Addio a Piero Talevi, noto come “il poeta del Metauro”

Ho appreso tramite Facebook della morte del poeta Piero Talevi a tutti noto, per suo volere, come “poeta del Metauro” poiché a quel fiume tanto amato (e alle ninfe, le misteriose abitatrici del corso del fiume) ha dedicato la stragrande maggioranza dei suoi testi poetici. Luogo dove non di rado andava a passeggiare in ricerca di quel colloquio intimo con l’elemento primordiale dell’acqua e della natura tutta. Natura da lui narrata ed esaltata nelle poesie che nel tempo ha scritto e pubblicato in vari volumi, dandone lettura in recital, incontri poetici, eventi letterari ai quali convintamente e con slancio sempre partecipava.

Nato a Novilara di Pesaro nel 1946, studiò Teologia e Filosofia presso l’Università Teologica “San Bonaventura” e si laureò in Scienze Religiose all’Università degli Studi di Urbino. Persona solare ed espansiva, amante della solidarietà e difensore dei buoni sentimenti, ha collaborato attivamente nel corso degli ultimi anni con le iniziative di promozione e diffusione culturale ideate e promosse da una variegata pletora di enti e istituzioni tra cui la Bertoni Editore, l’Associazione Culturale Euterpe di Jesi, l’Accademia Internazionale di Incisione Artistica (AIIA) di Candelara, l’Associazione di Promozione Culturale Anta-Club “Marino Saudelli” di San Giorgio di Pesaro (nelle varie edizioni della celebre rassegna poetica “Stori Sangiorges”), Ideobook di Calcinelli di Saltara (per la quale è stato membro di giuria per vari anni nell’omonimo concorso letterario), la Pro Loco di Candelara (nell’originale iniziativa “Candele sotto le stelle”) e varie altre. Era membro dell’Accademia dei Tenebrosi di Orciano di Pesaro.

Queste le sue pubblicazioni poetiche: Arriverò in cielo da quella parte di azzurro. Poesie in libertà (Corbaccio, 2004), Profumo di verbena (Club “Gli amici di Asdrubale”, 2009), Le Ninfe del Metauro. Amori e poesie (Conte Camillo, 2017), Le Marche. Arte e poesia (Conte Camillo, 2019 – libro a quattro mani contenente le poesie dell’Autore e le illustrazioni a cura di Claudio Silvi), Il cuore ritrovato. Poesia e filosofia (autopubblicato, 2020), Il poeta del Metauro (Ideostampa, 2021) e Poesia, natura e amore (Ideostampa, 2022).

Frutto di un suo viaggio in Moldavia, dove era stato invitato da Claudia Partole in qualità di poeta a parlare della sua produzione in seno al Salone del Libro nella Capitale Chisinau (motivo di grande orgoglio del quale sempre parlava), era nato il libretto Moldova patria mea (Conte Camillo, 2017) con prefazione della giornalista Lilia Becic autrice del libro-autobiografia Miei cari figli, vi scrivo (Einaudi, 2013).

Pietro Talevi, “il poeta del Metauro”

Componimenti poetici di Talevi sono stati inseriti in varie antologie tra cui Marche. Omaggio in versi (Bertoni, 2018, a cura di Bruno Mohorovich) ed El fior del bel cantè. Antologia di poeti pesaresi (Bertoni, 2022, a cura di Bruno Mohorovich) mentre, col solito fare ironico e divertente, mi chiedeva di lavorare a una seconda edizione del Convivio in versi (PoetiKanten, 2016), un’ampia antologia di poeti marchigiani da me curata dove – non avendolo mai conosciuto prima – non l’avevo inserito, ritenendo, tra il serio e il faceto, l’eventuale introduzione in quelle pagine quasi come una sorta di “consacrazione” o patente di poeta marchigiano. Cosa che era già di per sé, per natura e vocazione. L’avrei inserito, però, in qualche pubblicazione successiva, sempre sulla poesia marchigiana, in Scritti Marchigiani. Istantanee e miniature letterarie (Le Mezzelane, 2017) riportando la prefazione a Le Ninfe del Metauro (2017) – opera centrale del suo intero percorso poetico – e, con una breve nota critica e la sua poesia “Profumo di verbena”, in La nuova poesia marchigiana. Non una generazione. Realtà poetiche d’oggi nell’unica regione plurale (Santelli, 2019).

Proprio nella prefazione al suo libro Le Ninfe del Metauro (2017) avevo scritto: «Talevi, ben più noto come “poeta del Metauro”, perché di quel fiume né è la voce, nelle varie liriche si abbandona a passeggiate nei luoghi natali, dove la memoria spesso s’addensa in piccole pillole del passato che ritorna, in un percorso che è sempre imbevuto in un’ambientazione primigenia, profondamente naturalistica, incontaminata e dominata dal gorgheggiare del Metauro, presenza fissa, quasi come il migliore degli amici. Talevi parla con le piante, le annusa, ne percepisce i timori, ce le racconta e le fa vivere, umanizza il mondo silvestre e lo rende partecipe nel banchetto della vita. La verbena, che ricorre spesso nelle sue poesie e che era presente nel titolo di un suo precedente libro, sembra essere una confidente della quale il Nostro non può fare a meno, addirittura un’amante silenziosa, compartecipe e ridente del suo amore verso di lei».

Ed è così che piace pensarlo ora nell’altra dimensione.

LORENZO SPURIO

Matera, 24/03/2024

“L’impronta lorchiana nella poetica di Emanuele Marcuccio”. Saggio di Lorenzo Spurio

Nel periodo immediatamente successivo alla diffusione della notizia della fucilazione del poeta granadino Federico García Lorca, avvenuta nell’agosto del 1936 nella campagna sterrata tra Víznar ed Alfacar, un gran numero di intellettuali, soprattutto di nazionalità spagnola e che avevano avuto l’opportunità di averlo conosciuto di persona e non solo tramite i suoi scritti, come oggi è dato a noi posteri, scrissero e dedicarono liriche, più o meno intimiste, talora aggressive e sfiduciate verso l’abominio della guerra civile, tal altra incentrate sugli sprazzi di amicizia rievocati nella tragica occasione. Tra di loro Antonio Machado, celebre per le raccolte poetiche Campos de Castilla e Soledades nelle quali è possibile rintracciare una pagina vivida di alcune tra le più importanti tendenze di inizio secolo scorso: il novecentismo e il modernismo.

Antonio Machado, che apparteneva a una generazione precedente a quella di Lorca, e ad un ambiente regionale profondamente diverso dall’Andalusia torrida e fiera dei romances di Lorca, ossia quello della Castiglia autentica, di quello scenario castizo nel quale la tradizione ci dice che fu culla della lingua e della cultura castigliana prima e spagnola poi, dedicò al granadino scomparso la celebre poesia “El crimen fue en Granada” volendo intendere con Granada non tanto la città dove pure Lorca con la sua famiglia visse per vari anni ma, come si dice in spagnolo, el entorno, ossia la zona di provincia ad essa prossima dove, appunto, secondo le documentazioni più attestate, avrebbe trovato la morte. Il condizionale è d’obbligo perché dalla data della sua fucilazione, modalità dell’esecuzione sulla quale gran parte degli storici sono concordi quasi da descrivere una posizione unanime, sino ad oggi si è prodotta una grande quantità di testi improntati a una resa biografica delle vicende di Lorca e vere e proprie cronache documentarie fatte di investigazioni, repertazione di materiali e tanto altro per cercare di poter scrivere in maniera più verosimigliante alla realtà quanto di drammatico accadde.

La stampa spagnola ha llevado a cabo, ossia ha portato avanti, nel corso degli anni e in maniera sempre più attenta e scrupolosa in tempi a noi più vicini, un particolare interesse documentario verso gli ultimi istanti della vita dell’uomo, del luogo del suo assassinio (ancora dibattuto e non localizzato con certezza) e soprattutto del seppellimento. Persistono, infatti, considerazioni diverse in merito al luogo di sepoltura che negli ultimi anni alcuni gruppi ideologici che conservano la memoria del poeta sono giunti alla richiesta di scavo di alcune delle zone identificate con i materiali documentari per provvedere all’esumazione del corpo ed, eventualmente, ad esami del DNA. Ma tale direzione delle ricerche storiche, che debbono essere necessariamente condotte per poter far chiarezza e cancellare la possibilità della formulazione di piste revisioniste che ne infangherebbero la memoria, è stata ben presto sbarrata dalla famiglia García Lorca quando decise di non dare il consenso all’esumazione dei possibili resti del congiunto per motivazioni di carattere personale.

Alcuni studiosi hanno anche avanzato la possibilità che Federico García Lorca in effetti non si troverebbe sepolto in qualche recondito spazio della campagna andalusa dato che uno dei suoi ultimi amanti, l’uruguayo Enrique Amorim, grazie alle sue fornitissime possibilità economiche avrebbe provveduto alla traslazione (o al vero e proprio furto?) della salma fatta arrivare sino a Salto (Uruguay) dove oggi sarebbero conservate le sue ossa in una cassa murata all’interno del monumento in onore a Lorca. Posizione questa che ha avuto poca eco e che non è mai stata accreditata sebbene lo scrittore peruviano Santiago Roncagliolo abbia deciso di dedicare un intero volume, con documenti alla mano, a sostegno di questa tesi[1]. Senza ombra di dubbio restano documentati l’affetto e l’amore di Lorca per Amorim al quale dedicò pure dei bozzetti e con ampia probabilità una serie di poesie che hanno finito, poi, per costituire la raccolta di Poemas del amor oscuro, ma reputo azzardata (pur non avendo letto il volume di Roncagliolo) la sua posizione soprattutto alla luce di una impraticabilità dell’esumazione dei resti avvenuta in sordina dalla famiglia, dagli enti locali e dalla Spagna tutta.

Ma per ritornare ad Antonio Machado nella lirica citata ci troviamo dinanzi a una elegia che utilizza un tono indignato con parole dure, tese a fotografare l’attimo di dolore catturato nella viltà della fucilazione: Mataron a Federico / cuando la luz asomaba. / El pelotón de verdugos / no osó mirarle a la cara […] / Muerto cayó Federico / -sangre en la frente y plomo en las entrañas[2].

Il pianto che parte da Granada, dal luogo del tragico misfatto, si fa nazionale, internazionale e cosmico abbracciando quanti hanno indefessamente difeso l’ideologia repubblicana (democratica) contro il franchismo (il totalitarismo). Il dolore è pungente, totalizzante e disarmante, privo di retorica e le descrizioni lapidarie di Machado sono altamente visive, tanto che riusciamo a veder scorrere sotto ai nostri occhi le immagini dell’abominio.

La seconda strofa del carme luttuoso che si intitola “El poeta y la muerte” è come un lento passaggio su uno stradello che ci incammina al camposanto. Il poeta ora non è più in compagnia del nemico, del torturatore, dell’annientatore delle libertà ma al contempo non è neppure solo: Machado trasmette qui un ultimo accorato tentativo dialogico di García Lorca; quasi non accettando la sua dipartita fa ancora parlare l’amico Federico in uno squarcio di conversazione profondamente lirica in cui il poeta appena deceduto si intrattiene con la Morte. Il crimine, come recita il titolo della poesia, accadde a Granada ma esso fu pianto in ogni angolo del mondo.

Pablo Neruda, con il quale García Lorca strinse una conoscenza piuttosto importante per entrambi durante gli anni di frequentazione della Residencia de Estudiantes a Madrid in una lirica a lui dedicata (prima della sua morte) lo definiva in maniera alquanto poetica con l’espressione sintetica di un naranjo enlutado[3] ravvisando nel Granadino sia la componente più primitiva, naturalistica e popolare caratterizzante la sua appartenenza all’Andalusia, terra di zagare e profumi speziati, sia una infelicità o una turbolenza di fondo nell’animo del poeta (forse dovuta dalla critica situazione politica venutasi a creare in Spagna con l’avvento della guerra civile e il fatto che venisse stigmatizzato dalla cultura ufficiale o ancora la sua condizione di omosessuale di certo non apprezzata né consentita dalla società ultra-moralizzatrice del periodo).

Queste sono solamente due delle testimonianze alla memoria di García Lorca che debbono necessariamente essere tenute da conto quando ci si avvicina alla sua poliedrica personalità come avviene in questo caso in cui l’amico e poeta palermitano Emanuele Marcuccio pone alla mia attenzione due liriche ispirate e dedicate al poeta granadino. Sono poesie già di mia conoscenza sia per averle apprezzate in lettura, sia per averle commentate in almeno una presentazione dei libri dell’autore ed anche per essermi occupato delle relative traduzioni in spagnolo.


Per uno come Emanuele Marcuccio che si è formato sui classici ed ha amato instancabilmente la poesia tradizionalista, si veda Leopardi, anima d’influenza notevole nella sua prima produzione e poi Pascoli e Carducci, aver posto l’attenzione nei riguardi di Federico García Lorca è cosa già di per sé notevole: sia per aver allargato lo sguardo verso una letteratura straniera, sebbene sia praticamente “sorella” di quella italiana, sia nello specifico per essersi interessato alla figura di un intellettuale come quello di García Lorca che ha al suo interno un universo di mondi tutt’altro che tradizionalisti e canonici. Di García Lorca in questi suoi due componimenti a Marcuccio non interessa tanto la sua produzione poetica (che dimostra, comunque, di conoscere per la scelta azzeccata e consona di alcune terminologie e simboli) né quella teatrale (García Lorca fu uno dei maggiori drammaturghi del secolo scorso, influenzato nel suo teatro da varie ispirazioni: dal surrealismo al comico-burlesco, sino alla serie dei drammi rurali, nonostante in Italia il suo nome venga richiamato spesso unicamente in relazione alla sua attività poetica), ma un evento determinante della stessa componente biografica dell’uomo: la sua morte.

García Lorca morì nel 1936, nell’anno che detta l’inizio di una dolorosissima guerra civile dove i repubblicani si scontrarono contro la frangia nazionalista dei militari appoggiati anche dai monarchici, dai carlisti e dalla Chiesa. Le tante battaglie che infuocarono il paese non furono solo dettate da una strenua difesa delle rispettive ideologie ma riguardarono per l’appunto anche la dimensione religiosa tanto che esponenti del bando repubblicano (socialisti, comunisti, anarchici, laici) provvidero anche a una serie di attacchi, saccheggi e distruzioni di luoghi religiosi con un gran numero di preti massacrati e giustiziati in processi sommari.

Chi conosce l’universo poetico di García Lorca sa che esiste nella sua visione del mondo una dimensione religiosa, un Dio, spesso insito nell’ambiente che lo circonda sebbene eviti di appellarsi a lui, di invocarlo o di pregarlo in una maniera che ci consentirebbe di definirlo una persona animata da un sentimento cattolico. Sappiamo anche che dal punto di vista ideologico e per il suo serio impegno nel sociale che lo portava sempre a schierarsi in prima linea per la difesa e la tutela dell’emarginato, il poeta si collocava all’interno della dimensione anti-militare, anti-nazionale. I nazionalisti, strenui difensori di un concetto di moralità intoccato e devoti al potere dell’onore, si scaglieranno duramente contro García Lorca ritenuto un rojo pericoloso perché persona con un grande seguito e portavoce di ideali repubblicani, democratici.

Ed è così che poco dopo le attività del teatro itinerante “La Barraca” ideato assieme ad Eduardo Ugarte sono stroncate e messe a tacere del tutto perché Lorca viene a rappresentare per i nazionalisti una spia comunista, un acerrimo nemico, profondamente temuto proprio per le grandi masse che lo apprezzano e lo seguono. Qualcosa di simile avverrà con la messa in scena dell’opera teatrale Yerma nella quale Lorca mette in scena la storia di una donna che, a causa della sua infertilità e della anaffettività e trascuratezza del marito, finirà per perdere la testa e rendersi colpevole di uxoricidio. Nell’opera, al di là del tragico epilogo, la finalità era quella di diffondere e inscenare un universo domestico in cui la donna (che nella visione dei nazionalisti deve essere assoggettata all’uomo, l’unico padrone, perché ad egli è inferiore) non solo non accetta i divieti coniugali che le impongono di essere relegata in casa e di non intrattenere conversazioni con nessuno, ma addirittura si arma della propria forza fino ad allora repressa ed affronta, con violenza, il marito, fino a vincerlo e ucciderlo. Sono contenuti, questi, estremamente pericolosi che mettono in scena un ribaltamento sconveniente per i nazionalisti nel modo di intendere la famiglia spagnola: non più il patriarca o padre-padrone che comanda e la donna che esegue, ma la donna che, stanca e sfiduciata, razionalmente portatrice di una visione ugualitaria, cerca ed ottiene l’equiparazione dei sessi, smitizzando i pilastri della società retrograda.

Perché García Lorca viene assassinato? È presto detto: perché è una persona temuta e fastidiosa per il neonato regime totalitario, perché è portavoce di ideali repubblicani nutriti dalla difesa della democrazia e dal rispetto delle libertà, perché è un intellettuale di spicco con una grande presa sulla società, perché con la sua letteratura (il teatro itinerante “La Barraca” e la trilogia drammatica) è portavoce di una società provinciale retrograda e dispotica in cui la donna è considerata inferiore, perché sfida lo stringente concetto di onore di impronta settecentesca, lo minaccia, lo de-costruisce e ne mette in luce le idiosincrasie nel suo periodo; perché è omosessuale e in quanto tale portatore di una stravaganza di fondo che non collima con la rettitudine e l’austerità del pensiero anti-liberale dei nazionalisti difensori dell’idea del “sesso forte”.

Ma non è solo questo, infatti in tempi a noi più recenti alcuni studiosi hanno voluto leggere nell’omicidio di Lorca non il motivo ideologico-politico ben noto a tutti, quanto, invece, un terribile episodio di vendetta, un regolamento di conti tra esponenti di famiglie storicamente avversarie nella Vega[4] granadina. In particolare è Miguel Caballero Pérez il difensore di questa tesi che viene esposta in maniera documentata nel suo recente libro nel quale non manca di portare episodi concreti di animosità e vere e proprie lotte familiari per il controllo e il prestigio nella zona.[5] Questo per dovere di cronaca per quanti vorranno effettuare maggiori letture ed analisi in tale direzione ben tenendo in considerazione, comunque, che a tutt’oggi la pista più creduta e credibile, data per ufficiale, sia quella che vide Lorca assassinato per ragioni ideologiche (la sua adozione alla Repubblica) e per oscenità/discredito della morale (la sua omosessualità).

Per tornare ai componimenti di Emanuele Marcuccio è necessario osservare come il linguaggio tendenzialmente rilassato del poeta si faccia in queste liriche fortemente spietato, condensato nelle immagini e pregno di desolazione. In “Assassinio: Terzo omaggio a García Lorca”[6] (poesia scritta il 18 dicembre 1997):

Putrida vena,

d’un orizzonte disseccato.

I nardi esplorano

il loro chiacchiericcio inconsueto,

e nuvole di fango inondano

coi loro piombi infuocati.

Un’alba azzurra

si stende solitaria

su ambiguo crocevia,

e un riverbero di verde luna

si accende, su occhi di fumo.

Marcuccio esordisce con un verso forte dal quale traspare vivida una suggestione olfattiva nauseante collegata da subito al tema della corporeità e del sangue (una delle immagini-simbolo nella produzione di García Lorca): “putrida vena”. Il Nostro però sembra volersi interessare qui, più che al fermo immagine di una scena di guerra in cui la morte è fagocitata dal processo di decomposizione del corpo che produce un olezzo “putrid[o]” alla definizione del paesaggio, cioè al tratteggiamento del locus che ospita la nefanda azione umana. È quello di uno scenario abbandonato, stepposo, arido e apparentemente privo di presenze umane; quell’ “orizzonte disseccato” è uno spazio-trappola nel quale il Sole, unico indiscusso sovrano e il silenzio dei campi sembrano eludere ogni altra presenza che, invece, si farà viva e in maniera alquanto sadica nel corso della lirica.

L’occhio del Marcuccio si posa con meticolosità negli “angoli” di quella campagna che apparentemente è una campagna comune e che non ha nulla di particolarmente rilevante se non fosse che i nardi (fiori che pullulano di vita nelle poesie lorchiane[7]) vengono colti nel loro “chiacchiericcio inconsueto”. Sono i primi testimoni del massacro, la natura è pavidamente spettatrice dell’abominio che di lì a poco si consumerà dinanzi ai propri occhi, impotente e addolorata essa stessa. Le “nuvole di fango”, se si eccettua il verso d’apertura, è la prima immagine perturbante che interviene nella lirica a descrivere un cielo coperto e minaccioso, ben diverso da quel sole accecante che il lettore ha potuto cogliere, non nominato, nei precedenti versi che descrivevano un “orizzonte disseccato”.

Inizia in questo modo la parabola degradante della poesia: Marcuccio costruisce in primis con soverchia attenzione il setting dell’azione passando poi a connotarne con particolarità alcuni degli elementi che lo compongono sino a che il cielo sembra abbuiarsi di colpo e farsi di “fango”, indistinto, melmoso, viscido e pesante; il grigiore vacuo del cielo lascia ben presto il posto a quello ben più doloroso delle munizioni d’artiglieria colte nel momento del fuoco.

Il silenzio della campagna, prima armonizzato dalla presenza di un lieve “chiacchiericcio” dei nardi, ora è rotto per sempre in maniera irreparabile. I “piombi infuocati” sono stati azionati e hanno colpito i bersagli[8]. È il momento della morte fisica del poeta, della sua caduta scomposta a terra, faccia sull’erba secca, della fine delle speranze e al contempo un ammutinamento della natura che, indifesa e oltraggiata, non è capace di osservare il sangue che cola a terra.

La poesia è sapientemente costruita tenendo in considerazione un’ampia realizzazione temporale che si delinea in un prima della fucilazione e in un dopo. Il post-mortem lorchiano è investito da una “alba azzurra” che ha perso, però, la coralità autentica della natura e il conforto del cantore del popolo e infatti essa appare “solitaria” quasi da stonare con quella scena di morte che si è consumata nelle ore precedenti sotto di essa.

Tutto a questo punto resta galleggiante nell’indefinitezza, nell’impossibilità di caratterizzazione, ora che è morto il poeta che più di ogni altro aveva cantato la Terra: l’alba è “solitaria” e anche il crocevia nei pressi dei luoghi della tragedia è “ambiguo”. Sia perché, come detto sopra, il luogo dell’esecuzione di Lorca non venne mai identificato con indubbia certezza e permangono ancor oggi posizioni discordanti in merito, sia perché è inutile dinanzi alla Morte che esacerba dolori e sconfigge il tempo utilizzare un metro toponomastico: non ha senso identificare quale sia il crocevia della Morte perché in ogni spazio ora si rammenta il lutto e ci si strugge.

Marcuccio mostra di aver letto con profondità le liriche del Nostro e di conoscerle con doviziosità, soprattutto nel momento in cui mostra interesse verso la componente cromatica degli elementi, aspetto che costituisce uno dei nerbi costitutivi della liricità lorchiana. Ed ecco che dopo il giallo accecante dei campi “disseccat[i]”, il grigio scuro delle nuvole, l’argento pesante del piombo fuso, il rosso dell’incandescenza dei colpi d’arma da fuoco e del sangue, sopraggiunge prima l’azzurro a rischiarare l’ambiente come una sorta di purificazione e ancora, la luna nel suo “riverbero di verde”. La luna quale simbolo nella “mitologia” lorchiana è sempre sintomo o sinonimo di morte così come lo è il verde: si pensi ad Adela in La casa de Bernarda Alba che, contro il parere della madre che la obbliga a vestire il lutto per la morte del padre, decide d’indossare l’abito verde e deroga a una serie di atteggiamenti che le sono stati imposti tanto da divenire una delle “ribelli” lorchiane più note. Chi conosce il dramma sa anche che a dispetto di tanto vitalismo ed energia (altro significato del verde visto nel cambiamento e nella fertilità) al termine la ragazza troverà la morte in una delle scene più commoventi dell’intero teatro del Nostro.

Ed è così che in chiusura, dopo aver tratteggiato l’ambiente naturalistico che accoglie la morte e avendoci fornito l’immagine sonora della fucilazione, che Marcuccio ritorna a serrare le fila sul corpo martoriato del poeta. I suoi “occhi di fumo”, ormai vacui ed eternamente incantati, privi di lucidità e di movimento sembrano rilucere sotto quella luna argentea e rimandare l’errore sperimentato negli ultimi istanti di vita. La luna è così testimone di una morte dolorosa che ogni notte, con il suo lento incedere nel cielo, sembra riproporsi con la sua inaudita ferocia. Quegli occhi svuotati, ormai fatti cenere rappresentano lo sguardo mitico di un uomo che ha combattuto con la parola in difesa del diverso e che ha ricevuto l’oscuramento dell’esperienza visiva quale condanna estrema, proprio lui che era affranto di luce e signore indiscusso nell’utilizzo della tavolozza dei colori.

Nell’altra poesia lorchiana di Marcuccio (“Omaggio a García Lorca”, scritta il primo maggio 1997)[9]

Felce d’azzurro,

scrosci di tempesta vespertina,

autunno vaporoso e nodoso,

rammarico dell’ormai svanito,

vita rossa di sangue coagulato,

erpici identici e convessi

in un plotone di fucileria,

schizzi incandescenti trasvolano

per la dura terra,

per un cielo di speranze placate,

di ardente divampamento di luce

a foggia di croce,

verso un punto centrale.

ritroviamo il livore del colore azzurro, ora legato all’immagine muschiosa della felce a descrivere uno scenario naturalistico più paludoso e umido, differente rispetto al precedente in cui l’azione bruciante del sole aveva prodotto campi “disseccat[i]”.

Pur condividendo una sintassi aspra e tagliente, in linea con la durezza degli elementi evocati, questa poesia si discosta dall’altra per aver maggiormente i connotati di una vera e propria elegia. La lirica, infatti, non fotografa il momento della fucilazione, del trapasso dell’uomo, e ha piuttosto la fisionomia di una commemorazione nei tempi successivi all’assassinio: si parla di “autunno vaporoso e nodoso” benché Lorca venne ucciso nell’estate del 1936 ed è da intendere, allora, il ricordo doloroso che Marcuccio ne fa attraverso il tempo, ripensando all’atto nefando che provocò la morte del poeta. Non a caso è richiamato il “rammarico dell’ormai svanito”: a questo punto la storia è stata scritta e non c’è niente da fare se non tributarne il ricordo (diversamente dall’altra lirica che, invece, verseggia l’accadimento nefasto quasi in presa diretta).

Il sangue non è liquido e neppure caldo, non sgorga dal corpo, i zampilli non imbevono la terra (come avveniva nell’elegia Llanto por Ignacio Sánchez Mejías che Lorca dedicò all’amico e torero) poiché il sangue si è rappreso, il sole lo ha seccato e il trascorrere del tempo lo ha “coagulato” privandolo della sua materialità fluida da divenire roccia di una vita ormai tramontata. E conseguentemente segue il ricordo visivo del momento dell’esecuzione con gli “schizzi incandescenti” di vita del poeta che, trivellato da colpi alle spalle, finiva per esalare gli ultimi respiri.

La terra si è fatta “dura” perché le stagioni l’hanno appiattita, impoverita, sfruttata ma anche perché è l’uomo che l’ha esacerbata e oltraggiata con l’azione ignominiosa e perché è lui a essere duro (cinico e insensibile). La vita, vista nel regolare scorrere dei fluidi, ha subito un arresto che l’ha condotta a un processo di deumidificazione e vera e propria corificazione. Solo il cielo, allora, proprio come avveniva nella lirica precedente, sembra mantenere il suo stato di materia, vacuo e aeriforme, uno spazio incontaminato che, però, fa da cappa stagnante a quanto sulla terra accade. L’accecante luce di un “ardente divampamento” sembra quasi il riflesso di un rogo disumano che ha la sembianza indistinta di una forma ectoplasmatica dotata di luce propria, impossibile da concepire che marca il luogo della disfatta e della viltà umana.

Le immagini costruite dal Marcuccio, la “putrida vena”, le “nuvole di fango”, gli “schizzi incandescenti”, l’ “ardente divampamento”, apparentemente stridenti perché costruite spesso su sistemi di sineddoche e sinestesie trasmettono con vividezza la scena di dolore e sono altresì capaci di far risaltare dimensioni sensoriali quali l’udito nel boato del fucile, la caduta, goffa, del corpo a terra e di far echeggiare quel silenzio massiccio e pungente che come un manto torna a coprire la scena dopo l’oltraggio al mondo della natura. La meticolosa resa visiva delle immagini tanto da poter parlare di un concretismo materico iperrealista, contribuisce nettamente alla trasposizione di un sentimento profondamente indignato e offeso verso lo scempio perpetuato. I tragici quadri paesaggistici ed emozionali si fanno così proclami di un’ingiustizia dolorosa dovuta alla messa al bando delle libertà fondamentali e al contempo costruiscono visivamente un manifesto convinto alla lotta non violenta e alla salvifica confessione nella Parola.

LORENZO SPURIO

Jesi, 10 agosto 2015 


[1] Santiago Roncagliolo, El amante uruguayo. Una historia real, Alcalá Grupo Editorial, 2012.

[2] “Ammazzarono a Federico / quando la luce spuntava. Il plotone dei boia / non osò guardarlo in faccia […] / Cadde morto Federico / -sangue alla fronte e piombo negli intestini”.

[3] Un arancio in lutto.

[4] Pianura.

[5] Miguel Caballero Pérez, Las trece últimas horas en la vida de Garcia Lorca: el informe que da respuesta a todas las incognitas sobre la muerte del poeta: ¿Quién ordenó su detención?, ¿Por qué le ejecutaron?, ¿Dónde está su cuerpo?, La Esfera de los libros, 2011.

[6] Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC, Ravenna, 2009, p. 75.

[7] Si legga ad esempio l’incipit del “Romance de la luna, luna”: “La luna vino a la fragua / con su polisón de nardos” (“La luna arrivò alla fucina / col suo paniere di nardi”).

[8] Anche se ci interessiamo alla sorte del poeta va osservato che venne fucilato assieme ad altre persone che vennero poi gettate in un’unica fossa.

[9] Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC, Ravenna, 2009, p. 74. Entrambe le poesie fanno parte di un ciclo di quattro che, scritte tra il 1997 e il 2000, Marcuccio ha dedicato al grande poeta spagnolo, con l’intento di rivisitarne lo stile. L’intero ciclo è edito in Per una strada e nel marzo 2013 è stato da me tradotto in lingua spagnola. 


Questo saggio è stato pubblicato sulla rivista «Quaderni di Arenaria – Nuova Serie», Palermo, vol. VIII, 2015, pp. 20-27, link: www.quadernidiarenaria.it/volumi/quadernidiarenaria-volume8.pdf, Sito consultato il 05/05/2021 (Si ringrazia il prof. Lucio Zinna per la pubblicazione sulla rivista) ed è stato riproposto sul profilo personale Academia.edu dell’autore.


La pubblicazione del presente saggio, in formato integrale e/o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto, non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.

“Comincia il pianto della chitarra!”, Prefazione al libro “Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico Garcia Lorca” di Maurizio Noris

PREAMBOLO

Alcuni mesi fa il poeta e scrittore lombardo Maurizio Noris mi ha gioiosamente coinvolto nel lavoro della pubblicazione del suo libro contenente una scelta di opere poetiche di Federico García Lorca tradotte da Noris nel suo dialetto bergamasco della media Valle Seriana, per la stesura di un commento critico sull’opera (intitolato “Comincia il pianto della chitarra!”).

Il libro, dal titolo Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico Garcia Lorca – edito da Tera Mata Edizioni (Bergamo) – si apre con il testo della mia presentazione (che viene proposto, a continuazione, sulle pagine di questo sito) e contiene opere di Sara Oberhauser. Traduzione e voce a cura di Maurizio Noris.

Le letture sono state trasposte in registrazioni audio-video in cui è Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti. Il libro si chiude con una postfazione di Vincenzo Guercio.


BIOGRAFIA DELL’AUTORE

Maurizio Noris (Comenduno di Albino, BG, 1957). Scrive poesie in lingua prima del dialetto bergamasco della media Valle Seriana. Ha pubblicato Santì (2001, libro artigiano di poesie con l’artista grafico Ivano Castelli e presentazione di Ivo Lizzola), Dialèt De Nòcc D’amùr (2008, vincitore del prestigioso Premio “Città di Ischitella”), Us de ruch (2009, plaquette con introduzione di Alberto Belotti), Us de ruch (2010, con introduzione di Franco), Àngei? e Zögadùr (2012, con la presentazione di Piero Marelli e Silvio Bordoni), In del nòm del pàder (2014, con postfazione di Giulio Fèro), Resistènse (2016, introduzione di Franca Grisoni), A cüre socane (2022, installazione organico-poetica con un catalogo di 20 poesie inedite presentato da Gabrio Vitali), Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico García Lorca (2023, presentazione di Lorenzo Spurio, con opere di Sara Oberhauser, traduzione e voce a cura di Maurizio Noris, registrazioni audio-video di Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti, postfazione di Vincenzo Guercio). Ha curato Guardando per terra, voci della poesia contemporanea in dialetto (2011, co-curatore Piero Marelli). È presente con suoi testi in L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto (2014), in Dialetto lingua della poesia (2016) a cura di Ombretta Ciurnelli e in diverse antologie e riviste. Per tutto il 2019 ha curato la rubrica settimanale SÖ L’ÖS del -santalessandro.org- settimanale della Diocesi di Bergamo, con la presentazione anche sonora e commento delle sue poesie.


PRESENTAZIONE AL LIBRO

“Comincia il pianto della chitarra!”

Di LORENZO SPURIO

Molti dei letterati della nostra età, oltre a perseguire con necessità primaria la propria vocazione di autori che li vede poeti o scrittori che sia, non hanno mancato d’interfacciarsi con il non complicato mondo della traduzione. Il fenomeno di comprensione di una lingua d’altri, d’interpretazione e di lettura profonda (e d’immedesimazione, spesso) per poter generare la medesima opera con un vestito leggermente diverso (mai diremmo se migliore o peggiore del suo originale) coinvolge in maniera correlata e intensa una serie di meccanismi mnemonici-sensoriali, evocativi e reminiscenziali ma anche psicologici, più profondamente intimi e innati nel singolo.

La grandezza di un autore non è data né dal numero di copie dei suoi libri che vende nel corso del tempo né dal numero di lingue (diremmo meglio gli idiomi, a voler intendere anche parlate più ridotte o che non hanno, a differenza di quanto avviene con la lingua, un più diretto richiamo o correlazione a un determinato stato nazionale) in cui la sua opera viene versata. Sta, al contrario, nella capacità delle genti, di età, luoghi e da identikit sociali differenti, a riuscire a farsi ascoltare. A trasmettere una percezione unica e indescrivibile. Un gigante della letteratura internazionale come Federico García Lorca nel corso delle decadi che si sono succedute dalla sua prematura morte ha avuto (e contribuito ad alimentare) un lascito umano di lettori, critici, studiosi e affezionati, di anime in sintonia col suo dire, di persone più o meno altolocate, cattedratici e popolani, ingente, in logaritmica e irrefrenabile ascesa.

I componimenti che Maurizio Noris ha scelto dell’ampia produzione lirica del celebre “poeta con il fuoco nelle mani”, rimontano a quell’esigenza di calarsi in una natura primigenia e inalterata dall’introduzione del dato antropico. In appena una ventina di testi scorre davanti agli occhi del lettore una sorta di sintesi perfetta dei temi, delle immagini care, dei colori, dei rimandi e degli echi che hanno contraddistinto la poesia del Granadino rendendolo universalmente celebre e ineguagliabile. Una leggenda, per alcuni, un martire per altri. Sicuramente una presenza inesauribile e imprescindibile per tutti.

Le vicende che nel tempo hanno visto il prediligere di alcune traduzioni di Lorca nel nostro italiano piuttosto che altre (ricordiamo qui, per mero inciso, che non solo i tanto “celebrati” Bo, Bodini, Rendina e Macrì tradussero Lorca in italiano come spesso, facilisticamente, vien dato da intendere) sono tortuose e rimangono per lo più difficili da tracciare (ammesso che in esse si possa riscontrare un vero interesse di fondo) dettate spesso anche da logiche di mera diffusione editoriale o, al contrario, di veti espressi (o malcelati) all’interno di congreghe accademiche. Sta di fatto che, nel nostro Paese, Lorca ha visto non solo tante traduzioni (più o meno ricordate, più o meno affidabili) nella nostra lingua, ma anche in alcuni dialetti. Penso al torinese nel quale lo versò Luigi Armando Olivero, al friulano di Pier Paolo Pasolini, al siciliano di Salvatore Camilleri, al romagnolo di Tolmino Baldassari, solo per citare alcuni nomi ma la lista potrebbe essere infinita e sempre – purtroppo – clamorosamente incompleta a causa della difficoltà di una ricerca che, pur mirata, spesso non riesce a fornire apprezzabili risultati (ricordiamo che molti tentativi di traduzione non vennero alla luce, altri solo in ciclostile, la gran parte di essi non pubblicati con un editore, né registrati in biblioteche nazionali).

L’operazione di Noris – poeta sopraffino e amante del suo dialetto nativo, il bergamasco della Val Seriana – s’inserisce, dunque, in una tradizione (non sempre scritta) che sappiamo essere fluentissima (per nulla studiata, purtroppo) che nasce da quella volontà intima di far parlare l’opera di un Grande come l’autore di Nozze di sangue con l’autenticità della propria lingua personale, del proprio dettato ancestrale e familiare.

Riconducendo il discorso alla scelta delle liriche effettuata da Noris, ritroviamo nel volume poesie selezionate dalle Canciones, opera della fase giovanile, dall’arcinoto Poema del cante jondo, sino ad arrivare all’ampio campionario dei Poemas Sueltos e alle raffinatissime composizioni delle casidas che, insieme alle gacelas, fanno parte del Diván del Tamarit, opera la cui prima pubblicazione avvenne nel 1940 ovvero quattro anni dopo l’assassinio dell’Autore come pure Poeta en Nueva York, l’opera surrealista del Nostro che Noris ha deciso di non compendiare (crediamo per la forte lontananza alla poesia della Spagna arcadica e neo-popolare del primo Lorca). La scelta di testi ci fa immergere completamente nella Spagna autentica e rurale di Lorca, quella della campagna arsa dal sole e sollevata spesso da qualche vento inaspettato, quella delle case di calce bianca dei pueblos, gli antichi (e conservatissimi) agglomerati cittadini che si snodano in vicoli e vicoletti, piazzette e stradine ancor più piccole.

La tradizione andalusa è percorsa in lungo e in largo da Noris per mezzo di liriche che ben risaltano le peculiarità del tessuto abitativo e sociale di quella regione con particolare attenzione a quel mondo ritmico-sonoro così importante (il flamenco, il lamento della pena negra, le danze dei tablaos, il clarino nelle corride, etc.) richiamato anche nelle saetas della Semana Santa con la processione del Cristo, il zorongo, che assieme al jaleo è uno dei più celebri canti e balli della tradizione andalusa riconducibili alla grande famiglia della flamenqueria, finanche la nenia giocosa e fiabesca delle ninnenanne (famosa la sua conferenza sulle ninnenanne, Las nanas infantiles, tradotta anche dal veronese Arnaldo Ederle).

L’universo simbolico-oggettuale di Lorca (non solo poeta ma anche drammaturgo) diluito nei versi qui raccolti ben si condensa nel corso della lettura: il predominio della luna a volte imperscrutata altre volte che ammicca in senso fatalistico (sempre, comunque, collegata a un’idea di morte o di un nefasto presentimento) si lega alle immagini dello specchio (ricerca d’espressione e al contempo caducità dell’immagine) e a quelle degli arnesi del mondo contadino (il pugnale, la falce) che se hanno un uso pratico nel proprio lavoro a volte vengono impiegati, in un clima d’odio e vendetta, anche come minaccia o per dar la morte (ricordiamo la struggente e drammatica “Reyerta” tradotta da Rendina e Clementelli con “Zuffa”). Ci sono bambini, si odono lamenti, invocazioni alla luna, cavalli e farfalle, l’osservazione attenta e panica dello scorrere delle acque, lo sfolgorio dei colori e la densità dell’argento. Su ogni poesia, data la ricchezza contenutistica e gli squarci di alta intensità lirica (nei testi selezionati l’Autore ha preferito non inserire poesie che, più direttamente, potessero essere analizzate in relazione alla loro tensione etico-civile, pure presente in buona produzione del Nostro), l’inspiegabile suggestione trasmessa, la capacità pareidolitica e la potenza empatica sul lettore, si potrebbero dire molte cose, riflettere, ampliare, senza riuscire mai a compendiare in forma totale quella massa sconfinata d’energia e magma interiore.

Maurizio Noris in quest’opera avvolgente, frutto di un lavoro condiviso con altri autori e artisti (in quel sodalizio ampio che tanto amava Federico e lo portava a collaborare con molte persone, si ricordi la gloriosa esperienza corale de “La Barraca”), fonde due circostanze importanti della sua realtà presente – non tangenziali né improvvise – ovvero l’amore per l’universo lorchiano, che ne fa di lui interprete, seguitore e convinto confidente, e quello per il dialetto personale, radicato nella provincia lombarda. Distanze, quelle tra la Val Seriana e l’Andalusia, che ci appaiono di colpo annullate o mai esistite. Nel flusso inalterabile di un fuoco creativo ed energico che arde imperituro e s’espande, inondando mente e cuore al di là di categorie umane.

LORENZO SPURIO

Jesi, 13/01/2023


La pubblicazione del presente testo, in formato integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.

Tre drammi di Jon Fosse: “Variazioni di morte”, “Sonno” e “Io sono il vento”. Saggio di Anna Vincitorio

Jon Fosse – definito da molta critica come “nuovo Ibsen” – è stato proclamato Premio Nobel per la letteratura nel 2023. Secondo la motivazione dell’Accademia, “le sue opere, tradotte in più di quaranta paesi, danno voce all’indicibile”.

Il poeta, scrittore e drammaturgo Jon Fosse
(Premio Nobel per la Letteratura 2023)

Osservo il suo volto ombrato: occhi chiari che trapassano il tempo. Solitudine, tristezza. Uomo dei fiordi e delle nebbie. Ha sessantaquattro anni. Un passato di alcool. Il suo sentirsi solo, attraverso la parola, ha suscitato emozioni profonde, un linguaggio scarno, innovativo, fortemente drammatico. La sua scrittura esprime il dramma del vivere attraverso la parola scarna, visionaria a volte, minimalista che trapassa e scava come goccia sulla pietra.                 

I suoi personaggi sono nel tempo e fuori del tempo. Non hanno un nome. Sono visioni di una realtà crudele e incisiva. La sua scrittura prevarica le convenzioni, i limiti della parola. Scrive parole che vanno oltre la parola stessa, producendo emozioni che solo la poesia autentica può dare. Chi ascolta o legge i suoi drammi si sentirà proiettato in una dimensione atemporale. Il saggio di Leif Zern su Fosse, Quel buio luminoso, è introduzione e origine del volume. Tre drammi: Variazioni di morte, Sonno e Io sono il vento. Immagini come cascate che fiottano parole. I suoi personaggi non sono eroi ma quelli che non ce la fanno a reggere il peso degli eventi, gli smarrimenti, sono personaggi la cui identità è sospesa tra la vita e la morte.

VARIAZIONI DI MORTE (2001)

Spazio in cui si susseguono eventi in cui sovrana è la parola. Il tempo non ha una dimensione oggettiva. Si ripetono e si dilatano suoni. Possono estasiarti come ferirti. Sei avvolto da una atmosfera che ti imprigiona. La parola quando ti penetra, fa di te il personaggio. Sono attimi di una realtà che non ti appartiene ma che tu avverti sulla pelle come un brivido. L’uomo anziano, la donna anziana. Dialoghi brevi: “Che errore! / proprio non capisco…/ che lei se ne potesse andare”. Lei disperata: “Possiamo ancora fare qualcosa…”. L’uomo anziano: “Non possiamo fare niente”. La loro unica figlia che segue il suo destino… “È morta / È via per sempre…”. Nulla tiene ora uniti quei due. Lui non vuole vederla. Se ne vuole andare. Un evento tragico quasi sempre distrugge un passato comune. È crudele ma inevitabile. Sulla scena una donna giovane entra e un uomo giovane. Si incontrano e si abbracciano. Poco denaro, una squallida cantina dove vivere. “Non è davvero molto / Tutto è così incerto; / questa è la vita / Ho paura e sono preoccupata / Non aver paura / tu…: Dovetti andare / Loro telefonarono / E lei stava stesa là…/ E i suoi capelli / E i viso / il suo viso”. Parole, quasi sussurrate ma dure come pietre. Sulla scena nuovamente i due giovani. “Lei ha le doglie. Sta male…”. “E così lei se n’è andata / via per sempre”.

Si alternano un prima e un dopo. La storia non è chiara. Presente e passato s’intrecciano. C’è una figlia; contrasti tra i due giovani di prima; incomprensione tra gli anziani. Non è importante il susseguirsi di una storia con vuoti improvvisi e ritorni, quanto le emozioni provocate dal suono delle parole. Riandare ripetuto dalla vita alla morte e viceversa. “Credo che si possa avere / un segreto, una pace dove si riposa / solo riposo / l’uno nell’altro / Ma io voglio stare sola / sempre sola…”. Ricordi di un tempo che non c’è più: “E lui veniva verso di me / con la pioggia nei capelli / una sera: veniva verso di me / con la pioggia nei capelli / una sera / veniva verso di me… / la luce nei suoi occhi / veniva… / in quella musica che è sua veniva / E la pioggia nei suoi capelli / resterà sempre là / I suoi capelli nella pioggia / una sera / proprio là / proprio allora”, “Lei uscì di notte / nella pioggia / nel vento/…”. È un susseguirsi di parole che straziano. È un parlare, ricordo e presagio di morte. Ma affascina. “Perché i suoi capelli nella pioggia / stavano là / come la luce del cielo / Perché l’amore assomiglia alla morte… È una sola sera con la pioggia”. Ho riportato alcuni frammenti dei dialoghi. Vanno ascoltati, non descritti. Il lettore ne proverà la potenza su se stesso. Ancora, la figlia: “Mi pento/ voglio ritornare/ voglio stare sola/ Non avrei dovuto/…”. È importante per me in un’opera teatrale, non tanto comprendere quanto affogare nell’estasi trascinante delle parole.

SONNO (2005)

I personaggi non hanno nome. Dove il tempo? Nel ricordare. Il lettore affonda in personaggi senza storia. Attese malinconiche; eppure in questo – poco –, si comprenderà la natura nemica. Sono le voci di dentro che tutti conosciamo e scopriamo a un tratto. Non ha importanza l’evento che potrebbe anche non verificarsi ma penetrare nel non detto, sentirsi reietti, vivi o nel “sonno” che precede la morte. I personaggi sono anziani o di mezza età. Più che dialoghi si notano esternazioni di un pensiero. “Ti ricordi / e la stessa cosa / e fai la stessa cosa con me (ride un attimo) no che sciocchezza”. La donna anziana: “E io sto sempre peggio / le gambe / non mi vogliono sostenere / Non ce la faccio quasi a fare più niente / E non posso più parlare”. L’uomo anziano: “…ecco è caduta…l’ho trovata stesa sul pavimento… non parlava… ma si cioè respirava / e così tornasti di nuovo in vita e incominciasti a parlare…”. Il dramma è la solitudine e l’attesa. Il figlio arriva ma deve subito andare via. Resta l’uomo anziano: “Noi ce la facciamo/ Non preoccuparti di noi / tutto va bene”.

In qualunque paese queste scene si ripetono. Attese, fuga e arrivi e poi, nuovamente solitudine e silenzio. Il sonno diviene conforto o solo preludio di morte? L’opera ha debuttato in prima assoluta a Sesto Fiorentino per il Festival Intercity Oslo. Ne parla Eleonora Tedeschi: “Il suo è un teatro complesso in cui il ritmo è scandito dai silenzi, sospensioni, interruzioni. La parola stenta ad arrivare alle labbra per la difficoltà e forse addirittura l’impossibilità della parola di esprimere il dramma dell’esistenza”.

IO SONO IL VENTO (2007)

Due soli attori. Voci che fluttuano in uno spazio immaginario che però prende forma dalle loro parole. Una barca sul mare. È tutto grigio: gli isolotti, le isole, i monti e le pietre sulla spiaggia.

L’uno vorrebbe attraccare la barca in una insenatura. “La barca sarà al sicuro / Entriamo a vela e attracchiamo… E oggi il mare è tranquillo… E il mare è mare aperto”. Sono voci che si spandono nella nebbia… L’uno: “Io non volevo / Lo feci così per caso”. L’altro: “Accade così per caso / Ma poi avevi / paura che accadesse / Si. E così accadde”. È un lungo dialogo sulla vita che ognuno plasma secondo il suo essere. La vita è presente nell’altro. L’uno parla, forse spiega il perché del suo atto. Il non voler più essere. Non è ma ricorda. Non può essere sulla barca ma c’è. Cosa rappresenta la barca? Un rifugio precario perché il vento la spinge verso il mare aperto. Il pericolo affascina come la follia perché non può essere compreso. L’uno che non è più invita l’altro a fissare le corde e nella vicinanza della costa a saltare. La corda fissata ad un palo e poi nuovamente saltare per tornare sulla barca e qui, insieme, consumare del vino…mangiare. Sembrerebbe che il dramma tenda ad allentarsi. Il mare aperto è oltre la scogliera “e là / là si incontrano il mare e il cielo”. Così come la vita va incontro alla morte. Parole, parole che si dicono. Parole che diventano pietra. La pietra è greve, non muta come il deciso impulso di non essere più. Disteso nell’acqua e poi via per sempre.

È la solitudine che sospinge verso la morte “che sta là / non solo come pensiero / non solo come paura / ma come qualcosa vicina”, “Ma tu / la vita… non è poi così brutta / Non sempre… è bello vivere”. Sempre il vento sospinge la barca immaginaria verso il largo. L’uno: “Ho sempre avuto paura che accadesse / e ho pensato che sarebbe accaduto / e ho avuto paura”. L’altro: “…io non posso far niente / in mezzo al mare aperto…; Io guardo e lo cerco… la barca va avanti. Dove sei? Ma non posso vederlo”. Le onde sono nere e bianche e piove. “Ma perché lo hai fatto?” “L’ho fatto e basta… Sono via / Sono andato via con il vento / Io sono il vento”.

Dramma trascinante. Sospensioni, riprese. Il tutto in un clima allucinatorio. La sua fine è la fine di ogni essere umano sia che la agogni, sia che la tema. Teatro di pensiero in spazi immaginati, descritto con parole di mare e di nebbia e noi, perduti, affascinati e avvolti dal sibilare del vento. Il teatro siamo noi che ci immedesimiamo negli attori. Siamo quel pubblico che ascolta dall’alto del loggione e che Giorgio Albertazzi definì Les enfants du Paradis. Mi rivedo ragazzina correre per le ripide scale della Pergola per guadagnare un posto e poi… Si alza il sipario.


Il presente testo viene pubblicato su questo sito dietro autorizzazione espressa da parte dell’Autrice la quale nulla avrà a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. La riproduzione del presente testo, in forma di stralci o integrale e su qualsiasi supporto, non è consentita senza l’autorizzazione dell’autrice.

Addio a Cesarina Castignani Piazza, voce del vernacolo anconitano

Articolo di Lorenzo Spurio

È venuta a mancare nella giornata di ieri, 21 maggio 2021, nella sua casa di Monte San Vito (AN), la poetessa anconetana Cesarina Castignani Piazza all’età di settantacinque anni. È stato il marito, Filippo Piazza, a darne comunicazione a mezzo internet sul social Facebook con un breve messaggio corredato da uno scatto che ritraeva l’amata moglie in un momento felice.

Nata a Jesi nel 1946, ma da sempre verace e autentica anconetana, la Castignani si è contraddistinta nel corso di una lunga carriera – riconosciuta e omaggiata da più parti in lungo e largo per l’Italia – per le sue grandi doti ispirative e di creatività che l’hanno condotta a essere una rinomata poetessa della nostra Regione. Vincitrice di molteplici Festival e concorsi locali (tra cui il Festival Varano, il Premio Adriatico, il Premio Città di Ancona, in varie edizioni) ma non solo, si è imposta come una delle voci più significative del dialetto anconitano assieme alla sorella Anna Maria, Maria Pia Marchetti, Alfredo Bartolomei Cartocci, Anna Maria Abbruzzetti e Umberto Emili, sulla scia dell’importante stagione del vernacolo anconitano che ha visto, tra le altre, le presenze importanti di Duilio Scandali, Turno Schiavoni, Palermo Giangiacomi, Elio Giantomassi, Eugenio Gioacchini, Piero Pieroni, lo studioso Mario Panzini, compilatore di un ampio dizionario del vernacolo in tre volumi.

Cesarina Castignani Piazza ha attraversato con pienezza il mondo culturale, è stata autrice di una poesia che guardava con disincanto al cambiamento degli spazi nativi, che non mancava mai di omaggiare la bellezza del Creato, attenta e fedele nel ripercorrere i dettati del mondo popolare delle genti della zona d’Ancona. Il suo dialetto, così incisivo e a tratti icastico, è stato il mezzo privilegiato col quale ha pure scritto e visto realizzare alcune opere teatrali, ampiamente tributate dal successo di pubblico e di critica.

A Jesi nel corso della premiazione del Premio di Poesia “L’arte in versi” nel 2015.

Valida artista si è misurata anche con le arti figurative, a testimonianza di una grande abilità artistica ottenendo pregevoli risultati. Ha preso parte a esposizioni personali e collettive, tanto nella sua regione, che in Umbria ed Emilia Romagna. Come artista venne inserita nelle pubblicazioni Arte al femminile, curata dalla Provincia di Ancona e in Arte oggi. Pittori-scultori italiani contemporanei, con una critica di Mario D. Storari.

Percorrere, pur in breve, il tracciato della carriera letteraria e artistica della Nostra significherebbe dover scrivere pagine e pagine, tanto è ricca di avvenimenti, di successi, di momenti di luce. Vale, però, la pena di rammentarne qualcuno a partire dal più recente riconoscimento (ottobre dello scorso anno) che ricevette, il prestigioso Premio alla Carriera per il settore poesia in seno alla seconda edizione del noto Premio “Adriatico – Un mare che unisce” organizzato dal poeta il prof. Massimo Pasqualone.

Personalmente la ricordo in alcuni degli eventi poetici organizzati sul territorio nel corso degli ultimi anni dove risultò premiata: il 3° premio alla XXVI edizione del Premio Internazionale di Poesia “Città di Porto Recanati” nel 2015 e l’attestato di riconoscimento all’interno del medesimo premio nella XXVIII edizione nel 2017 con la poesia “Cègo, sordu, mutu” (ad evidenza anche della natura etico-sociale di certa produzione poetica della Nostra); la segnalazione della Giuria alla IV edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” di Jesi nel 2015 con l’opera “La puesia”.

A dispetto della sua amplissima produzione di testi poetici e commedie la Nostra non ha mai raccolto in un volume a stampa le sue opere sebbene in una recente dichiarazione ebbe a dire che aveva almeno sei opere considerate come complete: Dodici mesi come me pare a me… e altre storie; Verzi e verzàci, Verzi spèrzi… e piccolo zoo; Rime in controcanto; Scampoli ripescati e Quinte d’anima.

Molti dei suoi testi possono essere reperiti in varie antologie e raccolte letterarie alle quali prese parte con particolare entusiasmo tra cui le antologie di Voci Nostre di Ancona, organizzatrice del noto Premio Letterario “Città di Ancona” che spesso la vide affermarsi; altre opere vennero pubblicate sul periodico in vernacolo anconitano «Riguleto» e sul quotidiano «Corriere Adriatico».

 L’augurio è quello che parte delle opere di Cesarina, che tanto ci hanno fatto compagnia, divertire (spesso) e riflettere (sempre) possano essere pubblicate in volume per una maggior fruizione pubblica e conoscenza della sua indimenticabile opera.

Due testi di Cesarina Castignani Piazza, il primo in vernacolo anconitano e l’altro in lingua.

CÈGO, SORDU, MUTU (Alla Lega del Filo d’Oro)

Di Cesarina Castignani Piazza

Nun vedi, nun zenti, nun pòi discóre. 

Come ’n’isula de carne che pulza

a braci stesi, palmi spalancati,

spèti, ’nt’un uceano d’ombra,

l’aprodo de ’n toco maestro

che alfine te fa, come me, vivu.

E cuscì, ’n  t’un delirio solu tuo

senti, da deto a deto, che per te

c’è ’n’amore su misura

che tutu te ’nveruchia uguale al glicine

che a primavera straripa de viola

sul cancèlo scurdato.

Ma pòle bastà?

Chi mai saprà dìte la vastità del mare,

el prodigio de l’alba che sega l’urizonte,

el sbigià de ’na stela ’ntel mistero de la note?

E per de più,

al de sopro d’ogni meludia,

chi te pudrà di’ el vibrà

de la voce de mama

quando te chiama per nome?  

Nun vedi, nun zenti, nun pòi discóre.

’Na galèra de silenziu te ’mprigiona

’ndove tutu t’è statu negato.

Ma io so, in t’un’intima certeza,

che quando lasceremo stu percorzo paralelo

el mio tuto vedé, tuto parlà, tuto sentì,

sarà solu sfiutu vagante ’nte stu mondo blasfemo

e scoprirò, senza meravija, che solu te

sarai stato veramente vivu.

*

CERCHI  D’OMBRA

Di Cesarina Castignani Piazza

Non posso entrare

nei tuoi cerchi d’ombra.

Vorrei uno spiraglio,

un piccolo varco…

Forse basterebbe

un nulla, un entrare

in una cruna d’ago

per incontrare la favilla

gemella del mio amore.

Ma il tuo vivere

è aggrappato

a slabbrate geometrie

e non sai

di rondini in volo,

d’incantesimi germogliati,

di piogge, di arcobaleni…

e di me

che solo bacio

il tuo volto innocente.

E i giorni vanno

come pagine di vento

dove ho scritto

di stagioni sparite,

di guglie di sole

rimaste inaccessibili.

E dove, struggendo,

ho scritto di te

che resti farfalla

con un’ala sola

tremula e ignara

sull’unica corolla.

…In cerchi d’ombra…

Solo il pianto ci assomiglia.

Articolo di Lorenzo Spurio

Jesi, 22/05/2021

“Tutti i racconti” di Javier Marías, recensione di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini

“Accettati” o “accettabili” secondo l’autore, comunque splendidi e indispensabili per comprendere l’universo narrativo di Javier Marías, vengono opportunamente riuniti in volume Tutti i racconti (Einaudi 2020) pubblicati nelle due precedenti raccolte, Mentre le donne dormono (2000, 1ª ed.1990) e Quand’ero mortale (1996) che riflettono, integrano ed arricchiscono, nella forma breve, i motivi ispiratori della sua produzione romanzesca da Domani nella battaglia pensa a me a Berta Isla: contrariamente a quanto ritenuto da alcuni critici, un percorso creativo coerente e unitario (pur con esiti meno riusciti), non crediamo articolabile in due fasi, la prima delle quali – sino a Un cuore così bianco – più letterariamente felice. Fra tutti i temi trasversali della perdita/ricerca di un’identità mai definita né definibile nel caleidoscopico disgregarsi di una realtà illusoria e multiforme (si finisce, come nel bellissimo “Una notte d’amore”[1], con il costruirsi esistenze fittizie[2] per il timore di venire uccisi dai propri sentimenti se si ammettesse di viverli. “E per attenuare le cose più intense e passionali far come se accadessero ad un altro. Che è poi il modo migliore di osservarle”. Se poi “l’altro” è un morto…), dell’ambiguità gnoseologica che, inevitabilmente, si traduce in ambivalenza narrativa (“le storie accolte nel tempo non si devono cambiare, anche se si sono ficcate senza spiegazioni nel loro giorno”[3]: per Marías la mancanza di risposte sul piano esistenziale finisce con il costituirsi nella storia narrata, “è” la storia), infine dell’eros e di un fantasma femminile declinati nei loro minimi, più sfumati particolari. E se l’amore è speranza, ardore, oscenità, gioco, finzione, scambio di ruoli, nevrosi, paranoia, rapporto fra sconosciuti, stanca routine quotidiana e fantasia morbosa, opportunismo, devozione, calcolo, ricatto, rassegnazione, tradimento e (quasi) mai fedeltà – perché, in fondo, “è sufficiente credere che la vita di qualcuno dipenda dalla nostra per non negargliela, per non sentirci liberi  di andar via in qualunque momento, per quanto si possa essere stanchi e delusi”[4] e quella che manca è forse proprio la dimensione “normale” (semplicistica?) di un legame che viva semplicemente di sincera empatia – la donna, assai più dell’uomo, è l’emblema/universo in cui tale dimensione prende corpo. Vanitosa, paziente, crudele, sprezzante, infantile, cinica, sbadata o riflessiva, colta e appariscente o anonima, vendicativa sino alla violenza, insieme ironica e taciturna, tranquillizzante e inafferrabile, spesso sola (in attesa, delusa, insoddisfatta, ingannata…ampia la gamma della solitudine femminile), la Lei di questi racconti è “di una grazia irreale, quindi ideale, senza asprezze, distesa, quieta, priva di gesti, liscia, esuberante, non lattea ma cremosa, che non invita al tatto come se minacciasse di sciogliersi” ma ha anche “ciglia di bambola antica o dense e pelle scura per natura, per piscina o per spiaggia”[5].

Suggestioni che trovano naturale, originale espressione attraverso elementi canonici ed esemplari di un approccio narrativo assolutamente “europeo”, il sosia/gemello – Lord Rendall vede, o crede di vedere, se stesso nella presenza maschile che vive accanto a sua moglie in una allucinata alterazione/cancellazione del tempo al confine tra vita reale, illusoria o, forse, decisa da un incomprensibile destino e il detestabile Javier Gualta si scopre duplicato in un alter ego perfetto, finendo vittima di una spirale schizofrenica di degradazione e follia[6] – e il topos dello sguardo. Guardiamo per (tentare di) comprendere o solo vagamente recepire l’intellegibilità dei fenomeni, “in fondo sappiamo come sono fatti gli altri perché li vediamo, anche se nessuno sa vederli gli sguardi”[7] così, come del resto sin dai libri d’esordio, quasi in ogni intreccio qualcuno – affacciato ad un balcone/veranda, davanti ad un portone (spesso di notte), sfacciatamente o di soppiatto, ad occhio nudo, per mezzo di un Binocolo rotto o di un telecamera (“Mentre tutte le donne dormono”) – osserva qualcosa o qualcun altro: per adorazione, per sottrarre le apparenze alla loro fragile precarietà, per illudersi e non illudere, contemplare la bellezza e magari la morte – propria…altrui – quando, repentina e imprevedibile, sconvolge con la sua casualità equilibri, progetti, certezze, promesse[8]. E se Malanimo si risolve nel sorprendente omaggio ad un “Signor Presley” inquieto, ingenuo, sfruttato, ricattato con l’amicizia e le squallide ragioni di uno star system drogato dai dollari (lui “affabile e talentuoso come nessuno”), lo scrittore si conferma assai abile nel toccare le corde del genere fantasy/esoterico – in Le dimissioni di Santiesteban, Non più amori e nell’esemplare Quand’ero mortale[9] protagonista “in assenza” è un fantasma il quale sa amare e ingannare gli altri ma non se stesso, condannato com’è, in un “non tempo” che proustianamente si perpetua con ogni dettaglio, a ricordare e conoscere impulsi, sensazioni, intenzioni della propria vita prima non percepibili, a provare l’orrore di una piena “coscienza” anche della sua tragica conclusione – e del “poliziesco o d’intrigo”[10]: successivo di un solo anno (1995) a Domani nella battaglia pensa a me, l’intrigante “Sangue di lancia” lo riprende nell’incipit enigmatico e, per i meccanismi del delitto (apparentemente) irrisolto solo per un protagonista ignaro e raggirato da un sistema giudiziario kafkianamente “anonimo, ubiquo, molteplice, tragico”[11], anticipa clamorosamente il plot di Berta Isla.

Sul piano strettamente formale la prosa di Marías risulta complessa e articolata, con il ricorso insistito ad una marcata ipotassi, ad incidentali parentetiche equivalenti per importanza alla “frase ospite” e funzionali all’approfondimento psicologico del personaggio (che avviene di frequente attraverso la descrizione minuziosa del vestiario e dei capelli), ad un lessico sontuoso e analitico, ad una aggettivazione ricchissima – spesso addirittura quadruplicata – e mentre risultano inaspettatamente molto più rari – rispetto ai romanzi – gli amati richiami shakespeariani[12], brillante e personalissima risulta la costruzione della struttura narratologica, grazie soprattutto al ricorrere frequente del “finale aperto e/o mancato”, una delle peculiarità del suo stile su cui vale la pena, in conclusione, di soffermarsi. Di fatto il dato essenziale della trama – inteso come scioglimento di un’attesa creata ad arte per l’evento risolutore/chiarificatore della vicenda – non si svela quasi mai nella conclusione del racconto e l’epifania viene differita ad un ipotetico scenario/spazio extra-testuale che spetta alla complicità del lettore supporre e, se vorrà, addirittura “scrivere”, dopo che l’intreccio ha esaurito l’analisi dell’intera gamma di sensazioni emotive dei personaggi di fronte all’evento stesso, vero scopo della scrittura. Questo coincide per lo più con un accadimento di natura violenta come un omicidio, di volta in volta immaginato, pensato, desiderato, forse già avvenuto (“Il medico di notte”), che probabilmente avverrà – magari perché annunciato (“Un immenso favore” e “Caduto in disgrazia”) – o, clamorosamente, sta avvenendo senza che si conoscano la vittima e i motivi della sua eliminazione (“Domenica di carne”), ma l’effetto risulta sorprendente quando la sfera è quella affettiva/erotica, come in “Viaggio di nozze” e “Meno scrupoli”. Un vero narratore è tale anche – forse soprattutto – quando sceglie di non narrare…l’iceberg di Hemingway insegna.

Marco Camerini


[1] Tra virgolette alte i titoli dei racconti citati.

[2] Va ricordato che uno degli spunti centrali di Berta Isla è proprio quello della “vita parallela”.

[3] Sangue di lancia, p.217.

[4] Caduto in disgrazia, p.319.

[5] Passim da tutti i racconti.

[6] Il racconto, uno dei migliori dell’intera raccolta – deve molto, ci pare, all’Uomo duplicato di Saramago, oltre che, evidentemente, al Sosia di Dostoevskij.

[7] Un senso di cameratismo, p.292 e segg.

[8] Molto frequente in Marías il macrotema della morte: provocata, accidentale, violenta, naturale, mai più di tanto temuta, spesso avvolta nell’incertezza e nel mistero.

[9] Per il “morto che parla di sé” cfr. anche “l’accettabile” Vita e morte di Marcelino Hurriaga. Rimanda, invece, allo Schnitzler del Diario di Redegonda lo schema del “defunto protagonista”, come a molti dei suoi racconti (non solo il più noto, Doppio sogno) la dialettica veglia/sogno.

[10] Questa la definizione dell’autore stesso nella prefazione da lui curata, p.XV.

[11] Lo specchio del martire, p.335 e segg.

[12] Solo tre nei trenta racconti: Otello, Amleto e (il più ampio) Il mercante di Venezia in Tutto male torna, p. 164.

L’autore della recensione ha acconsentito e autorizzato alla pubblicazione del testo su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. Si rappresenta, inoltre, che la diffusione del presente testo su altri spazi, in forma integrale o parziale, non è consentita senza il consenso scritto da parte dell’autore.

Ricordo di Anna Elisa De Gregorio

A cura di Lorenzo Spurio

Ieri sera, ad Ancona, dove viveva dal 1959, è venuta a mancare la poetessa Anna Elisa De Gregorio. La notizia è rincorsa con velocità raccogliendo numerosi messaggi di vivo dispiacere e commozione nelle pagine virtuali di Facebook dove il cordoglio e il ricordo positivo della donna hanno imperversato, oltre che sulla sua pagina personale, in quelle di gruppi di poesia, collettivi e ambienti che, nel corso degli anni, l’avevano vista partecipe.

Personalmente l’ho incontrata un’unica volta, alcuni anni fa a Jesi, dove era intervenuta, in qualità di pubblico ascoltante a un incontro di poesia. Ne avevo apprezzato la modestia e la riservatezza che, in un breve scambio di battute, l’aveva contraddistinta, particolarmente coinvolta e attenta dalla presentazione di un volume che ci apprestavamo a condurre. Era stata anche assidua frequentatrice, negli ultimi anni, del Concorso Internazionale di Poesia “Città di Porto Recanati” – Premio Speciale “Renato Pigliacampo”, la cui giuria era da me presieduta, dove aveva riportato alcuni riconoscimenti, tanto nella XXIX edizione, nel 2018, che in quella successiva rispettivamente con le poesie “Che fanno i vecchi tutto il giorno”, vincitrice del 6° premio (XXIX edizione) e “La leggerezza dei vecchi”, vincitrice di una segnalazione (XXX edizione), che probabilmente vennero in seguito raccolte in quella che è da considerarsi l’ultima sua opera, L’ombra e il davanzale, edita da Seri Editore nel 2019. Purtroppo non aveva potuto presenziare a entrambe le cerimonie di premiazione ma aveva dimostrato sempre particolare attenzione alla manifestazione non mancando di rivelarsi entusiasta delle sue varie affermazioni, felice di sapere che la sua opera in qualche modo “arrivava” ed era oggetto di doverose analisi di valutazione.

La poetessa Anna Elisa De Gregorio

Di premi, in fondo, Anna Elisa De Gregorio ne ha meritoriamente vinti molti e lo testimonia anche la recente attribuzione del primo premio del noto Premio Ischitella “Pietro Giannone”, quello che è considerato – assieme al Giuseppe Malattia della Vallata di Barcis e pochi altri – uno dei più importanti nel nostro Paese per la poesia dialettale, alla sua diciassettesima edizione[1] con l’opera in dialetto anconetano La giungla de cartó (a seguirla sul podio Francesco Indrigo e Paolo Steffan rispettivamente al secondo e terzo posto).

Di questa sua vena dialettale, che ha contraddistinto prevalentemente l’ultima produzione della Nostra e della quale un significativo numero di testi in dialetto anconetano sono stati riproposti nell’antologia Poeti neodialettali marchigiani (Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche n°263, Ancona, 2018) a cura di Fabio Maria Serpilli e Jacopo Curi, riporto i versi di una lirica pregna di vissuto dove l’elemento del tempo che passa, col suo carico di ricordi indelebili nella mente, viene visto nel processo di decadimento e rimaneggiamento necessario della casa: «C’è na casa rimasta vòta/ ndó la luce/ c’entra solo pe sbajo,/ che mantiene sustanza/ de fumo su pi muri/ de cucina/ e te sei sciguro / d’oprì la porta e de truvà/ l stesso udore de ieri,/ e ncora l zegno/ sbianchito della cristalleria./ Na matina nvece/ trovi i muratori/ che carégiane i sechi,/ l’ombra de te/ ch’eri fiola fugita/ (da per loro i ricordi/ dó se tàca?),/ cu le scarpe/ sopro j asi de legno/ e l’umido/ de la calcina nòva/ che scancela tuto» (poesia “L’udore de le ombre”).

Tra i vari messaggi in ricordo della donna vorrei riportare quello puntuale e commosso del poeta e scrittore Alessandro Fo che così ha scritto: «Sera del 24 settembre 2020. Se n’è andata in silenzio poche ore fa Anna Elisa De Gregorio, poetessa di grande finezza, persona delicata, dolce, autenticamente e profondamente umana in questi tempi di tanto diffusa durezza di cuore. Ne piango la scomparsa con tutta l’anima. Senza di lei il mondo è senz’altro peggiore. Ma resta la sua poesia, semplice, diretta, disarmante nella sua dolente vicinanza ai nodi più intimi di ogni singola vita, con escursioni dall’umorismo brillante alla più calda pietas per le creature ferite (in sostanza, tutte le creature o quasi). Ultimamente prediligeva la forma breve dell’haiku, in cui la sua finezza d’osservazione trovava la migliore occasione per sfolgorare in subitanee, mirabili accensioni. Basterebbe ricordare la serie sui ventagli in Le rondini di Manet […] Prima dell’estate mi raccomandava di avere cura del suo ultimo splendido libretto, L’ombra del davanzale: mi ero limitato a segnalarlo su Facebook […] Lo scorso agosto ci siamo scritti, brevemente, sull’amicizia, e mi ha inviato sul tema un suo bellissimo inedito, che poi concordammo di intitolare “Una lunga amicizia”: “Gettano gli ami/ fianco a fianco ogni autunno./ Si allarma il mare”. […] Arrivederci Anna Elisa, e il più forte, commosso, affettuoso abbraccio, con il più convinto e partecipe omaggio alla tua parola poetica»[2].

Anna Elisa De Gregorio era nata a Siena da genitori campani nel 1942. Ha abitato nel capoluogo dorico dal 1959, dove ha lavorato presso una agenzia di marketing. Per la poesia ha pubblicato Le Rondini di Manet (Polistampa, Firenze, 2010, con prefazione di Alessandro Fo), vincitore del Premio Pisa nel 2010 come opera prima; Premio “Contini Bonacossi” nel 2011 come opera prima; Dopo tanto esilio (Raffaelli Editori, Rimini, 2012, con prefazione di Davide Rondoni), risultato nella cinquina finalista del premio Gradiva di New York nel 2013; vincitore del primo premio Borgo di Alberona nel 2014; Corde de tempo (DARS, Udine, 2013), plaquette in dialetto anconetano; Un punto di Biacca (La Vita Felice, Milano, 2016, con una nota di Francesco Scarabicchi), risultato nella terna del premio Metauro nel 2016; finalista al premio “Guido Gozzano” nel 2016 e L’ombra e il davanzale (Seri Editore, Macerata, 2019, con prefazione di Maria Grazia Calandrone), composto da testi poetici e haiku, arricchiti da tredici illustrazioni di Francesco Pirro e La giungla de cartó (Cofine, Roma, 2020), in dialetto anconetano, vincitore del Premio “Ischitella-Pietro Giannone”. Le sue opere poetiche sono presenti in svariati volumi antologici; ha pubblicato anche articoli su varie riviste letterarie, blog e siti di settore tra i quali «Poesia», «Caffè Michelangiolo», «Le Voci della Luna», «Clandestino», «Atelier», «L’Immaginazione», «Periferie», «Nostro Lunedì», «Poesia 2.0», «Versante Ripido», «Fili di Aquilone»).


[1] Il Premio è organizzato dal Comune di Ischitella (FG), in collaborazione con l’Associazione “Periferie”. La Commissione di Giuria si compone di Franzo Grande Stevens e Dante Della Terza (Presidenti onorari), Rino Caputo (Università Roma Tor Vergata; Presidente), Anna Maria Curci (poetessa, Redazione “Periferie”), Manuel Cohen (poeta e critico letterario), Vincenzo Luciani (poeta), Giuseppe Massara (Università Roma La Sapienza), Cosma Siani (Università Roma Tor Vergata) e Marcello Teodonio (Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli).

[2] Estratto del ricordo di Alessandro Fo tratto dal suo post caricato in data 24/09/2020 sulla pagina Facebook.

La diffusione del presente articolo su altri spazi, in forma integrale o parziale, non è consentita senza il consenso scritto da parte dell’autore.

Vittorio Sartarelli su “Tra gli aranci e la menta. Recitativo per l’assenza di F.G. Lorca” di Lorenzo Spurio

Recensione di Vittorio Sartarelli 

 

 “La mia opera di riconoscenza all’intellettuale più grande che non è mai morto”. Così si espresso l’autore di questa splendida plaquette nella amichevole dedica a me diretta e che mi ha molto colpito sentimentalmente.

cover frontaleNon è facile né agevole scrivere qualcosa di perfettamente aderente e giustamente commensurata all’eccelsa qualità di quest’opera cercando di commentarla nella sua esatta dimensione. È chiaro, come ha scritto con competenza il professore Nazario Pardini nella sua dotta prefazione, che si tratta di una Elegia, un componimento letterario improntato a motivi di confessione autobiografica, di delicata mestizia e di forti sentimenti, indipendentemente dalla forma, la quale tuttavia si determina tradizionalmente nel così detto distico elegiaco.

Lorenzo Spurio in questa sua opera che, oltre ad essere un inno alla vita ed alla natura che ci circonda, esprime in una sorta di simbiosi catartica, la sua visione lirica della vita, della natura e della morte, molto simile e quasi identica a quella di Federico García Lorca, il poeta offre la netta visione di uno dei sentimenti più nobili e umani: l’attaccamento alla vita e alla propria terra, “a ogni luogo del campo”.

L’opera si dispiega in undici poesie che sono un autentico inno che racconta liricamente la vita e i sentimenti del suo amico del quale soffre l’assenza ed il triste destino che lo ha portato tragicamente alla sua morte per mano di maldestri assassini. Il nostro Spurio esprime nella sua lirica “Non lontano dal limoneto” un altro suo mesto cruccio, egli fa riferimento al fatto che dopo tutti questi anni dalla morte di Lorca non è mai stato localizzato con certezza il luogo preciso dell’inumazione, né sono stati trovati i resti del suo corpo.

La via crucis di García Lorca comincia quando lo arrestano e lo conducono nella roccia vescovile, il palazzo del vescovo Moscoso y Peralta e si conclude quando lo conducono, assieme ad altri tre condannati, presso la Fuente Grande, il luogo di una fonte, già stata cantata da grandi poeti granadini e da Lorca stesso. Lì avverrà l’esecuzione.

Tutta questa raccolta di liriche di Spurio evidenzia un accostamento profondo al testo del poeta spagnolo, egli è non solo amico, non solo ammiratore ma anche grande conoscitore della produzione di Federico García Lorca. Il nostro autore in queste undici elegie, i suoi versi, spesso, hanno il sapore dell’invettiva in canti di offerta e di ammirazione, ma anche di sdegno, di riscatto simbolico all’oltraggio di una morte ingiusta che pesa come un delitto incancellabile sul volto della Spagna.

aeafa7afba0e2ae8e22787028371f788
Un ritratto di Federico García Lorca eseguito dall’artista José Caballero.  Fonte

Il nostro Poeta, in questa splendida elegia, riesce anche ad introdurre la rappresentazione scenica e rituale della corrida e quindi della Tauromachia che è un concetto essenziale della tradizione ispanica. Del resto, il contesto storico e politico di questa nazione nel periodo della morte di García Lorca era stato già negativamente raccontato da altri eminenti artisti spagnoli come il pittore Picasso con la sua opera Guernica e Pablo Neruda fortemente amareggiato dalla uccisione di Lorca e il nostro Spurio si è sentito così vicino sentimentalmente al grande poeta spagnolo da quasi non accettare che egli fosse già morto infatti, in una sua lirica afferma: “Morto è solo chi si dimentica e scompare” e questa intima affezione è stata talmente forte e l’ha sentita talmente sua, da farne il punto focale della propria ispirazione lirica.

Un’altra sensazione che si ha, almeno questa è la mia percezione, anche perché credo che la poesia sia molto legata alla musica, nel leggere questa raccolta di versi dedicata a Lorca, sembra di ascoltare una bella canzone sulla vita, la natura, gli alberi, le piante e anche la morte ma, il nostro poeta sembra voler sorvolare su questo aspetto negativo della vita, quasi rifiutando di accettarlo, esprimendo sublimandole, una profonda cura e una dedica struggente al suo caro amico, per l’interpretazione e il modo di sentire ed apprezzare i sentimenti dell’amore, della libertà e della giustizia che costituiscono i presupposti essenziali per una vita umana serena e, soprattutto, libera da pregiudizi.  

VITTORIO SARTARELLI

 

NOTA: L’opera in oggetto è LORENZO SPURIO, Tra gli aranci e la menta. Recitativo per l’assenza di Federico Garcia Lorca, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016. La prima edizione del volume è stata pubblicata dall’editore fiorentino PoetiKanten Edizioni, con prefazione del professor Nazario Pardini, nota critica di quarta di copertina di Corrado Calabrò, bandella con commento critico di Lucia Bonanni, illustrazioni a china del Maestro campano Franco Carrarelli e un saggio di Valentina Meloni dal titolo “Il passo della morte. Rappresentazione mitica e allegorica nel rituale della corrida tra teatro e poesia” a maggio 2016 (pp. 86, ISBN: 9788899325466, Costo: 12€). Una seconda edizione, privata del saggio della Meloni e con l’aggiunta di un apparato critico finale con brevi lettere e note di lettura di Dante Maffia, Giorgio Bàrberi Squarotti, Antonio Spagnuolo, Francesca Luzzio e Luciano Domenighini, è stato pubblicato, sempre da PoetiKanten Edizioni, nel febbraio 2020 (pp. 65, ISBN: 9788899325466, Costo: 10€).

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.             

“Spirito e corporalità: la poesia di Nichi Vendola”, saggio di Stefano Bardi

Saggio di Stefano Bardi 

Bari, città di 319.482 abitanti dislocata su un territorio che inizia a nord nella città di Giovinazzo e termina a sud-ovest, nella città di Loseto. Territorio il barese costituito da fasce pianeggianti denominate conche che si espandono fino nelle città di Capurso, Triggiano, Bitritto, Modugno e Bitonto. Città accarezzata da un clima mediterraneo con inverni miti ed estati calde, afose e temporalesche; la cui economia è principalmente basata sull’agricoltura orto-frutticola, sull’industria chimica, petrolchimica, tessile, meccanica e sui servizi. Città che si dispiega nelle prossimità delle note Murge, altopiani carsico-tettonici inizianti nel barese e terminanti nel territorio della città di Matera. Il territorio murgese è costituito da rilievi collinari calcareo-rocciosi, da doline, da gravine e, nel caso dell’interno del territorio provinciale barese, da rilievi montuosi al di sopra dei 600 metri, dalla scarsezza di fiumi e dalla presenza di corsi d’acqua sotterranei.           

La città di Bari, come mostra il critico e accademico Daniele Maria Pegorari, è dal punto di vista letterario e poetico, rappresentata da due principali correnti stilistiche: la poesia sperimentale nata alla fine degli anni Sessanta per arrivare fino ai giorni nostri, rappresentata dai poeti Lino Angiuli e Francesco Giannoccaro. Angiuli poetizza la sua natalità geografica, antropologica, in chiave comico-irreale dove i reminiscenziali manufatti e gli intimi luoghi cari al poeta si uniscono fra di loro per creare un nuovo mondo animato da ombre e corporalità. Il dialetto è concepito da Angiuli come un gigantesco campo in cui la lingua italiana e il dialetto si fondono fra di loro in modo così da creare una nuova lingua poetica dai toni elegiaco-liturgici. Giannoccaro, invece, concepisce la poesia come un cammino nel quale incontrare nuovi amici in grado di capire, patire, conservare gli altrui patimenti spirituali ma anche, come desolato e triste pianto di ribellione contro la società dei suoi tempi governata dall’assenza dei valori. Un pianto, infine, in grado di liberare gli intimi affetti del poeta imprigionati in forme di tenebrosità sociale. La seconda corrente poetica si basa, invece, sulla poesia del quotidiano e sulla poesia impegnata raccolte nell’esperienza della rivista barese Vallisa dal 1981 ai giorni nostri. Poesia ben rappresentata dalla lirica proletaria e operaia in chiave etica di Daniele Giancane, dalla poesia intesa come una fotografia della quotidiana decomposizione sociale di Enrico Bagnato, dalla poesia popolare in chiave angelico-evangelica di Anna Santoliquido e dalla poesia cosmica, antropologica, corporale e filosofica di Fortunato Buttiglione[1].

Accanto a queste due correnti poetiche ne andrebbe aggiunta una terza basata sulla spiritualità e sulla carnalità trattata dal poeta Nicola Vendola detto Nichi Vendola (Bari, 1958), maggiormente noto per essere stato Governatore della Regione Puglia dal 2005 al 2015 (aspetto che qui non ci interessa, in nessun modo, trattare). La sua attività poetica, che si sviluppa nel periodo 1973-2003, è stata raccolta nell’opera Ultimo mare (2003).

51CEzcMbOVL._SX351_BO1,204,203,200_Il 1983 fu l’anno della raccolta Prima della battaglia contente le poesie scritte nel periodo 1973-1983. Opera in cui la battaglia simboleggia il cammino terreno verso le braccia della Morte. Cammino che, come mostra Vendola, rivela la Vita per quello che in realtà è ovvero, una nave popolata da spettri dagli occhi versanti lacrime, dalle nostalgie brumosamente[2] luminose e dalle carni “musicalmente paradisiache”[3]. Spettri che altro non sono che i riflessi della nostra anima dannatamente alla ricerca di verginei e ambigui amori[4]. Spettri che simboleggiano gli Uomini poiché condannati a conservare nel loro cuore i palpitanti, frenetici, passionali, fugaci, dolorosi amori da loro consumati durante la loro terrena esistenza[5] e ormai mutati in nostalgie dalle sacre parole e dalle infettanti lacrime, che, si lasciano stringere dalle calorose braccia della Morte[6]. Un’altra condanna per gli Uomini durante il loro cammino, è quella di vedere i propri sogni mutare in vacue e anonime fotografie dagli infettanti visi femminili[7] ma anche in flash-back capaci di mostrarci il terreno corpo come un mondo animato da depravate carni[8] e ansiosi profumi[9]. Carni, infine, che lanciano urla colme di un arcaico dolore in grado di uccidere i più luminosi pensieri e allo stesso tempo declamanti canti purificatori, in grado di trasformare i nostri amori in chimeriche visioni durante l’eterno riposo[10].

Il 1997 è l’anno della raccolta La debolezza contenente le poesie del periodo 1983-1997. Debolezza qui poetizzata da Vendola come la fragilità degli Uomini divisa in cinque sezioni: La debolezza, L’alba di poi, Angeli, Dissipazioni e Filo rosso. Fragilità declamanti timide e impaurite parole innanzi alla Morte che acceca i loro taciti e ancestrali sguardi[11] che vengono accarezzati e schiaffeggiati nel loro silenzio, da un vento colmo di gioie[12]. Fragilità dalle brumose ombre e dall’incerto cammino pari al terreno cammino poiché seguono le folli strade che conducono nelle braccia di Satana[13]. Fragilità, infine, dalla paurosa voce che si nutre dei suoi stessi dolori, in grado di infettare le verginità e le puerilità della sua anima[14]. Debolezze quelle umane che, secondo Nichi Vendola, non sono solo destinate al patimento più lacerante, ma anche alla divina purificazione in modo da poter rinascere in dilucoli[15] bagnati da umide brezze, in grado di far fiorire a nuova vita rimpianti cosmico-ancestrali[16]. Dilucoli poetizzati da Vendola come dei mondi non illuminati da intensi colori e animati da palpitanti emozioni, ma come universi popolati da scheletrici fiori d’acciaio, coccolati da funerei requiem in grado di mutare i timidi sogni in sanguinanti incubi. Anima, quella degli angeli vendoliani, in eterno cammino all’interno di riflessi che riproducono abbracci e pianti di commiato intrappolati in interminabili viaggi di spettrali velieri[17]; angeli dalle membra emananti aspre e fuligginose ombre rappresentanti perfette nudità terrene del tutto estranee ai loro velati sguardi[18]. Membra, infine, destinate a consumare la loro esistenza in un cammino di sangue che muta le loro reminiscenze, in insipidi flash-back psichici, insignificanti ombre prive di vita e destinato a concludersi in un dolce commiato dalle reminiscenziali nostalgie diventate ormai affetti, parole, sguardi e voci insignificanti[19].             

Il 2001 è l’anno del poemetto Lamento in morte di Carlo Giuliani dedicato all’attivista no-global deceduto il 20 luglio 2001, durante gli scontri del G8 a Genova. Poemetto dai toni denunziatori ed epici, poiché mostrano la città di Genova come un luogo governato dall’avido sangue della Legge[20] che inquinò la Democrazia[21]. Legge totalitaria da Vendola condannata attraverso la voce degli innocenti ingiustamente incarcerati poiché solo la loro voce è in grado di mostrarci che cosa realmente significa il potere totalitario. Attraverso questa opera Vendola, con la denuncia di quei fatti di sangue, vuole simboleggiare la conquista della Libertà[22].

Il 2003 è l’anno della raccolta Ultimo mare inserita nell’opera omnia ricompilativa, sempre delle stesso anno, insieme alle raccolte poetiche fin qui analizzate. Opera, quest’ultima, dal poeta intesa come una guida di viaggio per gli uomini attraverso i punti cardinali incominciando dalle estremità profumate di morte e di silenzio[23] per giungere alle ignude, misteriose, confuse ed erotiche quotidianità animate da incomprensibili partenze, assenze, ritorni sterili, arrugginite emozioni, affannate fughe e ombre confuse[24].                                          

    STEFANO BARDI

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

Bibliografia:

CATALANO ETTORE, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Bari, Progedit, 2009.

VENDOLA NICHI, Ultimo mare, San Cesario di Lecce, Manni, 2003.

 

NOTE

[1] DANIELE MARIA PEGORARI, La poesia in Terra di Bari in ETTORE CATALANO, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Bari, Progedit, 2009, pp. 154-156, 158-159, 161-163, 165-166.  

[2] Con l’aggettivo brumosamente si rimanda alla nebbia. 

[3] NICHI VENDOLA, Ultimo mare, San Cesario di Lecce, Manni, 2003, p. 119. “[…] Domani morirò con triste grazia. / Domani, ieri / e mordo nei ricordi. / Ai corpi vili, s’adattano gli accordi”. 

[4] Ivi, p. 121. “[…] Ignaro di orologi / vago tra la palude ed il deserto / in cerca di cristalli / di rose. / Amo anche le ombre”.

[5] Ivi, p. 124. “[…] Tu che corri che fuggi che inciampi / che vivi”.

[6] Ivi, p. 127. “[…] Amor mio, amor mio / parlami ancora le tue parole d’incenso / e di neve struggenti  / stringi questa mano che stringe la tua morte […]”.

[7] Ivi, p. 138. “[…] gocce di chemio / e di rimmel. / Questa donna che spacca il muso / pure gli angeli”.

[8] Ivi, p. 137. “[…] questo tuo corpo emigra / da lampione a lampione / senza tregua”. 

[9] Ivi, p. 143. “Black-out dell’odore / e un letto che muore sudore. / Perle, schizzi di nulla: […]”.

[10] Ivi, p. 135. “[…] Il cerchio disperante / della roccia / si chiude attorno al tempo mio / che non ha tempo / come una spirale di nulla / che sfiora ma non rompe / la tua rotondità”.

[11] Ivi, p. 45. “[…] al collo meridiano dei silenzi / al punto estremo della mia / radice”.

[12] Ivi, p. 47. “[…] al battito di brezza / del lutto permanente”.

[13] Ivi, p. 51. “[…] a passi svelti / come un’impostura”.

[14] Ivi, p. 57. “[…] di fughe di cicoria e anfetamina / è come sfinge sotto un temporale: / finge, seduce e – sibillina – / alla Nube sacrifica i ragazzi”.

[15] Dilucoli = sinonimo di albe.

[16] Ivi, p. 63. “[…] Germogliano rimpianti / mattutini”.

[17] Ivi, p. 94. “[…] di specchi / vorticosi / narciso mio / straniero / tramonto e congettura / d’un veliero”.

[18] Ivi, p. 96. “[…] dei nudi corpi in nuda prospettiva / lungo una gotica siepaglia […]-[…] (arato amato annerito / rinnegato)”.

[19] Ivi, p.112. “[…] Sognare, forse Nino / come perduto dentro il suo maglione / come fanciullo dentro un’equazione / e gli occhi gli occhi / dopo ogni perché”.

[20] Ivi, p. 21. “[…] la morte all’imbrunire / lontano dal cancello / chiuso dentro l’imbuto / di un altro carosello / di carri armati e irati / di un celerino a uccello / ti spezzano i carati / del sogno tuo degli anni / l’ora del manganello / rintocca nei tuoi panni / l’ostia di nuovi giorni / si frange a questo luglio […]”.

[21] Ivi, pp. 28-29. “[…] Una maglietta sporca / Un grido senza soglia / Cova una morte porca / La sua più viva voglia / Lasciate questa stanza / Lasciate i ragazzini / Lasciate quei capelli / Lasciate gli orecchini / Lasciate gli occhi belli / L’idrante non li spegne / Piange il termosifone / Mattanza dei calzini / Urlano i rubinetti / Crocifissi assassini / Scappano le pagelle / Inciampano i volantini / Volti di casco nero / Guanti senza più tatto / Spezzare braccia al pero / Pisciare in faccia al gatto / Strappare i riccioloni / Ammutolire il matto / Al Diaz questi bambini / Imparano lo sfratto / L’igiene dei celerini / Il fascio al suo contatto […]”. ; Ivi, pp. 31-33. “[…] Grida non supplicare / Vola con le falene / Nudo da scorticare / Nella palestra oscura / Morire di paura / Ore da cavalcare / Sibila triste notte / Tenebra muta e botte / Sull’occhio tumefatto / Dal guanto che ti fotte / Olfatto / Non sentire / Il sangue che raggruma / La vita e le sue spire / La fine a spuma a spuma /Mamma vieni che sfuma / L’alba delle mie ire / Mi sento di morire / Mi portano lassù / Nel bianco corridoio / In piedi a nessun gesù / Ecco ora muoio muoio / Mamma non vieni più / Mi strappano gli anelli / Mi segano nel cuoio / Ancora manganelli / Presto presto che muoio / Mi sputa nella bocca / Mi sputa nella bocca / Mi sputa nella bocca / Saliva d’albicocca / Saliva che mi fende / Straripa tra le tende / Ogni mio corpo tocca / Tracima ficca offende / Saliva come un veto / Nell’atrio a Bolzaneto / Che lenta al dopo ascende / Guardiana nel pineto / Rotoli come onde / Di un mare scolorato […]-[…] Lasciami tacere / Lascia ch’io non ti veda / Ascia ascia e colpire / La nuca il mento il cuore / È lunga lunga strada / Io non cammino più / Mi fermo a Bolzaneto / Non grido e scendo giù”.         

[22] Ivi, p. 27. “[…] non dire al carabiniere / cos’è la verità / morta con l’estintore / è un guizzo d’autorità […]-[…] nel cielo tuo a spirale / nella tua morte lesta / nel lutto che ci desta / al corpo tuo che sale”.

[23] Ivi, pp. 15-16. “[…] le ossa dei bambini disseccati / i nostri geroglifici laccati / delle macerie all’ora della cena / la polvere da sparo e le trielina / il cielo imploso e rosso e bianco e nero / e questo rutilante cerchio assiro / che chiude i conti dell’eternità […]-[…] quando resta la nostra carcassa / tu ti calcoli un rapido sonno […]”.

[24] Ivi, p. 18. “[…] Fu un secolo avvolto nel telo / di troppe partenze spartite partite / sparite / e ritorni penitenze astinenze / dal sogno. / Giorni di bassa marea / di astri ossidati nel volo / di corse braccate dall’asma / a sgranare le ombre di sabbia […]”.

“Tu, io e Montale a cena”: la silloge di Gabriella Sica dedicata al poeta romano Valentino Zeichen – recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

 

“Corre con il fiume scorre

[…] il suo essere si estenderà ancora” (25)

 

Tu io e Montale metà copertinaUn libro agile e intenso in versi, quasi un canzoniere, che rievoca un amico poeta nel momento della sua scomparsa e nei mesi successivi al lutto.

La poetessa Gabriella Sica[1] ha da poco dedicato a Zeichen, “un neoclassico beffardo”[2], un volume di quarantaquattro poesie con due prose in chiusura che muovono interamente da una volontà di commemorazione del poeta amico. Non un pianto né un elogio, che sarebbero forse ben poca cosa nel mare magnum della poesia indifferenziata e tumultuosa d’oggi – soprattutto quella dal contenuto annebbiato da un sentimento di pura malinconia – ma un vero compendio atto a ripercorrerne alcuni tratti della sua esistenza, gli aspetti distintivi del carattere fiero e sicuro, le convenzioni della sua vita underground, la ricchezza dei contenuti del suo dettato lirico.

Scrive il poeta Guido Zavanone, recentemente scomparso, in una delle sue ultime poesie “Piace ai poeti/ divagando fantasticare/ liberi come sono/ da ogni vincolo/ di contenuto o formale”[3] e tale verità può ben desumersi dalla poesia argomentativa e icastica di Valentino Zeichen, una delle voci poetiche più curiose della scena romana degli ultimi decenni, saltato alle cronache per le sue frequentazioni mondane al tempo della giovinezza.

Sono poesie che ci parlano di incontri, di dialoghi, di idee e contenuti esposti da Zeichen nel corso di tante occasioni, spesso di cene con amici, che evidenziano la complessità del poeta, la versatilità dei suoi codici e, sempre, comunque, la sua occhiata critica e avvolgente verso la realtà di fuori con timbri d’ironia e d’invettiva.

La Sica riesce in maniera egregia a presentarci, tramite la sua conoscenza diretta dell’uomo, la stima e l’amicizia intessute e coltivate con Zeichen, uno dei ritratti più completi e meno sfocati di questa figura complessa, criticata, non del tutto compresa e in un percorso di latente dimenticanza contro cui il volume stesso della Sica s’infrange. Ne emerge un dialogo ininterrotto tra due amici sullo sfondo di una Roma vivace e ricca, e di un mondo letterario disgregato.

Il giornalista Camillo Langone de Il Foglio ha titolato un breve articolo con “Vorrei anch’io una poetessa come Gabriella Sica a commemorarmi”[4] e questo è indicativo del fatto di quanto amore, sapienza e desiderio di condividere con gli altri, ci sia nelle pagine della Sica, tra ricordi e circostanze curiose, tra inviti a cena (“La poesia mi ha aiutato a procurarmi pranzi e cene”[5], rivelò Zeichen in un’intervista) e passeggiate per Roma.

Il volume della Sica, Tu io e Montale a cena, apre a un contenuto al contempo privato e pubblico di Zeichen da lei definito “poeta bellicoso/ bell’uomo alto scattante” (21), con un “sarcasmo glaciale” (62), narrandoci com’era, come si comportava, come si relazionava agli altri e all’ambiente: “Scriveva poesie nitide e precise/ […] rovistava con la lima nella storia.// [con] ironia intelligente/ l’abbellimento logico pungente// […] indomito sagace alla Szymborska” (57).  La Sica non risparmia di affrescarcelo anche negli aspetti più spigolosi come quando osserva: “Valentino coriaceo al vetriolo/ stai nella tua area di rigore/ gelida area di esodo corrusco/ di esilio da persone e cose/ […] impertinente/ […] nel tuo veemente duello mentale” (9).

Ci sono tutti gli aspetti chiave della vita di Zeichen: dalle liriche che alludono più spesso al tema dell’esodo, alla figura della madre, all’istituto di correzione dove venne collocato giovanissimo, all’ossessione per gli orologi, e poi la dimensione abitativa da lui scelta (“una casa/ vera lui non la vuole” (18), la nota “baracca del poeta” alla quale la poetessa dedica una lirica dove si può leggere:  “È una leggenda la baracca a Roma/ sta in un vicolo cieco sulla Flaminia/ […] nel centro della città eterna/ è una misera fragile frontiera” (17) ricordando il poeta in uno dei loro incontri: “su una logora sedia di legno/ siede pensoso sul da farsi il poeta/ lì coltiva una coppia di piante/ un fico e una vite americana” (17). Quel “fico generoso” (27) vicino al glicine massacrato a colpi d’ascia dopo la sua morte di cui la Sica parla in una lirica di commiato che chiude il volume: “L’hanno tagliato acidi con l’accetta/ nel giardino del poeta/ dove c’era anche un fico ospitale/ che triste s’è seccato” (87).

E poi la condivisione del cibo e dell’ospitalità della Sica (come di tante altre persone sue amiche, poeti e non) verso Zeichen: “Vorrei più spesso invitarti a cena/ come a te tanto piaceva/ […]/ conversare/ in casa e fuori” (53). C’è il sentimento destabilizzante di paura dinanzi alla recente malattia dell’amico, il timore  che presto possa andarsene ad abitare altri spazi (“prometto lo inviterò di più a cena”, 15, pronuncia come sottovoce, a motivo di un fioretto, di un impegno tra lei e se stessa) fino alla lirica che dà il titolo al volume, “Tu io e Montale a cena” dove la poetessa ipotizza           un’improbabile cena a tre, tra cui il grande poeta genovese (“certo è che noi e il convitato immortale/ incallito scanzonatore/ ci siamo rallegrati oltremodo/ banchettando ilari noi tre insieme/ al secolo nuovo brindando/ come un niente lo snodo al Novecento”, 44) e, ancora, la rievocazione di una cena col padre dell’avanguardia, Pagliarani: “la dolce cena noi tre insieme/ la cambiamo questa morte in vita/ […] tu io e Pagliarani come un tempo” (49).

Nel breve periodo di malattia di Zeichen, dopo l’ictus che lo costrinse all’ospedale, una poesia-preghiera forte e sentita perché il suo amico possa rimettersi e ritornare nel suo universo sociale: “fallo tornare tra noi/ Valentino è in un letto d’ospedale/ […]/ non so se ci sei madremadonnina/ se ci sei salvalo salvalo tu che mi ascolti/ […]/ fallo combattere ancora” (15). Ci sono poi le poesie scritte dopo la scomparsa di Zeichen, “ultimo degli irregolari del nostro tempo”[6], che attestano una dolorosa assenza nell’animo della poetessa come ben si evidenzia nella lunga lirica “Il lento congedo” dalla quale cito alcuni estratti significativi: “Così te ne sei andato d’un colpo/ quel terribile diciassette aprile/ l’ictus il trauma il dolore/ ma per un po’ sei tornato indietro/ sul letto di una camera ospedaliera/ […] nei lunghi ottanta giorni/ per fare ancora festa con gli amici/ […] come in un lauto gran banchetto/ […] per poco così sei tornato in vita/ […] cantavi perfino le canzoncine/ lento nel distacco lento” (55-56). La poetessa è evidentemente costernata e affranta dalla dolorosa assenza del poeta-amico al punto tale che cerca una qualsiasi forma di possibile comunicazione con lui, alla ricerca impellente di una relazione: “Potresti con Dio darti un po’ da fare/ e attivare un filo teso e diretto/ tra te e me tra i morti e i vivi/ inviami un segno fammi un fischio” (26).

“Riquadro 67 Gruppo 2 Terza fila n. 7” (35) è l’espressione in codice della localizzazione fisica sullo spazio terrestre, “nel nome del luogo dove stai ora” (35)…, sempre Roma, è vero, ma in una dimensione diversa, qui dove il “cielo [è] a pezzi e i cipressi [stanno] invano” (35). Sempre dedicata alla sua lapide al Verano è un’altra lirica: “ti intrattieni con i nuovi amici/ vicini di casa affini/ Ungaretti e Moravia lì anche loro/ […] ve ne andate/ giù fino all’imbrunire/ piacevolmente in tre a conversare” (85).

Il poeta, andandosene, ha lasciato sola l’amica confidente, la poetessa Gabriella Sica, chiusa in una sensazione d’assenza e di vera e propria malinconia dei tanti momenti vissuti, a “scrutare la geografia di nuvole estrose” (31) come lui spesso faceva, interrogando il tempo: “il poeta agguanta nuvole/ (non ragionammo di questo insieme?/ non era questo il nostro diletto?)” (32), un gioco che ha introiettato e fatto suo, più triste ora che non potrà che condurlo da solista. Se è vero che nel giardino del poeta il glicine è stato ucciso e il fico, solo e impoverito, s’è lasciato morire, c’è ancora un virgulto di speranza che testimonia la vita che mai si frena e che perversa, proprio come le nuvole indecifrabili che sfilano e che affascinavano Zeichen. La Sica, al termine di questo viaggio poetico che ha segnato profondamente la sua esperienza, annota infatti che “spuntano dal tronco le foglie/ più del solito tremolanti/ sta nascendo ancora qualche bel fiore” (87).

Lorenzo Spurio

Jesi, 14/03/2020

 

 

E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. 

 

[1] Gabriella Sica, originaria della Tuscia e romana d’adozione, scrive in versi e in prosa fin da quando negli anni Ottanta ha ideato e diretto “Prato pagano”, ha pubblicato le Poesie per le oche, con prefazione di Giovanni Raboni (Almanacco dello Specchio, Mondadori, 1983) e La famosa vita, nel 1986.  A più di dieci anni di distanza dal suo ultimo libro in versi, Le lacrime delle cose, a fine 2019 è uscito Tu io e Montale a cena per Interno Poesia. Ha ricevuto vari riconoscimenti tra cui, nel 2014, il Premio Internazionale del “Lerici Pea” per l’Opera poetica. Tra i libri in prosa Sia dato credito all’invisibile. Prose e saggi (2000), Emily e le Altre. Con 56 poesie di Emily Dickinson (2010) e Cara Europa che ci guardi. 1915-2015 (2015).  Nel sito ufficiale, www.gabriellasica.com, si possono trovare sue poesie, traduzioni in varie lingue, notizie sui video da lei realizzati per la Rai dedicati ai poeti del Novecento.

[2] Leone D’Ambrosio, “Valentino Zeichen: Sono un poeta mondano e so fare i dialoghi”, Patria Letteratura, 13/03/2015.

[3] Guido Zavanone, Foto ricordo, Manni, Lecce, 2019, p. 69.

[4] Camillo Langone, “Vorrei anch’io una poetessa come Gabriella Sica a commemorarmi”, Il Foglio, 26/10/2019.

[5] Antonio Gnoli, “Valentino Zeichen: sono un poeta grazie alla mia matrigna, essa era una musa crudele e involontaria”, La Repubblica, 16/02/2014.

[6] Giuseppe Rizzo, “La poesia di Valentino Zeichen ci regala un po’ di libertà”, L’Internazionale, 18/05/2016.

“Il colloquio con Thanatos. Il poeta toscano Nazario Pardini nell’ultimo volume della trilogia dell’approccio “ai dintorni” della vita” di Lorenzo Spurio

Articolo di Lorenzo Spurio

Il nome di Nazario Pardini, poeta, scrittore e critico letterario, docente di Letteratura Italiana, ben noto anche sulle pagine digitali da anni, meriterebbe una descrizione che forse un pamphlet non sarebbe sufficiente, tanto è estesa e prolifica la sua produzione letteraria. Non solo di poesia, per la quale ha pubblicato decine di titoli, tra sillogi più o meno ampie, veri e propri repertori dell’anima che condensano esperienze e fasi del suo vissuto, canzonieri, poemetti, raccolte meticolose, elogi, canti, e tanto altro ancora. Senza dimenticare il suo costante e fondamentale contributo alla critica letteraria mediante lo studio attento, approfondito e umano – in una sola parola “dotto” – che ha riversato verso autori più o meno noti della scena letteraria nazionale e non solo. I suoi contributi critici, oltre a permettere a vari autori di fregiarsi delle sue considerazioni ermeneutiche in opere proprie nella forma di prefazioni, postfazioni e note di lettura, sono diffusi un po’ ovunque ma anche ben raccolti nella nutrita vetrina online di scritti, Alla volta di Lèucade, (che porta il titolo di un suo fortunato libro di poesia edito nel 1999, arricchito da una prefazione di Vittorio Vettori)[1] dove il professore, con cadenza quasi giornaliera, dà diffusione ai suoi scritti, vere e proprie esegesi sempre così ricche e particolareggiate, attentissime allo stile e ai linguaggi adoperati, alle segnalazioni dei volumi e tanto altro ancora.

Se è vero che la rete consente di abbattere tempi, distanze e qualsiasi altro tipo di barriera tra un emittente e un ricevente, è anche vero che spesso può risultare dispersiva nel poter fornire una corretta e utile table of contents, per andare a ripescare testi, far riemergere saggi (magari per trarne una citazione e renderne merito nella bibliografia) o, in qualche modo, recuperare in forma agevole e sicura quel materiale critico che nel tempo, come la stratificazione di una roccia sedimentaria, si è andato accumulando descrivendo striature cromatiche diverse e, al contempo, a rendere ancor più inscalfibile la materia. A favorire questo approccio sono giunti, in tempi recenti, quattro mastodontici volumi editi da The Writer Edizioni rispettivamente nel 2014, 2016, 2018 e 2019 dal titolo Lettura di testi di autori contemporanei, seguiti dalla loro normale numerazione dei tomi, nei quali il professor Pardini ha convogliato la gran parte dei suoi scritti – vere e proprie gemme – tra recensioni, saggi, interviste a lui fatte e concesse ad altri, note di lettura, approfondimenti e tanto altro ancora. Dei cataloghi ricchissimi non solo nei loro contenuti (vale a dire le opere contemplate, gli autori letti, approfonditi, analizzati con onestà e grande scavo nel loro lessico) ma anche negli approcci di approfondimento al punto che possono di certo essere considerati come dei testi fondativi, immancabili, di lettura e avvicinamento al testo per chi, scantonando il lettore qualunquista, voglia davvero poter impiegare gli arnesi del critico, scoprendone quella che è senz’altro un arte del mestiere. Testi di critica, dunque, ma anche sulla critica, che possono indirizzare degnamente chi, amante dei libri, abbia esigenza di immergersi in quel panorama magmatico che è il campo dei significati, delle allusioni, dei segni nascosti, dei richiami, delle (epidermicamente) insondabili forme con le quali si può dire senza svelare né determinare in maniera perentoria.

Numerosi e costanti anche i suoi contributi sulla rivista di poesia e critica letteraria Euterpe nel corso dei suoi quasi dieci anni di attività continuativa tra i quali mi piace ricordare alcune poesie di grande impatto comunicativo i cui motivi si dispiegano nelle oscure trame di una memoria dai contenuti ignobili e dolorosi come in “Carso” (n°14, dicembre 2014) e “In memoria delle foibe” (n°29, luglio 2019) o, di contro, improntate a seguire liberamente di volta in volta i possibili temi di rimando proposti dai vari numeri come il saggio “Puccini o il tempo della Turandot” (n°16, giugno 2015) e “Percy Bysshe Shelley e i suoi peregrinaggi marini” (n°22, febbraio 2017) a testimonianza della vastità degli interessi e della completa e approfondita padronanza di una materia non solo classica e letteraria, bensì di ordine sociale e riferita a ogni possibile campo dello scibile, tra umanismo e tematiche di attualità. Senza dimenticare, tra i contributi più incisivi, utili e di alto pregio, gli approfondimenti critici sulla poesia propriamente detta, motivo trainante della sua intera esistenza, ravvisabili, ad esempio, in “Lingua, linguaggi e poeti” (n°24, agosto 2017) e nell’avvincente “Società, filosofia dell’utile, ruolo dei personaggi e difesa della poesia in Chatterton di Alfred De Vigny” (n°23, giugno 2017).[2]

foto-nazario-3-1024x768
Nazario Pardini

Alcune note bio-bibliografiche, però, prima di poter parlare della sua ultima opera poetica, I dintorni della vita (2019), risultano necessarie. Nazario Pardini (Arena Metato, Pisa, 1937) si è laureato in Letterature Comparate e successivamente in Storia e Filosofia, è stato ordinario di Letteratura Italiana. Prolifica e di alto livello la sua attività di instancabile poeta, saggista e critico letterario, per la poesia ha pubblicato Foglie di campo. Aghi di pino. Scaglie di mare (1993), Le voci della sera (1995), Il fatto di esistere (1996), La vita scampata (1996), L’ultimo respiro dei gerani (1997), La cenere calda dei falò (1997), Sonetti all’aria aperta (1999), Paesi da sempre (1999), Alla volta di Lèucade (1999), Radici (2000), D’Autunno (2001), Dal lago al fiume (2005), L’azzardo dei confini (2011), A colloquio con il mare e con la vita (2012), Dicotomie (2013), I simboli del mito (2013), I canti dell’assenza (2015), Cantici (2017), Di mare e di vita (2017), Cronaca di un soggiorno (2018), I dintorni della solitudine (2019), I dintorni dell’amore ricordando Catullo (2019) e I dintorni della vita. Conversazione con Thanatos (2019). Molti i premi vinti fra cui il “Città di Pisa” (2000) nella terna Baudino, Mussapi, Pardini con Alla volta di Lèucade, i premi alla Carriera (“Le Regioni” di Pisa nel 2000, “CinqueTerre” di Portovenere nel 2012; “Portus Lunae” di La Spezia nel 2012, “Ponte Vecchio” di Firenze nel 2014) e la prestigiosa “Laurea Apollinaris” nel 2013 conferita dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale dell’Università Pontificia Salesiana. Su di lui hanno scritto, tra gli altri, Mario Luzi,  Vittorio Vettori, Paolo Ruffilli, Ninnj Di Stefano Busà, Giuseppe Giacalone, Luigi Filippo Accrocca, Antonio Piromalli, Silvio Ramat, Vittorio Esposito, Antonio Nazzaro, Antonio Spagnuolo, Giorgio Bàrberi Squarotti, Neuro Bonifazi, Franco Campegiani, Fulvio Castellani, Pasquale Balestriere, Giuseppe Vetromile, Rodolfo Vettorello,  Carmelo Consoli,  Umberto Vicaretti, Ugo Piscopo, Liana De Luca, Floriano Romboli.

Poeta legato alla tradizione classica e alla poetica naturalistica (inesauribile nel suo panismo vegetale e nella comunione con le acque) ma anche alla tradizione decadente e simbolista (poeti maledetti, D’Annunzio, gli scapigliati[3]) non può non essere avvicinato, per alcuni suoi componimenti, anche all’esperienza crepuscolare, così distante dalla prosa lirica o dal frammentismo d’inizio secolo scorso essendo il suo poetare sempre sorretto da un estetismo metrico, da una ricerca di costruzione formale attenta e con richiamo della classicità.

Se si prendono in esame i titoli delle ultime opere poetiche pubblicate dal Nostro ci si rende conto di un continuo e progressivo avvicinamento a temi pervasi da introspezione, considerazione filosofica, finanche melanconia e ripiegamento emotivo. Non si allude a nessun tipo di pietismo, vittimismo e pessimismo dal momento che l’intera produzione di Pardini è tesa a innalzare il bello, a celebrare la vita, a focalizzarsi sugli aspetti di luce piuttosto che nelle normali e ineliminabili zone d’ombra, asperità, situazioni angosciose e di vero e proprio derelizione. Tuttavia, come dimostra il lavoro del 2015 incentrato sul tema dell’assenza, ci rendiamo conto di una progressivo avvicinamento a un colloquio con un’alterità indistinta perché nelle sue vesti immateriali, incorporei e vacue. Sono “dialoghi della possibilità”, vale a dire forme comunicative impiegate dal Nostro con le quali, di rimando e indirettamente, interroga se stesso, permettendo a noi lettori di appropriarci delle sue riflessioni sulla vita, delle considerazioni, inquietudini, perplessità che il poeta, dopo aver attraversato un’esistenza ricca di episodi, è in grado di porre perché, diversamente, con molta probabilità, non riuscirebbe a vivere. Sono i dilemmi comuni che, in diversa forma e in fasi diverse della nostra vita, siamo portati a porci, eppure in questi interrogativi o labili convincimenti nei quali viene a ritrovarsi, il Nostro esplica se stesso: dà senso alla poesia che è forma di vita per mezzo della confessione intima con il suo cosciente. In queste circostanze hanno trovato la loro concettualizzazione i tre volumi della fortunata e filosofica trilogia poetica del 2019 pubblicata in rigorosa e autentica veste grafica dallo storico – una delle ultime poche garanzie editoriali italiane – Guido Miano Editore di Milano, uscita dopo la speziata Cronaca di un soggiorno nel 2018.

Primo volume della trilogia è I dintorni della solitudine alla quale ha fatto seguito I dintorni dell’amore ricordando Catullo e, infine, I dintorni della vita. Conversazione con Thanatos che è oggetto di studio di questa analisi. Si dovrebbe partire dalla spiegazione – o dal tentativo di avvicinamento – al lemma impiegato nei tre titoli di questa trilogia ovvero “i dintorni”.[4] Il poeta di lungo corso – classicista, ma anche estimatore degli ermetici – sa bene che compito della poesia non è parlare della noce, semmai del mallo screpolato che la ricopre. Vale a dire non è un discorso illustrativo né argomentativo l’impegno poematico, l’atto ispirativo che dà seguito a una creazione lirica, ma allusivo, collettaneo, approssimativo, cangiante, multiforme e polisemico, stratificato. Impossibile cercare di intuire certezze e verità inoppugnabili, il linguaggio poetico adombra un concetto, lo circoscrive in nebulosa, lo vaporizza, ne estende i principi rendendoli in diffusione – per quanto la letteratura sia figlia e specchio della vita (sugli insegnamenti di Sciascia, Calvino e tanti altri ancora, citerei anche la dissociata Sylvia Plath de La campana di vetro) esse non potranno mai essere eguagliate. Ecco perché Pardini parla dei “dintorni della solitudine” vale a dire affronta il tema della solitudine cercando di approcciarla, di avvicinarsi ad essa, fornendone forse dei tratti che la distinguono secondo la sua inclinazione, un’approssimazione, una possibile lettura, formula: non ne dà mai il ragionamento esatto, la lettura sillogica inconfutabile. Non è un discorso “su” ma “circa”, “attorno”, che lambisce, percorre, si aggira, conduce un periplo attorno alla materia, la osserva, se ne occupa, la fa sua come tema, senza mai fagocitarla con la razionalità perigliosa dell’uomo. In tutto ciò – e se così non fosse non darebbe gli alti esiti che, invece, riscontriamo – non può venire meno quel senso di “chiarezza, [quella] capacità espressiva [ricca] di indizi, lemmi straordinariamente efficaci per stabilire variazioni sul tema, evoluzioni di una cifra ermeneutica di sicura originalità”[5] come ebbe ad osservare Ninnj Di Stefano Busà.

De I dintorni dell’amore ricordando Catullo, con prefazione di Rossella Cerniglia, il critico romano Cinzia Baldazzi aveva riferito con particolare attenzione alla “Lettera ad una amica mai conosciuta”, testo incipitario della silloge, sostenendo che Pardini “dichiara che il dolore – il tormento – può purificare, però l’appello non coincide con il sopportare o gestire un’assorta, inerte contemplazione. Al contrario, nella guerra perpetua, nell’ostinato conflitto dei contrari al cui interno viviamo, il ruolo a noi destinato è comunque di combattere”.[6] E questo può essere utile, quale trait d’union, per collegarci al tema e ai motivi che muovono alla costruzione del volume successivo di Pardini, interamente dedicato alle conversazioni con Thanatos. Pardini non manca di mostrarsi, anche nella complicatezza del tema del quale ha deciso di occuparsi, di essere “così effusivo e così straripante”[7] per dirla con Vittorio Vettori. Il volume si apre con una precipua e utilissima nota critica del docente pisano Floriano Romboli (assiduo commentatore dell’opera poetica di Pardini) che anticipa la trattazione del volume attorno alla “insistenza e sistematicità alla “Morte” […] L’antitesi vita/morte pervade da sempre il pensiero e le forme dell’arte degli uomini […] Seneca raccomandava di familiarizzarsi [con la morte] progressivamente […] Nazario Pardini non ignora di certo la presenza dolorosa e disorientante della morte, la sua azione distruttiva e deprivante” (9-11).

Pardini Nazario 2019 - I dintorni della vita [fronte] (1)Le poesie di Pardini sono colloqui con “la sagoma di Thanatos protesa/ come l’ombra di sera” (15)[8], la signora con la falce che nel corso della silloge è simbolo della fine delle illusioni, del dolore, della bieca cattiveria (“ci furono sottratti dalle fauci/ di un essere insaziabile”, 15) che in senso generale prende la forma delle più aberranti violenze (“ovunque sei/ c’è male e distruzione”, in “Morte”, 65), crudeltà, catastrofi e le stragi che concernono l’uomo: “terremoti,/ guerre fratricide senza fine,/ barche sperdute in mari indifferenti,/ innocenti caduti in primavera”, 15). Dal primo componimento si evidenzia l’intenzione del poeta di non voler rendere il tema della morte in forma generale, come concetto al quale riferirsi, bensì di darne nome e foggia: di distinguerla, di rappresentarla nelle sue tante forme e voluttuosità. Significativo il riferimento – che ritorna nella lirica “E quella imbarcazione?”[9] – alle ecatombe nel Mediterraneo che fanno seguito ai tanti naufragi di disperati in cerca di un futuro migliore.

Squarci di conversazione con l’Eterna compagna che prendono la forma di avvertimento: “E anche tu, morte,/ non tentare l’accesso, non ti è concesso” (in “È ingolfata la strada”, 17), di reproba denuncia: “Menefreghista,/ insaziabile carnivoro volatile/ si prende il meglio della mia giornata,/ della mia storia. Senza alcun rispetto” (in “Il tempo”, 22) con eco shakespeariano: “Quando penso che ogni cosa che nasce/ resta perfetta solo per brevi istanti,/ che questa immensa scena ci offre sol fantasmi/ […]/ mentre il Tempo distruttore cospira con la Morte/ per cambiare il tuo fresco giorno in fetida notte” (Sonetto n°15)[10]; di vero scherno: “E maledetta pure tu, morte” (in “Morte bianca”, 30); “Vai al diavolo!”[11] (in “Vai al diavolo!”, 40), c’è anche il tentativo di riconciliazione: “Non essermi nemica/ […]/ Tu che sei grande, eccelsa, immarcescibile,/ tu che tutto puoi” (in “Conversazione con la morte”, 32), e l’accoglimento della proposta: “Spero che tu mi colga nel momento/ che sto guardando il mare;/ […]/ meno duro sarà,/ meno pesante il giorno dell’addio” (in “Conversazione con la morte”, 35), continuamento di un dialogo ininterrotto: “Mi è presa la mania di parlare/ con te” (in “Conversazione con la morte”, 37).

E poi la serie di poesie dedicate, a partire da quella che ha come destinatario il “Fratello scomparso” deceduto così giovane, che il poeta anela a rincontrare (“Spero che la fortuna mi sia amica/ e che mi faccia avere il tuo sorriso/ quando verrò a trovarti, ad abbracciarti,/ caro fratello mio” in “Lettera al fratello scomparso”, 18), quella dedicata a un’anziana madre che regge a malapena la sedia a rotelle per portare in giro la figlia malata: “t’immagini morisse quella donna,/ che fine mai farebbe quell´inferma./ Perché, trucida morte, non le assisti:/ […]/ questo è il caso/ che tu intervenga ed io sono d’accordo./ Ma tutte e due insieme in un bel volo/ a sorseggiare il blu; a respirare/ aria di libertà; assieme unite/ in un abbraccio eterno, meritato” (in “Ogni giorno”, 25), lirica angosciante e di grande attualità come tema: quando è (umanamente, eticamente, civilmente, giurisdizionalmente)  giusto porre fine alla propria esistenza, in uno stato di letargia e di impossibile cura? Temi che ritornano, quelli della legittimità e del diritto alla morte, in “Oggi ti approvo, morte” in cui si legge: “sono d’accordo con te, questa volta./ Soffriva da tant’anni; il male lo rodeva./ […] senz’altro/ ha smesso di patire” (41). Una poesia è dedicata a due genitori che hanno perso prematuramente il proprio figlio (“Ai suoi lati/ padre e madre abbracciati disperati”, in “Ho visto”, 36) e un’altra a un uomo che è rimasto ucciso dal trattore che “ha sbranato l’uomo” (in “Senza rimorso”, 39), finanche la lirica dedicata a Dante, “uno dei pochi/ a vincere la morte” (in “A Dante”, 51) sulla sua tomba a Ravenna. In “Dialogo con la morte”, quest’ultima contraddistinta per essere “macilenta, scheletrita” (26), senza tergiversare Pardini annuncia il tragico appelloLo sai che prima o poi faremo i conti/ […] preparati alla fine/ […] fissa bene/ quello che ti è dintorno” (26), parole alle quale l’io lirico risponde con dignità e fermezza implorando di lasciarlo stare: “Lasciatemi in pace!/ È inutile tu venga anguicrinita/ a disturbare i giorni che mi restano./ Voglio viverli senza pensamenti” (27).

Questo volume di Pardini fa venire alla mente ad alcune delle opere più struggenti e affascinanti della letteratura mondiale che hanno posto il tema della morte al centro delle disquisizioni dell’io lirico: dalla debolezza e inettitudine dei crepuscolari immersi in tanto grigiore e aria malata che li porta di continuo a riflettere sulla morte, al decesso dei romantici e alla mania cimiteriale, finanche alla morte come slancio, dei ribelli d’animo, dei bohémien, dei maledetti, degli scapigliati, di coloro che non hanno mancato di progettare un volo ardimentoso. Più propriamente, però, sembra di respirare il linguaggio cauto e investigativo di Leopardi del Dialogo della Moda e della Morte dove rifletteva attorno – nei dintorni, appunto – alla Morte che – personificata – così esordiva nella conversazione: “Aspetta che sia l’ora, e verrò senza che tu mi chiami”.

C’è, indirettamente il Pavese straziato di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, poesia scritta il 22 marzo 1950[12], (“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi/ questa morte che ci accompagna/ dal mattino alla sera, insonne,/ sorda, come un vecchio rimorso/ o un vizio assurdo.// […]/ Per tutti la morte ha uno sguardo.// Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”) e, nell’humus di questa poesia di Pardini che battaglia con la morte facendo prevalere la vita, il desiderio e l’amore, anche Emily Dickinson, Federico García Lorca, Pablo Neruda, solo per citarne alcuni. Si rivela anche Giovanni Testori che, nell’opera teatrale Conversazione con la morte, dialoga con la “cara, dolce ed eterna ombra” che di volta in volta assume sembianze diverse, a volte fascinose altre terrificanti. Nelle trame della poesia di Pardini che affronta in siffatta forma il tema della morte, la transitorietà dell’umano, la spavalderia del tempo assassino e la denuncia del male, c’è anche la presenza massiccia della poesia elisabettiana: la dark lady di shakespeariana memoria e la sfida beffarda alla morte (che si ritroverà in S.T. Coleridge) nella poesia “Morte, non essere orgogliosa”[13] del metafisico John Donne. Qui si legge: “Morte, non andare fiera, se anche qualcuno/ ti ha chiamata terribile e potente- tu non lo sei;/perché quelli che tu pensi di travolgere, non muoiono/ povera morte, né tu puoi uccidere me./ […]/ Tu sei schiava del fato, del caso, di re e di disperati,/e dimori col veleno, la guerra e le malattie,/ […]; Morte tu morrai”.

La morte – inquietudine e controversia interiore – viene a suo modo esorcizzata e allontanata dall’ordinario come il poeta fa in “Non scriverò di certo, morte” dove si legge: “Scriverò, al contrario, della gioia/ che zampilla dattorno per i prati/ […]/ Mi piace tutto quello che si oppone/ all’impertinenza della tua presenza,/ morte” (23). La morte si offusca con la supremazia del bene e il dominio della luce; il Bardo inglese scrive: “Al tempo contrasterai la tua eternità:/ finché ci sarà un respiro od occhi per vedere/ questi versi avranno luce e ti daranno vita” (Sonetto n°18) e l’americana Emily Dickinson “Chi è amato non conosce morte…”. A loro fa eco Pardini che annota “Amare è quello che faremo,/ senza indugi e senza reticenze,/ sarà la nostra fiamma,/ il fuoco che ci incendia/ a tradire la foga dell’eterno,/ dell’eterno mistero della morte” (in “Andiamo insieme, Delia”, 31); “Ma la natura vuole che l’amore/ vinca su tutto a costo di morire” (in “Un ramo secco a terra”, 49). Questa via salvifica di luce e di completa comprensione dell’umana natura, nel rispetto del limite della Creazione e nella fiducia in una alterità eterna, sono ben custoditi nella lirica di chiusura del volume, così ricca di bagliori e di riflessi: “La luce incoronò valli ed abissi,/ e tutto fu chiarore./ […] Si aprirono le tombe,/ la morte si redense in cherubino./ Dovunque fu un abbraccio/ di fratelli, madri, padri;/ […]/ nacquero fiori/ […]/ ci furono romanze/ […]/ E tutto fu sereno,/ e tutto illuminato dalla luce del cielo./ […]/ non fu più notte/ […] Fu gioia. Fu luce attorno, accecante,/[… ]/ fu luce nelle anime/ che vollero l’amore/ […]/ Tutto fu largo, immenso/ […]/ Vinse l’amore, e nella notte/ si accese la lampada divina,/ grande, enormemente forte,/ più che d’agosto la calura estiva./ Più che di giorno la gloria del Signore” (67-68).  Ed è proprio in questo percorso di auto-rassicurazione e di rinata speranza che si procede nel vivere ordinario, scantonando impervie vie e ombre che s’allargano a macchia d’olio perché, proprio lì dove, come sostiene il Nostro, “I dintorni riprendono il colore,/ aprendosi in segno di speranza” (in “Mi sembra che il vento”, 20).

Lorenzo Spurio

Jesi, 27-01-2020

 

[1] Particolarmente bella la risposta datami in un’intervista di qualche anno fa nella quale chiedevo al professore il motivo di questo titolo per uno dei suoi libri e poi per il blog letterario. Anche se un po’ lunga mi piace riportarla per intero per permettere ai lettori di apprezzare questo testo così sapiente, ricco, persuasivo, degno della più alta critica letteraria: “Leucade è l’isola del sogno. Della dimenticanza. Della rupe da cui si gettavano, in mitologia, i grandi, compresa Saffo abbandonata dal suo Faone, per dimenticare appunto le pene d’amore. Ma qui rappresenta il culmine di una ascesa lirica e formale. Il viaggio tormentato di una memoria che dal ventre della terra riesce a proiettarsi in mondi di onirica bellezza non per dimenticare, ma per rivivere i grandi e i piccoli fatti della vita. Ed io ne sono uscito dal salto con tutto il mio bagaglio esistenziale. Potrei riportare citazioni di tutto il mondo classico, ma una in particolare [(Dum loquimur fugerit invida aetas (Quinto Orazio Flacco)], credo sia la più vicina al senso di fragilità della vita, terriccio fertile per la poesia. A cosa mi sono rifatto? Alle memorie di quella cultura assorbita al liceo, e decantata nell’anima fino a farsi attuale, esistenziale, autobiografica, e decisa ad uscire a nuova vita. Mi sono rifatto alla mia storia, alla realtà di ieri e di oggi, aiutato da una natura fattasi simbolo coi suoi squarci di luce, colle sue corse di dune e ginestre, con le sue fughe e i suoi ritorni, coi suoi profumi e le sue ombre, a concretizzare segmenti d’anima. Leucade riguarda il mio credo poetico. Che cosa sia la poesia è certamente uno degli interrogativi più annosi della storia dell’uomo. La sola certezza comunque è che necessita, volenti o nolenti, di realtà individuali, di singole esperienze, di vicissitudini ed emozioni personali, per aprirsi dal memoriale all’immaginario, dalla vita al gran senso. E questo volume io credo trovi la sua compattezza partendo dal sapore della realtà, da ciò che conserva di primitivo per ampliarsi sempre più verso prospettive di largo respiro, tese a farci aspirare a qualcosa che svincoli, sleghi. E si fanno avanti il sogno, la fantasia, l’immaginario che non riescono comunque mai a liberarsi del tutto dal bagaglio del memoriale che ci portiamo dietro sempre più vago e nostalgico, ma vera vita, vita che resta, filtrata dal tempo, scampata e per questo degna di esistere in noi nel bene e nel male. E quello che ci tormenta è proprio il pensiero del suo destino. Chi lo affida ad una fede religiosa, chi al puro sogno, chi ad una fede poetica e chi laicamente ad un’isola quale potrebbe essere quella di Leucade, tentativo foscoliano come terapia al morbo del dubbio. E Leucade rappresenta la purezza laica, la bellezza, l’isola dell’equilibrio classico, della realizzazione del supremo su questa nostra problematica terra; il tentativo di elevarci laicamente al sapore del durevole. È Ulisse che riprende la sua navigazione: “Ancora salperemo / oltre colonne, questa volta mitiche / d’impedimento ai sogni. Là più lucido / e più eguale all’eterno sarà il liquido / dell’Oceano aperto” (Il ritorno di Ulisse, vv 43-47). Il linguaggio stesso subisce un’evoluzione di adeguatezza diacronica. Si insaporisce di termini arcaici, tende sempre più alla plasticità del distacco marmoreo.  Ed è sullo scoglio di Leucade che si raggiunge il colmo di una scalata lirica che permette sia la dimenticanza degli affanni esistenziali, la ripulitura per così dire del vissuto, che l’amore del tutto, ora veduto con altra dimensione umana, direi quasi ebrietudine dell’immagine che si fa poesia. La circolarità si compie nei canti arcaici. Dove tutto il mondo prepericleo, in cui secondo me immensi erano i presupposti immaginativi e creativi, irripetibili per liricità poetica, dipana una visione superlativa di amor vitae che si fa plenitudine di canto e di filosofia laica dell’esistenza”, in Lorenzo Spurio, La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi (2012-2015), PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016.

[2] Tutti i numeri della rivista di poesia e critica letteraria Euterpe possono essere letti e scaricati liberamente in formato pdf cliccando qui: https://associazioneeuterpe.com/leggi-i-numeri-della-rivista/

[3] Non a caso come ha rivelato in un’intervista da me fatta alcuni anni fa il libro da lui maggiormente amato è Fosca di Igino Ugo Tarchetti da lui descritto in questi termini: “È un libro della Scapigliatura lombarda. E parla dell’amore per il brutto, per ciò che si differenzia da quello che comunemente appare bello. Mi piace soprattutto l’arte della parola dell’autore. La capacità di rendere semplici certi concetti di per sé astrusi. E poi ci ho trovato, nella sua contrapposizione al Romanticismo, all’ultimo Romanticismo piagnucolone del Prati e Aleardi, una forza di reazione letteraria che sa tanto di nuovo. […] Quel libro l’ho letto, la prima volta, assieme alla mia ragazza nei tempi dell’università. Magari in quei tempi tutto poteva apparire affascinante”, in Lorenzo Spurio, La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi (2012-2015), PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016.

[4] Floriano Romboli nella prefazione a I dintorni della vita. Conversazione con Thanatos (2019) scrive: “[Il poeta] concentra l’attenzione sui “dintorni” di determinate, capitali situazioni spirituali, ne focalizza gli aspetti problematici, ne sonda la profondità sentimentale e intellettuale” (7).

[5] Prefazione a Nazario Pardini, L’ultimo respiro dei gerani, Lineacultura, Milano, 1997.

[6] “Cinzia Baldazzi legge I dintorni dell’amore ricordando Catullo di Nazario Pardini, Alla volta di Lèucade, 1 settembre 2019.

[7] Prefazione a Nazario Pardini, Si aggirava nei boschi una fanciulla, ETS, Pisa, 2000.

[8] La poesia che apre il volume, senz’altro una delle più incisive, s’intitola “Doloroso il viaggio”.

[9] Qui si legge: “E il mare è grande,/ immenso quanto te che tieni addosso/ le vite dei mortali./ […] ha inghiottito senza alcuna pena/ le cento e più persone alla ricerca/ di una terra fraterna/ […]/ Ora son li distese in un salone/ le cento bare; fra tante mi ha commosso/ quella in legno bianco di un bambino/ che conosceva il mare dell’estate,/ magari quello azzurro di una fuga” (60-61).

[10] Le citazioni dai Sonetti shakespeariani sono tratti dalla edizione di Garzanti anno 2003.

[11] Sono le stesse parole che la Morte consegna alla “sorella” Moda in Dialogo della Moda e della Morte di Giacomo Leopardi: “Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai”.

[12] Si sarebbe suicidato qualche mese dopo, esattamente il 27 agosto 1950.

[13] Titolo originale “Death be not proud” identificato come Sonetto X.

 

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore. 

Un sito WordPress.com.

Su ↑