“Migranti”, opera poetica di Anna Manna e Daniela Fabrizi, introduzione di L. Spurio

Anna Manna; Daniela Fabrizi, Migranti. A passi nudi, a cuori scalzi, Aracne, Roma, 2016. Introduzione a cura di Lorenzo Spurio, Saluto di Iole Chessa Olivares e Prefazione di Dante Maffia.

 Introduzione a cura di Lorenzo Spurio 

Anna Manna e Daniela Fabrizi hanno deciso di unire in un unico volume una serie di loro liriche accomunate dalla tematica civile relativa al fenomeno ormai planetario dell’immigrazione verso l’Europa vista da interi popoli che fuggono la guerra, la dittatura, la povertà e la disperazione, come un nuovo Eldorado. Le cronache degli ultimi tempi non mancano di narrarci di quanti morti ogni volta si contano nelle repliche delle tante tragedie per mare dove imbarcazioni di fortuna sovraccariche di persone stipate come animali finiscono per non reggere: il legno si incrina e il barcone si spezza, affonda nelle acque scure di un Mediterraneo indifeso che come una densa coperta ricopre i tanti lutti e fa sciabordare le onde nell’illusione di risollevare le vite assopite per sempre nei fondali.

migrantiEntrambe le poetesse hanno dedicato al tema la gran parte dei componimenti inseriti in questa raccolta ma lo hanno fatto in modo assai differente (ed è questo uno dei punti di forza di questo libro). Anna Manna Clementi, che apre la raccolta con la silloge dal titolo “Esodo”, si concentra sull’elemento equoreo ossia sul fenomeno migratorio visto nella fuga per mare verso le coste dell’Europa.

L’elemento sensoriale al quale la Nostra sembra essere particolarmente legata, quasi in maniera inscindibile, è quello sonoro: Anna Manna con i suoi versi ci fa sentire con nitidezza le urla rotte, le grida lancinanti, i rumori assordanti e impetuosi, i gorghi rumorosi e affannanti del mare, descrivendoci la tragedia dei barconi che si inabissano in maniera diacronica: dal giorno dominato da un sole all’apparenza timido allo scenario notturno, cupo e privo di conforto nel migrante alle prese con l’avaria del mezzo di trasporto. Così quelle urla, quegli SOS accorati finiscono ben presto silenziati quando l’acqua, pregna di sale, occupa in maniera opprimente  i polmoni dei poveri derelitti. Ciò avviene in maniera non molto diverso da ciò che la compagine europea ed internazionale fa: parla del fenomeno e si dice costernata per le tragedie impegnandosi in summit allargati per ovviare a decisioni veloci da prendere, salvo poi stanziare fondi ai paesi più coinvolti dal fenomeno lasciandoli in balia di sé stessi a gestire l’inarrestabile penosa avanzata.  L’incapacità di intervento, la mancata concretezza nella gestione del dramma finiscono per mostrare un’Europa disattenta, fredda, razzista e connivente in una certa maniera con la mercanzia delle anime, con il crimine etnico. Crimine che è ancor più spietato e schifoso per il fatto che è esso stesso merce di consumo nel circuito informativo dove l’immigrazione diviene spesso tema da talkshow nel quale dire tutto e il contrario di tutto, acconsentire o dissentire, mostrarsi o accaparrarsi la simpatia di fasce della popolazione, impiegare il tema, demagogicamente, quale impegno del proprio partito in una possibile campagna elettorale.

I vestiti degli sventurati si inzuppano di acqua e si fanno pesanti, l’umidità addosso infradicia le ossa, il cielo è lì, alto, come disegnato e sembra impossibile ricavarci una qualche consolazione.  Le carni sono pressate, il tormento invade le menti, l’angoscia di non farcela macchia il cammino della speranza  mentre i bambini piangono e le proprie madri si apprestano a dargli tutto ciò che possono, il loro latte fattosi ormai acerbo dal disprezzo nei confronti della vita.

La natura ambientale che accoglie la dipartita delle anime ha assunto anch’essa gli stilemi di una depravazione morale, di un’incompatibilità con la vita dell’uomo: colpiscono le “viscide alghe”, ne percepiamo quasi la loro ignavia e al contempo la vigliaccheria, il mare, pure, sembra assumere peculiarità umane e rendersi fautore di un “ghigno spaventoso”, bestiale e malefico, privo di redenzione. Un’acqua di morte che nega il ciclo di rinascita, si fa densa e piena di propaggini, mani che non aiutano né sollevano o facilitano il galleggiamento, ma che, pesanti e dalla presa diabolica, afferrano e trascinano nei fondali più infimi.  Una condizione apocalittica alla quale la Nostra contrappone il suo fiero disappunto con foga e con un dolore autentico che la conduce a vagheggiare istinti mortiferi e annullanti l’intera umanità (“se fossi forte vorrei spezzare il mondo”) per metter fine alla sperequazione della speranza tra fortunati e disperati, ed esser tutti fratelli, in un’angoscia comune che si può realmente conoscere solo se la si vive.

Se il mezzo identificativo delle poesie di Anna Manna Clementi è rappresentato da quel mare infingardo che diviene pozza mefitica di certezze e sepoltura di massa, l’altra poetessa, Daniela Fabrizi, si concentra in particolar modo sull’elemento terra. Anch’essa ci parla del fenomeno migratorio del nostro periodo storico visto, però, per mezzo delle lunghe traversate per terra, principalmente quella di siriani ed iracheni che sulle proprie gambe risalgono ampi territori, passando per la Turchia e cercando poi di immettersi nell’Europa attraverso la Grecia o, più frequentemente nelle ultime settimane, proiettandosi verso i Balcani quale meta finale per l’ingresso nei confini della Comunità Europea.  Per tali ragioni Daniela Fabrizi non può non parlare del fenomeno eclatante di divisione, una sorta di nuovo muro di Berlino, che il governo del conservatore Orbán in Ungheria ha fatto costruire a salvaguardia delle proprie frontiere.

Non solo viene negata l’assistenza e l’asilo al profugo di guerra ma anche il passaggio per una nazione che possa permettergli dopo settimane di duro cammino di poter entrare in Croazia e dunque in Europa.

immagineLa Nostra sottolinea con particolare enfasi nelle sue liriche questa durezza dei cuori che si esplica negli elementi di chiusura, recinzione, allontanamento che non fanno altro che esacerbare differenze tra etnie, culture e società contribuendo alla segregazione di alcune e al dominio di altre: “Un certo Abele mi chiamava fratello”, scrive nella poesia “Fratello”.

Il binomio di esperienze letterarie di Anna Clementi e Daniela Fabrizi in questo caleidoscopio di riflessioni amare su uno dei problemi sociali più cocenti e gravi del momento è senz’altro riuscito. In esso, meglio di qualsiasi pagina di giornale o foto di una qualche tragedia annunciata, è contenuta la sofferenza e lo scoramento di due donne che, pur appartenendo alla società civile di un mondo Occidentale, fanno propria l’esigenza della battaglia per la vita. Un esodo di dimensioni bibliche dove lo straniero viene visto come minaccia pericolosa, un esilio per nulla romantico, gravato da un desiderio impetuoso di fuga. Mentre la tv ruggisce notizie più o meno simili di barconi spezzatisi al largo del mare o di militari che sparano contro le orde migranti in uno stupido e deprecabile confine, non c’è più tempo di stare ad ascoltare. Per alcuni, per i cultori della dialettica verbosa e inconcludente forse non siamo ancora arrivati al collasso e –come dice la Fabrizi- “si sta [ancora] aspettando il boato”.

Esso, però, si è già prodotto e giorno dopo giorno lo percepiamo con sofferenza nella insanabile deflagrazione dei cuori.

Lorenzo Spurio 

Jesi, 4 Novembre 2015

La letteratura migrante. Alcune riflessioni sul volume “Scrittura e migrazione” – ediz. Università di Siena (2006)

Scrittura e migrazione – Una sfida per la lingua italiana

a cura di Laura Barile, Donata Feroldi e Antonio Prete

Edizioni dell’Università di Siena, Siena, 2009

ISBN: 978-88-96151-03-7

Numero di pagine: 179

 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

Curatore di Blog Letteratura e Cultura

“La letteratura migrante è una materializzazione, o un epifenomeno se preferisci, di una data sensibilità individuale e storica, e quando questa sensibilità si trasforma e si standardizza, come nella società globalizzata, è naturale che anche la letteratura segua questa tendenza”.

(Julio Monteiro Martins – “Letteratura migrante/letteratura mondiale”, p. 41)

 

Scrittura e migrazione raccoglie gli interventi, trascritti in forma colloquiale, che vennero pronunciati durante il seminario dell’8-9 febbraio 2006 dal titolo “Reinventare l’italiano: scrittura e migrazione”, tenuto all’interno della Scuola Dottorale “L’interpretazione” della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena. La pubblicazione è curata da Laura Barile, Donata Feroldi e Antonio Prete e riporta gli interventi della due-giorni di conferenze di scrittori di nazionalità straniere che hanno, però, utilizzato la lingua italiana come idioma nella produzione delle loro opere letterarie.

Il libro è una preziosa e curiosa analisi, fatta da molteplici prospettive, sul ruolo e l’importanza della lingua che fu di Dante nella letteratura contemporanea definita migrante ossia fatta da quegli scrittori di nazionalità diverse dalla italiana che per vari motivi hanno deciso di scrivere le loro opere in italiano. Dietro questa scelta, ovviamente, possono risiedere le motivazioni più varie, alcune scontate, altre meno come ad esempio il trasferimento per lavoro o per gli studi in Italia che ha fomentato l’interesse e l’amore verso la cultura italiana o, come sostiene lo scrittore algerino Tahar Lamri semplicemente perché l’italiano nel panorama mondiale è una lingua “neutra” che non è stata impiegata nella storia come lingua dominatrice-colonizzatrice e dunque imposta (se si eccettuano i casi dell’Etiopia, della “questione abissina” e della Libia pre-Ghedaffi): “ per molti immigrati scrivere, ad esempio in francese, lingua di una ex potenza coloniale, significa essere letti da molte persone in Francia, forse suscitare dibattiti, contestazioni, condanne dai propri connazionali; mentre scrivere in italiano significa scrivere a se stessi, cioè in primo luogo ad una cerchia di amici o addirittura per attirare l’attenzione della persona amata, magari italiana” (p. 161).

La dissertazione parte dalla convinzione che la lingua –una delle espressioni dominanti di una cultura- è per sua genetica caratterizzata dall’ospitalità, definizione inaugurata da Edmond Jabès. Ma la lingua è stata spesso utilizzata anche come elemento di differenziazione, emarginazione, lotta, discriminazione, come nel caso delle comunità Rom e Sinti (quelle che comunemente definiamo in maniera approssimativa “zinagari”) come traccia Santino Spinelli nel suo intervento intitolato “Una storia lunga un viaggio. Un excursus da Baro romano drom”. Santino Spinelli, oltre a essere uno scrittore e conferenziere di origini rom, è anche docente di Lingua e Cultura Romanì all’università di Trieste, ed è conosciuto in arte con il nome di Alexian ed è un attivissimo compositore di musica rom. Nel suo intervento, Miguel Angel García osserva inoltre che una delle forme di emarginazione/razzismo linguistico-culturale –se si escludono quelle violente, le persecuzioni e le forme di sopruso- è la ghettizzazione: “la formazione dei ghetti è un rischio sempre presente nei grandi fenomeni migratori” (p. 98).

Pap Khouma, scrittore senegalese, incentra il suo discorso sullo scontro di civiltà richiamando più volte la scrittrice fiorentina Oriana Fallaci e tracciando il suo percorso di migrante in Italia nelle vesti del “vu’ cumprà”. Khouma sottolinea come –pur essendo la popolazione di un paese ospitante buona, aperta e disponibile, come appunto quella italiana- è immancabile un sentimento di allontanamento dal migrante, uno sguardo attento e lontano al migrante e la creazione di un processo di identificazione, di etichettatura, come nella creazione della categoria del vu’comprà, diventato poi sinonimo di persona disagiata, disperata e in alcuni contesti anche di soggetto sbandato, delinquente, violento. Il pensiero di Khouma in merito è forse espresso al meglio nel suo best seller Io venditore di elefanti scritto assieme a Oreste Pivetta e nella rivista on-line “El Ghibli” che lui stesso dirige.

Kossi Komlan-Ebri, scrittore originario del Togo, nel suo intervento “Pian piano maturano le banane” sottolinea nel corso della storia la supremazia di “lingue altre da quelle indigene” in territorio africano per molto tempo: inglese e francese, richiamando l’attenzione sul fatto che gli scrittori africani solo recentemente si sono appropriati della loro lingua madre, “africanizzando” anche i termini che nell’uso comune sono propriamente inglesi o francesi. E’ lo steso autore ad avere coniato il neologismo “oralitura” per far riferimento alla capacità di trasportare la forza e la vivezza dell’oralità nella scrittura.

Julio Monteiro Martins, scrittore di origini brasiliane, affronta la questione da un’altra prospettiva, in maniera teorica, leggermente manualistica ponendosi la questione: che differenza c’è – se c’è- tra gli “scrittori migranti” e i “migranti scrittori”? La differenza esiste ed è vistosa: i primi conservano il loro status di scrittori –già attivi e noti nel loro paese d’origine- nel momento in cui giungono in un altro paese (in questo caso l’Italia) e lì danno vita a opere nella lingua di quel paese (in questo caso l’italiano). I “migranti scrittori”, invece, sono, come indica la definizione stessa, dei migranti che diventano scrittori solo dopo il loro arrivo nel paese di migrazione. E’ ovvio che da queste due diverse esperienze nascano scritture di differente tipo e sensibilità: “Le opere più direttamente autobiografiche sono da attribuirsi spesso ai “migranti scrittori”, mentre quelle più squisitamente letterarie, più complesse ed elaborate a livello formale, quelle con maggior presenza dell’invenzione, dell’immaginario simbolico, appartengono agli “scrittori migranti””.

Miguel Angel García, scrittore e docente di origini argentine, analizza invece il processo che si instaura a livello linguistico quando uno straniero giunge in Italia, solitamente per lavoro dato che “pochi sono i migranti per diletto, quasi tutti migrano perché ne hanno bisogno” (p. 87). Secondo lui si hanno sostanziali differenze tra il “migrare da soli” o il “migrare in gruppo”; nel primo caso, infatti, “è una prova durissima […] [il migrante individuale] deve reimparare tutto, e deve farlo mentre tenta di costruirsi lo strumento necessario per farlo, la lingua” (pp. 86-87) mentre nel secondo caso, il fatto di giungere in Italia “in gruppo” e quindi non da soli è connotato negativamente e funziona come rallentamento nel processo di acquisizione della lingua: “l’ambiente protettivo della sua conchiglia comunitaria lo scoraggia, gli toglie la volontà con la sua dolcezza” (p. 94).

Nel volume figurano estratti degli interventi anche di Ornela Vorpsi, scrittrice di origine albanese, dal titolo “Una conversazione scritta”, Jarmila Ockayova, scrittrice slovacca, dal titolo “Dalle parole di nostalgia alla nostalgia di parole”, un discorso affascinante intessuto su preziose metafore ed analogie e dello scrittore di origine iraniana Bijan Zarmandili dal titolo “Il linguaggio ibrido” nel quale affronta la questione linguistica da un’altra prospettiva, ossia quella dello scrittore italiano che si vede continuamente contaminato da lingue e culture “altre”.

Tahar Lamri, invece, nel suo intervento parla principalmente di “multiculturalità” e di “interculturalità” richiamando direttamente alcuni passi coranici esemplificativi della necessità dell’apertura e della disponibilità all’accoglienza nei confronti di altri popoli. Cita dal Corano: “comportatevi nel modo seguente: intavolate con esse [altri popoli, altra gente] un dialogo in maniera di simpatica amicizia, non badate ai soliti che si allontanano cattivi, ed esprimetevi così: crediamo a ciò che è stato rivelato a noi, crediamo a ciò che è stato rivelato a voi, il nostro dio è il vostro dio, è uno solo, e a lui noi ci affidiamo”.

Un bel messaggio che apre all’integrazione, alla convivenza e all’allontanamento da ogni forma di violenza o discriminazione. Certo è che se l’uomo l’avesse rispettato – questo è un messaggio coranico, ma si trovano equivalenze di contenuto nella Bibbia- di certo non avrebbe prodotto genocidi, violenze spietate, aberrazioni umane e degradato popoli ritenuti “inferiori” o sottoposti a una violenta colonizzazione.

 

 

a cura di Lorenzo Spurio

Curatore di Blog Letteratura e Cultura

 

Jesi, 15 Agosto 2012

 

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