“Dolce al soffio di De André” di Gioia Lomasti, la nuova edizione

Gioia Lomasti  presenta la sua nuova Opera  Dolce al soffio di De André di Gioia Lomasti – Riedizione Ottobre 2012 Rupe Mutevole Edizioni

COMUNICATO STAMPA

 
Si inaugura la riedizione di “Dolce al soffio” di Gioia Lomasti, al Milano Book Fair – Ottobre 2012, opera poetica dedicata al cantautore Fabrizio De André ed ispirata alle sue canzoni, che ne sottolinea i passaggi in tintura e in vernissage particolari, provocazioni al piatto sentimento che si concretizzano nella Poiesis, nella costruzione della Femina Faber, la Lomasti, appunto, che assurge fra distici, terzine edenjambement, concretizzando il sogno di De André in quella “Direzione ostinata e contraria“, seppur restando nella propria sublimità di una quasi impercezione. Non siamo di fronte ad un esercizio di metrica, ma è interessante il verso nell’abituare il lettore al canto intimato, mai forzato eppur scorrevole e ritmico.

Un must per gli amanti del Cantautorpoeta e per chi ha piacere nella lettura della poesia di valore.

Ad impreziosire ulteriormente questa seconda ristampa, partecipano Stephen Alcorn per la concessione delle linoleografie in copertina e all’interno libro, Norman Zoia, paroliere/coautore di Pino Scotto e dei Vanadium, Mariano Brustio, memoria storica del Faber, il giornalista e critico Alessandro Spadoni, Alessandro D’AngeloMarco Nuzzo e Marcello Lombardo per la Direzione d’opera.

L’opera include la bibliografia dell’autrice a cura di Emanuele Marcuccio, la biografia curata da Marcello Lombardo e la sezione progetti a cura di Francesco Arena.

Dolce al soffio di De André Opera edita da Rupe Mutevole edizioni, e’ inserita nella collana Sopralerighe diretta da Gioia Lomasti.

Di Marco Nuzzo e Marcello Lombardo

 

DALLA PREFAZIONE

La poesia è liberazione dell’anima, capacità di andare oltre il reale per raggiungere quell’indefinita sfera del nostro essere che è l’inconscio. È un’operazione complessa, autentica, inimitabile se condotta con l’unico fine di comprendere l’umanità nascosta in ciascuno di noi e quelle spinte interiori che ci muovono e ci rendono unici e irripetibili. È un viaggio difficile, mai sicuro, e che non sempre paga. Molti sono coloro che si sono perduti o hanno preferito rinunciare e affidarsi al tecnicismo modaiolo che oggi imperversa in ogni ambito della cultura. Pochi hanno tenuto duro con costanza e abnegazione raggiungendo il cuore più profondo del “fare poesia”. Non c’è alcuna ricompensa, se non quella di aver tentato di dare un senso alle dinamiche oscure che ci circondano, di aver messo in luce quel sublime assurdo impasto di passioni, istinti, egoismi che identificano la nostra anima. In questo Gioia Lomasti è certamente una navigatrice esperta che ha saputo unire alla melodia del verso la più profonda capacità di muoversi attraverso i gorghi dei sentimenti umani per renderli manifesti al lettore nella loro drammaticità e intensità. L’impegno della poetessa ravennate va oltre il compiacimento estetico della parola e si concentra su quella musicalità dolente e densa di significato che affonda le sue radici nella più genuina e spontanea espressione delle problematiche umane. A questo si unisce la riflessione sulla lezione del grande cantautore Fabrizio De André che ha non solo influenzato la prosa metrica della Lomasti, ma ha anche definito l’ossatura di un pensiero poetico che si è sviluppato e concretizzato nella sua profondità di intenzione e ragionamento. Lungo il delicato fraseggio della sua poetica si scorge la “delicatezza” di un’anima che intende andare incontro all’altro, comprenderlo, amarlo. Nessun giudizio, nessuna pretesa di imporre una propria visione dell’esistenza che è sempre particolare, soggettiva, imperfetta, ma un autentico desiderio di far nascere nel lettore passioni inaspettate che le mettano in condizioni di riflettere sul proprio agire quotidiano, sui propri errori e di porvi in qualche modo rimedio. In questa azione “maieutica” di rimessa in discussione delle proprie certezze fa da sponda una padronanza assoluta del linguaggio metrico, della parola evocativa che scardina i sigilli dei nostri segreti per arrivare al nocciolo della nostra esistenza, del nostro “esserci qui ed ora” con tutte le fragilità, le differenze, le debolezze che ci caratterizzano e ci rendono così meravigliosamente umani. La lettura è diretta, rapida, ma, al tempo stesso, di sconvolgente complessità in modo tale che nulla è dato per scontato e il significato va recuperato solo al termine della lettura. Un libro che non va soltanto letto, ma afferrato nella sua autenticità, nella sua bellezza, nella sua sensibile emotività.

A cura di Alessandro Spadoni
Giornalista e critico letterario

 

 

DIRITTI IMMAGINI LINOLEOGRAFICHE

STEPHEN ALCORN

©2012 THE ALCORN STUDIO & GALLERY

www.alcorngallery.com

 

Gioia Lomasti nasce nel luglio 1973 a Ravenna dove vive e lavora in ambito culturale Promotrice di scrittura.
Redazione e rassegna stampa presso vetrinadelleemozioni.blogspot.com, direzione di collane editoriali dedite alla poesia-prosa-narrativa, direzione di antologie AA.VV. Coordina assieme a Marcello Lombardo e al suo Staff di collaboratori il sito vetrinadelleemozioni.com quale canale per un supporto di promozione artistica dedita agli autori. Cura centinaia di pagine nel web e su Facebook ponendo in risalto autori emergenti di talento. Opera nel sociale, crede nel valore dell’amicizia, fonte di vita e condivisione.

Link di riferimento: www.poesiaevita.com

 

Info ordini info@vetrinadelleemozioni.com
Quest’opera sarà immagine d’impegno per la realizzazione di progetti benefici

Marco Nuzzo intervista Emanuele Marcuccio

Intervista a Emanuele Marcuccio

a cura di Marco Nuzzo

 

MN: Su invito di Gioia Lomasti, ho deciso di intervistare Emanuele Marcuccio, poeta, scrittore, aforista e collaboratore editoriale per Rupe Mutevole Edizioni, consigliere onorario per il sito “poesiaevita.com” e caporedattore per il blog “Vetrina delle Emozioni”.

Quando e come nasce il tuo desiderio di scrivere in versi?

EM: Il mio amore per la poesia nasce nel 1985, in prima media, grazie alle lezioni di italiano, tenute dalla prof.ssa di italiano, storia e geografia. Però, solo nel 1988, in quarta ginnasiale ho sentito il desiderio irrefrenabile di scrivere in versi, ma erano solo pasticci, solo esercizi, non erano poesie, scrivevo anche senza essere ispirato – grave errore – solo nell’aprile 1990 (in quinta ginnasiale) scrissi la prima poesia “La scuola è in alto mare”, in un gruppo artistico, durante il periodo delle occupazioni scolastiche, fu subito pubblicata nella bacheca della scuola e, per la prima volta mi chiamarono “poeta”; proprio questa poesia dà l’incipit alla mia raccolta Per una strada, pubblicata da SBC Edizioni nel 2009. Sono stato ben felice di inviarne una copia con dedica autografa alla cara prof.ssa delle medie, ormai in pensione, e non si riteneva degna della dedica.

MN: Cosa vuol dire, per te, fare Poesia e cosa non deve mai mancare in un tuo scritto?

EM: “Poesia” è una parola che deriva dal verbo greco “ποιέω” (poiéo), che significa “faccio”, “costruisco”, quindi, il poeta è colui che fa, costruisce (con le parole). La poesia è la più profonda forma di comunicazione verbale mai creata dall’uomo per esprimere i più reconditi sentimenti umani, le più profonde emozioni, anche se non si esprimono mai chiaramente ma, come trasfigurati; come ci insegna Ungaretti in una meravigliosa intervista del 1961, non si riuscirà mai ad esprimere appieno la propria anima. Poi, la poesia è anche musica, anzi, la precorre e la contiene in sé ed è la mia maniera di fare musica, infatti, amo molto la musica classica e molte mie poesie sono ispirate dall’ascolto di essa; anche se non scrivo in rima, eccettuate solo tre poesie, solo la rima spontanea contempla la mia poesia, dipoi, la musicalità e la fluidità del verso e, proprio queste ultime caratteristiche non devono mai mancare in un mio verso, oltre alla spontaneità di quello che io chiamo “il primo fuoco dell’ispirazione”.

MN: Come sono strutturate le tue opere? Utilizzi la metrica, la rima e/o delle figure retoriche particolari e perché?

EM: Nelle mie poesie non utilizzo la metrica, sarebbe troppo vincolata la mia ispirazione, sarebbe come ingabbiata, non mi sentirei libero di esprimermi, anche se il critico letterario e poeta Luciano Domenighini, in un breve saggio critico al mio Per una strada, rileva in alcune poesie delle forme di metrica spontanea, ovviamente nel senso di lasse e non di strofe che, non potranno mai essere spontanee. Recentemente sono stato ben felice di intervistarlo per il blog “Vetrina delle Emozioni”. Seguo una struttura su due fasi fin dal 1990: la prima fase è quella che io chiamo “il primo fuoco dell’ispirazione”, che può giungere in qualsiasi momento con l’affiorare alla mente dei primi versi, quindi, mi metto subito a scrivere in brutta copia su di un qualsiasi foglio o pezzo di carta e, mentre scrivo, penso i successivi versi da mettere sulla carta. Basti pensare che, il grande poeta Giuseppe Ungaretti usava appuntare le sue poesia anche in trincea utilizzando la carta che avvolgeva le cartucce. La seconda ed ultima fase si riferisce alla ricopiatura in bella copia con i vari aggiustamenti grammaticali e retorici, aggiungendo, a volte, anche dei nuovi versi o parole. In seguito, durante la correzione di bozze e in previsione della pubblicazione, potrei operare dei piccoli cambiamenti variando la posizione delle parole, sostituendo qualche parola, la disposizione dei versi, a volte anche gli “a capo”, perché, quello che cerco, oltre alla freschezza della spontaneità, che è la prima cosa, è la fluidità e la musicalità del verso, senza quasi mai usare la rima, servendomi di giochi fonetici delle consonanti e coloristici delle vocali giungendo in alcune poesie alla metrica spontanea, senza mai stravolgere il senso e l’ispirazione primigenia della poesia. E, volendo essere più preciso, da ca. due anni, dopo aver appuntato la poesia su un foglio di carta, non la ricopio subito sul quaderno, ma faccio passare anche una settimana mettendo il foglio in mezzo al quaderno, come se volessi farla “decantare”, anche se sono astemio. Uso le figure retoriche, anche se le uso in maniera spontanea, penso che nessun poeta possa mai prescindere dall’uso di almeno una figura retorica. La figura retorica che uso di più è l’enjambement, poi, mi piace molto l’anafora e indulgo spesso all’elisione, sempre per esigenze di fluidità del verso e musicalità. Penso che un verso in enjambement doni un grande respiro e maggiore fluidità al verso, piuttosto ché un semplice “a capo”. Non scrivo in rima per scelta, per me questa blocca o vincola l’ispirazione poetica, finora, su 131 poesie, ho scritto solo tre poesie interamente in rima e in rima libera. In altre poesie, se la rima raramente è presente, è solo spontanea.

MN: Quando scrivi, ti ispiri ad altri poeti o ricerchi una tua personalità, un tuo modo di poetare?

EM: In passato mi ispiravo ad altri poeti, dal 1990 al 1996 ca. Avevo bisogno di modelli da cui partire, ero molto influenzato dagli studi liceali, mi ispiravo a Foscolo, a Leopardi, a Petrarca, agli stilnovisti e ai lirici greci. Per quanto riguarda, Foscolo, Leopardi, Petrarca e gli stilnovisti, i riferimenti si possono ricondurre ai vocaboli utilizzati e non all’imitazione del loro stile e, nella poesia “Rammarico” ho cercato di rivisitare lo stile dei lirici greci, mentre, nella poesia “Amor” ho cercato di rivisitare lo stile degli stilnovisti, facendo ricorso alla rima e senza usare la metrica, con la riproposizione del tema della donna-angelo, tanto caro agli stilnovisti. Questa poesia rappresenta un unicum nella mia produzione poetica. Dal 1997 il mio stile abbandona sempre più questi modelli ricercando uno stile sempre più personale fino ad arrivare nell’agosto 2010 a scrivere una poesia priva di alcun segno di interpunzione, con la quale, credo si sia inaugurata la terza fase del mio percorso poetico. Pubblicata in un’antologia poetica di autori vari Frammenti ossei, edita da Limina Mentis Editore lo scorso maggio, ad appena nove mesi dalla sua scrittura.

Trascinarsi (21/8/2010)

Acciaio rovente

mi tempesta il cuore

e non mi fa vivere

Tremendo m’arroventa

smarrito il mio andare

e m’inabissa

vuoto

Tedio mi sovrasta

avanzo e mi fermo

e mi sommergo di ricordi

e mi sommerge in un abisso

MN: Ci parleresti del tuo Per una strada?

EM: Per una strada è la mia raccolta di poesie, edita dalla ravennate SBC Edizioni nel marzo 2009, è attualmente l’unica raccolta di poesie, conta ben 109 titoli e i temi sono molto variegati; sono le poesie che ho scritto tra il 1990 e il 2006. Sono sedici anni, con le mie sensazioni, con le mie emozioni, con le mie letture, con i miei studi, con le mie gioie, con i miei dolori, con le mie delusioni, con le mie nostalgie, con i miei rimpianti, con le mie ribellioni, con le mie rinunce, con i miei sbagli, con la mia indifferenza per il proprio dolore, un dolore ben più profondo di quello fisico, e mai per l’altrui e, con un silenzio tra il 2002 e il 2005. Per comodità possiamo dividere Per una strada in due parti: una grande prima parte che va dal ’90 al ’99 ed una seconda parte, più piccola, che va dal ’99 al 2006. Nella prima parte ci sono anche tre omaggi al grande poeta spagnolo Federico García Lorca, di cui ho cercato di imitare, in maniera personale, lo stile. Le tematiche di questa prima parte sono varie e particolareggiate, si va da poesie dedicate a grandi scrittori e poeti come, Vittorio Alfieri, Giacomo Leopardi, Leonardo Sciascia, Seneca; a episodi di libri, come ne “Lo squarcio nel cielo di carta”, ispirata ad un episodio de Il Fu Mattia Pascal di Pirandello, o a personaggi mitici della letteratura come in “Nausicaa”, “Oreste ad Elettra”, “Ad Astianatte”, “Amleto”, “Cirano di Bergerac”; a compositori come Chopin, Bartók, Prokof’ev, Saint-Saëns.

Si passa da tematiche introspettive come in “Malinconia”, “Indifferenza”, “Ricordo”, “Sogno”, “Desiderio improvviso”, “Stelle sul mare”, “Palermo”; a tematiche civili come ne “L’inquinamento”, “Pace”, “Albania”, “Massacro”, “Urlo”, quest’ultima scritta nel giorno del primo anniversario della strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone insieme alla moglie e agli uomini della scorta. Si va da poesie dedicate alla visione di quadri come “Le mietitrici” di J. F. Millet, “Alla Gioconda” di Leonardo da Vinci; a poesie dedicate a personaggi storici come “Annibale”. C’è anche il tema religioso, come in “Perdono” e “Perdona!”. Per passare ufficialmente dalla prima alla seconda parte utilizzo la poesia “Veritiero ardir”, con la quale annuncio il mio cambiamento di stile, scritta nel 1999, all’indomani della notizia della prossima pubblicazione, in un’antologia, di 22 mie poesie; ma già in alcune della prima parte sono ravvisabili dei piccoli cambiamenti di stile come in “Istante di tempo”, “Urlo”, “Cime”, “Indifferenza”, “Palermo”, “Barbagianni”, “Sé e gli altri”, “L’orologio”, “Piccola ambulanza”, “Ultimi pensieri di un robot”, quest’ultima ispirata alla morte di Roy, dal film Blade Runner di Ridley Scott. Si ravvisano cambiamenti ancora più sostanziali anche in “Memoria del passato”, “Per una strada”, “Picchi di silenzio”, “Stelle sul mare”, “Desiderio improvviso”, “Fuoco”. Con mia grande sorpresa, come ho detto poc’anzi, grazie al critico Domenighini ho scoperto che, in alcune mie poesie c’è della metrica spontanea, come in “Canto d’amore”, “Il grillo col violino”, “Dolcemente i suoi capelli…”, tutte e tre appartenenti alla seconda parte. A partire dalla seconda parte, che copre indicativamente gli anni dal 1999 al 2006, il mio stile si fa più profondo e maturo, non più necessariamente legato a poeti specifici, tranne ne “Il grillo col violino”, in cui vi è ravvisabile il Pascoli nell’uso delle onomatopee e, in “Dolcemente i suoi capelli…”, un mio piccolo omaggio alla grande stagione della poesia italiana dei tempi passati. Una poesia ispiratami guardando di sfuggita il viso di una ragazza che, dolcemente giocava con i suoi capelli, facendone anelli con le dita, alla fermata dell’autobus ed io ero sull’autobus, è stato lo sguardo di un attimo fuggente. In questa seconda parte inizio a raggiungere il mio ideale poetico: la semplicità di espressione unita alla profondità di significato. Per quanto riguarda le tematiche di questa seconda parte, abbiamo la tematica civile, come in “Per i rifugiati”, “Verde, bianca, rossa terra”, quest’ultima ispirata ai vari episodi di violenza che, purtroppo avvengono in Italia e spesso compiuti da chi è chiamato a far rispettare la legge, ecco il perché di questo titolo così significativo.  Abbiamo la tematica introspettiva che, penso non debba mai mancare tra i temi delle poesie di qualsiasi poeta, come in “Canto d’amore”, “In volo”, “Là, dove il mare…”, quest’ultima, scaturita, a due mesi di distanza da una delusione amorosa, in cui c’è il desiderio di dimenticare, anche se permane il dolce ricordo di questo breve amore. Proprio per questa poesia nel luglio 2010 mi è stata assegnata una menzione d’onore al I premio internazionale d’arte “Europclub” Messina – Taormina 2010. Abbiamo il tema della dedica, come in “Fremere”, poesia dedicata a mio padre, mancato lo scorso gennaio, non vedente da quando avevo un anno; in cui ho cercato di immaginare quello che potrebbe provare un uomo che diventa non vedente. Abbiamo il tema degli episodi o personaggi di argomento letterario, come in “Veglia notturna di Hagen”, “Natasha”, quest’ultima dedicata alla figura di Natasha Rostova, ispiratami dalla lettura del romanzo classico di Tolstoj Guerra e pace, una lunga e impegnativa lettura di quasi 2000 pagine. Abbiamo il tema paesaggistico, come in “Primavera” e in “Paesaggio”, in quest’ultima vi è la descrizione di un paesaggio dell’anima e non di un paesaggio necessariamente reale. Abbiamo il tema religioso nella poesia “Accoglili nella Tua pace, Signore!”, che ho anche tradotto in inglese ed è stata pubblicata da un editore americano un anno prima della sua versione originale. Poesia ispiratami da un tragico avvenimento di cronaca locale, l’annegamento di due pescatori, avvenuto nel mare che costeggia la mia amata e martoriata Palermo, che tanta fonte d’ispirazione è per me. E, c’è una curiosità: la poesia “Affollamento e inutili affanni”, che conclude la raccolta, pensa che l’ho scritta in piedi su un autobus affollato.

MN: Come e quando cresce, in te, la voglia di pubblicare e perché? Perché questo titolo: Per una strada?

EM: Mi sono deciso a pubblicare per la prima volta nel 1999, infatti, ventidue poesie sono state editate nell’agosto 2000, nell’antologia di poesie e brevi racconti di autori vari Spiragli 47, dalla milanese Editrice Nuovi Autori. Mi sono deciso dopo i numerosi apprezzamenti da parte dei miei amici, parenti, conoscenti e, soprattutto da parte dei professori del liceo; tutti mi raccontavano che si emozionavano leggendo le mie poesie e questo voglio, che le mie poesie emozionino un sempre più vasto pubblico di lettori. Come scrivo in un mio aforisma “Il poeta cerca sempre di emozionare i suoi lettori, è questo il suo fine e, quando quelli capaci e nella sua stessa linea d’onda si accostano ai suoi versi, scatta la comunicazione e, di conseguenza, l’emozione e l’ascolto. La semplice lettura rimarrebbe lettera morta.”.  Per una strada, come ho già detto prima, è la mia raccolta di poesie, finora l’unica e, questo titolo ha un’origine davvero curiosa, ogni volta che lo racconto sembra un aneddoto, e invece è la pura verità. Un pomeriggio autunnale e novembrino del 1998, per strada c’erano gli alberi senza le fronde, un pomeriggio ombroso, ventoso e senza sole, che annunciava un temporale. D’improvviso mi raggiunse l’ispirazione e, non avendo null’altro su cui scrivere se non il retro di uno spiegazzato scontrino della spesa, presi la mia penna e vi appuntai subito questa poesia, da cui in seguito prenderò il titolo per la mia raccolta.

Per una strada (10/11/1998)

Per una strada senza fronde

si aggira furtivo e svelto

il nostro inconscio senso,

passa e non si ferma,

continua ad andar via

e non si sa dove mai sia.

Quando la scrissi, la misi pure da parte, mi sembravano quasi insignificanti quei versi, sfuggiva anche a me il suo significato profondo, in seguito capii che, quell’apparentemente semplice poesia nascondeva in sé l’essenza della mia stessa ispirazione, furtiva e svelta, che passa e vola via e, se non l’afferro e la trattengo nel mio cuore con i versi che metto sulla carta, passa e vola via e nessuno sa più dove mai sia. Poi, ho intitolato la mia raccolta Per una strada, proprio perché l’ispirazione, furtiva e svelta, mi ha raggiunto, la maggior parte delle volte, proprio per strada: camminando, sull’autobus, ecc… E c’è un’ultima motivazione, ben più profonda o, forse si tratta della motivazione ultima? Proprio per la presenza di quel “senza fronde”, che ha un significato proprio e metaforico al contempo; con quel “senza fronde” ho cercato di riassumere il sentimento di straniamento e di smarrimento dell’uomo contemporaneo, che si ritrova privo di valori e di qualcosa in cui credere, simile ad un albero in autunno, spogliato delle sue foglie. Sorge quindi il bisogno di aggrapparsi a qualcosa o a Qualcuno in cui credere, prima che anche le radici vengano strappate via dalla tempesta dell’inverno.

MN: Da alcuni anni, stai lavorando alla stesura di un poema drammatico. Un sentiero lungo e irto, basti pensare al Faust di Goethe, che impiegò una vita intera per esser scritto; un viaggio, il tuo, lungo il quale ben pochi si sono addentrati, una scelta stilistica notevole e affatto semplice, soprattutto se trasposta in un contesto lontano dal proprio, come può essere l’ambientazione stessa. Ci anticiperesti qualcosa del tuo poema drammatico? Perché questa scelta? Come mai l’ambientazione in una terra a noi lontana sia cronologicamente, che per usi e costumi quale è l’Islanda del IX secolo d.C.?

EM: Effettivamente, con mia grande sorpresa, il genere letterario del poema drammatico è stato affrontato ben poche volte in tutta la storia della letteratura. Si tratta di un testo teatrale, disposto in versi, di carattere drammatico e con un lieto fine, a differenza di una tragedia che, quasi sempre disposta in versi ma, priva di un lieto fine. Appunto, il Faust di Goethe è un poema drammatico, il più vasto e grande che sia mai stato scritto, Goethe vi si dedicò per sessant’anni, ne aveva solo ventitré quando iniziò a scriverlo e, pose la parola “Fine” un anno prima di morire. Io – devo correggerti – sono quasi vent’anni che mi dedico al mio e, sono quasi alle battute finali, mi manca di terminare di scrivere il quinto e ultimo atto e dare una revisione finale a quasi tutto il terzo e al quarto atto. Ho trovato solo due esempi contemporanei di poema drammatico: uno in tre atti Nausicaa del 2002, del poeta, mio conterraneo, Giuseppe Conte e, uno in un atto Il libro di Ipazia del 1978, di Mario Luzi, il grande poeta scomparso nel 2005. Anche nella storia della letteratura, come ho detto prima, il genere è stato frequentato poche volte: ricordiamo il Peer Gynt, del grande drammaturgo norvegese del XIX sec. Heryk Ibsen e, il Manfred, del grande poeta del romanticismo inglese George Gordon Byron, poi, che io sappia e, da quanto ho potuto sapere, non ci sono altri casi. Proprio durante la lettura del Peer Gynt di Ibsen ho deciso di definire il mio scritto “Poema drammatico”, all’inizio lo definivo “Tragedia storico-fantasiosa” ma, le tragedie non hanno un lieto fine e io non vorrei farlo terminare in tragedia, così, ho deciso di cambiare e stavo terminando di scrivere il terzo atto. Il mio poema drammatico l’ho intitolato Ingólfur Arnarson, è in un proemio e cinque atti. Lo sto scrivendo fin dal 1990, ovviamente non è in rima, ambientato al tempo della colonizzazione dell’Islanda, di argomento storico-fantastico. L’ambientazione è storica ma, la trama è fantastica, l’unico personaggio storico-leggendario è Ingólfur che, non è neanche sicuro se sia mai esistito, le notizie sulla sua vita sono solo leggendarie e, ancor più il suo approdo in Islanda; ecco perché ho scelto questo tempo, avvolto da leggende e lontano, il IX sec. d.C. avendo così modo di sbizzarrire la mia fantasia. Gli altri personaggi sono interamente frutto della mia fantasia, ricavandone i nomi dall’islandese, anche i cognomi sono immaginari e ricalcano stilemi che ricordano il norvegese; preciso che, non conosco né l’islandese, né il norvegese, semplicemente, mi sono documentato sui nomi e la pronuncia, ovviamente, gli indigeni, che si incontreranno dal secondo atto in poi, non hanno cognome e, anche la loro presenza è del tutto fantasiosa. Ho anche creato una distinzione tra, i vichinghi, che chiamo “barbari”, in quanto non civilizzati ed i normanni civilizzati (i norreni), gli antichi colonizzatori dell’Islanda; non ho voluto impelagarmi con il paganesimo e tutte le sue conseguenze, infatti, ho immaginato i personaggi, contro ogni criterio storico, come dei pagani non credenti e per questo li chiamo “normanni” e non “vichinghi”, che, invece, sono pagani credenti e pirati e sanguinari violenti. Mi sono innamorato dei meravigliosi paesaggi islandesi, pur non essendoci mai stato e vedendoli solo in fotografia, su un opuscolo turistico inglese, regalatomi in quinta ginnasiale, che conservo gelosamente, tanto da avermi ispirato la scrittura di un poema drammatico, ambientato appunto in Islanda. Dici bene, scrivere un poema drammatico richiede uno sforzo immenso e, qualcuno mi ha detto che mi sono imbarcato in un’impresa titanica e, anche adesso, pur essendo quasi alla fine, mi sento di darvi ragione: ho quasi un senso di vertigine e paura di essermi spinto forse al di là delle mie forze creative. Pensa, un caro amico compositore, dopo aver letto il proemio e un paio di scene del primo atto (una tempesta, una battaglia e un monologo), ha deciso di scrivere le musiche di scena per questo mio poema drammatico. Attualmente sta scrivendo una prima bozza di pot-pourri dei brani che saranno poi inseriti, come musiche per i vari atti e, pensa, anche il suo maestro di composizione gli ha dato il suo parere favorevole. Preciso, si tratta di musiche di scena in senso proprio, non di un’opera lirica, magari, in futuro potrebbe pensarci un altro compositore. La poesia fa parte del mio essere, la prosa non è nelle mie corde (preferisco leggerla), non riuscirei mai a scrivere un racconto, né un romanzo, ecco perché ho scelto il teatro e un poema drammatico per cercare di esprimere la mia vena narrativa e, al contempo, continuare a cercare di esprimere la poesia che il cuore mi detta. Con la scrittura di questo poema non ho voluto conformarmi alla spontaneità, alla facilità dell’immediatezza espressiva, come ho fatto di solito con le mie poesie; la spontaneità rimane però la prima idea, il primo fuoco dell’ispirazione che, negli anni ha subito vari ripensamenti e successive modifiche formali. La spontaneità rimane perché ho sempre atteso l’ispirazione per scriverlo, non mi sono mai seduto a tavolino e – adesso scrivo – e sono passati più di vent’anni da quel primo abbozzo in prosa del 1989, del solo primo atto, abbozzo in prosa ormai perduto. Poi,dal 1990 trasposto in versi aggiungendo il proemio e proseguendo di seguito direttamente in versi, senza prima abbozzare in prosa gli altri quattro atti.

MN: Emanuele Marcuccio è anche aforista; quanti aforismi hai scritto ad oggi?

EM: Sì, dal 1991 ho scritto ottantuno aforismi e quattro sono stati pubblicati lo scorso dicembre nell’antologia del premio internazionale per l’aforisma Torino in Sintesi, II edizione – 2010, edita da Joker Edizioni. Le tematiche principali di questi aforismi riguardano la vita, l’amore e la poesia. Di questi miei aforismi, ne voglio citare uno dei quattro editi: «Solo al momento della morte, questo nostro orologio sconnesso della vita darà l’ora esatta.».

MN: Un lavoro a tutto tondo, dunque, che si completa con la collaborazione editoriale per una casa editrice e, per diversi siti e blog letterari, con la partecipazione a concorsi di poesia con non pochi risultati. Ce ne parleresti più approfonditamente?

EM: Sì, io che ho penato quasi dieci anni per poter pubblicare il mio libro (il titolo di “Per una strada” lo avevo pensato fin dal 1999), sono stato ben felice e molto meravigliato di ricevere il 9 giugno dell’anno scorso una proposta di collaborazione editoriale da parte di una casa editrice diversa da SBC Edizioni. Con Rupe Mutevole nel giugno 2009 avevo pubblicato due mie poesie inedite nell’antologia Poesia e Vita, scritte successivamente alla stesura della mia raccolta Per una strada, con queste due poesie, nel mio piccolo, ho contribuito, insieme ad altri 49 autori, nell’aiutare il piccolo Emanuele Lo Bue che, da anni versa in uno stato di coma neurovegetativo. Ci tengo a ringraziare qui la cara amica poetessa Gioia Lomasti, promotrice e organizzatrice di questa lodevolissima iniziativa di solidarietà e, proprio lei ha proposto il mio nome all’editore, dapprima come autore e poi come collaboratore editoriale. Così, a novembre 2010 è uscita la prima raccolta di poesie a mia cura e, sono stato ben felice di curarne anche la prefazione; l’autrice è la stessa Maristella Angeli che, a fine agosto ho intervistato per il blog “Vetrina delle Emozioni”, la raccolta in questione è Il mondo sottosopra, la sua quinta raccolta. Lo scorso febbraio, invece, è uscita proprio la tua, sempre a mia cura e, con una mia nota di commento a pag. 7, era la tua Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso. E un’anticipazione: massimo entro dicembre prossimo uscirà la terza raccolta a mia cura, di cui ho curato anche la prefazione e, per espresso desiderio dell’autrice, posso anticipare soltanto il titolo: Petali d’acciaio. E il 15 settembre scorso ho scritto questo poetico augurio, così, di getto… in omaggio a tutti gli autori, specialmente quelli pubblicati a mia cura, specialmente quelli di cui ho curato l’intervista.

Che il viaggio fantastico verso lidi

inesplorati cominci,

che tanti lettori faccia sognare…

Viaggiate autori, sognate,

veleggiate, verso lidi inesplorati, credete

credete nei vostri sogni,

non desistete,

non arrendetevi… !

Poi, mi chiedevi dei premi che ho ricevuto… sì, due menzioni d’onore in due concorsi internazionali. La prima nell’aprile 2003 per la lirica “Dolce sogno” al Concorso internazionale di poesia “Città di Salerno”, organizzato dall’associazione culturale “La Tavolozza”. E della seconda ne ho già parlato, nel luglio 2010 per la lirica “Là, dove il mare…” al I premio internazionale d’arte “Europclub” Messina – Taormina 2010.

MN: Preferisci la poesia o la prosa?

EM: Decisamente preferisco la poesia, la prosa preferisco solo leggerla. Come ho detto prima, la poesia è la più profonda forma di comunicazione verbale mai creata dall’uomo per esprimere i più reconditi sentimenti umani, le più profonde emozioni; la poesia riesce ad emozionare, etimologicamente parlando, riesce a portare allo scoperto (l’anima), come scrivo in una mia poesia, riesce a portare allo scoperto “l’obliato proprio sé fanciullo”. La poesia riesce a far conoscere se stessi, riesce ad interrogarci, riesce a farci riflettere, riesce ad emozionarci, riesce a rendere l’ordinario straordinario e, in qualche maniera, anche a migliorarci, a renderci più sensibili nei confronti degli altri. La poesia, infatti, è piacere per gli occhi e per il cuore, qualcosa che ci meraviglia e ci colma d’interesse, che ci spinge a ricercar nuovi lidi, dove far approdare questo nostro inquieto nocchiero che è il nostro cuore. La poesia si nutre di sogni e il poeta non è solo un cultore di sogni ma, sogna, si emoziona e si meraviglia lui stesso; spesso vorrebbe perdersi in quei sogni ma, deve ritornare alla realtà, alla dura realtà, che usa come filtro e come ancora per non annegare nei suoi stessi sogni. La poesia si nutre anche di musicalità, di armonia tra le parole, senza necessariamente fare uso della metrica o della rima. Con tutto il rispetto, la narrativa e la prosa in genere preferisco leggerla e non scriverla ma, anche in questa possiamo trovare della poesia. Però, con la scrittura del mio poema drammatico ho cercato di fondere le due cose in un tutt’uno, ho cercato di scrivere una storia servendomi dell’amata poesia e del teatro e, il teatro, si presta molto a questo genere di connubi, solo così potevo esprimere la mia vena narrativa. Infatti, sulla scorta dei grandi poemi del passato, ho inserito una voce narrante (fuori scena) che, ogni tanto si fa sentire nel corso del poema, questa voce fuori scena rappresenta l’io narrante del poeta, non ho potuto proprio farne a meno. Come scrivo in un mio aforisma “Un poeta non deve mai lasciarsi condizionare dal marketing, dal consumismo o dalle mode del tempo, la sua ispirazione non sarebbe più spontanea e sincera, deve bensì lasciar parlare la propria anima, senza alcun condizionamento.”. Quindi, nessuno può dirmi di scrivere un romanzo, perché così ci sarebbero più lettori ma, mancherebbe la cosa più importante: l’ispirazione. In fondo, la mia risposta al genere del romanzo è il poema drammatico, certamente di gran lunga più impegnativo ma, per me l’unica possibile. E, non è proprio per il poema drammatico che mi hai definito anche scrittore?

MN: Cosa pensi dell’attuale panorama editoriale italiano? Cosa miglioreresti al suo interno e in che modo?

EM: Cito un altro mio aforisma: “Non lasciamo che il mercato sia deciso dai vari lettori di illetteratura che, purtroppo, sono la maggioranza, bisogna che ci siano dei lettori colti e critici, capaci di fare delle scelte di cultura nelle proprie letture. La figura dell’autore, che, prima di tutto deve essere un lettore critico e colto, è l’ideale.”. Sì, se io fossi un editore, vorrei che il comitato editoriale sia formato da altrettanti autori; solo un autorevole comitato editoriale, presente in ogni casa editrice, può dare una svolta all’attuale andazzo editoriale, in cui si dà maggior risalto all’illetteratura e, si mettono in una nicchia opere davvero meritevoli e di valenza letteraria. Proprio per questo motivo la critica letteraria agli autori contemporanei è sempre più in declino, come recentemente ha lamentato Cesare Segre. Ogni tanto si sente di qualche critico letterario che ha scritto sull’opera di un autore sconosciuto al grande pubblico, alla grande editoria ma che, non a caso ha attirato la sua attenzione. Sono i libri di valenza letteraria che fanno la letteratura e alcuni diventano dei classici, il futuro non è dei best-seller e dei libri, preconfezionati ad hoc per un certo tipo di lettori, di qua a cinquant’anni cadranno nel dimenticatoio.

MN: E cosa pensi della cultura nel nostro Paese? Ritieni che i media possano in qualche modo influenzare la cultura e, se sì, come?

EM: Credo che oggigiorno si faccia tanta confusione, la cultura non è semplice intrattenimento, ma è capace di lanciare un messaggio che porti alla riflessione, che porti a conoscere, senza mai smettere di riflettere, perché, proprio la riflessione genera cultura. I mass-media, se la cosa interessasse davvero, potrebbero avvicinare alla cultura, soprattutto la televisione, quella che potrebbe maggiormente influenzare la cultura, quella a cui paghiamo un canone annuale, che ci propina programmi da semplice intrattenimento, mettendo in una nicchia, in orari tardi e proibitivi programmi di indubbio valore culturale. Recentemente c’è stato un minimo cambiamento con il proporre il teatro in prima serata, ma, una rondine non fa primavera.

MN: La poesia che, in qualche modo, ti ha più influenzato? Mi spiego meglio: qual è la poesia che, per un motivo o per l’altro, avresti voluto scrivere e per quale motivo?

EM: Leopardi è il mio poeta preferito, non certo per il sistema del suo pessimismo cosmico ma per l’infinita e meravigliosa musicalità dei suoi versi. Quanto mi ha ispirato la musica dei suoi versi e, “L’infinito” è la poesia che preferisco più di tutte, non solo per i suoi versi infinitamente pieni di musicalità, ma perché la vedo come un’oasi di speranza lungo il deserto del suo pessimismo cosmico: “Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio / e il naufragar m’è dolce in questo mare.”. Pensa, che in una mia poesia giovanile del 1991 ho cercato di imitare la musica di questi versi immensi cambiando le parole, cito dalla mia raccolta Per una strada: “Così, tra questi versi immensi / gioisce l’animo mio, / e l’ondeggiar / mi molce e m’accarezza.”.

MN: Alcune tue poesie sono state tradotte anche in lingua inglese e dialetto siciliano. Ce ne parleresti?

EM: Veramente sono stato io stesso a tradurre quattro mie poesie in inglese e una di queste mie traduzioni, quella dell’allora inedita “Accoglili nella tua pace, Signore!”, nel maggio 2008 è stata pubblicata nell’antologia poetica di autori vari Collected whispers, da Howard Ely Editor, Owings Mills, USA, dunque, quasi un anno prima della versione originale, edita nella mia raccolta Per una strada. In queste traduzioni ho cercato di ricreare in qualche modo la musicalità della versione originale, ho scelto attentamente i suoni di quelle parole, senza badare a particolari questioni linguistiche. In un certo senso avviene una ricreazione della stessa poesia ma, quello che più importa, è che si senta la poesia, che si ascolti la sua voce, che permanga il suo spirito, anche se l’abito è cambiato. E proprio questo ho cercato nel tradurre una mia poesia in inglese. Mentre, per quanto riguarda quella tradotta in vernacolo siciliano, si tratta della mia edita e premiata “Là, dove il mare…”, tradotta con grande maestria dall’amico poeta e commediografo Alessio Patti, della quale ha creato anche un video molto suggestivo ed emozionante. Proprio dalla visione di questo video e, durante la lettura ad alta voce della traduzione in siciliano della mia poesia, mi ha raggiunto l’ispirazione e ho scritto, dopo 125 poesie in italiano, la mia prima e, attualmente unica poesia in vernacolo siciliano “Munnu crudili”, pubblicata lo scorso aprile nell’antologia poetica di autori vari La biblioteca d’oro – Poesie in siciliano, da Unibook, a quasi cinque mesi dalla sua scrittura. A proposito di vernacolo siciliano, in realtà bisogna parlare di lingua siciliana, leggo un brano dalla prefazione, scritta dalla poetessa Santina Russo, curatrice di questa antologia: «La lingua siciliana, troppo spesso declassata da molti a “dialetto” è, in realtà, una lingua a tutti gli effetti. Molti filologi ed anche l’organizzazione Ethnologue, descrivono il siciliano come “abbastanza distinto dall’italiano tipico tanto da poter essere considerato un idioma separato”, come risulta anche confrontando il lessico, la fonologia, la morfologia delle due varietà linguistiche. Peraltro, il siciliano non è una lingua derivata dall’italiano, ma, al pari di questo, direttamente dal latino. La lingua siciliana esiste da centinaia d’anni, la tradizione poetica siciliana nasce con la corte federiciana nel XIII secolo e fioriscono da allora illustri poeti e cantori in siciliano aulico che costituiscono tuttora modelli per un’eventuale canonizzazione della lingua poetica siciliana scritta. […] È doveroso, a tal proposito, specificare che non esiste attualmente una canonizzazione condivisa della lingua siciliana, soprattutto a livello orale, dove sono evidenti le differenze fonologiche, morfologiche e lessicali da una zona all’altra della Sicilia. Diverso, il discorso per la lingua scritta, per la quale esiste una tradizione secolare alla quale poter far riferimento per una produzione poetica siciliana a regola d’arte.». E già Dante gli aveva dato dignità di lingua nel suo De vulgari eloquentia, leggo: «E per prima cosa facciamo un esame mentale a proposito del siciliano, poiché vediamo che il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli Italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano; e che troviamo che molti maestri nativi dell’isola hanno cantato con solennità. […] Il volgare siciliano, a volerlo prendere come suona in bocca ai nativi dell’isola di estrazione media (ed è evidentemente da loro che bisogna ricavare il giudizio), non merita assolutamente l’onore di essere preferito agli altri, perché non si può pronunciarlo senza una certa lentezza… Se invece lo vogliamo assumere nella forma in cui sgorga dalle labbra dei siciliani più insigni… non differisce in nulla dal volgare più degno di lode.».

MN: Quali sono le tue letture? Hai un genere che preferisci su tutti? Perché?

EM: Sì, il mio genere preferito sono i classici della letteratura, proprio perché la letteratura dà voce ai sogni dell’umanità, ai suoi dolori, alle sue speranze e, leggere un classico significa immergersi in un mondo lontano ma allo stesso tempo vicino ai nostri sogni, alle nostre speranze, ai nostri dolori. E, citando un mio aforisma “Se si legge un classico, si va sul sicuro e si evitano delusioni. Perché un classico nasconde in sé tutto un mondo da scoprire, e quel mondo ci assomiglia.”.

MN: E le letture che non leggeresti mai? Per quale motivo?

EM: I romanzi horror e i romanzi rosa: non amo spaventarmi inutilmente e non amo le storie troppo sentimentali.

MN: Cosa spinge, secondo il tuo parere, uno scrittore o un poeta a scrivere e susseguentemente a pubblicare le proprie opere?

EM: Se è un vero scrittore e non un cercatore di facili guadagni, penso che lo spinga a scrivere la voglia di conoscere se stesso, di tirar fuori quello che ha celato in sé. Come scrive Proust ne Il tempo ritrovato “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso.”.

Sì, scriviamo di una realtà come trasfigurata e, nel contempo cerchiamo di porgere al lettore una speciale lente di ingrandimento, che trasfiguri e ingrandisca allo stesso tempo.

MN: Pensi sia importante il confronto con altri autori?

EM: Per me è molto importante il confronto con altri autori, specialmente quando trovo dei punti di contatto con il mio modo di scrivere e di poetare. Su internet sto conoscendo tanti poeti in maniera virtuale e, uno l’ho conosciuto dal vivo ad una presentazione del suo libro di poesie, invitato da lui stesso. Penso che tra colleghi poeti, scrittori, drammaturghi e artisti in genere si debba instaurare un rapporto di rispetto e di stima reciproca e mai di concorrenza, mai avere la presunzione di possedere la verità, purtroppo, questo raramente accade; a questa presentazione, a cui sono stato invitato dallo stesso autore, c’ero solo io tra il pubblico, come autore, gli altri erano tutti lettori e, molto lodevole e nobile, da parte sua, l’avermi ringraziato pubblicamente della mia presenza ed alla fine ci siamo scambiati i nostri rispettivi libri con autografo.

MN: Vuoi anticiparci qualcosa riguardo ai tuoi prossimi lavori e/o progetti?

EM: Oltre al poema drammatico, di cui abbiamo parlato ampiamente e, anticipo che sarà pubblicato in due volumi: il primo volume conterrà i primi due atti ed uscirà molto probabilmente entro il 2012. Poi, ho in preparazione una seconda raccolta di poesie, che ho intitolato Anima di poesia, dal titolo una mia inedita poesia, pensa, questa poesia l’avevo messa pure da parte, come avevo fatto con “Per una strada”, la poesia che ha dato il titolo alla mia prima raccolta. Con la differenza che, “Anima di poesia” non l’ho appuntata dapprima sul retro di uno scontrino della spesa ma, su un semplice foglio di carta. Ho deciso di dedicare tutta la raccolta alla memoria del mio caro papà, mancato il 25 gennaio scorso… E, spero di intervistare tanti altri autori per il blog “Vetrina delle Emozioni” e di curare la pubblicazione di altrettanti libri di poesie.

MN: Grazie per la tua disponibilità, Emanuele e, ad maiora!

EM: A te Marco, semper, è stata una piacevole conversazione!

A cura di Marco Nuzzo                                                                

21 settembre 2011

INTERVISTA PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTORE. E’ SEVERAMENTE VIETATO PUBBLICARE PARTI O L’INTERA INTERVISTA SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

“Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso” di Marco Nuzzo, intervista a cura di Emanuele Marcuccio

Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso di Marco Nuzzo

Rupe Mutevole Edizioni, 2011, collana “Sopra le righe”

opera e nota di commento a cura di Emanuele Marcuccio, cocuratori: Gioia Lomasti e Marcello Lombardo.

Intervista a cura di Emanuele Marcuccio

Da quanto tempo scrivi, come è nato in te il desiderio di scrivere poesie?

Scrivo da sempre, ho sempre amato esprimere su carta le mie sensazioni, penso di esser stato affascinato dalla lettura e dalla scrittura sin dalla più giovane età, ma non solo; ho amato anche l’arte in ogni sua forma, come la musica, le arti marziali e la pittura, forse anche come metodi per esorcizzare la paura, i demoni o le incomprensioni di un mondo che sapevo esser troppo grande, ho messo in atto una ricerca dedita all’esplorazione dell’anima altrui quale specchio per la propria introspezione. Ho cominciato a scrivere poesie solo da qualche anno, dapprima come mero desiderio di provarmi su qualcosa di nuovo e dunque come scavo verso l’Es, la parte primordiale e più naturale del nostro cervello, quello antico e rettile.

Ci potresti spiegare meglio quest’ultimo punto, in che senso “quello antico e rettile”?

L’argomento è molto lungo, tenterò di sintetizzarlo affinché possa render meglio l’idea. Tra il 1960 e il 1970, la conoscenza del cervello umano fece più progressi che nel corso degli ultimi millenni e ciò grazie agli studi dei neurologi Sperry, MacLean e Laborit. Già precedentemente, verso il 1875, Darwin aveva dissacrato l’uomo con la sua teoria evoluzionistica. Vent’anni dopo nel 1895, S. Freud constatava che la maggior parte dei problemi fisici dell’uomo proveniva da pulsioni primitive inconsce. In seguito tali teorie progredirono poco e si restava nel campo delle ipotesi. Quella di Darwin si affinò nel neo-darwinismo e quella di Freud fu malmenata tra i suoi discepoli, quali Jung, Reich, Adler ecc… Nel 1965 R. Sperry ebbe il coraggio di separare i due emisferi cerebrali di un paziente, sperando di porre fine alla sua epilessia. Tale separazione rivelò, con sorpresa di Sperry, che i due emisferi si comportavano da fratelli nemici, restando d’accordo su alcuni compiti, ma in disaccordo sulla risoluzione di altri. Il sinistro era a favore delle ostilità, e si opponeva al destro, che invece era pacifico. Nel 1968 P.D. MacLean, constatò, attraverso l’uso di nuove invenzioni che permettevano di osservare l’attività cerebrale, che l’uomo non aveva un solo cervello, bensì tre cervelli sovrapposti, ognuno di essi comparso e rimasto nel corso dell’evoluzione, passando da quello rettile, a quello mammifero per arrivare a quello ominide. Lo chiamò cervello triunico. Il neurologo Laborit, nello stesso periodo, fornì una spiegazione di alcuni comportamenti umani, conducendo esperimenti sui ratti, tra i mammiferi più vicini all’uomo dal punto di vista comportamentale. Su tali scoperte, che coincisero con la guerra nel Vietnam (dal 1961 al 1975), negli USA sorsero alcune tecniche di saggezza ancestrale (che ormai vengono capite meglio dal punto di vista scientifico), dando vita alla New Age. Questo movimento, ostile allo sviluppo industriale, aspirante alla libertà individuale e alla non violenza, si estese a tutto l’Occidente. Non tutti divennero hippie e andarono a cantare a Woodstock o all’Isola di Wight, molti si interessarono alla meditazione, alla contemplazione e al bio-feedback (utilizzo di apparecchi per il controllo elettrico per la modifica dello stato di coscienza). Come si poteva prevedere, questo paradiso incontrò l’ostilità della società dei consumi da una parte, mentre dall’altra i giovani caddero nella trappola dell’illusione creata dall’uso di droghe, funghi allucinogeni, hashish, il cui effetto era quello di un accesso più rapido rispetto alle antiche modificazioni dello stato di coscienza (yoga, zen, buddhismo, arti marziali “dolci”). Eccetto casi sporadici, questi cercatori di libertà, abbandonarono il movimento New Age e si reintegrarono nel sistema. Ma esaminiamo con maggior cura il cervello triunico: Cervello rettile o rettiliano: È così chiamato perché fu il primo ad apparire, circa trecento milioni di anni fa. È piccolo ma essenziale perché contiene tutto ciò che è vitale, regolando esso la nutrizione, il sonno, l’istinto, i movimenti, la produzione ormonale, l’istinto di riproduzione, ecc. Quindi se siete fieri del vostro grande cervello pensante-parlante, ricordate che non è questo il più importante, ma quello rettiliano, minuscolo, ma che contiene le ghiandole più vitali, come l’ipofisi, l’epifisi, il talamo e l’ipotalamo. È nel nostro interesse conservarlo in buono stato, con una vita sana, con lo sport. Al contrario il sonno irregolare, l’uso di droghe o alcool e una vita sregolata lo danneggiano irreversibilmente. Il cervello rettile ha una memoria a breve termine, impara poco e solo dopo un lungo periodo di addestramento, ed è una fortuna, perché se si lasciasse influenzare dall’uomo, o da certe fantasie intellettuali, non sopravvivremmo per molto. Cervello mammifero o paleo-mammario: Sotto il cervello rettile nasce il cervello mammifero, circa centosessanta milioni di anni fa. Si sarebbe fatto a meno di questo cervello per vivere, ma esso ha dato modo alla nostra specie di migliorarsi. Questo cervello è incredibilmente emotivo e cocciuto. Si è preso una parte talmente grande della nostra vita che ormai funzioniamo su una base emotiva per ritrovare il piacere provato dai nostri cinque sensi. Siccome è anche il centro dei rituali e dei mammiferi (intimidazione, affronto), l’uomo segue queste leggi senza rendersi conto che si comporta come ogni mammifero sano di mente. Il cervello mammifero è molto duro d’orecchi e finisce per credere a quel che viene ripetuto a lungo con tonalità particolari. Capiamo dunque come le religioni, le sette o la politica usino particolari rituali, come canti, litanie o preghiere per imprimere ciò che si intende radicare nelle menti. Potete dunque capire perché sia difficile modificare il cervello mammifero di una persona con altro credo, o perché, dopo una conversazione in cui ciascuno cerca di convincere l’altro con argomenti intelligenti, senza che nessuno dei due ascolti, alla fine se ne vanno pensando “quello non capisce nulla”, non è così? Forse ora che avete capito come funziona questo cervello, smetterete di parlare per convincere, ricollegandovi alla saggezza di Lao Tse: «L’uomo che sa (di non essere ascoltato) non parla, l’uomo che parla (prova la sua ignoranza poiché…) non sa.»Cervello neo-mammifero: Si sovrappone agli altri due all’incirca cinquanta milioni di anni fa. Non lo possiamo chiamare cervello umano perché anche gli altri mammiferi ne hanno uno anche se più piccolo. Questo nuovo cervello è utile ma crede che comandi lui. Le sue capacità sono stupefacenti, è capace del meglio o del peggio; nell’uomo dominato dall’ego, la proporzione del peggio è del 75-80%, contro il 10% del meglio. Ma da dove vengono i lampi di genio? Da dove viene l’introspezione, l’immaginazione fervida, il sapersi guardare nel profondo? Gli psicologi pensano che quest’ultimo cervello non valga molto, in quanto i lampi di genio arrivano quando è a riposo, ad esempio durante la meditazione o la siesta. Ecco dunque spiegato il segreto. Nel cervello antico o rettiliano risiede l’epifisi, la ghiandola pineale, il terzo occhio che già molte culture dell’antichità rappresentavano iconograficamente sia in forma di pigna (vedi lo scettro papale o quello di Osiride, il Bacco dei romani, il dio Tamus), che sotto forma di occhio (Buddha, Shiva, l’occhio di Horus). Le culture del passato associavano quella che noi oggi chiamiamo epifisi ad un organo preposto alla maggior chiarezza mentale ed alla visione interiore. Per Cartesio la ghiandola pineale è il punto privilegiato dove mente (res cogitans) e corpo (res extensa) interagiscono.

Grazie per questo excursus molto interessante che, penso sortirà anche l’interesse dei lettori e che ora mi fa comprendere il perché spesso preferisci essere criptico, emetico nei tuoi scritti… ma continuiamo con l’intervista. Cos’è per te la poesia, cosa non deve mai mancare in una poesia in generale e nella tua in particolare?

Poetare vuol dire utilizzare la semantica per trasmettere un messaggio. La poesia differisce molto dal racconto che, invece, utilizza una moltitudine di parole per esprimere un concetto. In una poesia, credo, non debba mai mancare la capacità di trasmettere emozioni, prescindendo da significato e significante stessi, elementi che passano dunque in secondo piano per far posto alla musicalità. Per questo, nel mio poetare non deve mai mancare questo elemento che io ritengo essenziale. Esasperare un concetto, sia esso tragico, comico o fantastico affinché il cervello elabori sensazioni, secerna adrenalina che sia tremore latente, un possente gremire di sentimenti tangibili, che siano trascinamento dall’alto all’abisso.

E cosa non deve mai mancare nello scritto di uno scrittore?

La fantasia e lo spirito di osservazione. Vedo troppi sedicenti “scrittori” o “poeti” che mancano di idee, come se l’arte stessa in senso lato fosse morta, spersa nel circolo vizioso delle solite tautologie, in un trittico “sole – cuore – amore”. Si ha davvero bisogno di esser definiti scrittori o poeti o artisti o giornalisti per poter scrivere?  Altro non sono che dei titoli, presi troppo spesso per dare importanza ad una figura oggi divenuta di moda, null’altro. L’archetipo dello scrittore è quello del saggio, di colui che sa, che è spinto alla ricerca, che scrive menzogne per esprimere delle verità. Se tale stereotipo poteva andar bene per i tempi andati, ora scrivere è diventata una moda. Tutti scrivono, tutti pubblicano, pochi leggono. Io penso che chiunque possa scrivere dei buoni testi se utilizza l’inventiva, se si auto-insegna a guardarsi intorno.

Dal punto di vista strettamente stilistico com’è il tuo poetare, utilizzi la metrica o solo la rima, o nessuna dei due e perché?

Ogni anima ha un proprio percorso, così deve essere anche per la poesia. La base di partenza, comunque, deve essere il comune studio della metrica, di modo che si possa partire dalla forma per ricercare una libertà di stile proprio. È come per la musica o le arti marziali. Si parte dalla forma, dallo stile, verso la ricerca di un proprio stile che si addica alla propria persona, al carattere, al tutto. Solitamente, nelle mie poesie, non utilizzo la metrica o le rime ma seguo a briglia sciolta un mio “stile privo di stile”, avendo però ben presenti le regole prime che devono comporre un testo poetico. Seguire forzatamente metrica e rime per me vuol dire limitare la libertà della scrittura.

Quanto tempo impieghi per scrivere una poesia?

Molto dipende dal momento. Ci sono momenti in cui scrivere è semplice come lo scorrere di un fiume in piena, altri momenti in cui si abbisogna di tempo, forse ore o giorni; allora mi siedo sulla riva e attendo.

Perché, secondo te, la poesia ha minor pubblico rispetto alla narrativa, tanto da esser considerata di nicchia?
Senza tanti fronzoli, credo che la poesia non riscuota molto interesse se non in certi ambienti culturali e scolastici quale oggetto di studio. Un romanzo è letto da tutti, giovani e meno giovani, la poesia è vista spesso come sintomo di debolezza per chi la legge e per chi la scrive. Poi bisogna considerare il contenuto. Un romanzo lo si legge con più interesse, genera apprensione sino alle ultime pagine, viene pubblicizzato in modo differente dalle case editrici e dalle edicole. Molto spesso le case editrici pubblicano gratuitamente il genere narrativo e a pagamento i libri di poesia, proprio perché sanno che con un romanzo rientreranno dalle spese di pubblicazione, con la poesia se ti va bene rientri tu dalle spese della pubblicazione.

Preferisci scrivere a penna o al PC?

Al PC, per l’unico motivo che, quando sono davanti al PC sono tranquillo e rilassato, il momento migliore per scrivere. Porto però sempre al seguito un foglio e una penna per prendere appunti quando arriva l’ispirazione.

Quali esperienze sono state per te più significative per la tua attività di autore?

Sicuramente l’incontro con Gioia Lomasti, Marcello Lombardo, Matteo Montieri, Emanuele Marcuccio (lo stesso che mi sta adesso intervistando) e la collaborazione per la casa editrice Rupe Mutevole. Ho trovato persone fantastiche con le quali ho avuto il piacere e l’onore di collaborare, gente che ama il lavoro che fa e che dedica anima e cuore per tutto questo. Altra esperienza significativa l’ho avuta collaborando con la poetessa Noris Roberts, Ambasciatrice Universale di Pace in Venezuela e ancora con il Dinanimismo di Zairo Ferrante e Roberta Murroni. Significativi sono stati anche i concorsi nazionali di poesia “Wilde” e “Mario Luzi”, sulle quali antologie sono presente. Detto ciò, la parte più significativa consiste nell’aver scoperto un lato di me che non avevo considerato.

Ti ringrazio, sei troppo gentile, sono stato ben felice di presentarti alla casa editrice per la pubblicazione di Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso, grazie anche a nome dei colleghi assenti ma che leggeranno. Sarà perché prima di essere curatori, siamo soprattutto autori. Come nasce in te l’ispirazione, come organizzi il tuo scrivere, ci sono delle fasi?

Non ho un metodo preciso e sicuro per lasciarmi ispirare… tutto ciò che faccio è rilassarmi e far scorrere i pensieri, divenendo quanto meno cerebrale io possa; il resto consta nella fase di raccoglimento dei pensieri, farne un amalgama e infine trasporli su carta o schermo. Il tutto, come dicevo precedentemente, deve essere condito dall’estremizzazione del dire, dagli ossimori e quanto più mente m’enunci.

Quali libri hai pubblicato oltre a Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso?

Ho pubblicato un libro edito da Aletti Editore dal titolo Ultime Frontiere, uscito quasi in contemporanea nel 2011 con il mio libro edito da Rupe Mutevole, appunto, Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso.

Perché proprio questo titolo Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso?

Siamo un viaggio, un continuo mutare pensieri e sensazioni e spesso siamo soliti guardarci per come ci siamo lasciati indietro la pesantezza dei nostri inverni, spesso incompresi ai più. Avviene di conseguenza che questo nostro atteggiamento segue una via non più naturale e sincera, ma un atteggiarsi aberrante, composto, per come gli altri ci desiderano. Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso parte da qui, parte dallo spogliarsi dell’inverno al quale siamo stati diseducati e camminare sulle proprie sensazioni, sulle proprie canzoni, sul proprio, naturale stile, senza dover per forza accondiscendere al forzato piacere altrui.

La poesia di Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso che ti è più cara o che ritieni più significativa?

È certamente “Apnea n.2”, una simulazione del proprio immergersi dentro, del guardare oltre all’abissale sconforto, è un lasciarsi andare per ritrovarsi perdendosi.

Apnea N°2

Estensione,

placida infusione

in sensi

d’oltreoceano colato,

giochi di luce

trafiggono onde

navigatrici

d’eterno…

– introspezione –

è riconoscermi acqua

nel tacito richiamo

d’assenze passate;

stilla nella nebbia

traccio l’ultima eco,

allontanando

i cerchi nel mare,

confusi

nell’oro del sole

che cauto

spegne l’orizzonte

sul freddo ponente.

E perché non la poesia da cui hai attinto il titolo della raccolta?

Sebbene mi piaccia molto anche quella, credo che in questa poesia si dia una maggiore enfasi alla meditazione che è intenzione del mio dire.

Cosa ti ha spinto la prima volta a voler pubblicare il tuo primo libro?

Sarò sincero. La curiosità e la voglia di veder pubblicato un mio lavoro; penso sia stato questo il motivo principale.

Quali sono i tuoi poeti preferiti, ce n’è uno in particolare?

Su tutti Montale col quale condivido l’ermetismo e poi Dante, W.B Yeats, E.Allan Poe che tutti conoscono come scrittore horror ma non come poeta, Coleridge, Baudelaire, Penna; ma anche Hikmet, la poetessa Claudia Ruggeri, Ungaretti.

E qual è la tua poesia preferita?

Due tra tutte:

Egli desidera il tessuto del cielo

(di W.B Yeats)

Se avessi il drappo ricamato del cielo,

Intessuto dell’oro e dell’argento e della luce,

i drappi dai colori chiari e scuri del giorno e della notte

dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,

stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:

invece, essendo povero, ho soltanto sogni e i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;

cammina leggera perché cammini sopra i miei sogni.

Lamento della sposa barocca

(di Claudia Ruggeri)

T’avrei lavato i piedi

oppure mi sarei fatta altissima

come i soffitti scavalcati di cieli

come voce in voce si sconquassa

tornando folle ed organando a schiere

come si leva assalto e candore demente

alla colonna che porta la corolla e la maledizione

di Gabriele, che porta un canto ed un profilo

che cade, se scattano vele in mille luoghi

– sentite ruvide come cadono -; anche solo

un Luglio, un insetto che infesta la sala,

solo un assetto, un raduno di teste

e di cosce (la manovra, si sa, della balera),

e la sorte di sapere che creatura va a mollare che nuca che capelli

va a impigliare, la sorte di ricevere;

amore

ti avrei dato la sorte di sorreggere,

perché alla scadenza delle venti

due danze avrei adorato trenta

tre fuochi,

perché esiste una Veste

di Pace se su questi soffitti si segna

il decoro invidiato:

poi che mossa un’impronta si smodi

ad otto tentacoli poi che ne escano le torture.

Hai detto che Montale è il tuo poeta preferito ma, perché non compare tra le tue poesie preferite?

Sebbene sia molto legato alla poesia di Montale quale poeta ermetico, effettivamente la forza che viene trasmessa da alcune poesie di altri poeti supera, a mio modesto parere lo stile che si sente proprio. È il caso di questi due poeti, Yeats e Ruggeri. Con Yeats pare di essere in una marea di forza contrapposta, la poesia in sé è in chiave semplicistica, ma la chiusa sconvolge, travia. Con la poesia di Claudia Ruggeri avverto molta affinità sul piano emozionale, stilistico e di significato intrinseco della parola: “Poesia”.

Perché hai scelto Claudia Ruggeri, una poetessa poco conosciuta, le cui poesie sono state pubblicate solo postume?

La prima volta che mi è capitato di leggere una poesia di Claudia Ruggeri sono rimasto senza parole. È proprio ciò che una poesia deve fare. Il suo ruolo è sbattere il tuo cervello come uragani che tracimano gli oceani, oppure deve poterti far naufragare in una dolce musica. Un poeta può essere poco conosciuto, può non diventare mai famoso o diventarlo solo dopo la propria morte, ma se riesce a trasportarti in quel mondo onirico, nel suo linguaggio barocco, se riesce ad evocare ciò che hai dentro, allora diventa il Poeta con la “P” maiuscola. Sta di fatto che mi sarebbe piaciuto conoscere Claudia di persona, purtroppo scomparsa prematuramente nel suo “folle volo”.

Quali sono i tuoi libri preferiti, c’è un libro del cuore?

Amo molto la letteratura horror e di fantascienza, ma leggo anche saggi e ogni cosa che possa suscitare il mio interesse. Il libro che preferisco è “Io sono leggenda” di Richard Matheson.

Ecco, perché la scelta del genere horror?

Molti amano questo genere, scelta rispettabilissima, ma che non mi ha mai attratto, c’è forse qualche motivo in particolare per cui si sceglie di leggere un horror, piuttosto ché un classico, un romanzo storico, un thriller o un libro di poesie?

Penso sia una questione di interessi e di sensazioni che riescono ad evocare una qualche sorta di sinestesia. In effetti, è un mio parere che la scelta del genere horror possa esser ricollegata ad un modo di percepire la realtà. Molti vanno alla ricerca di sensazioni forti, legate alla paura, forse il sentimento più ancestrale dell’uomo o pure la non accettazione di un mondo sin troppo realistico per uno onirico e fantastico. La paura ha sempre fatto parte del nostro essere e, essendo noi uomini, possiamo dire solo “grazie” ad essa se ora siamo qui. L’uomo, la storia lo insegna, ha dovuto difendersi dagli animali, dalle catastrofi e dai propri simili. L’ingegno dell’uomo nasce dalla paura e dallo sviluppo dei pollici opponibili che gli hanno permesso di costruire ripari, fortificazioni, città.

Il termine “Monstrum” inizialmente stava ad indicare un evento fantastico, meraviglioso e divino, atto ad ammonire (dal latino monere), avvisare (l’uomo). Penso si possa definire un sistema premi-punizioni adottato nell’antichità per incutere paura, ma a fin di bene. Con lo sviluppo della letteratura, il termine ha assunto significati sempre maggiormente legati alle paure dell’abisso, di ciò che non si conosce ma che è insito nell’inconscio, quello stesso inconscio di cui parlavo prima, circa la ghiandola pineale, quell’inconscio che ha fatto nascere gli universi di Lovecraft il quale, trascrivendo i propri sogni, dava vita al “ciclo di Cthulhu”.

 Infatti, una tua poesia del tuo Non ti piacerei… ha proprio questo titolo “Cthulhu”.

E citando un passo della recensione di L. M. Cortese al tuo libro “Sorprende, in mezzo a questi paesaggi interiori, la poesia “Cthulhu”, pervasa dell’atmosfera paurosa e decadente del ciclo di miti creato da H.P. Lovecraft (che obbedì, a sua volta, a chissà quali fantasie trasfiguranti).”.

Cthulhu

(di Marco Nuzzo)

Forgia di universi

e placide attese

nei mari più oscuri

e tra le rive di sabbia,

smascherate

da eoni inconsapevoli

di strati di fondo;

tremano,

tra le piaghe socchiuse

le umane miserie,

strappando dal cielo

oceani di sogni,

soffiati in superficie,

velati

da tangibile inconsistenza

che offusca la vista…

nebbia

su acque di porti

socchiusi

da fragili corazze,

il destino si compie

contando al contrario,

resta sveglio,

stanotte

e contempla la fine.

Esattamente. È una poesia che a primo acchito può sembrare fuori luogo, ma a tutto c’è un perché. A parte l’omaggio ad uno dei miei scrittori preferiti, la poesia vuole essere innanzitutto un modo per far comprendere ciò che il sogno e la meditazione siano in grado di partorire.

C’è un genere di libri che non leggeresti mai?

Romanzi rosa

Sì, mi trovo d’accordo con te. Nella tua vita ti è mai capitato qualcosa che ha rischiato di allontanarti dalla poesia, o che ti ha allontanato per un periodo dalla poesia o dalla scrittura in genere?

Capitano periodi in cui si avverte la necessità di allontanarsi dalla scrittura, ma solitamente questo accade solo per le occasioni in cui si avverta di dover riorganizzare le proprie idee. Non penso esista una vera e propria “crisi dello scrittore”, ci sono soltanto momenti in cui si avverte il bisogno di respirare nuove sensazioni per poter ripartire, il bisogno di osservare nuovamente e in silenzio, in completa apatia, mettendo in funzione le onde Alfa del cervello, per meditare. Confucio diceva: «Non importa quanto vai piano, l’importante è che non ti fermi.».

Ami la tua terra, la tua regione o vorresti vivere altrove?
Amo moltissimo la mia terra, amo gli usi e i suoi costumi. La Puglia è una terra aspra e dolce alla stessa stregua, ma ci sono moltissime cose che potrebbero migliorare.

Tra poesia e prosa, cosa scegli e perché?

Non riesco a fare una scelta ponderata. A volte preferisco la poesia, altre la prosa, sono due generi troppo differenti. Amo scrivere in poesia, ma vorrei scrivere anche in prosa, stessa cosa per la lettura, anche se la prosa, come un po’ tutti, attira maggiormente anche me.

Hai un sogno nel cassetto?

Tanti, ma al momento mi ritengo abbastanza soddisfatto.

Come ti sei trovato con Rupe Mutevole Edizioni, perché l’hai scelta, la consiglieresti?

Con Rupe Mutevole mi sono trovato abbastanza bene, hanno mantenuto le promesse riguardo alla pubblicazione, sempre gentili e onesti. L’ho scelta in quanto mi è stato possibile vedere in anteprima il modo di lavorare che ha pienamente soddisfatto ciò che mi ero prefissato di raggiungere.

Cosa pensi dell’attuale panorama editoriale italiano?

Oramai, più che editori, la maggior parte sono stampatori, mi spiace dirlo, ma molti di questi signori non lavorano come dovrebbero, spesso promettono la promozione su canali internet, biblioteche e librerie, ti firmano un contratto col quale si pappano i tuoi soldi e del tuo libro non trovi più traccia, se non in qualche canale disperso di internet.

Cosa pensi dell’attuale panorama culturale italiano?

La mente è come un paracadute, funziona solo se si apre. Partendo da questo concetto si evince come l’attuale panorama culturale nel nostro Paese sia effettivamente in declino. Si legge poco, i libri sono stati sostituiti dalla TV che, a guardare il palinsesto, non ha molto da offrire a parte i soliti, urticanti programmi che promuovono il culto del fisico. Questo è l’ideale col quale vengono tartassati i nostri giovani la cui mente è ancora malleabile e suscettibile e che divengono adepti di vestiti firmati, di calciatori e veline, figli di un troppo benessere che non accetta compromessi. Non voglio generalizzare, c’è sempre colui che si distingue, ma di questo passo saranno sempre meno.

Recentemente ho letto un articolo di Cesare Segre sul “Corriere della Sera”, riguardo all’irresistibile declino della critica letteraria agli autori contemporanei, con la conseguente perdita di prestigio della letteratura. E cosa pensi dei premi letterari, pensi siano importanti e necessari per un autore?

I premi letterari sono fini a sé stessi. Non penso siano necessari per un autore, tuttavia fanno volume ed enfiano di certo la stima da parte dei più. Però un premio non è sinonimo di grandezza per uno scrittore. Chi scrive lo fa per se stesso e non per vincere dei premi. Riguardo alla perdita di interesse della letteratura, mi trovo altamente d’accordo con Segre, la critica letteraria, come di conseguenza la letteratura, soffrono una profonda crisi e perdita di interesse presso la popolazione.

Davvero chi scrive lo fa per se stesso? E allora perché decide di pubblicare, non hai detto che, in una poesia non deve mai mancare la capacità di trasmettere emozioni?

Chi scrive lo fa principalmente per se stesso, la decisione di pubblicare i propri lavori può esser dettata da vari fattori. Molti sognano di diventare famosi con la scrittura, altri pubblicano per avere il proprio libro nella loro biblioteca personale o altri motivi ma, se non c’è passione, se manca quell’attitudine a scrivere per se stessi, corroborando l’anima e il proprio sentire, allora lo sforzo risulterà vano. Scrivere è un lavoro di concetto, significa buttare su un foglio tutto lo sfogo internato nell’anima. Se dovessimo scrivere solo ed esclusivamente per diventare famosi, allora penso sia meglio orientarsi sulla palestra, scolpendosi un fisico “da urlo” e andare ad urlare in uno di quei programmi vespertini per teenager, non faccio nomi, ove saremmo indubbiamente tutti ricchi e famosi.

Certamente, se alla base manca quella passione per la scrittura, tutto risulta vano e, citando un mio aforisma “Il poeta sogna, si emoziona, si meraviglia; in caso contrario, tutto sarebbe puro artificio, sterile e fredda creazione, come voler scrivere su di un foglio di vetro.”. Il critico letterario Matteo Leombruno, a proposito della tua poesia ha scritto: «La poesia di Marco Nuzzo è una poesia trincerata in se stessa, chiusa all’esterno e abitata da un “io” segreto e nascosto.»Concordi su questo giudizio e, in che misura?

Assolutamente. È ciò che mi pongo quando scrivo. L’ermetismo è parte del mio scrivere e voglio che sia così. Per questo paragono la mia poesia a quella di Montale, senza pretesa d’essere alla stregua del mio mentore. Il mio non è solo un modo di mascherare parole fini a se stesse, ma vuol essere innanzitutto un modo per svegliare dal torpore i dormienti, esagitarne la mente al fine di farne fluire l’assenzio che può corroborare il loro spirito.

Come ho scritto sulla nota di commento a pag. 7 di Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso, le quattro liriche in progressione intitolate “Apnea” sono davvero significative. Ce ne vuoi parlare?

Le “Apnee” sono una sorta di racconto e divise in parti, racconto fatto di sensazioni durante le immersioni nei sensi, che, come placide acque permettono la discesa nei più intimi segreti, sino a ritrovare quell’Oniria, quell’Atlantide che è significante del proprio Es che emerge, scaturita dal rivangare nella conoscenza e nei sogni. È necessario lasciarsi andare, lo dicevo prima, è necessario perdersi per ritrovarsi. Ogni giorno si nasce, ogni giorno si muore, ma lo si può fare vedendo sprecati i propri desideri o ardendo i fuochi della propria essenza.

Quanto è importante per te il confronto con altri autori?

È essenziale. Siamo specchi e il confronto diviene mezzo per guardarsi dentro. Noi esploriamo l’essenza degli altri, la viviamo, ci immedesimiamo in essi, mimandone la luce. Solo agendo in questo modo possiamo dire di trovare noi stessi.

Ci sono dei consigli che vorresti dare a chi si accosta per la prima volta alla scrittura di poesie o alla scrittura in genere?

Leggete, leggete e ancora leggete. Poi dimenticate tutto, uscite fuori a divertirvi, ma osservate. Osservate il comportamento degli esseri umani, osservate gli animali e il movimento dei pini marittimi, guardate la scia delle formiche. Adesso avete il mondo nell’inchiostro della vostra penna, dovete solo scriverlo.

Concordo, la poesia è “rappresentazione”, nel senso di interpretazione soggettiva della realtà e, quindi, nel senso di sua ri-creazione e trasfigurazione. Picasso, a proposito della pittura ha scritto: «La pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a ciò che ha visto.». E un poeta non è mai mero cronista di ciò che attentamente osserva, non è mai impersonale messaggero, bensì è interprete soggettivo, che ri-crea, trasforma, trasfigura sogni, storie, emozioni, in sintesi, un poeta scrive ciò che sente. Vuoi anticiparci qualcosa su una tua prossima pubblicazione o, su quello che stai scrivendo?

Vorrei dedicarmi alla scrittura di un horror, ho già cominciato, in effetti. L’idea è buona e penso sarà un qualcosa di mai tentato. Il tempo ci dirà il resto.

Grazie tante per la tua disponibilità e tanti auguri per la tua attività di scrittore!

Grazie infinite a te, Emanuele, è stato un piacere!

A cura di Emanuele Marcuccio


TESTO PUBBLICATO PER GENTILE CONCESSIONE DELL’INTERVISTATORE, EMANUELE MARCUCCIO.

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