto. L’essenza chiusa in scatola, il puro distillato, senza più la scoria, disossato. Con il suo pilota entrato nel sommergibile in giro per il mare dei piccoli caratteri sottratti alla deriva dal filo di una storia.
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Il poeta umbro Paolo Ottaviani (Norcia, 1948) ha recentemente dato alle stampe, per i tipi di Manni editore, una nuova raccolta di poesia dal titolo evocativo e curioso La rosa segreta. Il testo, che porta quale sottotitolo Velate assenze d’armoniche rime, si apre con due citazioni in esergo, una tratta da “Settima fuga” del triestino Umberto Saba e l’altra da L’ordine del tempo del fisico Carlo Rovelli nella quale saggiamente sostiene che “la nostra esperienza del mondo è dall’interno”. La doppia apertura nozionistica, per estratti, quella da un’angolatura poetica e meramente letteraria di Saba e quella scientifica di un’analista e investigatore della realtà fisica, sul tema dell’interiorità, dell’intimità e della segretezza (richiamata nell’opportuno titolo dell’intero lavoro), è il metro duplice – mai bipartito e scisso, ma molteplice e complessivo di una dualità in sé non manifesta – che l’Autore propone al lettore, l’andatura cadenzata che la successione dei vari componimenti propone e facilita. Lo si vedrà anche con la poesia “Gli Infiniti” che nella citazione fa riferimento ai due “infiniti”, quello introspettivo e filosofico tutto leopardiano (“tra questa immensità / s’annega il pensier mio”) e quello del fisico Stephen Hawking connaturato nella complessità della sua “teoria del tutto” che apre varchi a nuove letture della realtà fisica e dei suoi meccanismi (non a caso uno dei suoi maggiori volumi conosciuti nel nostro Paese è l’autobiografia-testamento Verso l’infinito edito da Piemme nel 2015).
La nuova opera s’inscrive in un percorso professionale e letterario di tutto rispetto e motivo di attenzione da parte della scena culturale contemporanea. Laureato in Filosofia con una tesi su Giordano Bruno, Ottaviani ha pubblicato negli «Annali dell’Università per Stranieri di Perugia» saggi sul naturalismo filosofico italiano. È stato direttore della Biblioteca della medesima Università e ha fondato la rivista «Lettera dalla Biblioteca». Quale poeta ha pubblicato le opere Funambolo (1992), Il felice giogo delle trecce (2010), Trecce sparse (2012), Nelrispetto del cielo (2015) e La rosa segreta (2022). In idioletto neo-volgare (con traduzione in italiano) ha pubblicato Geminario (2007). Hanno scritto di lui, tra gli altri, Maria Luisa Spaziani, Paolo Ruffilli, Maurizio Cucchi e Mauro Ferrari. Il poeta marchigiano Eugenio De Signoribus, inoltre, nella sua qualità di Direttore Letterario, lo ha invitato a pubblicare suoi testi nei fascicoli d’arte “Passaggi” editi dall’Associazione Culturale La Luna.
La nuova opera fornisce al lettore quattro percorsi (se non tematici, in qualche modo organizzativi del vario materiale da parte dell’Autore) contraddistinti dalle quattro porzioni che lo contraddistinguono, “Comete e comete” (pp. 7-29) che è la parte iniziale e quella contenutisticamente più nutrita; “20 sonetti” (pp. 33-52) in cui con fedeltà alla metrica Ottaviani si allinea a una tradizione alta e sempre rispettata del “far poesia”; “Spigolature” (pp. 54-65) che, come recita il titolo, sono di genere vario e di tipologia diversa (vi troviamo, infatti, testi nell’idioletto umbro, il nursino d’epoca medievale, da lui impiegato ma anche distici e haiku) e, infine, una sezione contenitiva ben più generica sotto la definizione di “Altre poesie” (pp. 69-77).
Immergendoci nella raccolta incontriamo poesie dedicate alla meraviglia naturale degli ambienti a lui cari, tra cui il Monte delle Rose, il Lago Trasimeno, mare dell’Umbria, la natia Norcia (“questa mia terra inghiotte ogni altra terra”) e le cascate delle Marmore che lo animano a una riflessione continua sull’esistenza, sui rapporti primordiali dell’uomo tra natura e cultura: “Se l’Uomo o la Natura / a governare l’immane potenza / delle acque dottrina più sicura // non può mai dire. S’inchina la Scienza / alla Bellezza” (p. 35). Non mancano i ricordi di momenti appartenuti a un’altra fase dell’esistenza impressi attorno a immagini indelebili o contenuti olfattivi che, con l’atto della rimembranza, l’autore sembra riconquistare.
Ottaviani, che è un grande cultore della materia letteraria (non mancano citazioni dantesche ma anche dediche a poeti dei nostri giorni quali Franco Scataglini, difensore originalissimo di un dialetto neo-volgare con recuperi dell’antico veneziano intessuti nel dettato gergale dell’anconitano) fa ricordare il Genio Recanatese quando nella lirica “Sorella mia ginestra” parla di un fiore tanto amato a Leopardi e al quale dedicò uno dei componimenti più celebri. Il testo del poeta umbro è, a suo modo, un valido viatico per una rilettura del presente e una comprensione degli istanti che fuggono; non è un caso che la chiusa, dal velame esistenzialista, contenga queste parole: “dimmi se il tutto è solo un vano errore” (p. 14). Il canto della terra, che in Ottaviani ben si eleva da liriche di diverso contenuto, è forse meglio espresso in “Madre nostra terra”, componimento dedicato alle esistenze disagiate delle popolazioni che, tra Marche e Umbria, furono duramente colpite dal terremoto del 2016: “Più d’un mare in tempesta madre nostra / terra da furie e viscere irrequiete / smuove montagne altere e qui ci prostra/ […] // Madre perché, perché ci sei sì cara?” (p. 22).
Non manca in questa raccolta l’adesione ai fatti del mondo, la compartecipazione autentica e sentita ai drammi quotidiani come è evidente in “Cera una volta”, lirica dedicata – come recita il sottotitolo che parla di “favola” (una favola amara, è vero) – a un “meraviglioso ragazzo friulano” ovvero al ricercatore Giulio Regeni assassinato in Egitto nel 2016 e sulla cui vicenda non si sono mai dileguate ombre né e opacità. Ottaviani nella sua poesia che, come nella migliore delle favole inizia con un “C’era una volta”, ci fa ricordare la brutta vicenda di un giovane dileguatosi in una terra straniera, percepita ancor più inospitale e disattenta verso la natura spassionata del sorriso del ragazzo: “Oggi Giulio splende con la luna”, chiosa il Poeta nell’explicit, un messaggio lapidario e dolente, una sintesi innaturale di un’esistenza dissipata nel bel mezzo del suo fulgore. L’idea della luce – quale segno vivo che testimonia una presenza, seppur in altra dimensione – è l’immagine scelta dal poeta umbro per dire che quella di Regeni è una storia che non dimenticheremo (che non dovremo mai dimenticare).
La poesia “Queste placide nuvole” è dedicata alla sciagura più grande dei nostri tempi, quella dell’epidemia del Coronavirus che “traghetta[…] il dolore / tra gli oscuri riverberi che allagano // il verde della terra e ne dismagano / il volto” (p. 38). C’è spazio anche per affrontare, col solito piglio garbato e rispettoso, un altro grande tema, quello dell’immigrazione, quando l’Autore parla delle “bocche dei vivi o morti in mare” (p. 9).
In “Un invito a cena”, una delle poesie che chiudono la raccolta, Ottaviani riflette sulla figura del poeta considerando il tema del silenzio (requisito spesso necessario per la giusta captazione dal mondo e l’accoglimento della chiamata creativa). Già in “L’acqua senza suono” aveva riflettuto sulla dimensione di atonia, della mancanza di rumore, ma in questo caso “La vastità tranquilla del silenzio / induce a conversare di minuzie” (p. 75) sino all’evidenza dell’imperscrutato (il lettore consentirà l’uso di questa enigmatica costruzione che ben rimarca il labile confine tra il visibile e l’invisibile): “La poesia sembra non presente / ma sta in disparte, ascolta e lenta tra una / portata e l’altra / […] / volge in canto” (p. 75).
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Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a una vera e propria esplosione di libri dedicati alla lettura, che siano le proprie letture di bambina e poi di adulta, che siano i libri che ci hanno formato, ammaliato con la propria grandezza e originalità, e reso quello che siamo. Trasuda amore per i libri, tanto da rendere reale il sogno di aprire una libreria in un piccolo cottage di un borgo della Toscana La libreria sulla collina (Einaudi, 2022) di Alba Donati. In quello che si rivela un avvincente diario della progettazione e poi realizzazione della piccola libreria ‘Sopra la Penna’ a Lucignana, iniziato con un crowfunding nel dicembre del 2019 e portato a termine grazie all’aiuto di tutta la comunità lucignanese e di una rete di amici e appassionati, Alba Donati riversa la propria competenza di poeta e di studiosa: ciascuna giornata del diario è conclusa dai libri venduti quel giorno, da Pia Pera a Christa Wolf, da Emily Dickinson a Simone De Beauvoir, con un invito irresistibile a seguire le sue tracce e caricarsi mente e anima di tesori. Sandra Petrignani e Bianca Pitzorno, la prima con Leggere gli uomini (Laterza, 2021), la seconda con Donna con libro. Autoritratto delle mie letture (Salani, 2022) compiono un’analoga operazione doppia: dell’ammirazione per la scrittura e il libro in sé e come specchio di sé. Come scrive Manuela Altruda nel recensire il primo dei due libri, con “esercizi di ammirazione e scatti di rabbia, attraverso memorabili citazioni, Sandra Petrignani ci porta dentro tante pagine indimenticabili, da Dumas a Roth, da Pavese a Proust, da Calvino a Tolstoj, da Gary a Dostoevskij, da Moravia a Mann, da Manganelli a Kundera, da Malerba a Čechov, da Nabokov a Chatwin, da Tabucchi a Kafka e a mille altri”. Per scoprire quanto gli uomini siano simili e diversi da noi, quanto gli scrittori amati ci abbiano rese le scrittrici che siamo. Ma vengo all’ultimo libro speciale di Giulia Caminito, Amatissime, (Giulio Perrone Editore, 2022) in cui la giovane autrice di L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, 2021), o di La grande A (Giunti, 2016), rende omaggio alle madri letterarie e al nostro eterno debito di amore e venerazione. Ne sceglie cinque, le più care: Elsa Morante, Paola Masino, Natalia Ginzburg, Laudomia Bonanni e Livia De Stefani. Con loro intreccia da subito un dialogo impossibile, appassionato e autobiografico, in cui ciascuna amatissima occupa e rispecchia una fase della vita di Giulia. Elsa Morante è, per esempio, il ricordo di una grande foto della scrittrice sopra la scrivania della madre, che si laureò con una tesi su di lei. Madre doppia dunque, e doppiamente temibile. Giulia si accosta alla scrittrice da bambina, ce ne racconta i riccetti ribelli e i primi amori letterari, le prime scritture, storie di bambole, analoghe a quelle che Lena e Lenù si scambiavano nel primo libro di Ferrante, L’amica geniale. Genio e spiritello malefico è Elsa, pronta a ficcare la punta del suo ombrello in faccia a chi osi accostarsi troppo alle sue imprevedibili stranezze, al suo mondo interiore labirintico e favoloso. Paola Masino invece è nei vestiti: gli abiti usati della sorella, gli abiti anni Ottanta di Giulia, il ricordo di tutti quelli che hanno rivestito la sua vita, nel recentemente ripubblicato Album di vestiti (Elliot, 2015).
E con Paola Masino Giulia Caminito inaugura la serie delle amatissime recuperate, la schiera di valenti scrittrici dimenticate e uscite fuori dal canone letterario, ma che invece amarono e influenzarono la storia letteraria italiana, verso cui si rivolge la curiosità e l’amore delle giovani scrittrici di oggi. Al lavoro di editor di Giulia si affianca in parallelo una giovane Lisa Ginzburg, sofferente e umanissima, scopritrice di talenti e valida traduttrice per Einaudi, dopo la perdita precoce del marito Leone. Infine le due outsider, recentemente riscoperte e ripubblicate da case editrici coraggiose e sensibili come Cliquot, Laudomia Bonanni e Livia De Stefani. La Bonanni appare irrequieta anticipatrice di temi quanto mai attuali come il desiderio ambivalente di maternità, la violenza familiare, lo svantaggio sociale che pesa sulle donne e sui ragazzi del dopoguerra, la questione delle droghe e quella della solitudine dell’intellettuale che sceglie l’inappartenenza. Da insegnante aquilana a lungo impegnata in scuole di piccoli comuni di montagna, in quella frontiera di isolamento, freddo e miseria che il secondo dopoguerra aveva lasciato in eredità, soprattutto nei bambini che lei aiuterà e avrà sempre nel cuore, persino quando “delinquono”, e che seguirà nei Tribunali minorili come Giudice laico, Laudomia si accosta a Roma, ne frequenterà, grazie al successo dei primi romanzi, i salotti intellettuali, come quello di Maria Bellonci e degli Amici della Domenica, da cui nacque il Premio Strega, vinto da lei per l’inedito con i racconti de Il fosso, nel 1948. Caminito ne segue le vicende e i misteri, come quello della mancata accettazione da parte delle case editrici Mondadori e Bompiani, dell’ultimo romanzo della scrittrice, La rappresaglia, romanzo quanto mai amaro e simbolico delle ferite inferte dalla guerra e del prezzo pagato soprattutto dalle donne. Infine, tra i sei scatoloni di carte private della scrittrice De Stefani, “entusiasta per il tesoro e atterrita dal patrimonio”, Giulia Caminito assume su di sé il peso e la responsabilità di una vita di donna, tutta in quelle carte, “chilogrammi di vita” di una donna artista, che ci chiedono di non essere dimenticati, di essere riportati alla vita letteraria e alla dignità di patrimonio di noi donne tutte e uomini di oggi. Un libro, questo di Giulia Caminito, che ci insegna l’amore per la lettura delle scritture femminili come patrimonio immateriale della comunità, guida affettiva a una cultura letteraria più consapevole, profonda e carica di futuro.
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Il nostro secolo può essere definito il secolo della “multimedialità” e l’interrogativo di fondo che ci poniamo in questa cultura elettronica è il chiedersi se c’è ancora posto per il libro o esso è destinato ad uscire di scena. Alcuni hanno sostenuto in più occasioni la morte del libro o l’assassinio del libro da parte della televisione, per es o dell’ipertesto. Ma il libro è sempre un’esperienza a cui l’uomo non vorrà mai rinunciare: non basta leggere, occorre saper scegliere cosa vale la pena di leggere.
Sant’ Agostino affermava: “Il Mondo è un libro e coloro che non viaggiano leggono solo una pagina.”
Orbene il libro rappresenta non l’orizzonte pressochè esaustivo del processo di apprendimento, come spesso è avvenuto, ma diventa uno dei tanti strumenti di cui l’uomo può disporre nei suoi processi di ricerca. Si tratta, cioè di assegnare una diversa identità al libro, non come matrice condizionante di sapere, bensì come strumento per la costruzione del sapere. Oggi, cioè, si guarda al libro non come al luogo di sistemazione del sapere, bensì come ad un insieme di pagine e contenuti che aspettano di essere interpretati, integrati, strutturati. Leonardo Sciascia affermava che “Il libro è una cosa: lo si può mettere su un tavolo e guardarlo soltanto, ma se lo apri e lo leggi diventa un mondo”.
Il libro cioè è uno strumento che aspetta di essere esplorato con intelligenza, che non si impone, ma si presta, non irrigidisce, ma alimenta, è lo specchio del nostro io.
Attraverso il libro l’individuo è portato a trovare risposte sempre più adeguate ai suoi problemi, alle sue esigenze, alle sue aspettative e il gusto del leggere, pertanto sollecita sempre più la capacità di autonomia cognitiva da parte dello stesso individuo, che si fa ricercatore e operatore del proprio sapere.
L’uomo non è un “io” separato dal mondo e messo in comunicazione con esso per mezzo delle sensazioni, egli è un organismo entro la natura che interagisce con l’ambiente, per cui da sempre l’uomo ha sentito il bisogno di raccontarsi, per es. i ragazzi tratteggiati dalla penna di scrittori, come Pasolini, ci vengono incontro con tutta la loro ricchezza esistenziale. Sono figure vive, concrete, non soggetti astratti di categorie sociologiche. E’ un modo per far parlare i ragazzi, per parlare con i ragazzi, usando la bellezza della letteratura, gli occhi partecipi dello scrittore e non la lente neutrale dello studioso.
I libri non perdono mai il loro fascino, anzi con le nuove tecnologie informatiche, moltiplicano la forza di attrazione e la capacità di incuriosire. Quotidiani e televisione sono lo specchio del mondo e la scrittura è la risposta ad un reale bisogno comunicativo.
Leggere seriamente i testi degli autori antichi greci e latini, per es. significa consentire loro, di essere delle occasioni di sviluppo profondo per l’interiorità, l’espressività e l’eticità di noi lettori. Accostare le opere di oltre un millennio di cultura occidentale ha senso se il confronto con esse permette al singolo individuo di valutare la qualità e lo spessore umano dei propri sentimenti e delle proprie passioni; potenzia la raffinatezza, la fondatezza e la penetratività del proprio modo di esprimersi; ha senso se centra l’attenzione sul senso della propria vita e sui valori che la possono orientare.
Soffermiamoci sulla prima raccolta poetica di Montale “Ossi di seppia”.
Lo stato di disagio e di inquietudine dell’uomo, chiuso nella propria crisi, si riflette in un linguaggio del tutto nuovo, pieno di suggestioni e spesso sconvolgente. Il punto di partenza della tematica montaliana è costituito dalla sua prima raccolta poetica: “Ossi di seppia”, pubblicata nel 1925. La realtà paesistica che nell’opera il poeta descrive ha una sua precisa fisionomia, è il paesaggio della sua natìa Liguria, colto in tutta la sua asprezza e squallore. I piccoli particolari della vita quotidiana sono presentati nella loro nudità e spigolosità: “rovente muro d’orto”,“sterpi” e assumono sotto la penna del poeta, un alto valore simbolico mettendo in luce la sua coscienza dell’aridità, dell’assurdità della vita, la quale non è altro che isolamento, esclusione, inutilità. Vivere, dice infatti Montale in “Meriggiare” non è altro che “seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Così in “spesso il male di vivere” la legge di sofferenza che domina costantemente la vita umana affiora negli aspetti più giornalieri della realtà delle cose: “è il rivo strozzato che gorgoglia”, “l’accartocciarsi della foglia riarsa!”,“il cavallo stramazzato” e l’unica salvezza dal male di vivere è “la divina Indifferenza”.“Non chiederci la parola, continua ancora Montale, che squadri da ogni lato l’animo nostro informe” “che mondi possa aprirti”.“Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. La poesia, insomma, non può lanciare messaggi, non può dare certezze, ma solo qualche sillaba storta che esprime il crollo di qualsiasi mito, la consapevolezza del non essere. D’altronde lo stesso Montale nella sua prima raccolta non esclude la possibilità di un mutamento verso cui il poeta tende nell’ansioso, ma consapevolmente vano tentativo di trovare una via di salvezza di fronte alla precarietà, al fallimento dell’esistenza. E’ questo il motivo cantato nel gruppo di liriche “Mediterraneo” poste al centro della raccolta, in cui il mare preso a simbolo di vita autentica, di positività, come quell’approdo, è purtroppo non raggiungibile per l’uomo, che sa di essere “della razza di chi rimane a terra”.
Pertanto, nell’opera viene riaffermata la visione montaliana del vivere una vita senza fedi, senza certezze, senza “lume di chiesa o di officina” come egli dice in “Piccolo testamento”. Egli non ha seguito nella sua vita “chierico rosso o nero” orgogliosamente chiudendosi nella propria solitudine. L’uomo del nostro tempo, afferma il Montale, attraverso la metafora del prigioniero destinato alla morte, che può uscire dalla propria cella solo diventando accusatore e carnefice degli altri, è ben consapevole di essere oppresso da una società che lo condiziona, ma niente può fare per sfuggire a questo carcere. Egli avrà comunque un destino negativo, sia che si faccia complice, sia che rimanga vittima. Questa la lezione lasciataci da Montale: consapevolezza di vivere in una società priva di illusioni e rassegnazione ad un destino di solitudine e dolore cui opporre un rigore morale che non accetta compromessi.
Per concludere l’uomo sente che il libro gli può dare risposte, ogni libro può diventare un mezzo per ampliare il proprio orizzonte di vita, per mettersi in relazione con i grandi spiriti del passato e così la lettura diventa un’attività fondamentale per far circolare sempre messaggi di bene e di bellezza.
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Bibliografia
Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, La Biblioteca di Repubblica, 2000
Eugenio Montale, Tutte le poesie a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, I Meridiani collezione, 1984
Walter J. Ong, Oralità e scrittura: le tecnologie della parola, Bologna, Il mulino, 1986, ed. orig. 1982
Guglielmo Cavallo, I luoghi della memoria scritta: manoscritti, incunaboli, libri a stampa di biblioteche statali italiane, direzione scientifica, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1994
Storia del libro. Storia di libri. A cura della prof.ssa Rosa Marisa Borraccini PDF 2018