Prima che sia giorno devo finire una preghiera pesare le parole una per una e darle in mano a Dio come richiesta altissima
Devo finirla senza nessuna boria con tutta l’umiltà che posso offrire limandola in bellezza come un salmo perché sia già un ascolto
Forse devo includere il mio amore, chi è solo, i viaggi dei bambini chi ha steso i panni al buio e non potrà tornare presto a casa perché l’amore è un’arte che sa spartire il tempo curando in ogni cosa il suo valore
Difficile è comporla e farci entrare tutti senza trascurare chi ha bisogno difficile ignorare quel perdono per chi dopo la guerra ha colto un fiore pensando di curarlo anche domani difficile è dirla di nascosto
sapere che il silenzio è della croce
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
TU, in fuga nel deserto in cerca di riparo e salvezza,
ascolta il lamento che più alto
delle bombe al cielo si leva,
la preghiera di figli viandanti in cerca di pace.
MADRE, che della CROCE il dolore hai vissuto,
delle croci di guerre raccogli le schegge che
le ossa han trafitto,
TU, nuova Arca dell’Alleanza,
sull’altare sacrificale a GESÙ CROCIFISSO, offrile,
in frammenti iridati, tramutali,
nel preziosissimo tabernacolo del
TUO cuore, serrale,
in CORPO di CRISTO, trasformale.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Quando ho conosciuto per la prima volta la poesia di Alfredo Pérez Alencart, ne sono rimasto letteralmente affascinato al punto da viverla come una autentica boccata d’aria: quel viaggio impossibile durante il periodo del lockdown pandemico che i suoi versi invece consentivano di fare con altri strumenti e altri sguardi. Non saprei dire se quel fascino da cui fui catturato dipendesse dal fatto che, avendo trascorso circa un decennio in America Latina, fossi rimasto immediatamente folgorato da quegli elementi che inevitabilmente e fascinosamente affiorano nei suoi versi da quella parte del mondo e tornano in modo costante a declinarsi nelle mille sfumature che a quella cultura rimandano: penso di getto a Presagios e a Luciérnagas così come a Trocha o alla straordinaria Perù o, ancora, più in generale alla raccolta Selva que cabes en el tamaño de mi corazón e alle tante altre liriche e sillogi che ho avuto modo di sfogliare.
Il punto, tuttavia, non è tanto identificare quegli elementi ed isolarli. Non è esercizio utile dal momento che i profumi, i sapori e le sfumature delle albe latine, i giochi di luce, i disegni delle ombre lunghe e lo sguardo ai cieli di quella parte del mondo è facile trovarli un po’ dovunque nella sua poesia. Perfino quando Alfredo prova a disegnare i contorni dell’anima ne vengono fuori suoni e immagini che rimandano a una antica danza rituale – celebrativa, propiziatoria o funebre che sia – delle lande amazzoniche dove anche chi non vi ha mai messo piede riesce ad addentrarsi, guidato da questa sua intima essenza «con un piede su entrambe le rive dell’Atlantico» (Carlos Aganzo); attraverso un ponte di corda: magnifica immagine che José Manuel Suarez utilizza nel suo saggio, presente in apertura del volume. In realtà l’immagine è quella di una «scala» dove, attraverso il verso breve, folgorante e intenso, «come fosse fatto d’aria», il poeta consente che «saliamo e scendiamo, torniamo indietro per recuperarne il senso o ci fermiamo un momento per osservare, per ascoltare. Poggiamo il piede sulla corda e continuiamo», perché «così è una scala di corda: solo filo». Che sia una scala o un ponte, ciò che conta, oltre al fatto che sia solo fatta di corda (e proprio per questo), è esattamente l’avventura di quel percorso da parte di chi lo compie e, soprattutto, il fatto che dall’altra parte del ponte c’è il territorio nel quale il poeta ci invita a sostare e dall’altro capo della scala il vero e proprio orizzonte del panorama dell’anima che Alfredo dipinge con tutte le sfumature dei colori che conosce e possiede, indicando la luce la cui percezione è nulla senza un’ombra che ne testimoni l’essenza: quell’immancabile «profilo adombrato che dà profondità» a tutto il resto.
Un panorama variegato e ricco, come testimoniano i diversi saggi inclusi in questa raccolta, ciascuno dei quali coglie sfumature e nuances come tasselli di un puzzle, come segmenti di un disegno da ricostituire secondo l’ottica e il pensiero del poeta o, com’è giusto che sia quando si ha a che fare con la poesia, secondo la percezione del lettore che finisce per ricostituire un’ottica nuova, talvolta inedita, pur sempre con assoluto diritto di cittadinanza. Perché, si sa, quando il poeta ha scritto, ha anche consegnato ogni parola, ogni significante e ogni significato, all’anima del lettore. Il quale entrerà nel giardino panoramico di Alfredo ma affronterà quel percorso con le sue “scarpe”, la sua bussola e secondo i suoi propri riferimenti cardinali. Ed è proprio questo che rende ecumenica la poesia; è questo che rende il nostro poeta «una voce universale di un uomo ispano-peruviano» (Sandra Beatriz Ludeña).
Così, tra le sfumature dell’arte del Nostro prendono parte tanto i pastelli delicati quanto i colori a tinte forti declinati anche attraverso quella scelta dialogica che trascina il lettore all’interno della realtà e del vissuto del poeta. A giusta ragione Jeanette L. Clariond sottolinea la presenza del “tu” nella poesia di Alfredo: un “tu” al quale imprescindibilmente va legata la figura della sua princesa, come sottolineo nel mio epilogo, ma che si arricchisce anche di slarghi di vedute che trasformano quel “tu” in un veicolo di superamento della realtà stessa fino a farsi perfino il «Tu che sta nell’alto» al quale viene consegnata la didascalia di un umanissimo afflato verso l’alto che supera i confini del credo fideistico e dogmatico e diviene tendenza all’Assoluto, tutta umana, al di là di ogni confine, fosse anche quello spirituale, al di là di ogni religione in quanto tale. È così che «il suo cristianesimo (…) non è neppure esente da un misticismo erotico», tutt’altro! Perché tutto è incluso nel disegno panoramico dell’esperienza di vita del poeta. È una fusione esperienziale che non tralascia alcuna dimensione e che, al contrario, le fonde mirabilmente: non è un caso che il titolo di questa raccolta sia proprio La carne y el espiritu e, una fra tante, si legga l’intera poesia Creación e in particolare la sua chiusa che così recita: «Ti insalivo, / donna, / ti impasto a me», mirabile sintesi in una declinazione erotica con un evidente richiamo all’atto stesso della Genesi biblica.
Così anche Leocádia Regalo che rafforza questa presenza “metareligiosa” (perché tanto al di là della corporeità terrena quanto al di là della solitudine spirituale) sottolineando la presenza di «un “io” e un “tu” che si compenetrano in una assunzione della poesia a conoscenza del mondo e di se stesso». Un «misticismo erotico – come sottolinea Fermin Herrero – la cui fonte potrebbe ben essere identificata nel Cantico dei Cantici, che innerva e tende l’espressione». Così, stagliandosi la parola come oggetto assoluto della poesia, attraverso essa il poeta «invita ad addentrarci nella profondità delle perplessità condivise» attraverso una lettura che necessita di un suo tempo per essere “sbrogliata”, goduta e fatta propria da ciascuno.
Guardare alla realtà dall’alto di un sistema di valori spirituali che non restano fermi nell’iperuranio inutile della contemplazione ma si calano profondamente nella traduzione esperienziale del vissuto, è la cifra ermeneutica di Alencart che, attraverso questa architettura, riesce a conferire ai suoi versi quel valore universale che fa guardare a Asunción Escribano alla «cecità física come símbolo della cecità morale». Allegoria e metafora, certo, che nell’ossimoro letterario che unisce l’immagine del sole e della cecità non si traduce in una contraddizione quanto piuttosto nella «incapacità razionale dell’uomo di captare l’unità e la realtà» che solo all’interno della poesia può trovare l’esatta coniugazione, irrazionale eppure inconfutabile, del vissuto esperienziale che la metafora stessa disvela. «Ebbene, ogni poesia di questo libro merita un riconoscimento che ci riempie di mistica speranza in mezzo alle tragedie quotidiane» (Juan Mares).
In questo continuo andirivieni dell’indagine umana che si consuma in questa poesia, i capisaldi restano evidentemente fermi né si può tacere l’apporto e la continua “religiosa” comunione con i classici («il maggior premio a cui può arrivare qualunque poeta degno di esserlo davvero») della tradizione iberica, ispano-americana, latina e perfino italiana (si veda in proposito lo studio di Yordan Arroyo qui incluso), metro e misura di una evoluzione poetica che porta il verso di Alencart a cercare e trovare la sua sintesi migliore in una contrazione strutturale tutta finalizzata all’esaltazione del contenuto evocato da quella struttura. Juan Suárez Proaño scrive di «una brevità nata della ripulitura della lingua, una lingua tutta sua che in questa silloge finisce per emulare il bagliore» e gli fa eco Victor Coral sottolineando «la sua voce riuscita e personalissima.
La dinamica dei sensi che mette in gioco con parole semplici e profonde è la vera comunicazione». E direi anche comunione. Una evoluzione anche stilistica, dalla descrizione all’evocazione che, attraverso la Parola (si ricordi che è il verbo il protagonista del fiat lux della Genesi), rende compiuto e rotondo l’atto della poiesis nella quale meglio collocare anche la funzione e il compito del lettore («l’intensità della sua parola, (…) si costituisce in un sole salvifico per tanta vita odierna preda dell’oscurità», José LuisOchoa); lettore che ad essa si accosta e che di questo tempo, insieme al poeta, è l’uomo, il protagonista assoluto. Destinatario e quasi compartecipe dell’atto creativo. Un «confronto su due livelli con l’essere in se stesso e per se stesso» (José Carlos de Nóbrega). El sol de los ciegos, rende visibile il percorso strutturale che, attraverso un finissimo labor limæ, conquista “artigianalmente” un senso della misura interamente riprodotto e tradotto nelle architetture lessicali e liriche del verso («Un dettato misurato che rende cristallino in modo intenso, radioso, il legame della memoria, l’immaginazione e cerca di recuperare ciò che è stato cancellato dal tempo», Gerardo Rodriguez) e così sintetizza in sé «una poetica che incanala la trasmissione di ciò che avverrà lungo tutta la silloge, come un perfetto avvertimento della finalità e del senso profondo della poesia e dei suoi percorsi attraverso l’anima umana» (José Maria Muñoz).
Parola poetica e realtà esperienziale trovano così il punto di congiunzione definitivo nell’elaborazione della poetica di Alencart giacché – come sottolinea David Cortéz Cabán – «Se al principio la poesia era l’origine delle cose, ora influenzerà anche la percezione del mondo fisico e spirituale» e così «la parola poetica, in nome proprio, ribattezza col fuoco l’universo» (Amarú Vanegas).
Bene dunque ha fatto Alfredo Pérez Alencart a voler organizzare un percorso lirico selezionato all’interno de El sol de los ciegos, ponendo evidentemente gli accenti giusti, illuminando e lasciando in ombra le zone più appropriate perché dall’alto contrasto – non a caso – di luce e ombra, di chiari e scuri, meglio risultassero definiti e comprensibili (per quanto la poesia, quella vera, lo consenta) dettagli, livelli e chiavi di lettura che danno un senso compiuto alla sua poetica e al contenuto generale da essa veicolato. «La luce acceca, non scopre forme, le nasconde mentre l’ombra, l’oscurità diventa perseveranza nella ricerca dei significati» (Alberto Hernández). Così Alfredo unisce a filo doppio il senso dell’esperienza e l’impatto della percezione, il valore del passato, la consistenza del presente e la speranza del futuro, la forza della ragione e l’intensità della passione in un gioco di contrasti solo apparentemente ossimorico e che, soprattutto, non chiede affatto di essere risolto quanto forse di essere vissuto per quello che è giacché il mondo interiore di Alfredo è «un mondo senza frontiere, – come scrive Esmeralda Sánchez Martín – un universo aperto che oltrepassa i limiti del tempo e dello spazio. Carne e spirito, dolore e placidità, desideri e realtà, passato, presente e futuro, virtù e difetti, accettazione e sforzo… i versi di A.P.A. si muovono nel chiaroscuro e nel contrappunto dell’esistenza». È così che il panorama dell’anima di Alfredo non chiede affatto che si risolva una contraddizione, che sia sciolto un dilemma, che sia appianato un contrasto, che sia uniformata una diversità: tutto – e il verso poetico ne è lo strumento divino – è «come fiore, come spina, come speranza» (Anibal Fernando Bonilla) e quel panorama è fatto anche di carne; di percezione del dolore, di sensorialità della felicità; prevede e contempla una coesistenza esaltante dell’umana essenza generata e disegnata dal confine sul quale luce e ombra si sfiorano, vissuto e vivibile si incontrano, carne e spirito si abbracciano, ben al di là di una “semplice” guerra fra Bene e Male quanto piuttosto nella piena consapevolezza che «il poeta non può separarsi dalla propria condizione di essere umano, non può allontanarsi dal vero cammino, dallo splendore della parola come unico strumento di trasformazione del mondo» (José Antonio Santano).
Ed ecco compiuto l’atto creativo. E rivoluzionario. Ecco la poiesis! Un panorama che vada al di là dell’orizzonte fisico attraverso uno sguardo allegorico a palpebre strette: «Come fare – si domanda Sixto Sarmiento – per aprire gli occhi e alzare lo sguardo se in quel preciso istante l’orizzonte svanisce?». C’è bisogno di un altro sguardo, di occhi nuovi che non contemplino l’osservazione com’è comunemente concepita: «lo sguardo capace di vedere oltre i domani». E di un nuovo atto generatore che, attraverso la parola stutturi e ristrutturi «la poesia come costume di vita» (Harold Halva).
Ognuno di questi saggi è un nuovo passo, un’ulteriore conquista, una nuova acquisizione, un nuovo punto segnato dall’ago di una bussola ermeneutica, una nuova trocha che taglia il cammino secondo sentieri inediti ma, se si alza lo sguardo e si mira all’orizzonte, quel cielo è lo stesso per tutti; quel panorama e ciò a cui tutti finiscono per guardare. Ed è il panorama dell’anima, la meno terrena caratteristica dell’umanissima realtà, che Alfredo cesella finemente, parola per parola, lungo un percorso esteso di produzione lirica nel quale è ben visibile come l’artista concentri e concretizzi l’attenzione sempre più sulla Parola, sulla tessera singola di quel mosaico che va costituendo con pazienza certosina e forza comunicativa sempre più intensa e concentrata. Ma è nella distanza che al lettore è offerto il miglior godimento di percezione: che siano passi indietro o in avanti, è il lettore, attraverso questi saggi, a scegliere quanto avvicinarsi o distanziarsi nella contemplazione e nell’osservazione alencartiana. Un mosaico può essere goduto davvero e per intero quando «noi possiamo vederlo ma solo a una certa distanza» perché solo nella distanza può essere abbracciato tutto. «Ecco perché i termini chiave sono radicati nella problematica dello sguardo».
Così, per converso, la contemplazione del dettaglio, diventa esercizio di maestria da godere su un livello diverso e a più livelli e ciascuno di questi saggi offre la possibilità di fermarsi a riflettere, leggere, interpretare e godere di tessere che hanno la loro esatta posizione, colore, dimensione e intaglio dentro il disegno generale. E questo si propone – senza la pretesa di risolverlo tutto – questa raccolta di saggi: offrire insieme uno sguardo sul panorama dell’anima, sulla mappa emozionale che è parte fondante del disegno generale della poetica di Alfredo Pérez Alencart.
E allora: «Entrino, entrino con me in questo tratturo, / […] / Vi invito dentro un percorso arricchito / dal distillare delle reminiscenze».
[1] Grazie al consenso del curatore Vito Davoli e del poeta Alfredo Pérez Alencart, oggetto di questo studio, pubblichiamo in anteprima, la prefazione alla raccolta La carne y el espíritu (Trilce Ediciones, Salamanca 2023), una collettanea letteraria in lingua castigliana che raccoglie ben 24 saggi, intervallati dalle opere pittoriche dell’artista Miguel Elias (intervenuto anche in copertina), quali contributi di intellettuali, accademici, poeti e letterati provenienti da tutto il mondo ibero-americano a proposito dell’ultima silloge del poeta ispano-americano dal titolo El sol de los ciegos, (Vaso Roto 2021) interamente curata dal critico pugliese. Il volume in spagnolo include i contributi di José Manuel Suárez, Asunción Escribano, Fermín Herrero, José María Muñoz Quirós, Esmeralda Sánchez Martín, Carlos Aganzo, José Antonio Santano (Spagna), Jeannette L. Clariond, Gerardo Rodríguez (Messico), Leocádia Regalo (Portogallo), Yordan Arroyo (Costa Rica), Juan Mares (Colombia), José Luis Ochoa, José Carlos De Nóbrega, Amarú Vanegas, Alberto Hernández (Venezuela), David Cortés Cabán (Porto Rico), Juan Suárez Proaño, Sandra Beatriz Ludeña, Aníbal Fernando Bonilla (Ecuador), Víctor Coral, Sixto Sarmiento, Harold Alva (Perù) e Vito Davoli (Italia). Anteprima giacché il testo, già edito in Spagna nello scorso giugno, vedrà la luce anche nella versione tradotta in italiano dallo stesso Vito Davoli, per il nuovo anno 2024. Di seguito la prefazione in italiano del critico pugliese che ha contribuito anche con un suo proprio saggio in postfazione. Edizione originale spagnola: AA.VV., LA CARNE Y EL ESPÍRITU: Aproximaciones a “El sol de los ciegos” de Alfredo Pérez Alencart, Trilce Ediciones, Salamanca, España 2023, ISBN: 979-8398610628
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Mihai Eminescu è una delle figure più interessanti della poesia europea dell’Ottocento. Intanto la sua vita: un crogiolo di avvenimenti, a cominciare dalla famiglia numerosa. Era il settimo di undici fratelli, uno dei quali si suicidò, una sorellina di pochi anni, Hanrieta, fu colpita dalla paralisi e gli altri morirono quasi tutti di tubercolosi. Un’infanzia così orribile, così piena di disgrazie e di dolore produsse in lui lo sfacelo psichico e non bastò la dolcezza della natura dove trascorse i primi anni (a Ipotesti, Botosani) a ripararlo dalla strazio che lo investì con ferocia inaudita. Rimase spesso gelido, lontano dagli accadimenti altrui, assente, fermentando nel suo animo furori contraddittori, fantasmi sconci e osceni che soltanto la Natura poteva curare con la sua innocenza. Aveva otto anni quando fu mandato a studiare a Cernauti, nella Bucovina dove si parlava tedesco. Non gli piaceva trascorrere le giornate a studiare, ma ebbe la fortuna di avere come professore Aron Pùmnul che, come scrive Gino Lupi, “amò fortemente e gli rivelò l’intima unione esistente fra la nazione e la lingua”. Ma non abbiamo notizie precise su questo periodo, solo ipotesi e intuizioni, con una certezza, fu sempre irregolare, inseguì un suo sogno di cui non dette ragioni e spiegazioni, neppure al padre che, a più riprese, cercò di riportarlo agli studi.
I primi versi li scrisse in morte del professor Pùmnul e furono pubblicati nel 1866 sulla rivista “Familia”. Aveva poco più di sedici anni e forse per questo motivo il direttore della rivista, Iosìf Vulcàn, l’accetto con entusiasmo, ma anche perché intravide nella filigrana dei versi qualcosa che lo spinse ad avallarlo. All’epoca Mihai firmava col cognome Eminovici e fu il redattore, non amava ciò che sapeva di slavo, che arbitrariamente lo cambiò in Eminescu. Al giovanotto piacque e da allora lo adottò per sempre.
A guardare la brevità della sua esistenza, muore a soli trentanove anni, si stenta a credere che egli abbia viaggiato tanto e scritto tanto, viaggiato anche da solo, come Dino Campana, per conoscere il mondo contadino della Romania, per sentirsi libero. Dino Campana addirittura per raggiungere Firenze da Marradi, si avviava a piedi, e non è escluso che anche Mihai non abbia fatto lunghe scarpinate; atteggiamento tipico di chi è portatore di malattie nervose. Si tratta di pure coincidenze, ma vedo negli studi disordinati di Eminescu anche un modo simile a quello di Ovidio, la stessa avidità di conoscenza del poeta latino, il variare degli interessi, un eclettismo molto selettivo e ricco di interessi che non trascuravano le scienze e la filosofia, il rapporto con la vita: disordinato, caotico, intenso; con l’amore: irto, fatale, ciclico; con la morte, con gli studi, con la politica, con l’ambiente, soprattutto con la lingua rumena che voleva sentire viva e palpitante nei suoi versi, voce del popolo, ma anche congiunzione di un ideale che doveva racchiudere la sintesi di una intensità che non trascurava la cultura in senso lato. Si noti che quando si iscrisse all’Universtà nell’anno 1871-1872, seguì contemporaneamente i corsi di economia, di lingua rumena, di anatomia, di diritto, di fisiologia, di medicina legale e i corsi di analisi dedicati a Spinoza, Leibniz e Descartes.
A dominare la vita del poeta è l’inquietudine che lo spinge a cercare il senso segreto delle cose, con la convinzione che comunque la letteratura abbia anche una funzione pedagogica che educa gli animi a un’etica sempre corroborata dall’estetica e senza che l’una limiti l’altra o la renda ancella. Un equilibrio così potente è sempre difficile che regga, eppure in Eminescu non solo trova spazio e ragioni, ma dura e diventa la forza di un modo di intendere la vita nel suo farsi quotidiano. Giustamente alcuni critici sostengono che Eminescu poeta non lo si possa intendere e godere nella sua portata se non si conoscono i suoi scritti giornalistici (nei sette anni in cui lavorerà come redattore alla rivista ”Timpul” pubblica oltre trecento articoli in cui affronta i problemi più scottanti e più urgenti del suo tempo) ma altrettanto giustamente io dico che la poesia di Eminescu offre, anche al lettore che per caso ci si imbatte, molte emozioni, molte frenesie e molte possibilità di entrare in armonia con l’universo al di là dei fattori contingenti che qua e là affiorano.
Quando dico entrare in armonia con l’universo non intendo il luogo comune che pretende di unificare soggettivismo e universalismo, ma naturale realizzazione di qualcosa che non appartiene più alla realtà, perché è entrata nella dimensione della musica, del sogno, di un universalismo ideale che comprende in un unico fiato il senso della vita e dell’amore. Eminescu aveva una capacità fenomenale di “sentire” la forza dei poeti, basti pensare all’incontro avuto con la poesia di Aleksandr Sergeevič Puškin che lo travolse e che gli fece quasi imparare il russo in pochi giorni. La sua psiche però “ragionava” secondo le accensioni di interessi che scantonavano alla ricerca di un qualcosa di definitivo che egli aveva intravisto e non riusciva ad acciuffare facendo accrescere in lui la curiosità della conoscenza, proprio con atteggiamento dantesco. L’aveva colto molto bene Mario Luzi che scrisse: “Per necessità naturale e per situazione geopolitica vissuta, Eminescu ha fatto ciò che nel secolo successivo al suo e anche oggi si tenta di fare per convinzione o per calcolo: una letteratura senza frontiere tra germanesimo e retaggio latino, tra Oriente e Occidente. Con questo respiro vivo, grande, spontaneo e conscio Eminescu ha dato freschezza e vigore al profondo desiderio romantico; e ha dato anche drammatica perspicuità all’accento della sua sconfitta, senza per questo compromettere o diminuire la sua energia creativa”. E tutto questo senza mai entrare nella scia di quel maledettismo che in Francia, e non solo, ruppe gli argini e immerse la poesia spesso in un fuoco di significati esoterici ed eterogenei che crearono molta confusione e affermarono il concetto del disordine come espressione poetica di somma libertà.
Le avanguardie molto spesso aprono strade nuove e svecchiano, ma qualche volta fanno anche parecchi danni quando pretendono di sradicare gli alberi d’una foresta e senza ripiantarne uno solo. Eminescu aveva dalla sua le ragioni linguistiche che lo aiutarono a restare fermo nelle forme classicheggianti, anche quando il canto delle sue liriche prense l’aire o quando la musica dei versi si snodò in vibrazioni stridenti. In lui poeta c’era la necessità di saldare le scissioni interiori che lo dilaniavano e lo sbattevano in venti contrari, tanto è vero che il suo peregrinare ne è testimonianza pura, a cominciare dal fare il suggeritore di teatro, lo scrivano, lo studente distratto e svogliato. Ho l’impressione che la sua vita fu guidata da intermittenze allucinatorie che lo sbattevano tra inferno e paradiso, tra momenti in cui sembrava di avere trovato l’equilibrio e la sintesi delle sue ansie e lo sfaldamento di tutto, lo scendere verso le cateratte oscure di un inferno che apriva orizzonti sconcertanti, chimere che svaporavano nell’assurdo, soluzioni che non erano mai pause vere e proprie, ma appena singhiozzi di mortificazione per non essere riuscito a saldare la sua necessità di saldare il cerchio.
Il poeta romantico rumeno Mihai Eminescu (1850-1889)
Leggendo le sue poesie si ha la sensazione di attraversare una strada infinita senza strisce che guidino e senza muretti laterali; di trovarsi allo scoperto mentre in cielo l’azzurro si appallottola per nascondersi al viandante. E il viandante è sempre lui, Mihail, che a volte perde il senso della direzione e si nasconde nel guscio vuoto di sensazioni clamorosamente effimere, frantumate da singhiozzi di un vento infernale che non smette mai di spirare. Ogni situazione poetica che Eminescu affronta nasce da un suo dubbio, da una riflessione più che da uno scatto lirico; poi avviene il mutamento e la scommessa di fermare in immagini il riverbero, sempre però tenendo a freno l’anima, quasi che temesse di essere frainteso, offeso, colto nel momento in cui le considerazioni potrebbero cadere nell’aura del senso di colpa, addebitando alla sua persona i mali del mondo, le cadute a picco nell’impotenza e nell’adesione perfetta alle cose e al sentimento.
Anche nelle poesie d’amore più accese si avverte una sorta di timore ad abbandonarsi totalmente (è casuale che una delle parole più ricorrenti nella produzione di Eminescu sia marmo?) e così il suo romanticismo si veste di classicità, diventa misura che contempera accenti precisi cadenzati dalle forme metriche tradizionali come il sonetto, la ballata, le quartine utilizzando spesso anche la rima baciata.
Alla fine degli anni ottanta, epoca in cui ho frequentato spesso Firenze, ho avuto l’occasione di parlare spesso con Sauro Albisani di Mihai Eminescu. Volevo capire in che cosa consiste il suo fascino e la sua forza, la bellezza della sua poesia che non si lascia mai andare a uno straripamento, neanche ne L’astro Lucifero, neanche quando il suo cuore bolle e non riesce ad estenuare la possanza del sentire i rintocchi e le accensioni del suo animo. In lui persiste e resiste la misura, che non è tutta edulcorata dal riverbero classico greco e latino. Egli ha trovato un suo modo pudico di entrare nelle valenze umane e spirituali e ne ha fatto un rivolo di luce che irrora la parola e la porta a compiere quasi un dovere espressivo che deve racchiudere, saper racchiudere il senso apparente e ciò che vive anche dietro l’apparenza, perfino ciò che sfuma verso l’alto e diventa essenza del sogno.
– Oh, sei bello come solo in sogno
Un angelo si affaccia,
Però mai ti seguirò
Sulla via che mi mostri:
Straniero nelle parole e nel costume,
Risplendi senza vita,
Ché io son viva, tu sei morto,
E l’occhio tuo m’agghiaccia”.
Quanto al riferimento che alcuni critici hanno fatto a Giacomo Leopardi personalmente non vi ho trovato riscontri. Sì, sono morti tutti e due a Trentanove anni, hanno vissuto una breve esistenza studiando in modo “matto e disperato”, ma Leopardi chiuso nel suo borgo e Eminescu vagando, cercando se stesso:
“Chiedere un segno, amore, per non dimenticarti?
Ti chiederei soltanto te, ma non sei più tua;”
(Separazione)
Una delle cifre più umane e poetiche di Eminescu è proprio dentro la sua inquietudine. Ho citato prima Dino Campana, ma non escluderei Nazim Hikmet e soprattutto… ma si tratta di affinità che vagano e che comunque arrivano dopo la sua presenza. Sarà stato anche il suo seme che si è sparso con il passare del tempo forgiando il nettare di altri poeti, favorendo il loro lievito? Non è escluso, ma a noi oggi preme accertare in che cosa consiste la grandezza di Mihail Eminescu, al di là delle connessioni che può avere avuto prima e dopo. La sua poesia ha il sapore pieno della vita, una intensità espressiva rara che rasenta, per fare una citazione tutta italiana, quella di Giosuè Carducci, una verticalità spirituale e linguistica che riesce a raggiungere esiti efficaci e spesso decisi in sono tessuti i fermenti di una “visione” che non si ferma soltanto alla poesia, ma va oltre, per affermare una identità attraverso il linguaggio mai approssimativo, mai giocato sulle ambiguità o sulla marginalità. Egli è davvero il testimone di un Paese che finalmente si ritrova dentro una coralità e dentro una emotività che da una parte vuole svincolarsi dal peso quasi irremovibile della latinità e dell’altra vuole affermare con decisione
“Sì, nascerò dal peccato,
Ricevendo un’altra legge;
All’eternità sono legato,
Ma voglio essere liberato”,
(L’astro Lucifero).
Insomma, il suo progetto romantico si svela e si adegua ai canoni per rifiutarli e addirittura romperli, in modo che la sua caduta nel baratro dell’angoscia e della follia diventi seme necessario, cito ancora Mario Luzi, “la sua energia creativa”. Una energia che ha qualcosa di infernale e di caduco e che tuttavia è stata “capace di annullare e di trascendere il dato autobiografico per elevarsi a ricerca di valori universali”, come sostiene Marina Tudorache.
Sentiamo che cosa dice Eminescu rivolgendosi agli amici critici: “I fiori sono tanti, ma pochi / frutti daranno al mondo; / tutti bussano alla porta della vita, / molti cadono morti. // Scrivere poesie è facile / se non si ha niente da dire, / si mettono in fila parole vuote, / facendo in modo che ultime facciano rima. // Ma se il tuo cuore è infastidito / da forti sofferenze e da grandi passioni, / e la tua mente / ascolta tutte le voci, // e queste voci, come fanno i fiori alla soglia della vita, / bussano alla porta dei tuoi pensieri, / e domandano di entrare nel mondo, / di adornarsi di parole. // Verso i tuoi sentimenti, / verso la tua vita, / dove potrai trovare giudici / dagli occhi gelidi e spiatati? // Ah, in quel caso ti sembrerà / che il cielo si abbatterà sul tuo capo: / e così troverai le parole / per esprimere compiuta la verità? // Oh critici, fiori appassiti / che mai darete frutti- / E’ facile scrivere poesie, / se non si ha niente da dire”.
Scetticismo? O piuttosto fede cieca nella poesia che però non deve cincischiare e occuparsi del fuggitivo, di quel che corre in fretta e si dilegua? La fede di Eminescu è totale eppure non si confessa in pienezza, cerca la via indiretta e l’ironia per affermare il dogma della poesia, la sua totale necessità.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
dal vento per addolcire la sua essenza senz’anima.
Ma ecco rompere la sua impenetrabile
materia linea rossa d’orizzonte laggiù,
nell’amplesso di un sogno d’amore
con il cielo: tramonto che annulla la
sua durezza nell’unione dei confini
e si fa abbraccio d’infinito nella
trasmigrazione delle forme che
da sempre rendono amanti cielo
e terra, fuoco ed acqua ed appare
l’affaccio della bellezza che solo
poesia e colore possono pronunciare.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Nella civiltà umanistico-rinascimentale iniziò un processo di emancipazione femminile in virtù del quale molte donne furono istruite al livello degli uomini. Alcune riuscirono ad acquisire una profonda cultura unita alla volontà di ribellarsi ai pregiudizi misogini che le avevano relegate in una posizione subalterna. L’educazione impartita alle donne era tradizionalmente basata su attività considerate utili da svolgersi nell’obbedienza, nell’abnegazione e nel silenzio. Nonostante questi presupposti poco edificanti, alcune donne provenienti dall’aristocrazia e alla nobiltà minore integrata nelle corti, si riscattarono e divennero poetesse stimate e apprezzate come Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara e molte altre.
Com’era prevedibile, la congerie maschile continuò a nutrire ostilità nei confronti di quelle donne che, tramite la scrittura, vagheggiavano di mostrare la loro anima e il loro mondo interiore abbandonando “l’ago e il fuso” strumenti fin dal medioevo simboli per eccellenza delle occupazioni femminili. Altre non ebbero la possibilità di farsi conoscere o furono giudicate devianti. Chi era disposto ad accettarne l’istruzione o la produzione letteraria nutriva il pregiudizio che si trattasse di creature fuori dal loro ruolo naturale che, nell’immaginario collettivo, era solo quello di vergine o moglie e madre, non certo di scrittrice o intellettuale. Anche la diffusione, soprattutto nelle corti, del petrarchismo e dei cosiddetti “petrarchini”[1], assunsero un ruolo importante, poiché fissarono l’uso di un codice espressivo proprio della convenzione amorosa tipico però di un mondo maschile.
Non tutte le poetesse furono mere imitatrici di Petrarca e si servirono della poesia solo come pratica sociale legata all’ambiente cortigiano, ma seppero rivisitare autonomamente stilemi e codici linguistici preesistenti con la loro spiritualità alimentata dalla cultura e da sentimenti autentici. Un luminoso esempio ci viene offerto da Vittoria Colonna, donna di alto lignaggio, dalla vita morigerata, ricca e fruttuosa, amata dai contemporanei sebbene le sue liriche fossero conosciute solo da un ristretto numero di amici.
Nata nel 1490 da nobili genitori di prestigiose casate, Fabrizio Colonna e Agnese di Montefeltro, ricevette fin dall’infanzia una raffinata educazione che la fece diventare una delle donne più apprezzate del suo secolo. Il suo fu un matrimonio combinato, a sette anni fu infatti promessa ad un coetaneo, Ferdinando D’Avalos, marchese di Pescara, come suggello di un’alleanza tra due potenti famiglie, ma nonostante i presupposti, il matrimonio si sarebbe rivelato felice. Grazie al mecenatismo dei marchesi, il castello di Ischia, loro residenza e sede di un prestigioso cenacolo letterario aperto alla discussione sui problemi della fede, fu un punto di riferimento importante per i più importanti letterati e poeti del periodo, come Jacopo Sannazaro, Cariteo, Galeazzo di Tarsia, Bernardo Tasso.
L’amato marito si allontanò da Ischia nel 1511 per combattere nella lega antifrancese promossa dal papa guerriero Giulio II e cadde prigioniero nel 1512. In quest’occasione Vittoria compose per lui un’epistola in terzine, per esprimere la sua afflizione, che testimonia la sua vocazione letteraria ed è l’unico che abbia scritto prima della morte del marito. Negli anni successivi conobbe altri famosi intellettuali tra i quali Baldassarre Castiglione e Pietro Bembo, ma la sua fama di nobildonna di specchiata virtù, vasta cultura e grande talento ebbe vasta risonanza ovunque.
A Pavia, nel 1525, in uno scontro con l’esercito francese, il marito morì, Vittoria cadde in uno stato di prostrazione. Iniziò a comporre sonetti dedicati a lui caratterizzati dalla cifra del ricordo, in cui lo descrive come un eroe, l’unico “lume”, il suo “sole” e verso di lui incanala tutta la sua sofferenza che diventa uno strumento di elevazione spirituale.
Nel 1525 Ariosto le dedicò un sonetto[2] per consolarla e allo stesso tempo esortarla a temperare il suo dolore con la sua virtù capace di innalzarla fino al cielo insieme con la gloria dello sposo. Anche Baldassarre Castiglione nel 1928 scrisse lusinghiere parole per lei nell’introduzione del Cortegiano.[3] Parimenti la sua fama di poetessa si diffuse rapidamente: nel 1532 Ariosto ne cantò le lodi nell’ultima edizione del Furioso citandola nel canto XXXVII in cui, dopo aver accennato a vari scrittori che encomiarono le donne, coglie l’occasione per tessere elogi per lei e per le rime gentili dedicate alla memoria dell’amato[4]. Vittoria riversò il suo dolore in liriche intrise di sofferenza in cui si avverte il desiderio di morire e di ricongiungersi presto al marito. Un esempio è offerto dal sonetto LXXXII di chiara ascendenza petrarchesca in cui la poetessa esprime il suo dolore al sorgere del mattino che non rappresenta un momento di gioia bensì di tristezza perché le richiama alla mente la sua condizione di solitudine. La sua sorte triste la induce dunque a cercare le tenebre che si identificano con la morte e la conducono al suo “sole”.
Quando ‘l gran lume appar nell’oriente,
Che ‘l negro manto della notte sgombra,
E dalla terra il gelo o la fredd’ombra
Dissolve e scaccia col suo raggio ardente:
De’ primi affanni, ch’avea dolcemente
Il sonno mitigati, allor m’ingombra:
Ond’ogni mio piacer dispiega in ombra,
Quando da ciascun lato ha l’altre spente.
Così mi sforza la nimica sorte
Le tenebre cercar, fuggir la luce,
Odiar la vita e desiar la morte.
Quel che gli altri occhi appanna a’ miei riluce,
Perchè chiudendo lor, s’apron le porte
Alla cagion ch’al mio sol mi conduce,
Il sonetto XXII si può considerare significativo nel passaggio dall’amore terreno a quello spirituale, Vittoria è da tempo rassegnata al fatto che la morte abbia rotto i vincoli materiali che la legavano all’amato, però se i corpi sono ormai sterili, le anime diventano ancora più feconde e più che mai sono avvinte in un connubio molto più produttivo grazie a cui ella diviene madre metaforica di una prole immortale fatta di spirito. La sua poesia che nasceva dal pianto ora si innalza al cielo.
Quando Morte fra noi disciolse il nodo che primo avinse il Ciel, Natura e Amore, tolse agli occhi l’obietto e ’1 cibo al core; l’alme ristrinse in più congiunto modo. Quest’è ’l legame bel ch’io prezzo e lodo, dal qual sol nasce eterna gloria e onore; non può il frutto marcir, né langue il fiore del bel giardino ov’io piangendo godo. Sterili i corpi fur, l’alme feconde; il suo valor qui col mio nome unito mi fan pur madre di sua chiara prole, la qual vive immortal, ed io ne l’onde del pianto son, perch’ei nel Ciel salito, vinse il duol la vittoria ed egli il sole.
Benché la donna, dopo il 1525, avesse trascorso un lungo periodo di volontaria reclusione nel castello di Ischia e avesse desiderato anche di chiudersi in un monastero, nel 1530 il letterato Paolo Giovio[5], da sempre vicino alla marchesa a cui era legato da un intenso amore spirituale, tentò di riportarla sulla scena letteraria. Fu proprio lui il tramite con Pietro Bembo, che nel 1535 incluse un suo sonetto nella seconda edizione delle Rime e gliene dedicò un altro[6].
Iniziò un sodalizio poetico rafforzato da un intenso scambio epistolare. Nonostante la vita ritirata e il dolore, riuscì a conoscere molti intellettuali dell’epoca, ma non solo, si avvicinò infatti a religiosi come Juan de Valdés[7], il frate Bernardino Ochino[8], più volte ascoltato a Roma, a Napoli, poi a Ferrara, infine al cardinale Reginald Pole[9]. Iniziò per Vittoria una mutatio animi grazie ad un percorso religioso e alla conoscenza dei personaggi sopraccitati, esponenti del cosiddetto movimento degli “Spirituali” che avevano come principi cardine l’evangelismo e la rigenerazione interiore, temi a cui la marchesa si avvicinò con interesse. Il suo itinerario spirituale la unì anche al più grande artista dell’epoca, Michelangelo[10], che le dedicò un madrigale nel quale paragonava l’azione della scultura che libera la figura dalla materia all’influenza su di lui dell’amica: la donna riesce a introdursi nell’anima pura e fragile “che pur trema” del poeta nascosta dalla “dura scorza” della carne[11]. Le rivolse anche altre rime[12] in cui dice, per esaltare le doti della donna, che in lei sente parlare un uomo, salvo poi correggersi affermando che attraverso la sua bocca sente parlare un dio. L’artista comprese che sarebbe stato completamente soggiogato dal sentimento ma in realtà fu un amore totalmente incorporeo e mistico associato ad un altro elemento in comune con lei, ovvero l’adesione alla corrente degli “spirituali” e ai loro principi.
In virtù della mutatio animi, i componimenti della poetessa denominati Rime spirituali costituiscono uno spartiacque con gli altri, (come nel Canzoniere di Petrarca le rime in vita e in morte di Laura), ed esprimono l’esigenza della solitudine, di un ripiegamento in se stessa e di una profonda introspezione, ma soprattutto di un colloquio diretto con Dio, di un insopprimibile anelito ascetico frutto di una fede pura e sincera.
Dalla lettura dei sonetti si palesa il travaglio interiore, la ricerca inesausta della consolazione della fede, il superamento e la sublimazione delle passioni terrene che gradualmente vengono soppiantate dall’immersione totale nel divino. Tutto ciò non avviene senza contrasti, il suo è comunque un dissidio interiore come emerge chiaramente dal sonetto CXLIV in cui si rileva un atteggiamento di pentimento e vergogna (che sicuramente la accosta a Petrarca), ma anche la sofferenza e la tensione emotiva della donna che palesa la profondità della sua fede e si congiunge con tutta se stessa alla croce di Cristo trovando in lui l’amore prezioso capace di mutare ansia e timore in speranza e giubilo.
Quand’io riguardo il mio sì grave errore,
Confusa al Padre Eterno il volto indegno
Non ergo allor, ma a te, che sovra il legno
Per noi moristi, volgo il fedel core.
Scudo delle tue piaghe e del tuo amore
Mi fo contra l’antico e novo sdegno,
Tu sei mio vero prezïoso pegno,
Che volgi in speme e gioia, ansia e timore.
Per noi su l’ore estreme umil pregasti,
Dicendo: Io voglio, o Padre, unito in cielo
Chi crede in me, sì ch’or l’alma non teme.
Crede ella e scorge, tua mercè, quel zelo
Del quale ardesti sì, che consumasti
Te stesso in croce e le mie colpe insieme.
In un altro sonetto la poetessa immagina di elevarsi oltre le proprie facoltà sensibili per permettere all’anima di avvicinarsi a Dio, il “vero Sole”. In questo viaggio mistico, simile al trasumanar dantesco, impara l’ineffabile, lontano da tutte le cose terrene e può profondarsi nello splendore di Dio che conosce tutti i suoi dolori. Ė evidente anche la variazione del linguaggio utilizzato: agli echi petrarcheschi e danteschi si unisce, come del resto in tutte le rime spirituali, quello biblico.
Sovra del mio mortal, leggera e sola,
aprendo intorno l’aere spesso e nero,
con l’ali del desio l’alma a quel vero
Sol, che più l’arde ognor, sovente vola,
e là su ne la sua divina scola
impara cose ond’io non temo o spero
che ‘l mondo toglia o doni, e lo stral fero
di morte sprezzo, e ciò che ‘l tempo invola,
chè ‘n me dal chiaro largo e vivo fonte
ov’ei si sazia tal dolcezza stilla
che ‘l mel m’è poi via più ch’assenzio amaro,
e le mie pene a lui noiose e conte
acqueta alor che con un lampo chiaro
di pietade e d’amor tutto sfavilla.
Nonostante la rettitudine morale, la fede sincera e la ricerca continua di religiosità pura, intima e lontana dalla corruzione, Vittoria attirò a sé l’attenzione dell’Inquisizione romana che per anni cercò di raccogliere prove indagando sui suoi rapporti con i valdesi e con Pole. Fortunatamente, nonostante i sospetti e il fatto che il suo nome spesso ricorresse nelle carte dei processi, non venne pubblicamente accusata, in virtù delle amicizie influenti di cui godeva la sua famiglia, non ultima quella del pontefice Paolo III. Cosa più rilevante, che esula da ogni intervento esterno e che la salvò da ogni accusa di eresia, fu la sua reputazione di donna virtuosa, colta e dall’integrità morale ineccepibile. A maggior ragione stupisce che una poetessa di un tale spessore morale, culturale e religioso, a prescindere dal rango di appartenenza, potesse essere infamata dal fanatismo religioso che non aveva nessun diritto di sindacare sulla sua autentica e sofferta fede di cui i sonetti offrono un’eccelsa testimonianza. Una tale ingiustizia si può spiegare soltanto alla luce di atavici preconcetti su donne brillanti capaci di compiere scelte coraggiose e libere.
Bibliografia
Cosentino Paola, Poetesse del Cinquecento, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Letteratura, direzione scientifica di G. Ferroni. Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 2018, pp. 187-192.
Per le biografie: Enciclopedia Treccani online.
Plastina Sandra, “Vittoria Colonna”, in Galleria dell’Accademia Cosentina, Roma Iliesi CNR 2016
Prandi Stefano, “La vita immaginata” vol. 1B, Mondadori, Milano 2019
Rime di tre gentildonne del secolo XVI, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara. Prefazione di Olindo Guerrini, Milano, Edoardo Sonzogno, 1882. Edizione elettronica del 29 aprile 2009.
Salinari Carlo; Ricci Carlo, Storia della letteratura italiana vol.2, Bari, Laterza, 1995
[1] Edizioni in miniatura del Canzoniere di Petrarca e piccoli glossari dei termini più usati dal poeta.
[3] “L’ingegno e la prudentia di quella Signora, la virtù della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina”., Cortegiano.
[4] XVIII Vittoria è ’l nome; e ben conviensi a nata
fra le vittorie, et a chi, o vada o stanzi,
di trofei sempre e di trionfi ornata,
la vittoria abbia seco, o dietro o inanzi.
Questa è un’altra Artemisia, che lodata
fu di pietá verso il suo Mausolo; anzi
tanto maggior, quanto è piú assai bell’opra,
che por sotterra un uom, trarlo di sopra.
[5] Paolo Giovio, storico (1483-1552), fu ospite della poetessa Vittoria Colonna e di Costanza d’Avalos. Rimase affascinato dalla donna «a cui fu legato da un amore celeste, santo e platonicissimo, armonia delle cose più belle», scrive in una lettera nel 1530 al cardinal Bembo.
[6]CXXVI.Alta Colonna e ferma a le tempeste del ciel turbato, a cui chiaro onor fanno leggiadre membra, avolte in nero panno, e pensier santi e ragionar celeste, e rime sì soavi e sì conteste,[…].
[7] Juan Valdés (1500-1542), letterato e teologo spagnolo, esercitò un fascino grandissimo nell’alta società napoletana, nella quale diffuse il suo pensiero di una fede ricondotta alla purezza evangelica Della sua lezione si nutrì Vittoria Colonna e, tramite lei, Michelangelo.
[8] Ochino Bernardino (1487-1564) entrò nell’Ordine dei francescani. Cominciò a tessere una fitta rete di rapporti con il circolo di ‘spirituali’ riunitosi intorno all’esule iberico Juan Valdés.
[9] Reginald Pole (1500-1558), cardinale e arcivescovo cattolico inglese, tra i maggiori protagonisti dell’età della Controriforma. A Viterbo raccolse attorno a sé gli Spirituali reduci del circolo napoletano di cui facevano parte, tra gli altri, Vittoria Colonna, il grande artista Michelangelo, il mistico spagnolo Juan de Valdés.
[10] Michelangelo frequentò Vittoria dal 1538 fino alla morte (1547): con lei scambiava rime, vivendo intensamente la propria esperienza dell’amore platonico. La Colonna lo convinse ad aderire alla dottrina di Valdés. Per lei l’Artista realizzò alla fine del ‘500 diverse opere di cui rimangono i disegni preparatori tra i quali la Pietà per Vittoria Colonna e la Crocifissione.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Il poema a due voci di Giannino Balbis ed Emanuela Mannino, ha un titolo altamente suggestivo: Erotanasie. Deriva dalla fusione di due sostantivi di origine greca: Eros, che significa amore, e Thanatos, che significa morte. Nella prefazione i due autori fanno presente che l’allusione al termine “Eutanasia” è voluta, anche se vaga. Vedremo poi perché. Intanto è immediato il richiamo a Freud e alla teoria da lui esposta nel saggio Al di là del principio di piacere, incentrato sui temi dell’Eros e del Thanatos, ossia sulla “pulsione di vita” e sulla “pulsione di morte” che, pur opposte e contrastanti tra loro, presiedono alle dinamiche comportamentali di tutti gli individui. In questo testo il padre della psicoanalisi moderna si ispira a Empedocle e al conflitto psicologico in termini dualistici, preconizzato dal filosofo greco, tra la forza aggregante della Philia, ossia dell’Amore, e la forza disgregante del Neikos, ossia dell’Odio, che produce distruzione e morte. Per cui, se da una parte Eros ci spinge verso l’Altro, e ci porta a creare con lui un’unità simbiotica, dall’altra Thanatos suscita in noi atteggiamenti respingenti e demolitivi, per cui tendiamo ad allontanarci riducendo in macerie la relazione. Non solo. Per Freud Thanatos, nel suo significato primigenio di morte, esprime anche il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla tomba.
Eros e Thanatos sono la scaturigine degli “aporemi del cuore” di cui parlano Abbagli Insonni e Costanza, i due protagonisti dell’opera. La morte aleggia per tutto il poema: viene individuata come evento tranciante della relazione amorosa che i due personaggi hanno avuto in vita, e da cui è nato un figlio, dal nome emblematico di “Astrolabio”. Emblematico non solo per il suo significato di carpitore di stelle, [da astron, stella, e lab, radice del verbo greco lambano, che significa acchiappare, prendere], indicativo della funzione tutelare della relazione da lui assolta mentre i protagonisti erano in vita: “Astrolabio / piange lontano /[…] ed io / inerme madre / l’abbraccio forte”, scrive Costanza; ma anche per essere il nome proprio del figlio di Abelardo ed Eloisa, passati alla storia per la forza dirompente della loro passione dagli esiti infausti.
Balbis e Mannino, nel loro poema, non solo li citano espressamente, ma continuamente fanno riferimento ad altre figure storiche, che si sono distinte per i loro amori tanto intensi quanto infelici: Isabella di Morra e Diego Sandoval, Susette Gontard e Hoderlin, Giulietta e Romeo, Orfeo ed Euridice, la Baronessa di Carini ed Emily Dickinson, giusto per fare qualche esempio. Tutti amanti che, per ragioni molteplici e diverse, non hanno potuto realizzare sulla terra il loro ideale di amore. La domanda che sembrerebbero allora rivolgere gli autori del poema a sé stessi e al lettore è: se in vita è difficilissimo, se non addirittura impossibile, realizzare un progetto amoroso, dopo la morte sarà possibile?
Il quesito su cui si impernia tutta l’opera è preannunciato nella prefazione scritta dai due poeti. In essa spiegano che i protagonisti dopo la morte raggiungono l’Eterno, e da lì si scrivono in versi. Perché il legame tra i due, non è solo dato dall’Eros che intensamente persiste, seppure come ideale, e dal figlio Astrolabio, “monco di albero padre”; il legame risiede nella Poesia, valore indiscusso grazie al quale il loro amore sopravvive alla morte: “io sposo a te di versi / […] tu sposa mia di rime”, asserisce Abbagli Insonni. Se tutto viene meno, restano in piedi soltanto i versi, che non saranno erosi dal tempo. Sono l’emblema dell’Eterno, limbo del “tutto-nulla” in cui “cerca riposo / – fuggendo immaginando – /” l’infelicità dei due protagonisti.
Abbagli Insonni, nell’incipit del poema, parla di una “nebbia di tempo” che li “avvolge e non dirada.” Scriveva Joe Bousquet: “La morte è la solitudine delle persone amate, / questa nebbia intorno a loro che nessuna / tenera parola può attraversare. / La morte è il dolore e la disperazione / nelle stesse parole che furono l’ebbrezza / della felicità. La morte sono i pianti che / sgorgano ascoltando una / parola che voleva dire amore.”
Leggendo più approfonditamente l’opera, emerge come la morte fisica non abbia che conclamato quella morte spirituale che era stata inferta al rapporto dai due amanti mentre erano in vita. I versi infatti sono pervasi dallo struggimento che i protagonisti provano per non essere stati capaci di difendere il loro amore, e in questo si sentono vicini a tutti gli amanti della storia, accomunati dalla stessa sorte. Scrive Costanza ad Abbagli Insonni: “quanto dolore salmastro / tra gli amanti ignoti / quanta malinconia sparsa / nell’Eterno dei perché recisi dal silenzio.” E in altri versi afferma: “Sì, amato mio, / forse avremmo dovuto lottare / contro i cinici cieli aggrottati / e le comari nuvole accigliate / contro ai venti negri di invidia, / e le lingue nemiche / persino le malelingue amiche.” Abbagli Insonni le fa eco: “È questa allora / la pena degli amanti maledetti, / colpevoli non già d’amarsi a scandalo / dei falsi moralisti, / ma di scoprirsi inetti alla difesa / del proprio santo amore.” È il rimprovero che più frequentemente muovono a sé stessi gli amanti quando elaborano il lutto per la fine del loro amore: “Il mio amore di te non si ama”, annotava Kafka nei suoi diari, citazione quanto mai espressiva di quel Thanatos latente che uccide l’Eros.
L’Eros pervade il poema nella stessa misura in cui lo pervade il Thanatos, e si esplica in due sentimenti fortemente presenti nelle epistole che si scambiano i due protagonisti: il sentimento dell’Assenza, da cui scaturisce il desiderio di rivedersi per insufflare vita in sé stessi e nel loro amore; e quello dell’Attesa, provato nella sua urgenza carnale da Abbagli Insonni, che inizialmente alimenta la speranza di possedere nuovamente la sua amata, mentre Costanza appare subito mistica nel suo dire, e si mostra rassegnata alla definitività del loro addio.
A proposito del tormento inflitto dall’Assenza, scrive Abbagli Insonni: “È questa / la nostra dannazione? / Questa nebbia / che della tua presenza… (sei qui, sento / di te ogni palpito, vedo il tuo corpo / fremere, e le tue labbra aprirsi, / vedo i tuoi occhi ridere, / respiro il tuo profumo) / che della tua presenza / fa disperata assenza?” Sull’Assenza, detta “Erwartung”, in “Frammenti di un discorso amoroso” Roland Barthes scriveva: “Il discorso dell’Assenza è un testo con due ideogrammi: vi sono le braccia levate del Desiderio, e vi sono le braccia tese del Bisogno”. Quello di Abbagli Insonni è l’Hímeros greco, ossia il desiderio pressante della carne; quello di Costanza è il Pothos, ossia il bisogno spirituale dell’amato lontano, misto al senso di dolorosa rassegnazione all’impossibilità di un ricongiungimento. Ragion per cui lei scrive: “Aspettami, senza aspettare – / come s’aspetta il / suggello dell’onda / sull’orme del dipinto desìo / radice di china di mare, dall’Eterno mondo / dei ritorni di Chi / s’è appartenuto / oltre i navigli delle ombre.” E aggiunge: “Va’, amatissimo mio, va’ / lasciami qui / a riprendermi le verità / taciute al mio seno: / donna senz’uomo donna senz’Eterno / donna / in attimi d’Inferno / donna senza – / donna diamante / amante di insondabili vuoti / che nel vuoto / riempie già.”
Si conferma nella morte il senso di solitudine già provato in vita per il mancato appagamento dei propri bisogni. Ed emerge la risposta al quesito circa la possibilità di una realizzazione dell’amore dopo la morte: venendo meno la fisicità, l’amore non potrà essere vissuto concretamente. I due amanti restano lontani. Scrive Abbagli Insonni: “noi, amata mia, / non fummo […] servi del dio Amore ma servitori al mondo / che volle giudicarci… / Per questo ora ci amiamo / separati dal mare / che non fu mai solcato. / E solamente in sogno / possiamo l’uno all’altra ritornare.”
Gli ultimi versi del poema spiegano il richiamo all’eutanasia, anticipato dai poeti nella prefazione. Scrive Costanza: “Leggero appare l’abbandono / e soave il canto di nuovo amore.” L’accettazione dell’impossibilità di riaversi rende dolce la morte del loro amore fisico. Resta eterno l’amore spirituale, che non è che un anelito mistico, intriso del ricordo idealizzato dell’altro. Ragion per cui vale la pena concludere le nostre riflessioni su Erotanasie con i versi di Emily Dickinson, la cui vita è “presa in prestito” dai due amanti come esempio di amore irrealizzato, e che esplicitano il senso essenziale di Erotanasie: “Chi è amato non conosce morte, / perché l’amore è immortalità, / o meglio è sostanza divina. / Chi ama non conosce morte, / perché l’amore fa rinascere la vita / nella divinità.”
Da un punto di vista squisitamente formale, il poema risponde a criteri classici, il lessico è molto elegante e ricercato. Le due parti, quella di Abbagli Insonni e quella di Costanza, sono perfettamente integrate. I versi sono di struggente bellezza e intensità nella resa del dolore per il distacco, e della malinconica accettazione dell’invivibilità dell’amore. Da leggere.
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