“L’ “io introspettivo” di Eugenio Montale nell’indagine del Mistero”, saggio del prof. Domenico Pisana

Saggio del prof. Domenico Pisana

Non oserei parlare di mito nella mia poesia, ma c’è il desiderio di interrogare la vita”. Così si espresse Montale in un’intervista di Medeleine Graff-Santschi, pubblicata  nel 1965 sulla Gazette de Lusanne, che ci fornisce una linea di movimento della poetica montaliana nella sua fase iniziale.

Montale è alla ricerca di una definizione precisa e assoluta della vita, ricerca  che, sotto l’influsso delle sue letture filosofiche di impronta  contingestista, trova il suo approdo nel  dubbio, nello scetticismo e nel nichilismo. Egli ritiene che non sia possibile indicare una verità esistenziale come prospettiva verso la quale orientare il cammino della vita: non esistono mete né certezze universali. Il poeta elabora, allora, una sorta di “teologia negativa”, che trova la sua espressione più emblematica  nella lirica “Non chiederci la parola”, composta nel 1921, che costituisce quasi una norma normans da rispettare in tutte le circostanze della vita.

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La struttura della lirica poggia su un “io introspettivo” tutto al negativo, come si evince dall’uso frequente della negazione “non” (“Non chiederci”….”Non domandarci..” “non siamo…” “non vogliamo..”). Il poeta dialoga con un interlocutore indeterminato, al quale mette davanti il percorso incerto, difficile, pieno di pericoli della vita; ricorre ad un registro stilistico e lessicale pienamente aderente alla sua visione desolata e negativa dell’esistenza. “L’animo informe”, il “polveroso prato”, lo “scalcinato muro”, la “storta sillaba e secca come un ramo” costituiscono la metafora di una condizione umana precaria, drammatica, amara ed incerta, messa in contrapposizione alla sicurezza di chi non avverte questa precarietà e questo grigiore della realtà. (“Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico”).

Questo pessimismo non può essere letto, però, esclusivamente come  chiusura nel buio, perché  include, dentro l’io più profondo di Montale, anche il desiderio di infinito e di assoluto, l’apertura ad un Essere che non può farsi presente nei concetti e che non ha una collocazione nella storia; il Montale che interroga il mistero della vita, come già Leopardi, dimostra di tendere verso un Orizzonte nel quale possa essere contenuta la risposta alle tante domande che nascono nel cuore dell’uomo: “Chi può dire di vivere soddisfatto  – afferma il poeta ligure – nel mondo dei fenomeni, delle cose finite, senza farsi domande, chiedersi il perché? Paradossalmente la poesia di Montale è un canto mistico che si perde nel vuoto, un interrogare la vita per tentare di raggiungere quei risultati che il poeta cerca e che, però,  è pienamente consapevole di non potersi attendere dal mondo fenomenico. L’unica certezza della sua indagine sull’esistenza è che l’uomo deve finire: “Sappiamo che dobbiamo finire: questa certezza ci rimanda all’Essere, all’eternità”.  

L’eternità per Montale rappresenta la fine dell’inquietudine umana, la terrestrità costituisce il luogo della solitudine, dell’inganno, del malessere e della precarietà. È all’interno di questo interrogare la vita che la ratio montaliana aspira dunque a qualcosa che non riesce ad afferrare e spiegare; la sua è una  ratio che non decifra il Mistero, ma che  rivela il segno della sua Presenza in ogni esperienza umana:

Sotto l’azzurro fitto

del cielo qualche uccello di mare se ne va;

né sosta mai: perché tutte le immagini portano

scritto: ‘più in là”.

 Quel “più in là!” paradossalmente rivela l’Orizzonte verso cui tende il poetare montaliano; egli non lo vede ma lo percepisce, così come l’uomo ode il grido che c’è dentro le cose, anche se non sente la voce.  L’ “io noumenico” montaliano, pur muovendosi all’interno dei parametri propri della poetica italiana della modernità, che lanciava l’interpretazione della realtà come nichilismo, in fondo non risulta anti-religioso; anzi, si può ritenere che è connotato da una “passione religiosa”, cioè da una  espressa passione della ricerca e della eventuale affermazione di un senso alla vita, ossia di un Mistero che dia il senso delle cose, della realtà e dell’esistenza.

Quando Montale in alcuni suoi versi afferma – “Forse un mattino andando in un’aria di vetro/arida, rivolgendomi, vedrà compirsi il miracolo:/il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/di me, con un terreno ubriaco” – , egli, in fondo, non fa altro che rappresentare l’effimero delle cose che oggi ci sono e domani non più, ribadire la vanità e la nullità di ciò che esiste. Questa sua esperienza rappresentativa della realtà è sostanzialmente identica a quella del mistico religioso cristiano, il quale mentre contempla il cielo e la terra, così grandi ed evidenti nel loro spazio, sa che domani non ci saranno più, per cui capisce che la realtà è tutta segno della parola di un Altro, cioè il Mistero che sta dietro. Questo indagare il Mistero che sta dietro alle cose, agli oggetti, alla vita stessa  fa di Montale un uomo religioso senza religione, ed è la premessa alla fede come campo immediato in cui la ragione cede all’ inconoscibilità e all’ inafferabilità della “Realtà Altra”.

Se nello scavo dell’io interiore di Montale,  l’elemento religioso e l’influsso della fede sono stati poco osservati, è per un errore di approccio critico; molti hanno cercato e cercano la religiosità di Montale attraverso le sue pagine, attraverso riferimenti espliciti ad una esperienza secondo la tradizione religiosa. In questa prospettiva è facilmente intuibile che il religioso in Montale è davvero argomento difficile e controverso, non solo perché poche volte la parola “Dio” compare nei suoi versi, ma anche perché il poeta ligure rigetta ogni collocazione confessionale e ideologica.

L’approccio che occorre tentare non è quello di proiettarsi verso  la “religiosità del testo”, ma quello di verificare se il testo letterario in sé , pur non collocandosi in un espresso orizzonte teologico, sacrale e religioso, contenga “dati-testimonianza” di una specifica rilevanza religiosa.

I due moduli tematici e stilistici utilizzati da Montale nelle prime raccolte di versi, Ossi di seppia e Le occasioni, vale a dire la poetica degli oggetti da un lato e il simbolismo ermetico-metafisico dall’altro, trovano nel terzo Montale, quella di Bufera e altro, un esplicito appoggio ai termini del linguaggio simbolico e religioso. Mentre negli Ossi di seppia  è presente una cauta e generica metafora del divino, racchiusa ora nell’ombra umana, la “disturbata Divinità” dei Limoni , ora nella presenza del mare, il “divino amico” di Esterina in Falsetto, ora nella voce paterna e immensa che “afferma una legge severa” di Mediterraneo, in Bufera e altro viene,  per la prima volta, pronunciata, la parola “Dio” e l’io interiore ed intropsettivo di Montale intraprende la direzione di un lessico tratteggiato da insistenti simboli e richiami religiosi.

Entrando nella tessitura della silloge, il linguaggio lirico montaliano dà spazio ad una presenza, ambigua e per certi versi contorta, che spiega il suo affaccio inquieto al Divino in modo più esplicito rispetto alla  prima esperienza poetica. Ecco alcuni testi:   

su noi come Giona sepolti

nel ventre della balena…..

………………………….

L’iddio taurino non era

Il nostro, ma il Dio che colora

di fuoco i gigli del fosso…….

(Da “Ballata scritta in clinica”)

 

L’uomo che predicava sul Crescente

mi chiese “Sai dov’è Dio?” Lo sapevo

e glielo dissi. Scosse il capo….

(Da “Vento di Mezzaluna”)

 

Dovrà posarsi lassù

il Cristo giustiziere

per dire la sua parola…

(Da “Sulla colonna più alta”)

Dicevano gli antichi che la poesia

è scala a Dio. Forse non è così

se mi leggi……

(Da “Siria”)

 

Intorno il mondo stringe; incandescente,

nella lava che porta in Galilea,

il tuo amore profano, attendi, l’ora

di scoprire quel velo, che t’ha un giorno

fidanzata al tuo Dio …

(Da “Incantesimo”)

 

Io non so, messaggera

che scendi, prediletta

del mio Dio(del tuo forse)….

…………………………….

Il dì dell’Ira che più volte il gallo

annunciò agli spergiuri…..

(Da “L’Orto”)

I versi citati offrono indicazioni circa la presenza di un “io religioso” nella poetica montaliana a diversi livelli. C’è, anzitutto, un primo livello nel quale si configura un tratto antinomico della presenza del divino: da un lato l’ “iddio taurino”, dal quale Montale prende le distanze(“non era il nostro”) perché simbolo della violenza e del trionfo,  e che la “razza idiota degli eletti” adora, dall’altra il “Dio che colora/di fuoco i gigli del fosso”, che simboleggia l’amore sacrificato, il dono incontaminato del sacrificio destinato a perdurare nel tempo e che  riecheggia il “Dio dei fiori” della lirica  thanatos athanatos di Quasimodo.

Il secondo livello supera la precedente antinomia per dare rilievo ad una “visione relazionale e comunionale” tipica del Dio della Bibbia. Il verso montaliano sembra assumere il linguaggio personalistico della fede (il “tuo Dio”, il “mio Dio”); gli aggettivi possessivi, peraltro, non solo riecheggiano il linguaggio di Dio verso Israele (“ Io sono il tuo Dio, colui che ti ha fatto uscire dall’Egitto” ) ma sembrano accorciare la distanza tra il poeta e Dio, non più percepito come realtà distante e nascosta o potenza arcana e trionfante, ma come presenza vicina e solidale all’esperienza umana. E, tuttavia, si tratta sempre un approccio titubante e timido, come si evince da quel “forse”( “del tuo forse”), che evidenzia l’ambivalenza della problematica religiosa nel poeta ligure.

In altri testi, ancora, l’accostamento al Divino si esprime ora sotto forma di domanda, ora con l’attestazione dell’attesa della parola del giudice supremo, il “Cristo giustiziere”, ora come riconoscimento dell’ontologia religiosa del verso” che, stando a quanto – scrive Montale –  “dicevano gli antichi”,  eleva verso Dio”.

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In Bufera e altro l’io poetico montaliano non esclude dunque la possibilità della salvezza dell’uomo; Montale, che nella sua formazione ha visto l’accostamento a letture di ispirazione cristiana, quali i Padri apologeti, Sant’Agostino, Pascal, Dostoevskii, utilizza le categorie teologiche per inserire sul suo cammino poetico l’orizzonte sotereologico. E difatti, come  nella teologia cristiana la salvezza passa dalla donna, tant’è che l’incarnazione del Verbo si è realizzata grazie al “fiat” di una donna, Maria, divenuta corredentrice di Cristo, così vediamo che in Bufera e altro Montale riprende, sull’onda di influenze dantesche, di convergenze stilnovistiche e di echi petrarcheschi, il tema della donna-angelo, della donna salvifica.

La struttura sintattica delle liriche appare infatti dominata da quel “Tu” rivolto quasi sempre alla donna, sotto immagini e nomi diversi, la donna del  Giglio rosso, Iride, Clizia, Volpe; l’apparizione della presenza femminile ruota, al di là dell’ordine fisico e sentimentale, che pur sono compresi, all’interno di un’allegoria che ripropone temi della tradizione cristiana e figurale.    

Tillich diceva: “quello che determina il nostro essere o il nostro non essere, è il nostro interesse ultimo”. L’uomo, in altre parole, non rinuncia mai, se si cala dentro il suo io più profondo con una azione introspettiva vera e sincera, alla ricerca della conoscenza del senso ultimo delle cose e dell’esistenza; egli guarda ad un fine ultimo, che per molti è Dio, per altri un archetipo, un assoluto, una causa; in ogni caso, Dio, anche se negato, rimane l’ultimo interlocutore dell’uomo.

Se il primo Montale ha sostenuto che l’inganno e l’illusione costituiscono  i fondamenti su cui poggiano i falsi equilibri della vita quotidiana, se ha teorizzato la condanna dell’uomo ad una esistenza fortemente segnata dalla solitudine, e di tutto ciò ne ha manifestato il  rammarico, con  Bufera e altro egli  comincia a testimoniare, pur se indirettamente, l’ammissione del suo bisogno di superamento del “male di vivere”, bisogno, che proprio a partire dalla raccolta Bufera e altro, egli proietta in quel “Tu” raffigurato come emblema e portatore di salvezza. 

DOMENICO PISANA

L’autore del saggio ha acconsentito e autorizzato alla pubblicazione del testo su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. Si rappresenta, inoltre, che la diffusione del presente saggiosu altri spazi, in forma integrale o parziale, non è consentita senza il consenso scritto da parte dell’autore.

 

 

“La Poesia di Vasco Rossi. Una interpretazione” di Antonio Malerba

La Poesia di Vasco Rossi. Una interpretazione
di Antonio Malerba
Zona Editrice, 2012
Prezzo: 10 euro

ISBN: 978 88 6438 315 6

Copertina PVR(Prefazione) Ascoltando le canzoni di Vasco, ma anche leggendone le interviste e gli scritti, si ha la sensazione di una grande coerenza e profondità di significati. Tra i temi più sentiti: il sentimento del finito, la crisi delle verità, la vita come caos, il male di vivere, il valore consolatorio della musica. Il libro si sofferma su questi e altri temi, in un dialogo serrato e stringato con le parole di Vasco, e suggerisce anche un parallelo con le riflessioni di Nietzsche, uno degli scrittori più letti e apprezzati da Vasco.

I commenti delle persone che hanno letto il libro:

“Il testo è da considerarsi senza dubbio da leggere.
Incuriosisce soprattutto per l’originalità nella scelta, da parte dell’autore, dei due soggetti posti a confronto.
Colpisce, nel corso della lettura, per la profondità di analisi e la puntualità nella dimostrazione delle analogie e dei punti in comune tra Nietzsche e Vasco Rossi.
La scrittura è fluida, scorrevole, coinvolgente.
L’organizzazione strutturale interna è armonica, l’autore riesce a tenere bene l’equilibrio tra citazioni e analisi.
La differenza sostanziale che intercorre tra i relativi ambiti di appartenenza – quello teorico-filosofico e quello poetico-musicale -, inoltre, lo rende appetibile sia da un punto di vista tendenzialmente divulgativo, sia da un punto di vista riconducibile all’analisi storico-sociale della cultura e delle idee.”
Leonardo

“Interessante e originale esperimento poetico-filosofico. L’opera è interessante e ben scritta. Notevole la ricchezza di contenuti. Coinvolgenti le tematiche trattate. Ottimo lo stile conciso. Sostenuto da un approfondito lavoro di ricerca, questo libro è il punto di riferimento imprescindibile per quanti vogliano avvicinarsi alla poetica di Vasco.”
Cristina

“Interessante sia dal punto di vista stilistico che da quello del contenuto.
Una profonda analisi filosofica su Vasco Rossi. Le citazioni e i riferimenti ai testi del cantautore impreziosiscono l’opera; il linguaggio utilizzato è formale, ricercato, adatto insomma al genere di testo che viene presentato. I fan di Vasco potranno trovare una vera dissertazione sul poeta che da anni ha contributo a scrivere la storia della musica italiana.”
Francesca

“‘6000 piedi al di là dell’uomo e del tempo’… E su un altro livello rispetto agli altri cantautori. Un esperimento, un libro per pochi, per i contenuti, per il rigore analitico, per la quantità di riferimenti e citazioni e per lo stile tagliato, sincopato, metal. Una provocazione che intende sfidare il lettore a trovare luoghi in cui si sia mai parlato con Vasco in modo più approfondito.”
Mueck

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