“Tu, io e Montale a cena”: la silloge di Gabriella Sica dedicata al poeta romano Valentino Zeichen – recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

 

“Corre con il fiume scorre

[…] il suo essere si estenderà ancora” (25)

 

Tu io e Montale metà copertinaUn libro agile e intenso in versi, quasi un canzoniere, che rievoca un amico poeta nel momento della sua scomparsa e nei mesi successivi al lutto.

La poetessa Gabriella Sica[1] ha da poco dedicato a Zeichen, “un neoclassico beffardo”[2], un volume di quarantaquattro poesie con due prose in chiusura che muovono interamente da una volontà di commemorazione del poeta amico. Non un pianto né un elogio, che sarebbero forse ben poca cosa nel mare magnum della poesia indifferenziata e tumultuosa d’oggi – soprattutto quella dal contenuto annebbiato da un sentimento di pura malinconia – ma un vero compendio atto a ripercorrerne alcuni tratti della sua esistenza, gli aspetti distintivi del carattere fiero e sicuro, le convenzioni della sua vita underground, la ricchezza dei contenuti del suo dettato lirico.

Scrive il poeta Guido Zavanone, recentemente scomparso, in una delle sue ultime poesie “Piace ai poeti/ divagando fantasticare/ liberi come sono/ da ogni vincolo/ di contenuto o formale”[3] e tale verità può ben desumersi dalla poesia argomentativa e icastica di Valentino Zeichen, una delle voci poetiche più curiose della scena romana degli ultimi decenni, saltato alle cronache per le sue frequentazioni mondane al tempo della giovinezza.

Sono poesie che ci parlano di incontri, di dialoghi, di idee e contenuti esposti da Zeichen nel corso di tante occasioni, spesso di cene con amici, che evidenziano la complessità del poeta, la versatilità dei suoi codici e, sempre, comunque, la sua occhiata critica e avvolgente verso la realtà di fuori con timbri d’ironia e d’invettiva.

La Sica riesce in maniera egregia a presentarci, tramite la sua conoscenza diretta dell’uomo, la stima e l’amicizia intessute e coltivate con Zeichen, uno dei ritratti più completi e meno sfocati di questa figura complessa, criticata, non del tutto compresa e in un percorso di latente dimenticanza contro cui il volume stesso della Sica s’infrange. Ne emerge un dialogo ininterrotto tra due amici sullo sfondo di una Roma vivace e ricca, e di un mondo letterario disgregato.

Il giornalista Camillo Langone de Il Foglio ha titolato un breve articolo con “Vorrei anch’io una poetessa come Gabriella Sica a commemorarmi”[4] e questo è indicativo del fatto di quanto amore, sapienza e desiderio di condividere con gli altri, ci sia nelle pagine della Sica, tra ricordi e circostanze curiose, tra inviti a cena (“La poesia mi ha aiutato a procurarmi pranzi e cene”[5], rivelò Zeichen in un’intervista) e passeggiate per Roma.

Il volume della Sica, Tu io e Montale a cena, apre a un contenuto al contempo privato e pubblico di Zeichen da lei definito “poeta bellicoso/ bell’uomo alto scattante” (21), con un “sarcasmo glaciale” (62), narrandoci com’era, come si comportava, come si relazionava agli altri e all’ambiente: “Scriveva poesie nitide e precise/ […] rovistava con la lima nella storia.// [con] ironia intelligente/ l’abbellimento logico pungente// […] indomito sagace alla Szymborska” (57).  La Sica non risparmia di affrescarcelo anche negli aspetti più spigolosi come quando osserva: “Valentino coriaceo al vetriolo/ stai nella tua area di rigore/ gelida area di esodo corrusco/ di esilio da persone e cose/ […] impertinente/ […] nel tuo veemente duello mentale” (9).

Ci sono tutti gli aspetti chiave della vita di Zeichen: dalle liriche che alludono più spesso al tema dell’esodo, alla figura della madre, all’istituto di correzione dove venne collocato giovanissimo, all’ossessione per gli orologi, e poi la dimensione abitativa da lui scelta (“una casa/ vera lui non la vuole” (18), la nota “baracca del poeta” alla quale la poetessa dedica una lirica dove si può leggere:  “È una leggenda la baracca a Roma/ sta in un vicolo cieco sulla Flaminia/ […] nel centro della città eterna/ è una misera fragile frontiera” (17) ricordando il poeta in uno dei loro incontri: “su una logora sedia di legno/ siede pensoso sul da farsi il poeta/ lì coltiva una coppia di piante/ un fico e una vite americana” (17). Quel “fico generoso” (27) vicino al glicine massacrato a colpi d’ascia dopo la sua morte di cui la Sica parla in una lirica di commiato che chiude il volume: “L’hanno tagliato acidi con l’accetta/ nel giardino del poeta/ dove c’era anche un fico ospitale/ che triste s’è seccato” (87).

E poi la condivisione del cibo e dell’ospitalità della Sica (come di tante altre persone sue amiche, poeti e non) verso Zeichen: “Vorrei più spesso invitarti a cena/ come a te tanto piaceva/ […]/ conversare/ in casa e fuori” (53). C’è il sentimento destabilizzante di paura dinanzi alla recente malattia dell’amico, il timore  che presto possa andarsene ad abitare altri spazi (“prometto lo inviterò di più a cena”, 15, pronuncia come sottovoce, a motivo di un fioretto, di un impegno tra lei e se stessa) fino alla lirica che dà il titolo al volume, “Tu io e Montale a cena” dove la poetessa ipotizza           un’improbabile cena a tre, tra cui il grande poeta genovese (“certo è che noi e il convitato immortale/ incallito scanzonatore/ ci siamo rallegrati oltremodo/ banchettando ilari noi tre insieme/ al secolo nuovo brindando/ come un niente lo snodo al Novecento”, 44) e, ancora, la rievocazione di una cena col padre dell’avanguardia, Pagliarani: “la dolce cena noi tre insieme/ la cambiamo questa morte in vita/ […] tu io e Pagliarani come un tempo” (49).

Nel breve periodo di malattia di Zeichen, dopo l’ictus che lo costrinse all’ospedale, una poesia-preghiera forte e sentita perché il suo amico possa rimettersi e ritornare nel suo universo sociale: “fallo tornare tra noi/ Valentino è in un letto d’ospedale/ […]/ non so se ci sei madremadonnina/ se ci sei salvalo salvalo tu che mi ascolti/ […]/ fallo combattere ancora” (15). Ci sono poi le poesie scritte dopo la scomparsa di Zeichen, “ultimo degli irregolari del nostro tempo”[6], che attestano una dolorosa assenza nell’animo della poetessa come ben si evidenzia nella lunga lirica “Il lento congedo” dalla quale cito alcuni estratti significativi: “Così te ne sei andato d’un colpo/ quel terribile diciassette aprile/ l’ictus il trauma il dolore/ ma per un po’ sei tornato indietro/ sul letto di una camera ospedaliera/ […] nei lunghi ottanta giorni/ per fare ancora festa con gli amici/ […] come in un lauto gran banchetto/ […] per poco così sei tornato in vita/ […] cantavi perfino le canzoncine/ lento nel distacco lento” (55-56). La poetessa è evidentemente costernata e affranta dalla dolorosa assenza del poeta-amico al punto tale che cerca una qualsiasi forma di possibile comunicazione con lui, alla ricerca impellente di una relazione: “Potresti con Dio darti un po’ da fare/ e attivare un filo teso e diretto/ tra te e me tra i morti e i vivi/ inviami un segno fammi un fischio” (26).

“Riquadro 67 Gruppo 2 Terza fila n. 7” (35) è l’espressione in codice della localizzazione fisica sullo spazio terrestre, “nel nome del luogo dove stai ora” (35)…, sempre Roma, è vero, ma in una dimensione diversa, qui dove il “cielo [è] a pezzi e i cipressi [stanno] invano” (35). Sempre dedicata alla sua lapide al Verano è un’altra lirica: “ti intrattieni con i nuovi amici/ vicini di casa affini/ Ungaretti e Moravia lì anche loro/ […] ve ne andate/ giù fino all’imbrunire/ piacevolmente in tre a conversare” (85).

Il poeta, andandosene, ha lasciato sola l’amica confidente, la poetessa Gabriella Sica, chiusa in una sensazione d’assenza e di vera e propria malinconia dei tanti momenti vissuti, a “scrutare la geografia di nuvole estrose” (31) come lui spesso faceva, interrogando il tempo: “il poeta agguanta nuvole/ (non ragionammo di questo insieme?/ non era questo il nostro diletto?)” (32), un gioco che ha introiettato e fatto suo, più triste ora che non potrà che condurlo da solista. Se è vero che nel giardino del poeta il glicine è stato ucciso e il fico, solo e impoverito, s’è lasciato morire, c’è ancora un virgulto di speranza che testimonia la vita che mai si frena e che perversa, proprio come le nuvole indecifrabili che sfilano e che affascinavano Zeichen. La Sica, al termine di questo viaggio poetico che ha segnato profondamente la sua esperienza, annota infatti che “spuntano dal tronco le foglie/ più del solito tremolanti/ sta nascendo ancora qualche bel fiore” (87).

Lorenzo Spurio

Jesi, 14/03/2020

 

 

E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. 

 

[1] Gabriella Sica, originaria della Tuscia e romana d’adozione, scrive in versi e in prosa fin da quando negli anni Ottanta ha ideato e diretto “Prato pagano”, ha pubblicato le Poesie per le oche, con prefazione di Giovanni Raboni (Almanacco dello Specchio, Mondadori, 1983) e La famosa vita, nel 1986.  A più di dieci anni di distanza dal suo ultimo libro in versi, Le lacrime delle cose, a fine 2019 è uscito Tu io e Montale a cena per Interno Poesia. Ha ricevuto vari riconoscimenti tra cui, nel 2014, il Premio Internazionale del “Lerici Pea” per l’Opera poetica. Tra i libri in prosa Sia dato credito all’invisibile. Prose e saggi (2000), Emily e le Altre. Con 56 poesie di Emily Dickinson (2010) e Cara Europa che ci guardi. 1915-2015 (2015).  Nel sito ufficiale, www.gabriellasica.com, si possono trovare sue poesie, traduzioni in varie lingue, notizie sui video da lei realizzati per la Rai dedicati ai poeti del Novecento.

[2] Leone D’Ambrosio, “Valentino Zeichen: Sono un poeta mondano e so fare i dialoghi”, Patria Letteratura, 13/03/2015.

[3] Guido Zavanone, Foto ricordo, Manni, Lecce, 2019, p. 69.

[4] Camillo Langone, “Vorrei anch’io una poetessa come Gabriella Sica a commemorarmi”, Il Foglio, 26/10/2019.

[5] Antonio Gnoli, “Valentino Zeichen: sono un poeta grazie alla mia matrigna, essa era una musa crudele e involontaria”, La Repubblica, 16/02/2014.

[6] Giuseppe Rizzo, “La poesia di Valentino Zeichen ci regala un po’ di libertà”, L’Internazionale, 18/05/2016.

Premio alla Memoria a Gian Mario Maulo (1943-2014), la motivazione del conferimento avvenuto il 10/11/2018 a Jesi

A continuazione viene riportata la motivazione di conferimento del Premio Speciale “Alla Memoria” attribuito al poeta Gian Mario Maulo (1943-2014)  conferito in data 10 novembre 2018 a Jesi (AN) presso la Sala Maggiore del Palazzo dei Convegni in seno alla premiazione della VII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, ideato e presieduto da Lorenzo Spurio e organizzato dall’Ass. Culturale Euterpe di Jesi:

La figura di Gian Mario Maulo è stata più spesso e in ben più ampie circostanze legata prevalentemente al suo impegno pubblico che lo ha visto rivestire vari incarichi a rappresentanza e difesa della collettività, primo tra tutti quello di Sindaco di Macerata. Pur tuttavia la dedizione che Maulo ha mostrato nei confronti della letteratura è stata una costante se si pensa la sua decennale professione di insegnante del noto Istituto Tecnico “Ricci” di Macerata dove, proprio grazie a lui, fu possibile l’introduzione di un nuovo percorso di studio, il socio-pedagogico.

Il poeta Maulo, forse riscoperto in quanto tale un po’ tardivamente dall’opinione pubblica, ha rappresentato una voce indistinguibile e necessaria dell’ampio campionario di cui questa terra feconda e multiforme che è la Regione Marche. Se di quella cosiddetta fioritura di poeti marchigiani degli anni ’70 – ’80 (Garufi, Mancino, Pigliacampo, Berti Sabbieti) Maulo fu ai margini questo non significa che non condivise con gli stessi autori la potenzialità della parola, per lui una confidente necessaria delle sue giornate. Una poetica imbevuta di religiosità dove si percepisce l’animo di meraviglia verso il Creato, attento nel donare luce con le parole anche quando la speranza sembra imboccare un vicolo cieco. Eppure Gian Mario, anche nei momenti di difficoltà e di apparente buio, ha saputo colloquiare con la vita, trasmetterne un senso, incanalare emozioni autentiche in forma originale ed elegante. Il riconoscimento alla sua opera poetica e di uomo di cultura è motivo per ricordarne l’organicità dei ragionamenti e l’afflato sensoriale di tanti begli affreschi di vita vissuta con pienezza.

Lorenzo Spurio

Presidente del Premio 

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Da sinistra: Michela Zanarella (Presidente di Giuria), Lorenzo Spurio (Presidente del Premio) e Anna Rita Lucchetti (moglie di Gian Mario Maulo)

 

Una scelta di testi poetici dell’autore sono stati pubblicati nella antologia del Premio assieme alla summenzionata motivazione del Premio e alla nota bio-bibliografica che segue. 

maulo2_web.jpgGian Mario Maulo nacque a Montecosaro (MC) nel 1943. Ultimo di quattro figli di una famiglia contadina, completò gli studi classici conseguendo, presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, la Licenza in Filosofia nel 1965 e, in seguito, la specializzazione triennale in Teologia nel 1969. Nel 1974 a Macerata, presso il locale Ateneo, ampliò la sua formazione accademica laureandosi in Filosofia con una tesi dal titolo “La Teologia della speranza di Jürgen Moltmann e la sua matrice filosofica”.

Iniziò la carriera dell’insegnamento come professore di religione a Roma. Abilitatosi in seguito in Scienze Umane e Storia insegnò nella provincia di Macerata filosofia, storia, psicologia, sociologia e pedagogia. Nel 1985 divenne docente titolare della cattedra di Scienze Umane e insegnò presso l’attuale I.I.S. “Matteo Ricci” di Macerata sino al suo pensionamento giunto nel 2008. Fu parte sempre attiva della vita dell’Istituto, si adoperò per la creazione di nuovi indirizzi sperimentali e si batté in particolare per l’istituzione di una Magistrale Statale di cui la città era al momento priva. Nacque così nel 1988 il Sociopedagogico, corso sperimentale che intendeva proporsi come un Magistrale aggiornato, valido anche per una formazione di base per operatori sociali ed educatori. Il corso, che rispondeva a un’effettiva esigenza sociale, vide da subito un ampio afflusso di popolazione scolastica. Collegate alle sua funzione di docente furono anche la partecipazione, come membro di commissione, al concorso a cattedra di Filosofia e Scienze Umane (Ancona 1990) e la docenza in quattro corsi di abilitazione per Scienze Umane (Macerata 1999-2002). Parallelamente, dal 1986 al 1993, svolse l’incarico di Giudice Esperto di Scienze dell’Educazione presso il Tribunale di Sorveglianza delle Marche.

Protagonista attento della vita culturale di Macerata, partecipe del rinnovamento politico che vide protagonista la società civile, dal 1993 al 1997 fu Sindaco della città, il primo sindaco eletto direttamente dai cittadini. Successivamente fu consigliere comunale e, dal 2005 al 2010, ricoprì la carica di Presidente del Consiglio Comunale. Anche nell’amministrazione della cosa pubblica mise in evidenza criteri innovativi e doti di realismo politico finalizzate al rinnovamento e arricchimento del patrimonio culturale, architettonico e urbanistico della città. Aperto alle esigenze e alle proposte dei cittadini, predilesse il dialogo e il confronto propri di una politica partecipata e attenta alle necessità locali. Di lui la città di Macerata “ricorda con riconoscenza l’integrità morale dell’uomo e del politico e l’altro contributo offerto per il bene della collettività attraverso gli insegnamenti e le opere, sempre animati da passione civile e impegno sociale” (Targa commemorativa del Comune di Macerata, inaugurata il 10 novembre 2014). Continuamente presente nel dibattito culturale, si segnalò per numerosi articoli e interventi su riviste, giornali e radio (inclusa la RAI, rubrica Zapping) e soprattutto per la pubblicazione di diverse opere in prosa e poesia.

Fu quest’ultima la sua vera compagna di tutta la vita: poesia come bisogno assoluto dell’anima e partecipazione di immagini, sentimenti, emozioni. Poesia come riflessione sulla vita e sull’oltre-vita, come messaggio individuale e insieme totalizzante, “un percorso dell’andare umano alla ricerca del senso nascosto del sapere e nell’amare, nel vivere e nel morire, nell’inquietudine e nella finitudine che scava senza sosta il cuore e la mente di noi mortali” (dalla introduzione di Dialogo sulle orme di Li Madou del 2010 a cura di Carlo Di Cicco).

Per la poesia pubblicò Tu che vieni (1981), Quando nasce la luce (1983), Settimo giorno (1989 – finalista al Premio “Carducci”), Tempo di attesa (2000 – premio Nazionale “D’Annunzio”), Le colline e il mare (2008), Dialogo sulle orme di Li Madou (2010), Dove si posano le ombre (2016, postumo). Per la prosa pubblicò Una scuola aperta all’Europa. Istituto Tecnico “Matteo Ricci” 1912-1992 (1992), L’ITAS “Matteo Ricci”: ieri, oggi, domani (2006), in collaborazione con colleghi dell’Istituto; Diario laico. Saggio sul Cristianesimo di Provincia (1995). È deceduto a Macerata nel 2014.

 

Nota: La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore. 

Premio alla Memoria ad Amerigo Iannacone (1950-2017), la motivazione del conferimento avvenuto il 10/11/2018 a Jesi

A continuazione viene riportata la motivazione di conferimento del Premio Speciale “Alla Memoria” attribuito al poeta Amerigo Iannacone (1950-2017)  conferito in data 10 novembre 2018 a Jesi (AN) presso la Sala Maggiore del Palazzo dei Convegni in seno alla premiazione della VII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, ideato e presieduto da Lorenzo Spurio e organizzato dall’Ass. Culturale Euterpe di Jesi:

Amerigo Iannacone ha rappresentato per decenni un pilastro di indiscutibile valore nel campo delle Lettere a tutto tondo. Insegnante, poeta, scrittore, si è dedicato anche alla saggistica e allo studio della storia locale, non esimendosi di esprimersi anche per mezzo di articoli, note, approfondimenti e recensioni che, nel tempo, sono apparsi su riviste di settore, online, blog, siti e collettanee. Immensa la sua produzione perché molteplici e diversificati erano i suoi interessi che lo muovevano a parlare di sé e ad esternare emozioni. Prolifica e lungimirante anche la sua attività redazionale attraverso varie riviste fondate e alle quali ha collaborato, in primis “Il Foglio volante”, un pieghevole semplice, maneggevole e spesso assai divertente che giungeva nelle nostre case di amanti della letteratura, per il quale aveva anche numerosi collaboratori tra docenti universitari e scrittori all’estero. Iannacone è stato anche punto nevralgico nella difesa, promozione e conoscenza della lingua e dell’universo esperanto, curando articoli e volumi nonché prendendo parte o organizzando direttamente convegni, congressi e ha rivestito ruoli importanti nella relativa federazione.

Voce autentica del Molise, ha cantato Venafro e il suo borgo di Ceppagna, legatissimo ai suoi spazi e fedele custode di memorie legate alla popolarità di quella terra di Provincia di cui ha parlato e che ha cercato di far aprire verso l’esterno, con reading, iniziative e consessi pubblici che hanno sensibilizzato il Molise, l’Irpinia, il Sannio e il Matese. Il nostro riconoscimento a un uomo che molto ha dato, la cui eredità sta a noi curare.

Lorenzo Spurio

Presidente del Premio 

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Da sinistra: Eva Iannacone (figlia di Amerigo Iannacone), Mariagrazia Valente (moglie di Amerigo Iannacone), Michela Zanarella (Presidente di Giuria) e Lorenzo Spurio (Presidente del Premio)

 

Una scelta di testi poetici dell’autore sono stati pubblicati nella antologia del Premio assieme alla summenzionata motivazione del Premio e alla nota bio-bibliografica che segue. 

16-Zamb-1.jpgAmerigo Iannacone nacque a Venafro (IS) nel 1950. Legatissimo al suo Molise, amò il borgo di Ceppagna del quale scrisse instancabilmente e fu figura di raccordo di molte esperienze culturali principalmente del Molise, dell’Irpinia e del Lazio Meridionale quasi un padre per la riscoperta della cultura locale sin dalla fine degli anni ‘70. Ma i confini locali non sono stati mai un limite: influente il suo contributo nella comunità esperantista sparsa nel mondo. Quale professore, insegnò presso l’I.S.I.S.S. “Antonio Giordano” della sua città. Poliedrico e pervicace il suo impegno in campo letterario dove si distinse per l’opera poetica, narrativa, saggistica, redazionale, linguistica, di traduzione e di promozione culturale. Fondò nel 1986, e diresse fino alla sua morte, il mensile letterario di cultura varia “Il Foglio Volante – La Flugfolio” e fu redattore di “L’Altra Voce”, “Nuovo Molise”, “Il Quotidiano del Molise”, “Le Libertà”, “La Voce del Molise”, “La Voce del Centro-Sud”, “La Gazzetta del Molise”, “Il Corriere del Molise”.

Vera anima di cultura del Molise, dell’alto Sannio, della Campania settentrionale e del Lazio meridionale per la poesia pubblicò i volumi Pensieri della sera (I ediz. 1980, II ediz. 2012), Dissolvenza incrociata (1983), Eterna metamorfosi / Eterna metamorfozo (1987), Ruith hora (1992) – tradotto in francese nel 1996 da Paul Courget, Mater (1995), L’ombre du caroubier / L’ombra del carrubo (2001 – edizione bilingue con traduzione in francese di Paul Courget), Semi (2004), Versetti e versacci (2006), Oboe d’amore / Ama hobojo (2007), Luoghi (2009), Parole clandestine (2010), Poi (2011), Sabbia (2014), Nuptiae (2015), Eppure (2015), Kaj tamen (2016) e le raccolte di haiku Estaciones (2001) e Stagioni (2005). Sue poesie furono tradotte in inglese, francese, rumeno, cinese, albanese, spagnolo, greco, armeno, brasiliano, catalano, maltese, russo, portoghese, tedesco, siciliano ed esperanto. Fondò il Premio di Poesia “Venafro”, fu presidente di Giuria del Premio “Città di Sant’Elia Fiumerapido” e di altre competizioni poetiche e letterarie a livello nazionale.

Per la narrativa i Microracconti (1991), A zonzo nel tempo che fu (2003), Cronache reali e surreali (2006), Il Paese a rovescio e altre fiabe (2008), Matrioska e altri racconti (2011); per il genere storico pubblicò Parliamo un po’ di Ceppagna (1985), La stramma – Un artigianato in via di estinzione (1997), Dall’otto settembre al sedici luglio (2007); per la cultura molisana: Sera e l’ata sera. Filastrocche, stornelli, proverbi, scioglilingua e altre cosette molisane (2003). Per la saggistica: Verso il fonetismo. Evoluzione della scrittura (1994), Testimonianze. Interventi critici (1998), Vincenzo Rossi e i Canti della Terra (2001 – con Ida Di Ianni), Nuove testimonianze. Interventi critici (2005), Dall’Arno al Tamigi. Annotazioni linguistiche (2008), Prefazioni e postfazioni (2010), …E poi il fiume giallo – Annotazioni linguistiche (2012) e Testimonianze 2007-2014 – Interventi critici (2015).

Iannacone fu uno dei maggiori esperantisti a livello nazionale e internazionale; significativa la sua opera di traduzione in esperanto, promozione della lingua della pace, stesura di saggi e approfondimenti e partecipazioni a convegni e incontri tematici sul tema. Tra le pubblicazioni afferenti a questa preponderante esperienza vanno ricordati: Esperanto, il perché di una scelta (1986), Da Babilonia a Esperantujo. Considerazione sulla lingua internazionale (1998), Piccolo manuale di esperanto (2006). Nel giugno 2017 pubblicò il suo ultimo libro C’ero anch’io – Un’autobiografia o quasi.  Gran parte della sua produzione letteraria è edita dalla Eva edizioni di Venafro, casa editrice che lui stesso fondò e diresse instancabilmente.

Note critiche sulla sua attività letteraria sono state stilate e diffuse in riviste, quotidiani, monografie e volumi dedicati; tra di esse quelle di Gerardo Vacana, Giorgio Barberi Squarotti, Vincenzo Rossi, Aldo Cervo, Giuseppe Napolitano, Lorenzo Spurio, Antonio Vanni, Silvano Demarchi, Leonardo Selvaggi, Ida Di Ianni, Rita Iulianis, Carmine Brancaccio, Vincenzina Scarabeo, Maurizio Zambardi, Giovanni Petta, Renato Corsetti, Lino Di Stefano, Chiara Franchitti e altri.

Numerosi i premi letterari attribuitigli; vinse il Premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la Critica Letteraria (conferitogli due volte), la XXVI edizione del Premio Nazionale di Poesia “Libero de Libero” (2010) e il XL Premio Val Comino per il giornalismo culturale e la difesa della lingua italiana letteraria (2015). 

È deceduto nel luglio del 2017 a seguito di un incidente stradale nel centro di Venafro dove venne investito. Il 10 marzo 2018 nella Sala Convegni del Palazzo Municipale di San Pietro Infine (CE) si è tenuto un convegno per ricordarlo dal titolo “Legàmi: Amerigo Iannacone e gli amici di Ad Flexum” al quale hanno preso parte Mariano Fuoco (Sindaco di San Pietro Infine), Maurizio Zambardi (Presidente dell’Associazione Culturale “Ad Flexum”), i critici e scrittori Aldo Cervo, Giuseppe Napolitano, Ida Di Ianni, Antonio Vanni, Rita Iulianis, Carmine Brancaccio e Chiara Franchitti. Gli atti dell’incontro sono stati raccolti nell’omonimo volume edito da Eva Edizioni a cura di Elvira Zambardi.

 

Nota: La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore. 

Premio alla Memoria a Maria Ermegilda Fuxa (1913-2004), la motivazione del conferimento avvenuto il 16/11/2019 a Jesi

A continuazione viene riportata la motivazione di conferimento del Premio Speciale “Alla Memoria” attribuito alla poetessa Maria Ermegilda Fuxa (1913-2004)  conferito in data 16 novembre 2019 a Jesi (AN) presso la Sala Maggiore del Palazzo dei Convegni in seno alla premiazione della VIII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, ideato e presieduto da Lorenzo Spurio e organizzato dall’Ass. Culturale Euterpe di Jesi. 

Maria Ermegilda Fuxa, di Alia (Palermo) fu una poetessa dal passato traumatico e doloroso, della quale a livello nazionale poco o mai si è parlato, ingiustamente, a dispetto dell’alta caratura della sua penna e della vastità del suo sentire umano. Dall’animo taciturno e schivo, la donna era particolarmente affascinata e legata a vari settori artistici: amava la scrittura, in particolar modo la poesia (molto, addirittura, il vernacolo che la legava alla sua terra) e finanche la musica (troverà ispirazione in Schubert, Mendelssohn e Beethoven). Tuttavia il suo senso d’in-appartenenza al mondo, la sua marcata solitudine, la trascineranno in una vera depressione che le aprirà le porte dell’istituto manicomiale dove venne trattata con la terapia dominante all’epoca: elettroshock e pesante somministrazione di psicofarmaci che la indebolirono e ne offuscarono, forse, le volontà, senza renderla, però, un’ombra. Difatti la sua penna è testimone lucida e inclemente di quei dolorosi momenti, descritti con automatismo e schiettezza al punto da percepirli così vividi ancor oggi. La sua produzione poetica è contenuta in tre lavori pubblicati dall’ASLA (Accademia Siciliana Letteratura ed Arti): Voce dei senza voce (1980), Lasciatemi almeno la speranza (1984) e Paesaggi d’anima (1990).  La donna è deceduta a Palermo nel 2004. Vincitrice di vari premi letterari, con questo nostro riconoscimento “Alla memoria” intendiamo riscoprire il valore culturale, anche in relazione al recente saggio critico su di lei prodotto dalla poetessa Maria Teresa Lentini, che ne ha studiato la poetica e che rappresenta una delle principali eredi della produzione letteraria della donna.

Lorenzo Spurio

Presidente del Premio 

 

Una scelta di testi poetici dell’autrice sono stati pubblicati nella antologia del Premio assieme alla summenzionata motivazione del Premio e alla nota bio-bibliografica che segue. 

 

download.jpgMaria Ermegilda Fuxa nacque ad Alia (PA) nel 1913; della sua città d’origine ebbe a scrivere: «T’amo o mio paese di Alia… ti nasconderò nei miei sogni… sei come preziosa perla e come purissimo fiore di neve…».

Dall’animo taciturno e schivo, la donna si mostrò, nel corso della sua tribolata esistenza, particolarmente affascinata e legata a vari settori artistici: amava la scrittura, in particolar modo la poesia (molto, addirittura, il vernacolo che la legava alla sua terra) e finanche la musica al punto da trovare ispirazione in Schubert, Mendelssohn e Beethoven. Tuttavia il senso d’in-appartenenza al mondo, la sua marcata solitudine e la non inclusione al gruppo familiare, uniti al disinganno amoroso fece sì che venisse trascinata in una vera depressione che le aprirà le porte dell’istituto manicomiale.

Alla morte di entrambi i genitori fu introdotta in una clinica psichiatrica del capoluogo siciliano dove venne trattata con la terapia dominante all’epoca: elettroshock e pesante somministrazione di psicofarmaci che la indebolirono e ne offuscarono le volontà. La sua penna è testimone lucida e inclemente di quei dolorosi momenti, descritti con automatismo e schiettezza al punto da percepirli così vividi ancor oggi.

La sua produzione poetica è contenuta in tre lavori pubblicati dall’ASLA (Accademia Siciliana Letteratura ed Arti): Voce dei senza voce (1980), Lasciatemi almeno la speranza (1984) e Paesaggi d’anima (1990); quest’ultima opere è adornata da una presentazione di Giuseppe Impastato. 

Numerosi i riconoscimenti letterari tra i quali il Premio Internazionale “Mario Giuseppe Restivo” (1963), il Premio Internazionale “Albatros” (1981), il Premio Internazionale “Orso d’oro” (1982), il Premio “Penna d’oro” (1983), il Premio Internazionale “Roma Aeterna” (1984), il Super-Premio “La caravella del successo” (1985), il Premio Internazionale “Guglielmo Marconi”.

La poetessa è deceduta a Palermo nel 2004.

Nel 2011 venne istituito un concorso di poesia in suo nome. A Maria Ermegilda Fuxa è stato intitolato nel novembre 2018 il giardino all’interno dell’ex-ospedale psichiatrico (presidio ospedaliero Pisani) di Via La Loggia a Palermo proprio in un momento in cui si ricorda e celebra l’introduzione della Legge Basaglia che, dopo un lungo dibattito parlamentare, votò per la conversione delle strutture manicomiali. In realtà non è la prima iniziativa promossa in ricordo della poetessa palermitana, infatti, nel giorno della Festa della Donna nel 2017 le venne intitolata la Biblioteca Comunale di Alia.

 

BIBLIOGRAFIA

Voce dei senza voce, ASLA, Palermo, 1980

Lasciatemi almeno la speranza, ASLA, Palermo, 1984

Paesaggi d’anima, ASLA, Palermo, 1990

 

 

Nota: La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.

Premio alla Memoria a Silvio Bellezza (1941-2000), la motivazione del conferimento avvenuto il 16/11/2019 a Jesi

A continuazione viene riportata la motivazione di conferimento del Premio Speciale “Alla Memoria” attribuito al poeta Silvio Bellezza (1941-2000) conferito in data 16 novembre 2019 a Jesi (AN) presso la Sala Maggiore del Palazzo dei Convegni in seno alla premiazione della VIII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, ideato e presieduto da Lorenzo Spurio e organizzato dall’Ass. Culturale Euterpe di Jesi. Alla cerimonia era presente la cugina del poeta, Pinuccia Bellezza Mattia e l’Assessore alla Cultura nonché Vice-Sindaco di Lanzo Torinese Fabrizio Casassa.

Silvio Bellezza, che non ha da essere confuso con il poeta romano Dario Bellezza, nacque a Lanzo Torinese nel 1941, in provincia di Torino. Ci ha lasciato una serie di volumi di poesia, in italiano e in dialetto, contenenti anche alcuni racconti, che sono stati pubblicati dalla casa editrice Genesi di Torino sotto la supervisione e l’incoraggiamento del critico letterario Sandro Gros-Pietro. Due gli elementi distintivi di Silvio Bellezza: l’amore indiscusso per la letteratura e la scrittura in genere e la passione per l’alpinismo. Molte sue opere hanno come ambientazione la montagna, da lui così tanto frequentata e scalata, alla ricerca, forse, di quel percorso ideale dell’uomo in ricerca di sé e di una altezza da scalare nella quale riconoscersi, passo dopo passo. Centrale tra le varie opere appare il volume La neve rossa dove, nella seconda parte dell’opera, si possono leggere avvincenti narrazioni brevi. La poetica di Bellezza è un misto di rimpianto e di aspirazioni al bello, vicina al tradizionalismo e pure curiosa anche verso le introduzioni della novità. Il tono, in alcune circostanze, non manca di essere leggermente polemico, altre volte ironico verso se stesso, altre ancora predilige la costruzione iterativa e interrogativa con la quale cerca di sondare possibili spiegazioni a questioni, aporie, e dilemmi che lo pervadono. Un approfondimento della sua opera ci ha condotto alla decisione, appoggiata dalla famiglia dello stesso nella persona della signora Pinuccia Bellezza Mattia e del Comune di Lanzo Torinese, di ricordarlo con il Premio Speciale “Alla Memoria”. Alcuni suoi componimenti trovano spazio nella nostra antologia del Premio per permettere una maggiore diffusione e conoscenza della sua pregevole opera letteraria.

Lorenzo Spurio

Presidente del Premio

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Da sinistra: Lorenzo Spurio (Presidente del Premio), la sig.ra Pinuccia Bellezza Mattina, Michela Zanarella (Presidente di Giuria), Fabrizio Casassa (Assessore alla Cultura e Vice-Sindaco di Lanzo Torinese)

 

Una scelta di testi poetici dell’autore sono stati pubblicati nella antologia del Premio assieme alla summenzionata motivazione del Premio e alla nota bio-bibliografica che segue. 

 

silvio-bellezza-6282.gifSilvio Bellezza nacque a Lanzo Torinese (TO) nel 1941. Collaborò saltuariamente a riviste specializzate ed è stato redattore di Vernice. Presente in numerose antologie e dizionari di Autori contemporanei, ha collaborato con le case editrici Genesi di Torino e Miano di Milano.

Poeta e narratore, diede alle stampe i volumi Il senso degli anni (1972), Parti di un monologo (1974), Sensa pressa (1979), La rivoluzione mancata (1985), L’alfabeto del silenzio (1989), Il libro degli echi (1991), Una pace precaria (1993) e La neve rossa (1999).  Suoi versi sono stati tradotti in francese e rumeno. Per la saggistica letteraria ha dato alle stampe Il leggio incantato (1990) e Presenze poetiche del secondo novecento in Piemonte, ne La poesia contemporanea (1997).

È stato il più convinto promotore del Premio Letterario di poesia e prosa Città di Lanzo di cui ha seguito tutte le edizioni e che alla sua morte – avvenuta nella sua città nel 2000 – gli venne dedicato. Sulla sua opera poetica si sono espressi, tra gli altri, Giorgio Barberi Squarotti, Sandro Gros-Pietro e Piero Rachetto.

 

BIBLIOGRAFIA

 

Poesia

 Il senso degli anni, Torino, 1972

Parti di un monologo, Torino, 1974

Sensa pressa, Torino, 1979

La rivoluzione mancata, Forlì, 1985

L’alfabeto del silenzio, Genesi, Torino, 1989

Il libro degli echi, Torino, 1991

Una pace precaria, Genesi, Torino, 1993

La neve rossa, Genesi, Torino, 1999

 

Saggistica

Il leggio incantato, Genesi, Torino, 1990

Presenze poetiche del secondo novecento in Piemonte, ne La poesia contemporanea, Milano 1997.

 

Nota: La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore. 

A Roma un omaggio a Carlo Levi con Michela Zanarella

In occasione dell’imminente spettacolo UN SIPARIO A CANCELLI. Le mille patrie di Carlo Levi testo e regia di Vittorio Pavoncello che sarà al Teatro Elettra di Roma a partire dal 17 ottobre, il 12 ottobre alle ore 18, 30 il Book Store del Palazzo delle Esposizioni ospita la presentazione dei due libri SENZA PIETRE che hanno composto un progetto per Matera 2019 Capitale Europea della Cultura. Interventi di Donatella Orecchia, Roberto Piperno, Michela Zanarella. Oltre al già citato testo spettacolo UN SIPARIO A CANCELLI. Le mille patrie di Carlo Levi andato in scena a Matera all’Auditorium Sant’Anna in maggio a cura del MEIC, sarà presentata la raccolta di poesie SENZA PIETRE che 11 poeti hanno dedicato a Carlo Levi a cura di Michela Zanarella.

Matera è una città che deve molto a Carlo Levi, perché attraverso il suo libro di denuncia e attraverso l’intervento di Adriano Olivetti da lui portato a Matera questa città fu finalmente scoperta e posta all’attenzione della politica e della cultura, mettendo fine a ciò che Alcide De Gasperi definì una “vergogna dell’Italia”. Certo, in questa epoca che guarda solo al presente o ad un futuro senza memoria, ricordare il passato può essere scomodo, ma fu merito dell’opera, di ieri, di Carlo Levi che da “vergogna dell’Italia” Matera è diventata, oggi, capitale della cultura europea del 2019.

Levi dipingeva e scriveva dell’assenza, della mancanza di cui soffriva la gente del meridione e nel suo “Cristo si è fermato a Eboli” ha denunciato la condizione di abbandono e di esclusione dei contadini e dei poveri che vivevano nelle grotte. I libri in questo caso e in particolare “Cristo si è fermato a Eboli” hanno contribuito a fare la cultura e la storia e ci sembra giusto presentare le due pubblicazioni edite da Edizioni Progetto Cultura in un luogo come la libreria Bookstore del Palazzo delle Esposizioni.

Saranno presenti i poeti: Simone Carunchio, Davide Cortese, Flaminia Cruciani, Letizia Leone, Serena Maffia, Marina Marchesiello, Roberto Piperno, Luciana Raggi, Anna Santoliquido, Fabio Strinati, Michela Zanarella.

Brani dallo spettacolo di UN SIPARIO A CANCELLI. Le mille patrie di Carlo Levi saranno interpretati da Oreste Valente

“Metamorfosi e sublimazioni” di Rita Fulvia Fazio. Impressioni, suggestioni e altro a cura di Mario Santoro

Saggio critico di Mario Santoro

Fazio Rita Fulvia 2019 Metamorfosi e sublimazioni [fronte]-1La prima impressione che si ricava dalla lettura delle poesie di Rita Fulvia Fazio è che non si ha a che fare con una neofita della scrittura poetica che appare controllata ed attenta, misurata e, quasi sempre puntuale, nel suo fluire morbido, senza scosse, urti e fratture e non cede alle tentazioni autolesionistiche dell’attardamento e del compiacimento anche quando sembra, rarissimamente, voler indulgere e cedere all’iterazione di taluni termini. I versi, se non puntano decisamente alla verticalizzazione, salvo qualche volta per una sorta di bisogno interiore, non cedono mai alla cosiddetta ‘orizzontalizzazione’ e mantengono, per scelta consapevole, la delicatezza pensosa del tono, risultando, al tempo stesso, intensi e votati alla sinteticità dei concetti che richiamano situazioni esperienziali e ripropongono sentimenti veri perché vissuti e sensazioni significative e personali. Si tratta di un vissuto che risulta sostanzialmente sereno, pur con dati di sofferenza e con qualche nota di rimpianto, in una visione positiva se non anche appagata.

L’autrice è abile nel non dire né troppo, né troppo poco, lasciando al lettore non solo la possibilità di ritrovare, nei versi e in certi flash, elementi di condivisione, sia pure parziali e di comunione talvolta – cosa importante considerato che il successo della poesia, almeno per metà, stando ad alcuni intenditori, è dovuto al lettore – ma anche la possibilità di originare una pluralità di percorsi possibili in accordo con la sensibilità di ciascuno.

Il linguaggio, prevalentemente intimistico ed elegiaco, come sottolineano alcuni interventi critici e come indica Guido Miano nel suo rimando puntuale alla modalità poetica in questione, tende sempre a una certa levigatezza nella linearità intenzionale, e quindi senza forzature, e sa mantenere il carattere di equilibrio conservando il giusto grado di ‘ambiguità’; inoltre fa sì che le parole siano il connubio felice tra significato e significante, tra denotazione e connotazione, come annota Enzo Concardi nella prefazione al libro, consentendo la pluralità dei riferimenti e richiamando sensazioni, impressioni ed emozioni capaci sempre di alludere ad altro e di indicare un oltre, indispensabile in poesia.

C’è un certo rigore a guidare la poetessa, pur nel fluire libero dei pensieri e nelle cesure, non mai rigide nel chiudere i versi e tali da non scorciare il flusso delle emozioni, sia quelle presenti ed attuali, sia le passate e recuperate per memoria, sia infine, in certe prospettazioni future, con ponti a più campate, appena accennate e in talune figurazioni che vanno nella direzione dell’al di là.

Risulta evidente, anche se l’autrice tenta di mascherarlo schernendosi non apertamente, tutt’intera la sua anima con l’interezza del candore, il tremore dinanzi a certe situazioni, il desiderio-bisogno di rimettersi sempre in gioco, lo stupore e la meraviglia dinanzi ad alcuni aspetti del creato, la disponibilità a sperimentare nuove situazioni non in contrasto con quelle passate, e sempre alla base, una tensione latente, ma neppure poi tanto, a voler superare i limiti sempre delle angustie della terrestrità per sollevarsi sulle punte ed elevarsi in alto quasi ad annusare il senso del mistero e dell’eternità.

E c’è ancora la suggestione spirituale dei sentimenti con al di sopra, a campeggiare, l’Amore che viene riportato con l’iniziale maiuscola e che è presentato in una gamma piuttosto vasta di manifestazioni e rimane comunque salvifico.

Il discorso poetico si apre sulla linea della memoria e del rimando al passato con l’accumulo enorme di ansie sottili, timori palpabili, paure vere e proprie, palpitazioni intermittenti con il cuore a far capriole ma anche con silenzi carichi di sottintesi, sofferenze vive, senso della disperazione a volte, ma anche sorrisi aperti, gioie serene, appagamenti pieni come testimonia l’immagine efficace delle “mani di calce bianca / intonaca / tra cielo e mareche pone su tutto la possibilità concreta della speranza che risulta essere in qualche modo una sorta di filo conduttore.

La poesia si muove così nell’aggancio, almeno come aspirazione, tra terra e cielo sulla linea dell’amore e con la positività che il canto intreccia tra perse stagioni / fra dubbi e speranzedelusioni e senso di solitudine, anche oggi / è una giornata morta: / il cuore è spentocon la sensazione dell’abbandono e della rassegnazione dal momento che l’anima dell’ autrice sembra definitivamente relegata in “una prigione senza confinima al tempo stesso lascia trapelare la volontà di smetterla col pianto e coi sorrisi non conditi di tenerezza e quindi non autentici e alimenta sicuri ancoraggi. Lo sguardo spazia intorno e sembra, a momenti, perdersi nello spazio circostante e fondersi con la natura per dichiarazione esplicita e diretta dell’autrice: “Per me è / poesia /…/ e mi commuove pensarlo.

La tensione emotiva è talmente forte da spingerla a piangere “di gioia e di bellezzae poiché le corde del suo core vibrano, in quanto creatura di preghierasa incantarsi, sorpresa e rapita, nello “scintillìo di luna e stellesicché ella sente di cedere del tutto alla “cascata di luceche “riverbera sull’acqua azzurratama anche nel curioso “avvicendarsi delle nuvole / nel giocare a rimpiattino.E questo accade finanche nella città eterna di Parigi dove la vita è frenetica. Ma la capitale francese resta sempre città del sogno, dal fascino antico eppure nuovo. E così torna per memoria – ed ha quasi una funzione catartica – l’immagine romantica e suggestiva di Montmartre con il suono dei passi e sempre il proposito di raccordare la mente con il cuore.

Fortemente sentito è pure il richiamo al sole “gioia tonda, leggera, esplosiva che / abbraccia l’eterea fresca giovinezzadotato di funzione vitalizzante; di qui l’augurio affinché esso non attenui il suo splendore anche se a sera, inevitabilmente, la mimosa, assetata di luce, avvizzisce. Tutto questo non spegne o attenua l’entusiasmo della poetessa che si augura che anche nelle occasioni di disperazione il dolore possa essere stemperato proprio dai benefici effetti del sole.

Nella quotidianità dell’esistenza qualche cruccio subentra ad assillare in uno con la monotonia delle ordinarie incombenze noiose e per le inevitabili incomprensioni che affaticano nel rimando, con il senso del paragone alle “nuvole / lassù, a reggere il peso / di tutti i giorni.” Malgrado tutto ciò non c’è il senso della resa ma una sorta di accettazione accompagnata sempre da un evidente “esangue / tormento delle speranze.

In altre circostanze Rita Fulvia Fazio sottolinea il piacere di godere uno spettacolo della natura come dinanzi ad una distesa marina: Cascata di luce / riverbera sull’acqua azzurrata. / Tu, imprigionata oscurità / dell’ansia e della distrazione, / vivi ipnotizzata ascesa / al magnetismo solare / in calma affettività.Talvolta l’autrice sembra incantarsi dinanzi alle meraviglie del creato, dalle più piccole cose alle più grandi, tese entrambe a testimoniare il senso dell’eternità: la rosa che cresce perfetta; il mare con le sue onde contro la riva; i voli liberi ed eleganti dei gabbiani; la luna che rischiara la notte nel suo silenzioso percorso; le stelle tremule, quasi “bottoni di madreperla” di cui parla Campana. E poi le tante sfumature della luce coi toni diversificati che realizzano “trionfali colori dell’arcobalenoe ancora i tramonti, ora infuocati, ora sbiaditi, i fiocchi di neve, il bisogno del tempo da vivere nella dilatazione dello stesso, e tanto altro ancora.

E l’amore lo si può ritrovare quasi ovunque, a far capolino, prima di nascondersi, a mostrarsi nella sua bellezza e forza, a velarsi di malinconia, a riproporre situazioni lontane, a palpitare, a sperimentare sensazioni nuove e delicate, quasi fanciullo indomito, oppure è nascosto nei dialoghi taciuti, nelle parole non dette, nei gesti, negli sguardi nella reciprocità di certi segnali. Ed è amore forte anche quando promette lacrime / … come stelle cadentio quando sa testimoniare, magari in maniera tacita e senza fare rumore, sfumature di affetto “la mia emozione più riposta / tra teneri trucioli / che il vento solleva / nell’anima di fanciullae finanche quando sembra perdere il vigore, quasi un affievolimento del cuore che smette coi sobbalzi e coi capitomboli e cede, senza resa, alla ragione. Resta sempre tema presente e ritornante e, seppure muta forma, sa conservare intatto ed intero il suo incanto e la meraviglia: “Ora che io ti guardo, / il tuo sguardo è, per me, / dolce incanto riflesso, / nel tempo di te.

La reciprocità del sentimento risulta evidente e pare avere in sé un che di stilnoviano, per la pulizia, la forza incantevole della comunione pur nella condizione riflessa che rimanda l’autrice indietro nel tempo e le fa dire: “Una volta mi amavi.Ed è manifesta una sorta di pacata rassegnazione nella ripetizione plurima dell’affermazione che si carica di dolcezza strana e di una vaghezza di positività che si ritrova in tutti i versi e soprattutto nella chiusa della lirica Nel e fuori dal tempo: “Una volta di noi, / noi che al tempo / restiamo nel sapore di sé.Sovente compare il velo della malinconia non disgiunta da una sensazione di tristezza e quasi di gelo: “È proprio inutile / che io sia / qua a sperare.L’inutilità della speranza è segnata da “un presente” che “non ha / ritornoe da un futuro sbiadito e come votato alla delusione. Eppure in fondo al cuore sembra affiorare timidamente una speranza che addolcisce e una sorta di trepida intesa che lega il passato al presente: “E l’attesa / fu Amore / per l’amore che ora è qua.

Altrove l’amore si connota come forza vitale e prorompente con manifestazioni diversificate e capaci di originare emozioni forti e taglienti come lama. E così può avere occhi di ventoma può anche essere taglio di lama affilata / che va dritta al cuoree per altri versi può sollevare “tempeste di soleo, in altre circostanze, può offrire “veli di baci sopitie può limitarsi ad accarezzare delicatissimamente “la mia anima / rullante / di tamburi in festao ancora penetrare dolcemente e invadere la calma di questo / cuore furente d’Amore per te.E come a completare il quadro appare una sorta di cornice fatta di “ciliegi in fiorequasi a ricordare le note di una bella antica canzone nel comune rimando alla primavera che è anche primavera di vita.

Ma il cuore, che a volte fa capitomboli e lancia bolle per l’aria carica di sole, altrove sembra votato a chiudere le sue porte per cercare consolazione nell’isolamento. Subentra così un bisogno di meditazione accompagnato da un velo di rimpianto e tristezza che tende ad imporsi e quasi a scacciare la dolcezza dell’amore e, a tratti, forte è la tentazione di “spalancare, finalmente / la porta della paura”; tale sensazione è racchiusa efficacemente nel titolo della poesia Purtuttavia con la doppia avversativa. Non manca nella Fazio il senso malinconico e problematico dello scorrere inevitabile del tempo con la sua ineluttabilità che costringe quasi ad una febbrile corsa per sfruttarlo al meglio nell’idea che da un momento all’altro esso possa mancare: “Ho fretta, ho fretta di vivere / poiché ogni istante che segue / potrebbe più non esserci.L’autrice, pur non subendo eccessivamente la sensazione spiacevole del passaggio terreno, sente il bisogno di andare oltre e di precisare la sua ansia di agire: “Ho fretta di sguardi avidi di luce / a sorprendere luminosità svelate / nei labirinti più intricati / di parole e immagini.

Altre volte compare un senso di solitudine che, tuttavia non stanca, o almeno così sembra, e quasi precede il corroborante silenzio con la sua voce delicata e con certe apparizioni anche contrastanti in un canto misterioso nella pluralità dei suoni e sull’immagine concreta dei panni distesi, forse a sciorinare, al sole che è sole di verità: Panni distesi, umidi, / al loro dondolarsi, / tra luce e oscurità, / chiudono e aprono porte / nel divenire dell’oggi.

Talvolta l’autrice si lascia andare al godimento della buona musica che ha il potere di farle perdere la cognizione del tempo, non più frettoloso, di vivere uno spaccato irripetibile che fa bene allo spirito: Estasiata, assapori / estate e poesia, / dolcemente assuefatta / alla bellezza / profonda e impalpabile.Allora la poesia tende ad innalzarsi, a farsi raccoglimento e preghiera o, più propriamente, invito ad interrogarsi: “E io prego / senza voce che risuoni nell’aria / di ascoltare la melodia del tuo cuore.Si tratta di dialogo intimo, sincero, vero, di un colloquio con un ‘tu’ che non ha il carattere dell’impersonalità o dell’indeterminatezza, anche se può appartenere a chiunque. Il raccoglimento non solo è astrazione dalla realtà e dalle miserie della ordinaria quotidianità, ma ripropone immagini della lontana infanzia fanciullezza con tutto il cario di tensione emotiva conseguente. Si crea una sorta di magia come nella poesia Shiatsu dedicata a Lauricella nella quale la poetessa sperimenta, per miracolo terreno, l’attimo di leggerezza e la sensazione di librarsi in volo: “Indossai ali di farfalla / per raggiungere orizzonti lontani, / senza perdermi.”; già, senza il senso dello smarrimento e quasi nel pieno della consapevolezza e ciò dà al miracolo maggior valore. Per questo ella può tranquillamente aggiungere: Libera da ogni peso, / fui onda spumeggiante al cielo, / felicità piena. / E in quella dolce solitudine / consumai / l’ebbrezza della notte incantata.E, se la “notte incantata” è irripetibile, l’autrice non disdegna di abbandonarsi qualche volta al sogno, magari ad occhi aperti, nella ricerca, a levante della luna “nella sua falce tranquillache resta sempre misteriosa e ambigua e chissà che essa stessa non si conceda al sogno e non sperimenti il senso della malinconia, del vuoto, della solitudine, in contrasto con la luminosità che sprigiona. Ed è una luna tutta umana e terrena se si presta al dialogo con la poetessa. Talora il sogno, compagno inseparabile dei poeti nelle più diverse forme, ripropone la rivisitazione dell’infanzia, con qualche punta di amaro come nel rimando al “bambino dalla mano tesa /…/ per la stretta mai compiuta.Altre volte è richiamo alla realtà ed invito alla pace e alla fraternità contro le cattiverie, l’odio, il male dilagante che sembrano dominare e che l’autrice respinge decisamente: ma io, mondo, ostinata e fiera, / ti consegno una preghiera saggia, / libero germoglio circolare / che non conosce rimpianto. / Pace!

Non manca il tema della diversità, i petali di nardo, le fioriture primaverili, il sogno nel contrasto con la realtà, il rimando alla sublimazione, il richiamo a certe tenerezze infantili come nella poesia dedicata a Nazario Pardini: “Allor fanciulli / ci incontrammo / Nazario, / … / l’anima colse / scintillio / dal cuore.E sempre, ritornante, carezzevole, tentatrice, la speranza sa farsi consistente ed allusiva, tacitamente confortando l’autrice: “Ad abbrivi sogni dolci, / reifici e riparatori / mi concedo / per rinascere / … / abbracciata al nuovo giorno.

E sull’idea della possibilità di un giorno nuovo ci piace chiudere il nostro percorso nella convinzione che torneremo a leggere ancora Rita Fulvia Fazio che crediamo abbia ancora tanto da dire e magari tenterà modalità nuove e diverse.

Chissà!

Mario Santoro

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“Federico García Lorca, il poeta tellurico”: ricordando il Poeta a 83 anni dalla sua morte – incontro a Cupramontana (AN) sabato 17 agosto

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Sabato 17 agosto 2019 alle ore 21:15 presso la Sala del Torchio dei Musei in Grotta (MIG) a Cupramontana (AN) si terrà l’evento culturale “Federico García Lorca, il poeta tellurico”, un incontro di approfondimento per ricordare il celebre poeta spagnolo, intellettuale poliedrico (drammaturgo, scenografo, disegnatore e musicista), membro di spicco della Generazione del ’27, ad ottantasei anni dalla sua morte, avvenuta, per mano franchista nel bel mezzo della guerra civile spagnola il 19 agosto 1933 nella campagna fuori Granada, nei pressi di Viznar.

Il corpo del Poeta – che non venne mai ritrovato neppure nel corso delle più recenti ricerche e richieste di scavo dell’area – rimane a tutt’oggi un dilemma insolvibile che, nel corso del tempo, ha dato vita alla creazione di varie piste investigative e tesi anche piuttosto singolari. 

Durante la serata il critico letterario Lorenzo Spurio (autore nel 2016 di una plaquette poetica dedicata al Poeta nell’occasione degli 80 anni dalla morte, Tra gli aranci e la menta, edita per PoetiKanten Edizioni di Firenze)  traccerà il percorso umano e letterario di quello che l’amico Pablo Neruda (che conobbe alla Residencia de Estudiantes di Madrid negli anni ’20 del Secolo Scorso e ritrovò a Buenos Aires nel 1933) definì, ben prima della sua tragica fine, come un “naranjo enlutado“.

Il percorso, tra le varie opere dell’autore, che esordì nel 1918 con Impresiones y paisajes, proseguirà fino alle opere più note e celebrate del Romancero Gitano (1928) e del Poema del Cante Jondo (pubblicato nel 1931 ma contenente poesie scritte nei 7-9 anni precedenti) per giungere alle poesie più enigmatiche e dal gusto surrealista di Poeta a New York scritte durante la sua permanenza nella metropoli americana nel periodo 1929-1930 e pubblicate solo nel 1940.

Le letture di brani scelti delle sue opere saranno eseguite dalla scrittrice Gioia Casale e a impreziosire la serata saranno gli interventi musicali alla chitarra del Maestro Massimo Agostinelli che con Lorenzo Spurio ha precedentemente collaborato in altri eventi dedicati al poeta granadino. 

“La metafora del viaggio nelle poesie di Paolo Maria Rocco”. Analisi di “Bosnia, appunti di viaggio e altre poesie” a cura di Marco Labbate

A cura di Marco Labbate

Su gentile richiesta dell’autore del volume, si pubblica a continuazione la ricca analisi critica di Marco Labbate all’opera poetica Bosnia, appunti di viaggio e altre poesie di Paolo Maria Rocco (Ensemble, Roma, 2019, pp. 98), opera in doppia lingua italiano-bosniaca con traduzioni a cura di Nataša Butinar.

 

    9788868813970-323x500.jpegAl principio l’Arcangelo annuncia, nella nebbia, il porto. È con l’approssimarsi a un nuovo approdo che si apre il secondo bel libro di poesie di Paolo Maria Rocco Bosnia, appunti di viaggio e altre poesie. Il viaggio ha inizio in modo emblematico non solo perché la nebbia è rivelazione – nel percorso circolare del nostoi (ricerca di conoscenza e veicolo d’esperienza) – ma anche perché la funzione dell’Arcangelo (Capo degli Angeli) è di avvertire che qualcosa, come fosse voluta da una presenza intangibile, sta per accadere vegliata dal sacro, il viaggio della vita, tra realtà e sogno.

       I primi versi con i quali si apre questo libro alludono, quindi, ai temi del distacco, della perdita, dell’allontanamento da sé e del ritorno da un percorso eccentrico condotto nell’ignoto. Tra buio e bagliore prendono forma gli specchi della solitudine di un’anima che si volge verso ciò che è inconosciuto, in un viaggio reale, fisico e allo stesso tempo metaforico, si spinge in nuove visioni fino al centro delle cose e della poesia. L’ingresso è un moto di avvicinamento ad uno spazio di autenticità che impone di rielaborare la realtà in forma di racconto, di mito: «Sono a Spalato che m’è venuta incontro…» – «Una parola muta, dici/ è ciò che poi rimane, intimidita/ come fosse storia increata, vita/ umana denudata, e sfarzo/ del lacerto prima della forma/, materia (…)».

    S’innalzano e s’interrano queste visioni nella levità rarefatta di un’inquadratura dall’alto dei luoghi (perché è necessario anche imporre una distanza per elaborare un discorso sull’esistere), come da una ricognizione aerea, sulle aspre dorsali delle Alpi dinariche, per poi gettarsi a capofitto fin nelle pieghe della terra, nello scavo della Neretva, il fiume il cui nome – come i nomi di tutti i più importanti corsi d’acqua della Bosnia Erzegovina – è declinato dai bosniaci sempre al femminile: la Bosna, la Neretva, la Miljacka… perché il fiume, la sua acqua, è il «ventre da cui tutto ha inizio». E se la Neretva apre l’evocazione di un altrove, l’immagine si connota del suo legame con la memoria, quando in prossimità di quel fiume si consumava una guerra in uno di quegli spartiacque che mutano la Storia.

    Ma è di un’altra storia, così ancor oggi vivida, che ci parlano le poesie dell’Autore: appena il salto di una generazione, e deflagra nel cuore dell’Europa, devastante nella regione dei Balcani, in un registro di parole che ci porta in medias res e ci offre anche, subito, la cifra della diversa prospettiva della quale s’informa questa scrittura poetica nel corso del suo processo di elaborazione che conduce verso direzioni stilistiche nuove rispetto al suo primo libro I Canti.

    Queste poesie si costituiscono come viaggio iniziatico, topos della scoperta di un esule nella contemporaneità che disumanizza e parcellizza l’esistenza. Non è uno spazio di fuga, allora, ma di autentica libertà nel corpo a corpo con la coscienza della crisi della nostra epoca, e spazio di verità nel tentativo di ridestare – come ha scritto con una felice intuizione Al J. Moran nella presentazione del primo libro dell’Autore I Canti – la scintilla di sacro che è in ognuno. Parola, paesaggio, pensiero si aprono al disvelamento e il viaggio diventa metafora della vicenda umana, laddove non c’è naufragio, non c’è sconfitta finché l’uomo riesca a ritrovarsi.

    È così che, tra storia e visione, in questa perlustrazione portata dentro se stessi, lo Stari Most appare all’improvviso: «il guizzo di una piuma, il flettere d’un’ala…». L’immagine dei giovani che si tuffano dall’inarcarsi del dorso del ponte di Mostar acquista un ulteriore significato: assumono forma di ali come anche i due bracci del ponte ottomano. Ali spezzate che franano al suolo quando l’artiglieria croata colpisce il simbolo innocente della Mostar musulmana. Una delle immagine più note della guerra protrattasi dal 1992 al 1996, una di quelle immagini alle quali la memoria rimane sospesa, in un senso di colpevole indifferenza che rimane confitto cuore dell’Europa: « (…) ti dice / che una parola sullo Stari Most tacque / dell’altra nell’avvitarsi d’Halebija a Tara /  dell’onda sopra l’onda, e se poi guardi / nell’abisso, che ha la sua lingua / pure il fiume, il suo moto / che non indulge e non ha sosta».

    Repentino, fraterno un grido di dolore echeggia dalla città di Zenica: «Vorrei così vedere la nube,/ nel tempo che ora viene, dilaniata nel cielo che avvelena/ questa terra, con la fame atavica del lupo brado dei monti,/ e dell’inconciliabile diversità dell’etnia sterminata/ con i denti anche l’idea inculcata, che infiamma gli animi,/ e insieme lo spregevole impresario che mercanteggia/ nelle miniere morti e miserie». Ha il volto di Azra, la voce di un popolo, di più popoli in uno. Si alza, assorda, si placa in una nuova ferialità: il tramestio di un bar, la Bosna appena adombrata, come un nume «(…) vibra l’impiantito/ vecchio del bar sul Bulevar Ezhera/ Arnautovića e nel telaio l’opaco/ drappo sintetico s’agita come della finestra/ un vetro rotto. Guardo il fiume dalla terrazza/ sospesa sulla Bosna: un poco scorre/ contrariato, il vento alza un tappeto/ di minute onde trasversali (…)».

    Come se nei Balcani, più che in ogni altra Regione, valga di più la legge universale secondo cui i luoghi non possono essere esperiti senza considerare la loro storia, perché tra passato e presente non c’è una relazione soltanto, ma una continua compresenza che l’Autore sottolinea nel: «far rigenerare la storia/ e il passato nel fiammeggiare del presente». È un tempo che procede in maniera sincopata, che frena e di nuovo incalza, torna indietro e poi si ripresenta insieme con le vite che ha infranto, colte in un coraggioso quanto doloroso tentativo di rigenerazione e di riconciliazione con se stessi e con il mondo, che si impone anche visivamente con un repentino cambio di scena: «(…) un’età inesorabile e violenta che vedi incisa/ in un sommesso sguardo, o nell’esposta dignità/ di un occhio fermo, che si misura col sangue/ nelle fosse, nel fischio osceno dei mortai/ sopra le case, nel pianto dell’innocenza profanata// (…) si eleva a perdifiato una voragine/ che la lena inghiotte, un grido giocoso e cristallino/ di ragazzi… il vorticare corrisponde al suono/ che rigenera lo spirito nell’intelletto, (…) e dentro l’armonia/ del fiume in piena è condizione dell’animo (…)».

    Non si tratta solo dell’impressione che suscita lo sguardo su ferite ancora aperte nelle carni e dalle voragini ancora scavate dai proiettili. Si tratta di quel presente politico che cristallizza il passato in un’armatura, attuale, di «checks and balances», pesi e contrappesi, e nel quale presente così liricamente narrato si svela ciò che detta parole d’amore a questo diario di viaggio, la persistente volontà di riconoscere, sopra tutto, ciò che – al di là di ogni cieco furore – può conservare la Bellezza della presenza umana in una regione martoriata: è, certo, un sensibile omaggio alla Bosnia e ai suoi abitanti, all’homo civicus, che non è cliente né suddito, e alla sua etica di cittadino, questo percorso in cui ci guidano le poesie dell’Autore. È alla Bosnia incarnata nei suoi simboli vitali (cultura, tradizione, mito) che s’ispira la poesia di questo percorso affrontato dall’Autore nei luoghi fisici e nell’elaborazione del linguaggio poetico: l’oppressione della sopraffazione si placa nell’armonia delle acque del fiume, identità con il paesaggio interiore di chi ha vissuto quella ferita. Perché esiste nella poesia errante di Paolo M. Rocco un’altra dimensione del passato, dove sembra possibile una tregua dal dolore, il passato che sconfina nel tempo ancestrale, quello che dà il nome alle cose: «Jalija, gelsomino d’impercepita opalescenza/ della pianta del sicomoro ha l’incanto, della fenice/ feconda e nutrice: questo, ora mi dicono, dev’essere/ il suo vero nome, ché dall’ampia chioma riluce/ un’avvenenza e antica quando la scioglie nella Bosna».

    Rispetto al passato recente – la pietra scabra contro cui si scontra il quotidiano – questo passato è una porta aperto verso l’onirico, là dove si apre lo spazio all’incanto dei sensi, alla meraviglia, al ristoro che diventa inesausta contemplazione nutrita della nostalgia (dal greco, nostalgia è composta da: nostos/ritorno e algia/tristezza) non del ritorno in patria ma dell’accesso all’esperienza: «Il cielo/ dalla mia parte, che tu lo sappia, gronda/ un sospetto di pioggia/ (…) ora la volta/ è una brocca inclinata che versa di gocce/ un’armata. Sul litorale la sabbia è un mantello/ stellato che ondeggia nella brezza/ e si fa pensiero alato nei pressi dell’approdo».

     Ma non si tratta di un sogno che deve essere sciolto. Il ritorno riprende lineamenti definiti.     L’ultimo sguardo si muove da quel mare, altro, abbandonato all’inizio e che, nell’ultimo indugio, sembra voler abbracciare tutto ciò che ha raccolto. Il congedo, E altri altrove, è una visione da conservare come un cimelio nel quale quello che s’è vissuto ricorre in una voluta d’arabesco: una donna con il suo strumento a corda, la giovane venditrice, un uomo che cammina: «(…) com’è stato/ che lo squillo della voce sia diventato un canto/ di gabbiani, dall’altro mare vedo uno strumento/ a corda nelle mani di una donna nel mercato/ delle stoffe, e della giovane nel chiosco/ della trafika un disegno che indulge/ all’andamento del passante sulla strada/ e al desiderio: s’accede/ da quegli occhi generosi nelle volute/ arabescate sull’acqua della Bosna».

     A quella terrestre, materica si affianca una seconda dimensione del viaggio, non geografica, senza luogo. La poesia sembra quasi proporsi come manuale del viaggiatore in una tensione che è insieme lirica e metafisica. In questa dimensione visionaria l’hic et nunc – in un andirivieni di riprese e di rimandi al testo – diventa strada all’everywhere, ad uno spazio immaginifico che si apre con la seconda sezione del libro, “Altre poesie”: «Di forme intersecate un nudo patchwork, un modo/ per corrispondere del viaggio ad una pianta/ grafica l’insolito messaggio, il benvenuto. Un tempo/ altro prendono gli accordi, il calore sprigionato/ dalla spiaggia, il volo che innalza mulinelli/ di gabbiani sopra il ponte, l’acqua che sembra dissipare/ in un tremulo vapore il colore dei ricordi, l’onda/ che prende poi la forza e diventa una tempesta// Nel mare senza mappa, un punto di passaggio/ aperto per l’ignoto sulla cui cresta s’agita/ il pensiero di rompere l’indugio».

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Una vista di Mostar, capoluogo della regione dell’Herzegovina con il caratteristico ponte Stari Most, precedentemente distrutto e ricostruito. – Fonte foto: http://www.zanconatoviaggi.it/evento/1934/

    Il carattere iniziatico del viaggio nasce da una riduzione all’origine che ha nell’acqua, come dicevamo, il suo elemento primario: «il traghetto mi partorisce dalla stiva»; e il fiume, abbiamo visto, è «ventre da cui tutto ha inizio». C’è un valore emblematico dell’andare per mare o sul fiume, su una zattera o su un cargo malandato, cercando di domare le rapide o le onde: è la ricerca dell’essenza della vita, della genuina bellezza, è la ricerca di ciò che si avverte perduto che guida verso la verità «: ben potenti ho scavallato flutti/ di mondi che si potessero solcare/ nessuno avrebbe detto, il lato/ aperto di uno spazio che ho sbrigliato/ con una carezza sul dorso lanciato/ del puledro (…)»; valore emblematico hanno il remo del passatore che non tocca mai la stessa acqua, il battello fatiscente che -identificandosi con l’Autore- resiste alla tempesta e solca i marosi come la procellaria che «(…) adusa al largo/ mare ad ali spiegate riprendo il volo a raso/ e non di un asilo cerco il luogo ameno, il valico/ nel tempo col bruno della mia livrea, col bianco/ delle vele ridesta il cielo alla memoria e piango».

     Allo stesso modo, il passo del viandante non ha direzioni da imporre a se stesso se non penetrare in profondità nelle cose e nella loro memoria sedimentata; accetta persino l’inciampo, come inevitabile presa di coscienza del terreno, di un qui e ora trasfigurati dallo sguardo del pensiero che è accesso ad una dimensione atemporale: «Passeggiare prediligo sulla sponda, rapida/ a volte con il pensiero che s’accorda, hai detto/ per le sue motili forme al passo, e incrociare/ il cammino dei viandanti per immedesimarmi/ nel caos delle mie stanze, perché amo incespicare/ nei suoi riverberi come della fronda il fitto intreccio/ s’avviluppa su se stesso per ritrovarsi/ ancora smarrito (…)».

    Ecco come, nelle poesie di Paolo Maria Rocco, sul piano prettamente linguistico suono del fonema e sua qualità acustica si relazionano con il significato della parola che essi stessi traducono. In questo senso il fonosimbolismo del termine incespicare raccoglie una forza dell’esplorazione che è, ancora una volta, anche potere della lingua: il suono definisce una consistenza che conferisce alle parole peso. Di volta in volta emerge questa qualità nell’asprezza o nella musicalità del ritmo e del riverbero sonoro che innervano i versi e testimoniano di una intensità che assegna ancor più potenza alle parole, un surplus di significato nelle sue metafore e simboli: «Le parole, mi hai detto/ si possono ascoltare/ non i pensieri, quelli/ se ne vanno direi nel silenzio/ dissigillato dallo sciabordìo/ del mare colmo dei sensi: Idea/ Spirito, Materia allora ritornano/ a parlare come mai prima/ fosse accaduto nella lingua/ di un mondo dal moto perpetuo/ nell’intimo sommosso, inaudita» e anche: «mette in guardia// Dall’ingresso nel bosco: è sorvegliato/ hai detto il testo, nondimeno allarma che si vesta/ d’ombre sovrapposte, e a un dipresso che sbocci/ dalla linea perimetrale delle felci il modo d’intendere/ l’onda di nere bacche note di una partitura».  La parola diventa spazio sensoriale e forma alla conquista dei sensi: «I sensi, i sensi… ti dico, che tessono/ i sensi? Del tempo che ordiscono/ che già noi non percepiamo? Del mondo che appare/ son taciti e della materia a ogni richiamo?… Vediamo:/ cosa vediamo che c’è?».

    La voce di questa dimensione altra del viaggio si erge a voce universale, voce della «terrestre crosta»: è la voce della natura, non della realtà, per inoltrarsi lungo «un percorso ancora ignoto» che se «altro di sé non mostra che il moto» dispone ad una più precisa percezione dell’esplorazione nel significato della lotta condotta tra tenebra e luce. È, questa nuova dimensione, nel mito controverso – ci spiega l’Autore – dei Dioscuri, figli di Zeus e di Leda, guerrieri e protettori dei naviganti, stravaganti divinità che partecipano di due nature, una mortale l’altra immortale, attratte dall’Ade e dal Cielo in un movimento di assoluto vitalismo capace di rovesciare l’ordine del mondo, in un anticonformismo che fa strame dell’ipocrisia col gesto bello che è gesto di verità: «Io vado laddove non c’è posto per l’onda/ che s’arrotola in spumeggianti piroette (…)/ (…) ma solo dove non m’assale/ l’irrilevanza sordida di certo perbenismo/ parolaio, avariata merce da rigattiere/ o da corsaro (…)/ (…) non lo conosco un altro modo di nutrire amore e idee/ che io misuro in ere per quanto nel mare/ vi è di sacro e nel suo letto (…)». In questi passaggi di Altre poesie, le nette connotazioni geografiche del viaggio vissuto si perdono in scorci indistinti che sono un invito a percepire una verità celata e che alla precarietà di una desolante condizione umana traghettata nel principio del mare o di un fiume o di un canale, accompagna il bagaglio di memorie, sentimenti, pensieri del viaggiatore che tenta di uscire dalla finitezza della realtà per tornare all’infinito. Le descrizioni si rarefanno come se recuperassero un viaggio lontanissimo o cercassero materia per il viaggio che deve venire e nel quale c’è spazio anche per un attraversamento della Iulia Fanestris, la città di Fano tra storia antica e contemporaneità, e del paesaggio nel quale si specchia, che pare ascoltare se stessa, interrogarsi sul proprio destino, come in una rivendicazione di libertà. Che sia l’anima, dunque, dell’essere e del mondo, a rianimare l’elaborazione di un pensiero sull’esistenza, e sulla natura e sul mito. Ma anche nel momento in cui la potenza sensoriale si sublima in un’astrazione – conoscibile, come idea/noumeno, solo attraverso l’azione dell’intelletto e del pensiero – essa non perde l’àncora del suo legame con il mondo: «(…) dai passi sordi/ nel loggiato Malatesta a ciò che resta di vero/ delle Mura romane poi il tempo, hai detto, pesta/ il talento di rigenerare in fiamme il sentimento/ , la visione di uno squillo di trombe augustee/ che innalza la storia nell’ora severa. Riecheggia/ così il corso del fiume che si snoda dall’Alpe/ della Luna alla Fanestris Iulia (…)» e, in un’altra poesia: «Neppure un’ombra il rudere dispensa, il sauro/ striscia compiaciuto tra una roccia e un detrito/ pericolante di muraglia. Il sole a perpendicolo/ registra un picco che si staglia dall’aria cocente/ e sulla terra in frusta, resiste male all’acuto/ l’arida sterpaglia nell’ora verticale pietrificata/ en attendant…».

    Nelle poesie di Paolo M. Rocco non è possibile viaggio senza incontro, che si condensa in un assiduo dialogo. Vi è un tu che segue gli spostamenti, un tu femminile, sensibile e sensuale, guida che rivela le parole che mancano al poeta, figura una e molteplice, che si manifesta e si dissolve. Il viaggio dell’Autore non è conquista solitaria, ma scambio reciproco tra la meraviglia della scoperta e il bisogno di essere condotto da chi ha del luogo un possesso diverso «Qualcosa rimarrà di tuo nell’acqua/ che i piedi bagna di Jajce, nel salto/ sonoro del Pliva e del Vrbas, qualcosa/ dell’amata kasaba rimane alla radice/ che si eleva dopo la caduta». Il tu diventa un prestarsi gli occhi l’uno con l’altra, un raggiungere uno sguardo che sia dialogico e comune: «Tu, spettatrice/ della stessa tua vacanza, una visione/ sei chiamata del mondo a evocare, rigorosa/ come fosse della luce un’alternanza/ speculare, o dei tuoi occhi».

     In questa duplice dimensione, negli spazi intersecati dal viaggio vissuto e da quello astratto, nei cortocircuiti temporali, nel ritorno all’acqua si compie l’approdo: l’emozione del sentimento come unico sguardo da rivolgere al futuro: «Pare sia il futuro/ invalicabile, un cancello dai battenti schiusi/ le palpebre degli occhi tuoi sorpresi/ di trovare dove non pensavi vi fosse il fuoco/ di un amore. Uno strappo dell’anima oscillante/ qualcosa di più dello strapiombo di una cataratta/ quest’acqua che sovrasta il tempo».

 

Marco Labbate

 

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“Parole Silenzi Echi Ritorni” di Velia Balducci, recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

La mente di un poeta

somiglia a una farfalla

velia-balducci.jpgQuesta prima raccolta poetica dell’autrice anconetana Velia Balducci (Parole Silenzi Echi Ritorni, Ventura Edizioni, 2019) non lascia indifferenti per una serie di motivi che si cercherà di enucleare a continuazione e che rendono l’opera, senza alcun dubbio, pregevole nel sistema di rimandi tra contenuti ed evocazioni.

Il titolo, di per sé così troppo esplicativo per una raccolta di poesie, è un chiaro segnale che aiuta il percorso di lettura e – semmai – quello interpretativo delle tante pillole di vita personale in essa contenuto. È un volume di chiara poesia intimista e confessionale – non in termini religiosi, ma di una confessione tra sé e la propria anima – , dove gli elementi che vengono man mano centralizzati nei vari testi sono per lo più dolci memorie di un passato che non ritorna (quegli “echi” che figurano nel titolo, appunto), versatili silenzi che, come spesso accade, possono essere talmente polisemantici, alludere a mondi vasti e contrastanti, essere riempiti in maniera non sempre così intuitiva o necessaria.

Essenziali, tra le tante, le memorie relative ai giorni trascorsi con i nonni, nella casa piccola ma grande come il loro cuore, dove la poetessa era colma di carinerie, gesti di premura e di un amore incondizionato da parte di quelle che poi, col trascorso del tempo, sono divenute le sue “stelle”. C’è attenzione anche l’universo ambientale, tanto naturalistico – con le varie liriche marine o dove si richiama l’immagine-simbolo del gabbiano – che sociali dove si riflette sulla mancanza di trasparenza dell’uomo, la sua azione malvagia contro le donne, la sua incapacità di ragionamento dinanzi a determinate situazioni. Non un’indagine inclemente della condizione sociale, della razza umana d’oggi, né una poesia di impronta dichiaratamente civile, semmai una sorta di riflessioni, qua e là, come fugaci pennellate, anche della frastagliata condizione umana. C’è poi, quale riflesso utopistico di un al di là dove è soave proiettarsi, tutto l’universo celeste: il cielo visto come spazio dell’illimite ma anche come campo dove, forse, con occhio acuto, è possibile scorgere, tra i tanti geroglifici incompiuti, delle risposte. Si badi bene, non delle risposte oggettive, delle risoluzioni pratiche e materiali a esigenze della vita, ma delle confidenze interiori, quale una comunicazione medianica difficilmente spiegabile se non per mezzo di potenzialità sensoriali, di apertura mentale, di appassionante abbraccio alla vita tutta.

Ecco perché anche le poesie che, in maniera più o meno esplicita, parlano della morte come concetto o della morte tramite il ricordo di persone che hanno abbandonato il nostro Pianeta, non scendono nel più fosco appiattimento. C’è, infatti, nella poesia di Velia Balducci – e non potrebbe essere diversamente conoscendo il brio che la contraddistingue – un impeto verso il bello, una ricerca continua verso la spiegazione intima, profonda, viscerale delle cose, una lettura appassionata del vivere che rifiuta ammorbamenti, chiavi di lettura tristi e che, dopo tutto, ammicca sempre alla vita strizzando l’occhio.

Ne è testimonianza, tra gli altri, anche il breve frammento narrativo – una sorta di racconto, è vero ma dalla tecnica volutamente allusiva, dal finale aperto, dagli intenti introspettivi e di ricerca interiore che ne fa una prosa poetica – che chiude il volume nel quale si attorcigliano tra loro alcuni dei motivi che più dominano nell’intero lavoro poetico: l’amore per la lettura e la scrittura, l’amplesso solare – in questa comunione completa con l’elemento naturale che, al contempo, è fuoco e ingrediente di vita della Terra -, la voglia di raccoglimento e l’istinto mai domo verso la conoscenza, finanche la riflessione sul tempo, sulla sua inesorabilità e la senilità rappresentata dall’anziana che incrocia. C’è anche, per riflesso e al contempo come connaturato rimando, il mito dell’infanzia nel riferirsi alla favola, a un mondo di giochi e di narrazioni fiabesche dove il bello è sempre assoluto e l’amore è coronato in scene archetipiche. Che forniscono pace e completezza nei bambini, ma che assediano di terrore gli adulti, che ne incrinano le certezze rendendoli più burattini che principi e principesse, in uno spazio che non è lo sconosciuto bosco o il palazzo di corte, ma la caotica città con i suo drammi.

Il libro raccoglie, in una sezione dedicata posta in appendice, una serie di riflessioni sulla vita e finanche sulla scrittura – quasi degli aforismi – delle brevi frasi o citazioni che, pur nella loro sintesi, racchiudono un mondo di ragionamenti, di intenzioni, di problematicità, vale a dire di realtà esperite o configurate nella mente, elaborate dalla Nostra. Solo per citarne alcune delle più calzanti vale la pena riportare queste: “Quando il mondo ti toglie la voce, tu parla in disparte e fai poesia” oppure “La solitudine è quello spiraglio che si intravede dall’interno di una porta socchiusa”.

La nota di apertura del poeta laziale Roberto Colonnelli ben anticipa, senza svelare molto, quelle che saranno le tematiche-cardine della raccolta permettendo al lettore, per chi ha avuto la fortuna di conoscere l’autrice, di ritrovarla in maniera perfetta in queste pagine. Poesie che riflettono e ritrovano tempi andati, ma anche attuali, che sprofondano nel presente della realtà personale della nostra, incontri frugali, echi di discorsi, amici che nel frattempo se ne sono andati, il ricordo onnipresente dei nonni e della loro abitazione, quel desiderio di fuga e leggerezza che i gabbiani ben incarnano nel loro volteggiare superbo e planare in prossimità della riva.

Un’opera estesa – ancor più se si pensa che è l’opera d’esordio – con la quale l’autrice si confessa e testimonia se stessa: il suo vissuto, le sue fobie, i suoi desideri. Ed è piacevole per il lettore accompagnare la Velia bambina, poi donna matura – tra debolezze comuni e irrefrenabili entusiasmi – in questo percorso che è suo e, in fondo, di noi tutti. Un percorso nella memoria che passa per il tunnel del presente, per proiettarsi su un ponte aperto. Dall’altra parte si intravedono come dei contorni sfumati, non sicuri, ed è un po’ questo lo scopo della poesia che scava nella parola, fa affiorare possibilità e interagisce con un cervello che non vuol esser dominato. Così, tra un mondo domestico che profuma d’infanzia felice che riveste la Nostra come una seconda pelle, si dà spazio anche a timori e propositi per un futuro che la poetessa farà di tutto per rendere luminoso e suadente. E intanto – quale esigenza primaria della Nostra e piacere condiviso dei suoi lettori – la penna dell’anima non potrà che vibrare: “Parlo di più/ colando/ termini/ su/ fogli/ che…// Spargendo voce”.

LORENZO SPURIO

 

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Federico García Lorca: la sua poesia e la sua vita. Due incontri in Liguria con Lorenzo Spurio (Genova 13/04 e La Spezia 14/04)

Due incontri poetici con il poeta e critico letterario Lorenzo Spurio che approfondiranno il vasto e impareggiabile percorso umano e letterario di Federico García Lorca avranno luogo nel secondo fine settimana di aprile in Liguria.

Il primo di essi vedrà Lorenzo Spurio presentare il suo ultimo libro di poesia “Pareidolia” (The Writer Edizioni, Cosenza, 2018 – con prefazione della poetessa Michela Zanarella) presso la Stanza della Poesia di Genova (Piazza Giacomo Matteotti n°70) il 13 aprile alle ore 17:45. La presentazione sarà condotta dalla poetessa e critico letterario Rosa Elisa Giangoia, Durante l´incontro si terrà una “Conversazione su Federico García Lorca”, tesa a indagare alcuni degli aspetti meno noti e più curiosi del percorso umano e letterario del poeta spagnolo, tra i quali la sua permanenza newyorchese nel 1929 e le sue opere surrealiste.

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Il giorno successivo, domenica 13 aprile a La Spezia, presso Il Poggio Ortobar (Scalinata San Giorgio n°5) alle ore 16:30, presentato dal poeta Francesco Salvini, Spurio parlerà del suo precedente libro, “Tra gli aranci e la menta. Recitativo per l´assenza di Federico García Lorca” (PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016 – con prefazione del poeta e critico letterario Nazario Pardini), pubblicato nell´amara ricorrenza degli ottanta anni dalla morte del poeta granadino (vincitore di vari premi nazionali tra i quali “L´Astrolabio” di Pisa). La plaquette affronta il tema della morte, dell´assenza del corpo e della forza espressiva della poetica umana e dell´impegno civico di uno dei più grandi poeti al mondo. Le pagine sono impreziosite da alcune raffigurazioni a china del Maestro irpino Franco Carrarelli elaborate appositamente a partire dalle poesie di Spurio. Nella quarta di copertina del libro, a firma di Corrado Calabrò, si legge: “La silloge è al tempo stesso una rievocazione ed un’invocazione del poeta, con un fondo di accoramento che si scioglie nel colloquio con le piante e con la natura, in sintonia col sentire del poeta e in risonanza con i suoi versi”.

La serata darà modo di parlare e riflettere sull´esistenza travagliata e breve del “poeta tellurico”, valente drammaturgo e difensore dei diritti civili, con particolare attenzione al suo viaggio Oltreoceano compiuto nel 1929 che lo portò prima a New York e poi a Cuba. A novanta anni esatti da questa esperienza assai importante per García Lorca, Spurio racconterà alcuni degli episodi che caratterizzarono quella fase della sua vita, le sue amicizie, la sua vena più incline all´avanguardismo e alla sperimentazione e le nuove opere che lì maturano, prima fra tutte “Poeta a New York” che sarà pubblicata postuma, nel 1940. Durante l´incontro alcuni poeti locali interverranno con loro letture di testi di Garcia Lorca.

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INFO EVENTO GENOVA 13-04-2019

Stanza della Poesia di Genova

stanzadellapoesia@gmail.com

 

INFO EVENTO LA SPEZIA 14-03-2019

Il Poggio Ortobar: – Evento FB

 

 

 

Addio al teatino Vito Moretti, poeta “umano” e saggista di ampia caratura

Giunge dalla stampa online[1] e dalle tante attestazioni di stima e amicizia in Facebook l’annuncio del decesso del professore Vito Moretti (nato a San Vito Chietino nel 1949) di Chieti, docente universitario, poeta e scrittore, saggista e critico letterario che da poco aveva festeggiato i cinquanta anni della sua carriera di letterato. Recentissima, di pochi giorni fa, la notizia che la sua poesia inedita “Potessi raccontare i sogni” è risultata nella rosa dei finalisti del celebre Premio Letterario “Don Luigi Di Liegro”, X edizione, di Roma.

Ingente il suo contributo al mondo della poesia contemporanea, pubblicò (l’elenco dei titoli non è completo!)[2] le opere in dialetto N’andica degnetà de fije (1982), La vulundà e li jurne (1986) e Déndre a na storie (1987), Na raggio ne e li déhe (1989), La case che nen e chiude (2013) e per la poesia in lingua, dopo alcune plaquettes confluite in Una terra e l’altra. Ristampe e inediti (1995), ha dato alle stampe Temporalità e altre congetture (1988), Il finito presente (1989), Le prerogative anteriori (1992) e Da parola a parola (1994), Di ogni cosa detta (2007), L’altrove dei sensi (2007), Con le mani di ieri (2009), Luoghi (2011), Dal portico dell’angelo (2014). I suoi interventi teorici sono stati raccolti nel volume Le ragioni di una scrittura. Dialoghi sul dialetto e sulla poesia contemporanea (1989).

Il mio ricordo è legato ad alcuni brevi episodi che ci permisero di incontrarci in quella che era la terra che lui amava più di ogni altra cosa, ovvero il capoluogo teatino. Difatti nella prima edizione del Premio Letterario “Città di Chieti”, ideato nel 2017 dall’amica e poetessa Rosanna Di Iorio nel quale figuravo per sua volontà quale Presidente di Giuria, data il lungo corso della sua unanimamente riconosciuta attività poetica, la vastità dei suoi interessi letterari, lo spessore delle pubblicazioni e degli interventi critici in conferenze, dibattiti e convegni di varia natura, ci era sembrato opportuno premiarlo con un Premio Speciale definito, appunto, “Città di Chieti” (aveva partecipato in quell’occasione con la poesia “Così è questa la traccia”). Si trattava, com’è intuitivo da comprendere, uno dei tanti  numerosissimi premi, attestazioni di merito e di riconoscimento che da decenni il professore aveva ricevuto con orgoglio e merito in ogni parte del Paese.[3] Ricordo che in quella circostanza, pur dispiaciuto, non ebbi l’occasione di incontrarlo perché doveva trovarsi impegnato fuori città per altre iniziative letterarie e il premio gli venne in seguito consegnato dall’organizzazione.

Lo incontrai, invece, ad aprile 2018 presso il Teatro Marrucino di Chieti nell’occasione della presentazione al pubblico del libro di poesie La stanza segreta (Vitale, 2018) di Rosanna Di Iorio dove ero stato chiamato, assieme a Lucia Bonanni, a intervenire sul volume. Scambiai qualche veloce chiacchiera con lui ma questo non impedì che ne apprezzassi l’impeto nell’esternazione delle sue battute nonché l’acume delle considerazioni.

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Il professor Vito Moretti. Foto tratta da: http://www.ilcentro.it/cultura-e-spettacoli/quelle-ombre-adorne-di-vito-moretti-1.21839?utm_medium=migrazione

Rimasi così in contatto con lui, esclusivamente a mezzo internet, e apprezzai – ben prima che la sua produzione poetica (vastissima e di alto profilo) – la sua attività di critico e di esegeta di testi letterari della tradizione abruzzese con particolare attenzione a Gabriele D’Annunzio. Molto interessato ad alcune sue pubblicazini sull’argomento (ormai per lo più fuori catalogo e dunque introvabili) era stato così gentile da inviarmi estratti delle opere a mezzo e-mail ed altre me le avrebbe sicuramente inviate per posta – quale dono – come mi aveva promesso avendo avvertito nelle mie parole il grande interesse verso il suo lavoro ermeneutico. Purtroppo non ve ne fu tempo. Conservo, invece, con piacere una serie di testi (capitoli estratti) di volumi[4] o di suoi studi critici vertenti il fenomeno del “dramma rurale”, del teatro rustico d’argomento abruzzese con riferimento a La Figlia di Iorio di D’Annunzio. Gli comunicai, nei mesi scorsi, infatti, che ero molto interessato ad approfondire tali questioni per una lettura più ampia e comparativa per un mio studio improntato sul tema dell’onore e del dramma rurale nell’opera dello spagnolo Federico García Lorca. Sono testi importanti e ben calibrati, i suoi, che saranno di certo utili nello sviluppo del mio saggio e che lo saranno per tutti coloro che, interessati al fenomeno agreste in oggetto, faranno ricerche in tal senso.

Ma la produzione di critica letteraria di Moretti è vastissima e non esula interessi d’altro tipo. Vorrei, infatti, ricordare alcuni dei testi della sua intensa bibliografia: Occasioni abruzzesi. Letture e pagine critiche (Tracce, 2000), Il plurale delle voci. La letteratura abruzzese fra Sette e Novecento (Bulzoni, 1996), D’Annunzio pubblico e privato (Marsilio, 2001), Le forme dell’identità. Dall’Arcadia al decadentismo (Studium, 2001),  I labirinti del Vate. Gabriele D’Annunzio e le mediazioni della scrittura (Studium, 2006), Ariel e Melitta. Carteggio inedito D’Annunzio-De Felici (Carabba, 2007), Di carte e di parole. Note, proposte e ricerche sulla letteratura dell’Otto e Novecento (Bulzoni, 2009), Le forme recitate. Aspetti della letteratura tra Otto e Novecento (Studium, 2011).

L’ultima volta che lo sentii, circa un paio di settimane fa, era per informarlo della decisione della redazione della rivista di poesia e critica letteraria “Euterpe” di pubblicare una delle sue poesie,  giunte per la selezione dei testi, ovvero la poesia “Nel nostro campo”, che figura all’interno delle pagine del n°28 di Febbraio 2019.

Alcuni versi estratti da un’altra sua bella poesia, “Dubita, se ogni punto”, così recitano: “Nulla ha più della perfezione/ che ti impegna al perdono, alla linea che declina/ e che pure sale, e che si moltiplica, tu sai,/ dove tutto è infinito”.

 

Lorenzo Spurio

09-02-2019

 

[1] La testata “Chieti Today” così titola la notizia: “La cultura abruzzese piange il professor Vito Moretti, docente universitario e scrittore”: http://www.chietitoday.it/cronaca/scomparso-professor-vito-moretti-chieti-san-vito-chietino.html mentre l’emittente locale “Rete 8” così titola: “Chieti piange la scomparsa del professor Vito Moretti”, http://www.rete8.it/cronaca/234chieti-piange-la-scomparsa-del-professor-vito-moretti/

[2] Notizie biobibliografiche più esaustive possono essere consultate sui siti della casa editrice Tabula Fati: http://www.edizionitabulafati.it/vitomoretti.htm e “Poesie del nostro tempo”: http://poetidelparco.it/9_228_Vito-Moretti.html Numerosi suoi testi poetici sono presenti sul siti, riviste online e antologie poetiche.

[3] Solo per citarne alcuni: il “Versilia-Marina di Carrara”, il “Premio Alghero”, il “Pisa-Calamaio di Neri”. Il professore, inoltre, era presidente e membro di giuria in numerosi premi letterari nazionali sia abruzzesi che di altre regioni.

[4] Principalmente estratti di VITO MORETTI,  I labirinti del Vate. Gabriele d’Annunzio e le mediazioni della scrittura, Roma, Edizioni Studium, 2006.

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