Lorenzo Spurio intervista la poetessa Anna Scarpetta
a cura di Lorenzo Spurio
LS: Lei ha all’attivo un vasto numero di sillogi poetiche e in tempi più recenti si è occupata anche della scrittura di poesie religiose. Da quale bisogno nasce la scrittura di una poesia confessionale e quale è la finalità?
AS: Sono lieta di questa domanda che mi viene posta, non senza aver considerato che effettivamente al mio attivo ho prodotto un vasto numero di sillogi poetiche; ciascuna con una tematica differente, l’una dall’altra. I titoli sono: Poesia, (esprimo in questa silloge la bellezza della poesia pura); Frantumi di Tempo, in cui affronto in chiave moderna la sottile precarietà del tempo nella vita esistenziale coi suoi dolori e le sue gioie); L’Altra dimensione della vita, (un’altra silloge in cui la poesia riesce a narrare, in breve, la dimensione di vita vissuta, ovvero, già trascorsa come scorcio di tempo-vissuto); Le voci della memoria, (una silloge in cui racchiudo le voci in un solo afflato, per descrivere meglio un nucleo di memoria rimasta fortemente legata ai ricordi e all’armonia di tante cose vissute e mai credute perdute; in versi ogni cosa descritta, a mio parere, sembra rimanere pura e intatta); Io sono soltanto un granello di sabbia, infine, (in questa silloge il mio intento è stato quello di ringraziare l’Iddio per il dono generoso della parola, profusa in versi, in abbondanza, credo). Difatti, Marzia Carocci, critico recensionista molto conosciuto, in una sua breve, ma significativa, recensione, ha affermato: “Nella poesia “Io sono soltanto un granello di sabbia”, Anna Scarpetta si inginocchia al cospetto del Padre ringraziandolo con umiltà di averle donato la capacità di esprimersi in poesia e avvalorando il fatto che anche un piccolo granello di sabbia in confronto alla vastità di un deserto, può avere un valore inestimabile” (…).
Ebbene, già da qui si può meglio intuire come la scrittura, di Poesie religiose, in maniera costante, sia al centro dei miei reali pensieri. Tuttavia, credo che la poesia nasca, principalmente, da un forte bisogno di aprirsi e scaricare ogni tensione o forte emozione. E’ vero, taluni elementi esenziali, fungono, peraltro, da motore trainante per un poeta o scrittore. Io credo, lo stesso si possa dire anche per gli attori o i registi di teatro. Quali siano le finalità, è chiaro, vanno arricchire un panorama di scrittura infinita, in chiave moderna. Se il lavoro prodotto poi saprà imporsi all’attenzione, sia della critica futura che del pubblico nuovo, ancora meglio. Ogni scrittura, penso, sia nel tempo destinata ad incontrare il suo magico momento fortunato, se piacerà, ovviamente, o se dirà cose nuove e interessanti.
LS: Secondo alcuni la poesia ha una funzione terapeutica; allevia i mali e i tormenti dell’uomo, cioè è una sorta di sofferta confessione con se stessi per cercare di individuare una consolazione o un miglioramento alle proprie condizioni. Per altri, invece, la poesia è inconcepibile se slegata dall’impegno civico, dalla sua vena sociale ossia non può mancare di partire dalla lucida osservazione del mondo per fornire poi un monito, un canto di denuncia o una attestazione di sdegno. Che cosa ne pensa Lei a riguardo? Quale delle due intenzionalità poetiche si sposa meglio al suo far poesia?
AS: La scrittura della poesia aiuta, in effetti, ad aprirsi meglio al mondo reale, vivendo o rievocando la propria sofferenza, i dolori, gli amori, le amicizie perdute e ritrovate. Aggiungerei, anche il caro ricordo dei paesaggi e luoghi, in cui si è vissuto, sono vivi spiragli di luce, cari al cuore e all’anima. Rievocarli, ogni tanto, credo, faccia bene. Tuttavia, la mia poesia, è orientata, in maniera costante, verso la lucida osservazione del mondo che muta notevolmente, coi suoi reali problemi e tante difficoltà sociali, ancora forti. Ebbene, non necessariamente, la poesia sia davvero in grado di tale funzione terapeutica, ovvero, che possa alleviare i mali o i dolori, compresi i tormenti dell’uomo. Sarebbe fin troppo bello, se fosse reale. A mio dire, solo il tempo possiede il vero antidoto cicatrizzante per questi eventi forti; se come supporto non vi è una fede interiore dominante, così speciale e provata, in concreto, non si superano certi eventi o perdite di persone care. Ne so qualcosa!
LS: Per interesse personale e per ascendenza familiare, Lei ha uno strettissimo rapporto con il mondo del teatro. Può rivelarci le motivazioni del suo grande amore verso il palcoscenico e la rappresentazione del testo?
AS: E’ vero, il teatro è sempre stato al centro del mio personale interesse, così forte, fin da ragazza. Un amore che il mio papà ha saputo trasmettermi grazie alla sua costante passione. Un amore che ho voluto approfondire, frequentando, alcuni anni, una Scuola di Recitazione a Napoli, studiando autori importanti: Soflocle (Antigone); Arold Pinter (Il Guardiano), Fernando Pessoa, Eduardo De Filippo (Natale in Casa Cupiello), Luigi Pirandello, e altri, di notevole fama.
LS: Come mai non si è mai cimentata nella scrittura di un testo Teatrale?
AS: Non è assolutamente vero che io non mi sia mai cimentata nella scrittura di un testo teatrale, ho scritto diversi testi teatrali. Alcuni sono andati smarriti durante il mio trasferimento da Napoli a Novara. Altri scritti, invece, li ho recuperati tra le mie numerose carte, anche se poi non sono riuscita a pubblicare in seguito, qualcuno, cosa non facile. Ma ciò non significhi che non ci sia davvero spazio, nel tempo, per decidere. Tuttavia, appena trasferita, a Milano residenza di lavoro, ho avuto la mia opportunità di conoscere persone appassionate di teatro. Insieme abbiamo condiviso un testo ambizioso, dal titolo “Una barchetta di carta sull’acqua” di Ciro Menale. Atto unico, liberamente tratto da Fernando Pessoa. Infatti, siamo riusciti insieme a mettere in scena, al Teatro Litta di Milano, un lavoro armonioso, con la Compagnia Teatrale: I passanti. In qualità di Aiuto Regista, per me fu davvero un’esperienza personale molto gratificante e nuova, davvero forte. Il lavoro fu presentato, il 10 Dicembre 1992, ebbe buoni consensi sia del pubblico che della critica.
LS: Sono innumerevoli le definizioni del concetto di cultura che sono state avanzate nel corso del tempo ed esse variano a seconda del periodo storico, della filosofia di influenza e dei propri convincimenti. In particolare colpisce una definizione del portoghese Fernando Pessoa che, lapalissianamente, sosteneva “Cultura non è leggere molto, né sapere molto: è conoscere molto”. Che cosa ne pensa al riguardo?
AS: Sì, esatto, le definizioni del concetto di cultura sono complesse. A mio dire, anche innumerevoli. Esse variano e spaziano nei loro contenuti e nelle dimensioni concettuali di chi li esterna; risentite, ovviamente, delle forti influenze dei propri convincimenti personali. La mia persuasa riflessione, però, è che la molta conoscenza debba necessariamente camminare assieme alla lettura. Dunque, leggere molto fa bene, nutre la mente e appaga l’animo. Io leggo tanto, e mi piace ancora leggere.
LS: Nel panorama culturale contemporaneo i concorsi letterari fioriscono come campi a primavera, molti di essi curano una edizione del premio e poi l’anno dopo scompare perché magari viene a mancare una concreta organizzazione dell’ente che lo istituiva o i fondi per poterlo tenere in piedi. Quale è il suo giudizio personale sui concorsi letterali?
AS: Ebbene, è pur sempre meglio, orientativamente, per un poeta o per uno scrittore misurarsi con gli altri, accettando un giudizio critico di una giuria che lo ha analizzato o valutato. Non può che essere un bene per il suo percorso iniziale o anche in seguito. A mio dire, occorrono, purtroppo, giudizi di esperti e di professionisti critici seri, se si vuole davvero porsi, umilmente, dinanzi a tale passione così intensa e seria. E, la crescita, può avvenire solo se esperti in giudizi critici sapranno valutare, i lavori, serenamente. Altre possibili strade, per chi scrive e produce lavori di buona scrittura, non ne conosco. E’ ovvio, poi, bisognerà scegliere bene determinate strade e i vari concorsi seri, per non inciampare in talune strade che davvero potrebbero rivelarsi false, senza un nulla di fatto, in concreto.
Tuttavia, credo, che i concorsi letterari siano fondamentali per chi intende, poi, proseguire e approfondire questo straordinario percorso culturale. In passato, ma ancora oggi, a dire il vero, mi sono sempre cimentata in concorsi seri e professionali, ancora esistenti, per fortuna. Io bado molto ai nomi dei giurati, ci tengo molto che siano conosciuti e professionisti. Forse, per questo il mio percorso culturale prosegue la sua corsa; oramai, da sola, in un panorama assai vasto, dove è facile perdersi e non sapere più dove andare o come proseguire.
Invero, grazie ai vari concorsi letterari rinomati ed efficienti, in effetti, sono stata, moltissime volte, premiata in Poesia e Narrativa.
LS: La letteratura in dialetto ha vissuto di alti e bassi nel corso della storia e la questione dell’importanza dell’espressione in dialetto negli ultimi decenni è stata avanzata e posta soprattutto da sociologi, demoetnoantropologi e cattedratici che si occupano di linguistica. Alcuni scrittori che hanno impiegato il dialetto (Trilussa, Belli) sono parte integrante della letteratura italiana e sbaglierebbero di grosso coloro che negassero tale realtà. Una delle motivazioni che viene portata dai dilettanti contemporanei o dagli amanti del dialetto in sua difesa è che il dialetto, in quanto lingua madre (si impara prima della lingua standardizzata dell’italiano) è più diretta ed efficace perché oltre a comunicare un messaggio è capace di trasmettere un’emozione, l’enfasi del parlante, il sentimento in maniera genuina. Che cosa ne pensa di ciò e del dialetto in generale? Ha mai scritto nulla in dialetto?
AS: Sì, il mio amore per il vernacolo è risaputo. In effetti scrivo in dialetto, mi piace parlare correttamente e scriverlo anche. Ho letto e leggo taluni autori famosi che hanno scritto in vernacolo: Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, De Curtis in arte Totò, Eduardo De Filippo, Giovanni De Caro, Renato De Falco ed altri. In futuro, credo, di voler realizzare un libro in vernacolo, su concetti ben definiti. E’ risaputo che il proprio dialetto, come quello di Trilussa e Belli siano stati dialetti di una grande cultura sociale e ambientale. Ma, parlando, del vernacolo, anch’esso, non di meno, possiede in realtà delle forti sfumature espressive; specie, nella pronuncia, con l’uso corrente di vocaboli e parole veraci, direi, straordinarie, che sanno trasmettere, sin da subito, intense emozioni, così belle, calorose, davvero, irripetibili nell’altra lingua, in italiano.
LS: Se le nominassi Pier Paolo Pasolini, Sandro Penna e Antonia Pozzi, tre grandi poeti del secolo scorso, quale sceglierebbe e perché?
AS: Sono tre grandi autori, speciali, di straordinario interesse culturale. Essi hanno saputo coniugare al meglio i loro intensi percorsi di vita. La loro preziosa scrittura risalta fortemente, i vari contesti socio-politico, ma anche quelli ambientali, sia pure in maniera differente. Infatti, le loro opere letterarie hanno risentito di quel forte impulso espressivo dei vari periodi di vita vissuta; proprio come gli scrittori e i poeti contemporanei di questo secolo, impegnati a scrivere o a produrre nuovi lavori. A mio parere, li accomuna assieme il grande amore per l’arte: il giornalismo, la bella poesia, soprattutto. Tuttavia, la mia sottile preferenza mi dice che Pier Paolo Pasolini sia stato molto più incisivo e poliedrico nella varietà delle sue straordinarie opere letterarie lasciate, come: regista, poeta, scrittore e narratore. Egli, dunque, è stato un sagace interprete, dei tempi, in assoluto.
LS: Per ritornare alla poesia, quanto è importante il tema del paesaggio, del mondo naturale e popolare collegato al luogo delle proprie origini, secondo Lei nella poesia in generale? E nella sua poesia in particolare, la città di Napoli, con i suoi colori e le sue tradizioni, quanto compare o quanto è presente non vista, dietro ai suoi versi?
AS: Io posso ritenermi fortunata di avere le radici napoletane di una città, a dir poco, meravigliosa, così presente e viva nel mio cuore. E’, ormai, risaputo che Napoli è conosciuta ed è apprezzata in tutto il mondo per le sue bellezze naturali, per la sua bella, profonda cultura, così straordinaria; vanta un mito di numerosi artisti, bravi attori, ottimi poeti, e musicisti. I bei luoghi della mia città, in effetti, sono quasi sempre vivi, ossia, presente, nei versi e in diversi scritti. Non riuscirei mai a staccarmi dai luoghi che mi hanno visto crescere, con tante belle speranze e amore per l’arte, in particolare la poesia.
LS: Quali sono i progetti letterari che attualmente la vedono impegnata? Sta scrivendo un nuovo libro? Se si, può anticiparci qualcosa?
AS: Sì, esattamente, sono già pronta a presentarmi con un nuovo libro, di Poesie moderne, ci ho lavorato davvero tanto. Questa volta, mi sono immersa con tutta l’anima verso un viaggio straordinario, di terre assai lontane. Un viaggio che avevo, probabilmente, già dentro di me, e potrò finalmente realizzarlo. Infine, con le sillogi poetiche, vorrei prendermi una pausa di riflessione. Ho già in mente di occuparmi, finalmente, di cose nuove e diverse che avevo già scritto, ma le avevo poi accantonate nel tempo, non per pigrizia.
Anna Scarpetta
Novara, lì 21 Settembre 2014
Lorenzo Spurio intervista il partenopeo Luciano Somma
LS: A che periodo della sua vita risale la prima poesia e quando si accorse che la letteratura era una buona chiave di volta per confidare i suoi pensieri?
LS: Ho iniziato a scrivere i miei primi versi a 13 anni, un po’ ingenui ma comunque dettati dall’ispirazione che non mi ha mai più abbandonato. Mi sono accorto della chiave di svolta qualche anno più tardi.
LS: Il suo curriculum letterario è molto ampio e in esso si ravvisano interessi diversi che spaziano dalla narrativa, alla poesia, fino alla canzone. Negli ultimi anni è stato considerato come uno degli artisti italiani più presenti in rete –soprattutto in Youtube- con un’intensa attività di letture poetiche. Quanto secondo Lei è importante Internet nella nostra società? Si può prescindere da esso o il suo utilizzo è necessario?
LS: Ritengo internet un veicolo ormai indispensabile per arrivare al grande pubblico, comunque la mia presenza sul web risale alla fine degli anni ‘90 e già nel 2000 Il Giornale aveva, in un suo articolo specifico, sottolineato ed evidenziato che ero il poeta più presente in internet. Appena venti anni fa sarebbe stato impensabile farsi conoscere in tutto il mondo attraverso un mezzo di diffusione che negli anni si è centuplicato ed ormai si può dire che non c’è famiglia che non abbia almeno due pc collegati…
LS: La sua ultima opera, Da Napoli con amore (Photocity, 2013), curata da Gioia Lomasti e Francesco Arena, è una ricca antologia della sua produzione divisa in due parti: una prima sezione dedicata alle poesie in napoletano e una seconda parte sotto il titolo di “Brividi di ricordi” che si compone di poesie in italiano e prose. Solo negli ultimi anni anche i concorsi letterari stanno mostrando un certo interesse nei confronti della letteratura in dialetto. Quanto è importante secondo lei la poesia in vernacolo e perché?
LS: Ho pubblicato quest’opera spinto dalla collaborazione grafica di Gioia e Francesco. Negli anni ‘70 ho partecipato a molti concorsi di poesia napoletana classificandomi spesso al primo posto. Per me la parlata della città, o paese, di nascita è molto importante, sono però del parere che la napoletana è una lingua e non si può classificare come dialettale per il semplice motivo che si parla un po’ in tutto il mondo grazie al fenomeno emigratorio iniziato nei primi anni del secolo scorso. Non dimentichiamo poi le canzoni napoletane, come ad esempio “ ‘O sole mio”, che hanno contribuito, in modo determinante e moltissimo alla diffusione del napoletano nel mondo.
LS: Dario Bellezza (1944-1996), poeta controverso e osteggiato, fu esponente di spicco di una poesia romana degli anni ’70 caratterizzata dall’irriverenza e dalla trasgressione. Nella sua poesia si ravvisa un certo mal di vivere e una desolazione che deriva dalla pesantezza degli sguardi/opinioni della società su una serie di condotte da lui attuate che per i tempi erano fortemente stigmatizzate (l’omosessualità, la dedizione alla droga). Le presento una sua lirica dal linguaggio particolarmente potente che farebbe pensare a sprazzi di avanguardismo; in realtà Bellezza fu un fenomeno raro nella sua eterogeneità che rende impossibile una qualsiasi collocazione poetica di riferimento. Le chiedo un suo commento su questa lirica intitolata “Andiamo a rubare”[1]:
Andiamo a rubare: il furto si addice a un poeta!
Nessuno veramente sa che cosa sia, intero,
un poeta! Un grande sapiente o veggente?
Magari! O soltanto un criminale! Un ladro
di lumi, di vite clandestine vissute
nel silenzio dei giorni tutti uguali.
LS: Dario bellezza è morto a 52 anni. Più che poeta io lo considero un verseggiatore, la differenza è abbastanza riscontrabile, non è stato tanto osteggiato per la sua manifesta omosessualità bensì per osannare il suo status, che sarebbe stato più tollerato se vissuto senza enfasi, e lo stesso dicasi per la dedizione alla droga. Comunque alcuni versi sono interessanti anche se non condivisi. Deve anche molto alla sua popolarità per alcune trasmissioni televisive che lo hanno fatto conoscere al grande pubblico.
LS: Il giovane poeta svizzero Oliver Scharpf[2] in uno dei suoi uppercut presenti in una recente opera antologica dal titolo Di soglia in soglia[3] sulla poesia si esprime in modo innovativo e dissacratorio:
non se ne può più della poesia ma anche della poesia autentica se è per questo non si può più fare della poesia, con la poesia basta con i libri di poesia se proprio si vuole allora deve essere qualcosa che si avvicini a un nome scritto sull’inguine di una spiaggia un attimo prima che la lingua di spuma lo lecchi via.
LS: Come spesso accade ad alcuni giovani la volontà di farsi comunque conoscere li porta fuori dai canoni e purtroppo non sempre in maniera brillante e razionale. Più che in modo innovativo io direi molto dissacratorio è il suo modo di esprimersi e di porsi, basta leggere l’inutilità contenutistica degli ultimi versi, ritiene vano scrivere poesie ma se proprio qualcuno volesse continuare a farlo, ma intento lui lo fa, scriva ciò che pensa su una spiaggia così il mare lo porterà subito via, ma allora caro Oliver Scharp, pseudo poeta Svizzero, che cavolo scrivere a fare se ciò che fai viene cancellato dall’onda? Tanto vale che te li tieni nella mente i tuoi pensieri e ti risparmi così di partecipare a premi, vorrei veramente conoscere le motivazioni dei giurati del premio Montale per farmi una ragione, sul premio a lui assegnato nel 1997, e capire quali sono stati i valori di ciò che ha scritto e che messaggio ha lasciato quale orma da seguire…
LS: L’idea di questa intervista è quella di poter diffondere le varie interpretazioni sulla Poesia e in questo percorso ho ritenuto interessante proporre a ciascun poeta alcune liriche di validi poeti contemporanei viventi, ampiamente riconosciuti dalla comunità letteraria e dalla critica per richiedere un proprio commento-interpretazione. La prima poesia che Le propongo è “Un carillon”[4] di Franca Alaimo:
Adesso abito uno spazio incenerito dove ogni cosa è quel che era prima di esistere, dove si può dire “fonte”, prima che la sua goccia iniziale le dia il nome che l’inchioda all’acqua. Là io, non questa me, navigo come il primo uccello dell’Eden stupito dell’aria e del mistero delle sue ali. Ho sempre con me un giocattolo dorato che è stato il primo dono di Dio: un carillon di suoni che giorno e notte mi distrae dal domandargli com’è che cominciato tutto questo dolore.
LS: Indubbiamente in questi bei versi, molto profondi e di alta caratura, vi sono oltre a delle belle immagini poetiche anche qualcosa che suscita nel lettore un desiderio di riflessione su questa nostra condizione umana spesso afflitta ed appesantita da un doloroso bagaglio, il suo interrogativo a Dio è pienamente da me condiviso.
LS: Di seguito, invece, Le propongo una poesia di chiaro intento sociale scritta dal poeta palermitano Emanuele Marcuccio[5] intitolata “L’inquinamento”[6], sulla quale sono a chiederLe un suo commento:
Forse, quando l’inquinante all’aere duro involverà tutto il suo cielo, l’umana terra, unico lustro fra i pianeti, non potrà più vivere, non ci sarà più vita: e il sole non sparmierà i suoi dardi infocati, sulle umane genti la sua collera piomberà; per il suo agire insensato le terrestri cose spariranno: gli animali e le piante. Sì ché dal nucleo si sprigioneranno funeste vampe, ché alla lava dei vulcani non scemeranno il funesto errare.
LS: Al di là dell’intento sociale, da meditare, vi è però in questi versi arcaici un’apocalittica visione del futuro, un pessimismo senza ombra di speranza, come un tunnel buio dal quale non si uscirà più. Funeste vampe, scrive l’autore, funesto errare, io aggiungo funesti versi. Il poeta anche se vede tutto scuro da qualche parte dovrà pur trovare almeno un barlume di luce, dove c’è l’ombra da qualche parte ci deve essere il sole o viceversa, se vede tutto nero allora vi è qualcosa nel suo “io” che sicuramente non vive in sincronia col resto del mondo.
LS: Nella poesia “Perdonateci”[7] individua l’animo ribelle che contraddistingue o che dovrebbe contraddistinguere il poeta: colui che non ha paura ed osa, colui che non si assoggetta alla norma e spesso “alza la voce”, ma egli è anche l’unico sensibile a cogliere le sottigliezze della realtà che lo circonda per costruire sogni e svelarli al lettore. Lei scrive, infatti:
Che razza strana siamo noi poeti specie che spesso va controcorrente volando verso cieli tersi liberi perdonateci per questo nostro osare.
Perché il poeta sente il bisogno di inginocchiarsi e chiedere perdono per questo suo fare-osare che lo contraddistingue dalla massa? Perché parlando con il cuore in mano si finisce per dire la verità, anche quando essa può nuocere o infastidire?
LS: Il poeta resta sempre, e comunque, un po’ bambino anche se arriva ad un’età avanzata, purtroppo chi non ama la poesia, o addirittura la ignora, non potrà mai capire il dramma esistenziale che spesso è dentro a chi scrive, per fare un elementare paragone è come chi vive sempre in ottima salute non riesce a capire né a compenetrarsi, MAI, nelle sofferenze d’un malato. La corrente dell’umanità è sempre andata, e viaggia, alla conquista del denaro e della vita facile ed agiata. Ecco perché il poeta va spesso controcorrente, lui non scrive per denaro, mi riferisco alla quasi totalità, bensì per esternare i propri sentimenti d’amore, di voglia di serenità, di malessere, di dolore, e dunque è chiaro che non ha paura di ciò che possono pensare gli altri ed allora osa, chiedendo però perdono se magari questo suo modus operandi non è parzialmente o totalmente condiviso.
LS: Lei figura come membro di giuria nel Premio di Poesia “L’arte in versi” giunto quest’anno alla seconda edizione. Trovandosi a leggere e a valutare molti testi poetici e avendo quindi una panoramica generale delle varie tendenze ed espressioni poetiche, che cosa ne pensa del livello qualitativo della poesia che oggigiorno circola? Essere un poeta significa semplicemente scrivere un testo in versi?
LS: Ho letto e valutato centinaia di poesie anche in questo concorso. A parte poche eccezioni la maggior parte degli elaborati erano monotematici e presentavano rarissime originalità sia di stesura che contenutistiche. Chi scrive un testo poetico, a mio avviso, non può certamente essere considerato un poeta, non basta conoscere la metrica o mettere una parola sull’altra, che abbia o meno sonorità per potere essere considerato un poeta. La poesia è un’elevazione, è qualcosa che deve, una volta scritta, coinvolgere i fruitori, i recensori i quali se saranno colpiti emotivamente dai contenuti e dalla forma allora potranno apprezzarne e determinarne la validità. E’ seminare poesia che sarà poi raccolta come spunto per i posteri, in mancanza vi è non solo il vuoto assoluto ma assenza completa d’arte poetica.
LS: La città partenopea e la Campania in generale hanno dato i natali ad altri indiscussi poeti della seconda metà del Novecento e della nostra contemporaneità tra cui Ugo Piscopo, Antonio Spagnuolo, Tina Piccolo ed altri. E’ in contatto con alcuni di essi o con altri da me non citati e quanto è importante secondo Lei la collaborazione tra artisti?
LS: Conosco Ugo Piscopo di nome, con Antonio Spagnuolo vi è stato qualche volta, uno scambio di messaggi via e-mail. Con Tina Piccolo ho collaborato una sola volta essendo stato chiamato ad esprimere un mio giudizio su un concorso, da lei bandito, sulla poesia napoletana. Confesso che non credo nelle scuole di poesie, nessuna scuola potrà mai insegnare i sentimenti da esternare, potrà magari suggerire delle forme, più o meno innovative, ma io resto consolidato nella mia opinione sull’unicità delle caratteristiche poetiche individuali e non credo nelle collaborazioni. Ben diverso è invece un testo musicale laddove sono spesso accettati dei coautori perché più idee potranno senz’altro migliorare il prodotto, rendendolo magari più popolare, ma questo è naturalmente tutto un altro discorso.
Napoli, 11 Luglio 2013
[1] Dario Bellezza, Poesie 1971-1996, Milano, Mondadori, 2002.
[2]Oliver Scharpf è nato a Lugano nel 1977. Premio Montale nel 1997 per le poesie inedite, poi pubblicate nell’antologia del premio da Scheiwiller. Diploma in scrittura drammaturgica alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano. Ha scritto tre libri. Collabora con una rubrica bimensile per il settimanale Azione.
[3] AA.VV., Di soglia in soglia. Venti nuovi poeti della Svizzera italiana, a cura di Raffaella Castagnola e Luca Cignetti, Lugano / Lusone, Biblioteca Comunale di Lugano / Edizioni Le ricerche, 2008, p. 135.
[4] Franca Alaimo, La Recherche, 31-10-2011.
[5]Emanuele Marcuccio è nato a Palermo nel 1974. Ha pubblicato la raccolta di poesie Per una strada (SBC Edizioni, 2009) e di aforismi Pensieri minimi e massime, (Photocity Edizioni, 2012). Ha curato l’antologia poetica Diphtycha. Anche questo foglio di vetro impazzito c’ispira (Photocity Edizioni, 2013). Dal 1990 sta scrivendo un dramma epico in versi liberi, ambientato al tempo della colonizzazione dell’Islanda. Collabora alla rivista di letteratura online Euterpe; ha curato prefazioni a sillogi poetiche e varie interviste ad autori emergenti ed è consigliere onorario del sito “poesiaevita.com”. Partecipa a concorsi letterari di poesia ottenendo buone attestazioni e la segnalazione delle sue opere in varie antologie. E’ membro di giuria nel Premio di Poesia “L’arte in versi”.
[6] Emanuele Marcuccio, Per una strada, Ravenna, SBC, 2009, p. 14.
[7] Luciano Somma, Da Napoli con amore, Pozzuoli (NA), Photocity, 2013, p. 51.
“Io sono soltanto un granello di sabbia” di Anna Scarpetta, recensione di Lorenzo Spurio
Devo confessare che per poter eseguire un’analisi appropriata ed attenta di questo recente libro di Anna Scarpetta la recensione, come forma testuale, non è di certo adatta, poiché servirebbe almeno un saggio se non un intero volume critico, tante sono le cose che –a mio modesto modo di vedere- debbono essere dette, considerate e interpretate. Comincerò con il dire che in questa silloge si respira un’aria soave ma pacata dove a dominare sono le immagini che fanno riferimento al mondo cattolico: molte delle poesie, in realtà sembrano delle vere preghiere, proprio per la profondità dei richiami e per la pervasiva e credente considerazione della vita quale percorso terrestre che si caratterizza per la sua finitudine. Aggiungerò che Anna Scarpetta è stata recentemente premiata al I Concorso Letterario Internazionale Bilingue TraccePerLaMeta per la sua poesia religiosa dal titolo “Sulla via di Damasco”, ulteriore segno che evidenzia questa sua nuova apertura nei confronti di un genere poetico molto diffuso e seguito. La parola nelle poesie di Anna Scarpetta si fa lode, invocazione, condanna, rinuncia ed esortazione, ma essa è anche appello alla sensibilità dell’uomo, elogio dei sentimenti e apologia del credo cristiano. Non è un caso che sia proprio la prima lirica della silloge, “Io sono soltanto un granello di sabbia” che è quella che dà il titolo all’intera raccolta, che esordisca con questi versi: “Io sono, soltanto, un granello di sabbia,/ dell’immenso deserto, Signore” (7) in cui la poetessa, partendo dalla constatazione della minuziosità del suo essere il rapporto alla mondialità delle esperienze, evidenzia e rende grazia al Divino per il “dono” che le ha fatto: quello della poesia. Ma, siccome sappiamo che la poesia non è che la forma più autentica, vivida e sofferta di espressione umana, con questa espressione la poetessa non fa che eguagliare la poesia alla vita. E come si evince in questa prima lirica c’è una grande attenzione nella poetessa nei confronti del tentativo di auoto-definirsi, di identificarsi e di svelare agli altri chi è, come avviene anche nella poesia “Non so più chi sono” (31).
Centrale, come era stato per la precedente silloge poetica della poetessa, Le voci della memoria (Ismeca, 2011), da me recensita e la cui recensione è disponibile qui, è il tema del tempo. Il colloquio che la poetessa intrattiene con esso si fa qui più aspro e si nota un certo indurimento del linguaggio dovuto, molto probabilmente, dalla desolante constatazione che esso è l’unico “eterno vincente” nella continua lotta della vita. La poetessa fornisce le più ampie caratterizzazioni per evocarlo (“il tempo,/ silenzioso, con la sua faccia di marmo scolpito”, 12; “il tempo, col suo volto annoiato”, 22; “il tempo, così infame e crudele”, 25: “[tu], come statua regale”, 46, ecc.), e nella gran parte di esse si intuisce un certo disprezzo e sconsiderazione, che fanno seguito alla presa di coscienza della sua pericolosità e al contempo della sua tragica ineluttabilità. Ed è così che esso non è altro che “il vero palco delle pittoresche scene degli orrori” (8), cioè esso è un davanzale verso il mondo che assiste indisturbato e senza fretta alle rappresentazioni della vita, del mondo, delle famiglie, agli inganni e ai tormenti, alle guerre e ai sistemi di vendetta, ma anche ai momenti più belli che solo nel ricordo potranno conservare la loro leggiadria.
Il sentimento religioso è facilmente intuibile anche attraverso i chiari riferimenti alla vita intesa come percorso, come cammino errante e l’uomo come misero “abitante delle fatiche umane”, come pellegrino per le vie del mondo, a volte consapevole, altre volte meno ed obbligato ad esodi carichi di dolore a causa di guerre, scontri religiosi, deportazioni. Perché va subito osservato che varie liriche qui contenute hanno un forte intendimento civico, morale e mettono il lettore di fronte a realtà sociali endemiche, cancrenose, corrotte e ignominiose. E’ così che Anna Scarpetta fotografa i massacri che avvengono al silenzio dei governi e dei mass media europei, come in Libano, dove la poetessa ci “narra” dei pianti e dei lutti di Beirut. Il pensiero non può non andare anche ai massacri in Sudan e quelli leggermente più conosciuti perpetuati da Assad, in Siria. Nella poesia “Libano” la speranza sembra esser ormai abbattuta e tutto ricade su una tortuosa domanda la cui impossibilità di risposta ferisce ancor più gli uomini di quella terra e demoralizza il mondo: “Agli occhi del mondo, tra due fuochi, ardi muto Libano,/ c’è chi si chiede, invano, ma tutto questo perché” (14). Il tema sociale ritorna nella lirica “Berlino est”, quadretto chiarificatore del senso di giubilo l’indomani dell’abbattimento del Muro che divise i berlinesi a seguito di un conflitto ideologico disprezzabile.
Si susseguono liriche più dolci e positive nelle quali la poetessa rievoca momenti passati e ricorda i suoi cari, soprattutto la madre, celebrata in due liriche e in maniera particolare nella bellissima “Sei volata via, madre” dove l’atroce ricordo della dipartita della madre è associata a una colorazione bianca, quasi accecante, che la poetessa vede e riconosce nella neve e nei gabbiani dal piumaggio candido. Ed anche qui, dove la lirica è pensata come commemorazione della madre, Anna Scarpetta non si risparmia per criticare la spietatezza di questo mondo nel quale siamo chiamati a vivere: “Sola sei andata via da questo strano mondo” (18). La “stranezza” del mondo è spiegata nella lirica “Il male del mondo” che è un vero pugno allo stomaco. In essa la poetessa plasma la parola in maniera meditata affinché sia acuminata, folgorante e distruttiva proprio come è l’efferatezza del mondo, la cattiveria diffusa negli animi imbarbariti nel nostro oggi: “Il male ha mostrato tutta la sua malvagità agli occhi del mondo/ coi suoi aguzzi artigli, graffiando volti di sfide verso il futuro/ ricacciando all’indietro tempi nuovi, che non sanno avanzare” (23). La poetessa non esplica quali intende essere i “mali” del mondo e lascia volutamente aperta la questione al lettore che può facilmente leggerli nell’aumento di femminicidi, nei suicidi per colpa della crisi economica, nelle inspiegabili tragedie familiari, nella bestialità di alcuni atteggiamenti umani e nelle invidie logoranti, negli abusi, nelle catastrofi naturali, ma anche nelle dolorose e fulminanti patologie a cui spesso non vi sono rimedi.
Per ultimo, ma non per importanza, ci sono liriche curiose dove Anna Scarpetta chiarifica la sua felice propensione nei confronti delle nuove tecnologie, esplicate soprattutto nel mezzo informatico al quale la poetessa riconosce grande capacità: con Facebook, ad esempio, si può ritrovare amici e parlare con loro, anche dopo tanti anni di lontananza e silenzio, e il web è molto positivo perché accorcia le distanze e fa viaggiare più veloce le notizie come sottolinea all’apertura di “Grazie a te web”. La versione digitale del libro, che oggigiorno sta combattendo una prima battaglia con il suo progenitore cartaceo –battaglia che a mio modesto parere sta perdendo e clamorosamente- è motivo addirittura di una lirica, “Ebook”, dove la poetessa ricorda, elogia e innalza il valore del cartaceo, custode di tradizione, fruitore di un contatto diretto e dispensatore del fresco profumo di stampa o acre di invecchiamento.
Il pensiero finale che la poetessa fornisce al lettore e sul quale si appella a una sua maggiore considerazione è quello che verte sul futuro: che cosa ci aspetta nei tempi a venire? Riusciranno le persone veramente brave e sincere a farsi valere in un mondo dominato da tante nefandezze? Anche la poetessa trasmette un sentimento d’incertezza al riguardo: “Da dove dovranno venire questi nuovi tempi/ carichi di profili, scolpiti di albe boreali, rinchiusi/ nell’immane destino che ancora non si profila” (41).
C’è bisogno di cambiamento e di gente valida che possa proporre una svolta. Subito.
I tempi attuali sono fermi e stantii, pur nel loro ineluttabile incedere.
Un plauso alla poetessa per darci tanti spunti su cui riflettere con questo libro che di sicuro non lascerà indifferente nessun lettore.
(scrittore, critico letterario)
Jesi, 25 Maggio 2013
ANNA SCARPETTA è nata a Pozzuoli (Na) nel 1948. Per moltissimi anni ha vissuto nel capoluogo campano. Ha lavorato, poi, a Milano presso la Rete Ferroviaria Italiana – Direzione Asse Orizzontale e attualmente vive a Novara. Si è sempre dedicata alla poesia, narrativa e saggistica. E’ stata membro di giuria a Napoli nei concorsi letterari in lingua e in vernacolo. Ha recensito numerosi libri di poesia. A Milano si è dedicata al teatro sperimentale, in qualità di Aiuto regia, con la compagnia di Ciro Menale. Ha collaborato con prestigiose riviste culturali ed è stata Presidente Onoraria per la Città di Napoli di MOPEITA, Movimento per la diffusione della poesia in Italia. Ha pubblicato le seguenti sillogi di poesia: Poesia (Gabrielli, 1985), Frantumi di tempo (Lo Faro, 2004), L’altra dimensione della vita (LibroItaliano World, 2004) e Le voci della memoria (Ismeca, 2011) da me recensito e la cui recensione è presente qui.
E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.
“L’impronta del pensiero” di Vincenzo Lubrano
L’impronta del pensiero
di Vincenzo Lubrano
Esserre Press, 2013
“L’impronta del pensiero” è il nuovo libro di Vincenzo Lubrano edito da Esserre Press.
Una raccolta di pensieri, poesie e riflessioni di grande intensità. Scritto in ogni attimo di pace ritrovato nelle poche ore di riposo da lavoro dell’autore, il libro vuole essere una rivelazione autentica di emozioni e sentimenti, un consapevole viaggio interiore nei tanti perché della vita. Osservare il mondo, affrontare limiti, gioie, paure è un percorso di crescita indispensabile per un giovane uomo che trova nella scrittura una vera e propria ancora di salvezza. “Mi ritrovo davanti ad un foglio bianco come mio migliore amico, esso mi permette di esprimere, sbagliare, correggere e cancellare, ma soprattutto di dare forma ai miei pensieri e far si che ogni mio sogno diventi realtà consigliando con le parole di chi mi conosce di più…me stesso”. Vincenzo Lubrano è nato a Napoli e vive a Pozzuoli. “L’impronta del pensiero” rappresenta il suo esordio nel mondo dei libri.
Vincenzo Lubrano è nato a Napoli il 30/04/1988. Vive a Pozzuoli, una provincia al sud di Napoli, una terra caratterizzata dal bellissimo litorale flegreo che si estende tra mare, sole e pescherecci. L’autore è diplomato in “tecnico dei servizi ristorativi di cucina” ha intrapreso la sua attività lavorativa all’età di quindici anni in contemporanea con la scuola, acquistando così indipendenza per se e un aiuto di cuore alla sua famiglia. Lo stesso senso di responsabilità lo porta negli ultimi tempi verso la scoperta di sé, lavorando all’Isola d’elba come aiuto cuoco. La passione per ogni forma d’arte è sempre stata la sua “dote” e ciò gli permette di esprimere il suo pensiero con la scrittura che egli definisce come migliore amica : “Mi ritrovo davanti ad un foglio bianco come mio migliore amico, esso mi permette di esprimere, sbagliare, correggere e cancellare.. ma soprattutto di dare forma ai miei pensieri e far si che ogni mio sogno diventi realtà consigliando con le parole di chi mi conosce di più.. me stesso”.. Nasce così la sua prima raccolta di pensieri, poesie e riflessioni “L’impronta del pensiero” scritta in ogni attimo di pace ritrovato nelle poche ore di riposo del lavoro dove semplicemente osservando apprezza ogni elemento a se circostante ma in primo piano il RISVEGLIO al mattino che l’autore definisce “Il vero senso della vita”.
“Il viaggio di Emilia” di Anna Maria Balzano, recensione di Lorenzo Spurio
Tutto era cambiato. Ebbe nostalgia di quei pochissimi anni di cui aveva memoria che erano stati felici con la mamma e con il papà. Erano passati come un lampo. Tutto il resto era stato affanno e sofferenza… (76).
Quando nel passato si è sofferto molto, spesso ci risulta difficile convivere giornalmente con le foto o con gli oggetti che in sé hanno cristallizzato quei momenti. E’ per questo che Emilia, protagonista del romanzo Il viaggio di Emilia di Anna Maria Balzano si prepara a fare una cernita delle vecchie cose: cosa tenere e cosa buttare.
Siamo nella Napoli del 1978 e la protagonista prende a narrare la tormentata storia passata della sua famiglia suggestionata dalla visione di una vecchia foto: “Passò la mano sulla foto per eliminare un leggero strato di polvere che la rendeva più opaca e con i polpastrelli percorse i contorni e i piani del palazzetto, come se quel contatto fisico avesse il potere di rianimarlo e restituirgli quella vita che gli era appartenuta” (8). Da qui, come in un vero e proprio flusso di coscienza, partono i ricordi, le immagini, tutte dominate da una certa tristezza. La protagonista ricorda della morte del padre e del grande amore ricevuto dai nonni, piuttosto che dalla madre Anna che, invece, oltre ad essere spesso lontana da lei per motivi di lavoro si scopre presto attratta da un altro uomo. Il nuovo matrimonio della madre con un certo Renato, sconsigliato dai genitori della donna e malvisto dalla giovane Emilia, sembra inizialmente inaugurare una fase di spensieratezza e tranquillità per Anna, ma ben presto le cose cambiano. Renato non mancherà di mostrarsi violento e prepotente, interessato solo agli interessi dell’azienda della quale diviene il principale benefattore. La solitudine di Anna e l’indifferenza del marito nei suoi confronti la conducono a uno stato di apatia e il marito la farà ricoverare in una struttura psichiatrica. Emilia, la giovane protagonista, pur consapevole di ciò che succede sotto i suoi occhi, non è in grado di cambiare le cose e, pur volendo bene a sua madre, si trincera sempre dietro l’amore dei nonni che, però, malati ed anziani, nel giro di pochi anni vengono a mancare.
Ma in questa difficile storia familiare ambientata nel secondo dopoguerra, nel momento della ricostruzione, si innesta anche la storia di Giulia, figlia di un dipendente dell’azienda che era stata dei familiari di Emilia. Le due divengono amiche anche se poi un po’ per motivi di studio, un po’ per altre ragioni, finiscono per separarsi. Una serie di altri avvenimenti drammatici quali lo stupro di Giulia, l’uccisione del prepotente Renato e il processo contro Anna, ritenuta colpevole dell’omicidio si intrecceranno nel romanzo chiarendo solo nelle pagine finali i relativi collegamenti.
Niente è banale. Anna Maria Balzano costruisce un romanzo molto ricco dal punto di vista dei sentimenti, sottolineando quanto la gratuita crudeltà di un uomo possa rovinare la vita di varie persone. Un’acuta riflessione sul dolore che produciamo agli altri senza rendercene conto, un elogio del fatalismo e una considerazione sul senso tragico del vivere che, oggi come ieri, sempre caratterizza le nostre esistenze:
“Mi sono chiesta se fosse Dio che voleva questo. Ma se Dio è buono, Emilia, perché dovrebbe permettere che accadano queste cose?”
Emilia non sapeva rispondere a questa ingenua e semplice domanda di Giulia.
“Non lo so, Giulia. Non credo che ci siano cose giuste o ingiuste al mondo. Ci sono cose che accadono” (82).
Jesi, 26-01-2013
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Anna Scarpetta: quando la poesia è testimonianza. Commento di Anna Maria Folchini-Stabile
Commento alle poesie di Anna Scarpetta
poesie contenute in “L’Universo degli Angeli” – Sentieri di Anime e Sogni – a cura di G. Ianuale per Accademia Internazionale Vesuviana – Marigliano (NA) – 2012
Commento critico a cura di Anna Maria Folchini-Stabile, poetessa
“L’Universo degli Angeli” è l’antologia curata da Gianni Ianuale e pubblicata nel mese di luglio 2012 dall’Accademia Internazionale Vesuviana per raccogliere le liriche dei poeti che si sono ritrovati attorno all’ideale morale che “poetare significa muoversi e operare nell’armonia cosmica in cui l’essere e il bene puntualmente coincidono” (dalla premessa di Bernardo Silvestri, pag. 6).
Tra gli Artisti selezionati figura la poetessa Anna Scarpetta che presenta le sue liriche intitolate:
– Porto in giro per il mondo
– Alzati anima
– Forse gli Angeli
– Ho salito i gradini del mondo
– Vivere per non morire
Questi cinque componimenti sono il proclama di ideali e linee guida di una vita dedicata a difendere l’identità, i principi e i valori che rendono l’individuo persona unica e irripetibile; la poesia è il veicolo, il modo per comunicare al mondo la propria visione della vita che ha radici profonde nella memoria, nella famiglia, nelle tradizioni e negli affetti che legano alla propria terra.
La poetessa che ha ben conscio il suo ruolo di guida, non può non confrontarsi con la vita e con gli altri e non può, quindi, non cantare le risorse collettive, il coraggio di vivere, la ripresa dell’Uomo che ha ideali e mete importanti da raggiungere:
“Destati, anima, dal frastuono fragoroso
Che stordisce solamente e nulla dice” …
(da Alzati anima, pag. 371)
E non può esservi certezza di perseguire il fine destinato, senza la sicurezza interiore di una Guida superiore (“Forse gli Angeli”, pag. 372) di cui la poetessa ha piena coscienza, tanto che può dire:
“Ho salito, con grande affanno, i gradini del mondo
Rasentando i pericoli, passando lenta nel mezzo…
… Con la mente imbevuta di forti pulsioni…
… Con grande magia…
( da “Ho salito i gradini del mondo”, pag.373)
Ardore, affanno, salita…non un cammino semplice, non una strada pianeggiante, perché l’esistenza di ogni essere umano è cosparsa di prove, di difficoltà che temprano, fortificano e confermano, a consapevolezza e maturità raggiunte, che il dolore è parte del vivere.
La scelta è univoca: “Vivere per non morire” (pag. 374).
La vita, secondo la poetessa Anna Scarpetta, è una prova di coraggio, perciò va vissuta coraggiosamente, superando le quasi continue prove iniziatiche e guardando sempre al domani, perché il nuovo giorno è resurrezione e, se la sofferenza ci abbatte, la speranza ci accompagna.
Come sempre, anche in queste sue forti liriche, la poetessa esprime i suoi profondi pensieri in modo lineare, chiaro, universale e se vede se stessa come metro del tutto, riconosce nella sua esperienza tutta l’Umanità che le cammina a fianco e proprio per questo sa riconoscerla, abbracciarla e comprenderla.
Chi è l’autrice?
ANNA SCARPETTA è nata a Pozzuoli nel 1948, formatasi culturalmente a Napoli dove ha anche frequentato la Scuola di recitazione e spettacolo, è erede della grande famiglia che molto ha contribuito alla storia Artistica Napoletana e Italiana.
Poetessa ben nota ai circoli culturali e letterari Napoletani, ha poi vissuto a Milano e risiede attualmente a Novara.
Si ė sempre dedicata alla poesia, alla narrativa e alla saggistica collaborando con numerose riviste culturali.
Ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti ed è membro “Vitae et honoris causae” del Centro divulgazione rete e Poesia.
Tra le sue opere pubblicate ricordiamo:
– Poesia (ed. Gabrielli, 1985)
– Frantumi di tempo (ed. Lo Faro, 1991)
– L’altra dimensione della vita (ed. Libroitaliano Word, 2004)
– Le voci della memoria ( ed. ismecalibri, 2011)
Molte sue poesie sono raccolte in numerose antologie.
Angera, 24 agosto 2012
QUESTA RECENSIONE VIENE PUBBLICATA SU QUESTO SPAZIO PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE. E’ VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE QUESTO TESTO IN FORMA INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.
“Le voci della memoria” di Anna Scarpetta, recensione a cura di Lorenzo Spurio
Le voci della memoria
di Anna Scarpetta
Ismeca Libri, Bologna, 2012
ISBN: 978-88-8810-039-3
Prezzo: 12 Euro
Recensione a cura di Lorenzo Spurio
La caratteristica principale di questa silloge di poesie di Anna Scarpetta, celebre poetessa di origini napoletane, sta nel fatto che l’origine della gran parte delle sue liriche si collochi nel ricordo del passato, di alcuni momenti comuni e rituali che appartenevano a una sua età passata. Questo ricordo, palpabile pagina dopo pagina, a tratti trasfonde una sensibilità nostalgica e quasi crepuscolare, altre volte, invece, è il motivo d’indagine sociale del presente. La prima poesia raccolta nella silloge, “Le voci della memoria”, quella che dà il nome all’intero libro, ci inserisce subito in questa dimensione: il ricordo è forte e sempre vivo “ad ogni stagione, ogni amaro inverno, sempre” (p. 9). Il ricordo, sembra suggerire la poetessa, ci appartiene sempre, anche quando non ne siamo consapevoli ed è la somma di tutti i ricordi, di quelle pietre preziose, che danno senso al nostro esistere.
“Io sono qui” si configura come una sorta di preghiera laica nella quale Anna Scarpetta sottolinea l’importanza del hic et nunc: sono qui ora, penso, rifletto, mi faccio domande, considero il nulla, vaglio il mistero, sempre consapevole di quella cosa che ogni secondi si autodistrugge, il tempo. E’ questa una presenza costante nelle poesie di Anna Scarpetta: il tempo presiede ed osserva tutto, invisibile e a volte impercettibile e, come la morte –che poi è la fine del tempo-, è un’entità che ci rende umani e tutti uguali: “così tu, alla fine, tempo/ sei uguale per tutti dovunque” (p. 11).
Le liriche della poetessa ci consegnano una poesia vivida e riflessiva, solo a tratti filosofica, di semplice lettura, frutto di un’attenta e continua analisi dell’inconscio di una donna ricca dentro, consapevole del trascorso del tempo e che ha fatto e fa tesoro dei momenti passati, per imprimerli sulla carta. E’ un tentativo, questo, di affrescare la vita anche se – come sostiene lei stessa- “ci vorrebbe un’altra vita/ per capire cos’è la vita” (p. 12).
Anna Scarpetta è una donna che non rifugge il passato, né che ci ha litigato, ma che ci dialoga, lo interroga e lo richiama quasi che esso fosse lì, personificato, davanti ai suoi occhi. E’ un passato fatto di gioie e dolori, come quello di ognuno di noi ma che in più punti appare come una grande mamma che accoglie, riscalda, protegge con la sua “calda memoria” (p. 14).
Un interessante omaggio e lode al nostro paese è contenuto in “Italia bella patria” dove si fa riferimento alla grandezza del popolo italiano e dei suoi uomini illustri. Il canto dell’inno è –forse- il momento in cui l’Italia si riscopre fiera della sua italianità; per la Scarpetta l’Italia è “bella e sospirosa” (p. 18), segno forse che c’è qualcosa negli italiani che provoca disinteresse, tormento, affanno e credo non sia errato leggere in questa caratterizzazione un riferimento alla presente crisi economica, causa di tanti disagi sociali. E’ infatti forte il tema sociale in “Soffrono i bambini del mondo”, un canto accorato dai toni cupi e mesti che parla di bambini orfani, soli, non amati, abbandonati, affamati, che la poetessa affida nelle mani della Madre: “avvolgi e consola” (p. 21). Nella figura della Madre va vista la Vergine, la nostra madre celeste ma anche la Madre Terra, la divinità precristiana che si identificava con la Terra e ogni manifestazione attiva nella natura.
Scorrendo da una poesia all’altra la poetessa mantiene un dialogo continuo con il dio Chronos “con il suo sguardo regale di marmo” (p. 23)
La Scarpetta è una donna che dà tutto alla poesia e che, al tempo stesso, da essa riceve tutto. La poesia è fonte di conoscenza del mondo e di noi stessi, dà senso alle cose ma sa anche “lenire in silenzio e quietare il dolore/ di chi si accusa con colpa e patisce” (p. 24).
Nella bellissima poesia “Chi siamo noi” la poetessa risponde che siamo dei sognatori, dei lavoratori, delle anime sensibili. Siamo ammassi di memorie, eredi del passato, viaggiatori.
In “Verranno tempi migliori” si respira, forse, l’atmosfera più ottimista e speranzosa dell’intera silloge: la poetessa intravede tempi più felici e prosperi per tutti che saranno capaci di soprassedere alle logiche materialistiche e personalistiche dell’oggi (narcisismo, consumismo) attraverso la fede, unica vera arma di salvezza. In “Il tempo è di Dio”, Anna Scarpetta ci ricorda che il tempo non è nostro ma che “è innanzitutto di Dio” (p. 32) e che ci è dato sotto forma di un regalo. C’è l’implicito avvertimento a non sprecarlo, a dargli il giusto valore e a utilizzarlo bene. Rallentamenti, ellissi, retrospezioni, acceleramenti sono segni dell’utilizzo umano del tempo mentre il Signore ce lo ha affidato come una materia bianca, compatta e unica.
La poetessa è talmente coraggiosa di prevedere anche uno scenario futuro che la riguarderà nella poesia “Quando vacillerà la mia memoria”: quando la memoria verrà meno – e con essa tutti i vari ricordi- allora non sarò niente ed avrò perso tutto; in un’altra poesia osserva “voglio ricordare tutto, senza azzerare mai nulla”.
Degna di nota la poesia che Anna Scarpetta dedica ad Anna Frank, la povera ragazza olandese nascostasi con la sua famiglia nell’appartamento di Prinsengracht ad Amsterdam per vari mesi prima di essere scoperta e mandata in un lager. Con un ricco complesso aggettivale, la Scarpetta ripercorre i vari momenti dell’esistenza della ragazza, dalla giovinezza spensierata e felice mai avuta che, in altri contesti, le avrebbe di sicuro consentito di sviluppare una vita di soddisfazioni e di gioie terrene.
Grazie ad Anna Scarpetta per questo bellissimo percorso che ci fa fare. La sua scrittura ha un leggero andamento narrativo, quasi che il verso le stia un po’ stretto per raccontarsi. E’, infatti, una donna che ha tanto da narrare e da donare – tramite la scrittura – agli altri.
Chi è l’autrice?
Anna Scarpetta è nata nel 1948 a Pozzuoli (Na). Si è poi diplomata Perito ragioniere a Napoli, dove ha vissuto molti anni e dove ha studiato presso la Scuola di recitazione e spettacolo di Napoli. Ha lavorato a Milano presso la Rete Ferroviaria Italiana ed attualmente risiede a Novara. Si è sempre dedicata alla poesia, narrativa e saggistica. Ha collaborato con numerose e prestigiose riviste culturali, è stata presidente onorario per la Città di Napoli del MOPEITA (Movimento per la diffusione della poesia in Italia), è membro Honoris Causa a Vitae del Centro divulgazione Arte e Poesia; ha ottenuto numerosi riconoscimenti e prestigiosi premi in molti concorsi letterari. E’ presente in numerose Antologie di poesia contemporanea e ha già pubblicato Poesia (liriche, Ed. Gabrieli, 1985), Frantumi di tempo (poesie, Ed. Lo Faro, 1991), L’altra dimensione della vita (poesie, Ed. Libroitaliano World, 2004).
A cura di Lorenzo Spurio
E’ SEVERAMENTE VIETATO RIPRODURRE E/O DIFFONDERE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMA INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.
Pazienti smarriti di Maria Rosaria Pugliese finalista al Premio Domenica Rea
Il meraviglioso romanzo di Maria Rosaria Pugliese dal titolo Pazienti smarriti, edito da Robin Edizioni è stato incluso tra i finalisti per il Premio Domenico Rea – XVII Edizione – Sezione Narrativa.
Tra gli altri finalisti alla sezione narrativa ci sono Franco Matteucci con Lo show della farfalla (Newton Compton Editori), Francesco Recami con La casa di ringhiera (Sellerio Editore), Marcello Fasolino con Napoli ultima chiamata (Iuppiter Edizioni) e Geo Nocchetti con Saldi di fine emozioni (Tullio Pironti Editore). La giuria della XVII Edizione sarà composta da: Presidente: Gennaro Sangiuliano (vice-direttore TG1); Giurati: Alberto Bevilacqua (scrittore), Gigi Marzullo (conduttore RAI), Alessandro Gnocchi (capo-redattore Cultura de Il Giornale), Massimo Lojacono (docente), Annella Prisco Saggiomo (operatrice culturale).
Il premio Rea è stato istituito nel 1995 per ricordare Domenico Rea, scrittore napoletano che ha narrato in maniera attenta e realistica squarci di vita partenopea come nei famosi Racconti di Spaccanapoli (1947). Rea è inoltre stato vincitore del Premio Strega nel 1993 con Ninfa plebea.
Il romanzo di Maria Rosaria Pugliese è una vivida storia d’amore che si snoda su piani temporali diversi, l’infanzia felice che viene revocata in una miriadi di ricordi e la difficile realtà del presente al fianco di un parente gravemente malato che, giorno dopo giorno, combatte la sua battaglia con il Maligno. E’ un’affascinante storia che ha chiari riferimenti autobiografici e che ci rende partecipi di un dolore familiare che potrebbe essere quello di ciascuno di noi, facendoci vivere sulla pelle un miscuglio di sentimenti molto forti.
Al romanzo ho dedicato una recensione, pubblicata su questo stesso blog, che potete trovare qui: http://tinyurl.com/3sjhcvn
Ho inoltre avuto il piacere di intervistare, a distanza, l’autrice del romanzo. L’intervista si può trovare qui: http://tinyurl.com/4ydmwef/
La premiazione del vincitore è prevista per il 7-8 Ottobre 2011, sull’isola di Ischia (Napoli).
Per aggiornamenti visitare il sito internet www.premiodomenicorea.org o contattare Livius@Ischianet.com
Faccio i miei più sentiti e sinceri auguri a Maria Rosaria Pugliese per la sua opera finalista al premio!
Lorenzo Spurio
27 Luglio 2011
Pazienti smarriti, intervista a Maria Rosaria Pugliese
INTERVISTA A MARIA ROSARIA PUGLIESE
Autrice di Pazienti smarriti
Robin Edizioni, Roma, 2011
Intervista a cura di Lorenzo Spurio
LS: Complimenti per il tuo romanzo. Narri una storia tragica ma lo fai in maniera dolce, sottolineandone dettagli, ricordi passati ed emozioni presenti. Com’è nato questo romanzo? C’è alle sue spalle una genesi particolare?
MRP: Il romanzo è nato da una storia dolorosa e, purtroppo, vera: la malattia di mio fratello. Nelle tante ore passate in ospedale pensavo di scrivere dell’esperienza così dura che stavamo vivendo, e l’intenzione era di parlare soprattutto della sanità, di un certo tipo di sanità con la quale ci stavamo angosciosamente confrontando. Scrissi, per primo, un racconto, che titolai Pazienti Smarriti. Uno scrittore amico lo lesse, gli piacque molto e m’invitò a continuare. Così dal racconto, a poco a poco venne fuori il romanzo. Scrivendo, i ricordi mi presero sempre più la mano, per cui il libro, che in origine volevo fosse di mera denuncia, divenne una storia di sentimenti.
LS: Ho letto nella tua breve scheda di presentazione del libro che c’è qualcosa di autobiografico nel romanzo. Ovviamente non ti chiedo cosa perché questa intervista non ha nessun fine di ledere la tua privacy. Quella dei riferimenti autobiografici in un testo è una domanda che mi faccio spesso e che mi aiuta a capire ancor meglio il testo in questione. Quanto hai tratto da esperienze personali nella stesura di questo libro? I pensieri e le emozioni che sono della protagonista, della sorella del malato, sono in qualche modo un riflesso di un tuo stato d’animo per una persona malata alla quale sei stata accanto?
MRP: In Pazienti Smarriti c’è tanto di autobiografico. Gli episodi evocativi dell’infanzia, i flash-back racchiusi nei box, per intenderci. E anche quanto attiene al quartiere, i riferimenti geografici, la storia familiare. Riguardo il penoso viaggio nel pianeta-sanità, tutto ciò che è raccontato nel romanzo è realmente accaduto, mentre non tutto ciò che il protagonista ha vissuto, è stato possibile riportare: in qualche caso per rispetto della memoria di Ettore, talvolta perché veramente inenarrabile. Comunque, a mio parere, anche quando si scrive di cose inventate, la scrittura è in qualche modo autobiografica, perché chi scrive “mette” sempre se stesso.
LS: La prima parte del romanzo si intitola “Ground Zero” cioè ‘livello zero’, ‘spianata’ e ci fa pensare immediatamente alla tragedia delle Twin Towers dell’11 settembre del 2001 a cui in effetti si fa riferimento nel romanzo. La mia interpretazione che si rifà alle considerazioni della giornalista Oriana Fallaci quando scriveva della sua malattia è quella di mettere in relazione la potenza distruttiva del terrorismo che annulla la società con quella di un cancro che annulla la persona. Una malattia che lascia aridità, secchezza, desolazione. E’ in certo modo corretta questa interpretazione? Se non lo è a che cosa volevi riferirti con questo titolo?
MRP: Ad accomunare i due tragici fatti, l’uno di risonanza planetaria e, l’altro, molto più intimo, evidentemente non è stata solo la concomitanza temporale. Il protagonista di Pazienti Smarriti era un punto di riferimento fondamentale per la moglie, le figlie, la sorella, che non ipotizzavano neppure il vacillamento del loro sostegno, della loro Torre, figuriamoci il cedimento! Quando il male aggredisce Ettore, per le sue donne che, nonostante tutto caparbiamente spereranno fino alla fine, l’evento è destabilizzante, la catastrofe totale e, per loro, paragonabile solo a Ground Zero.
LS: Nel romanzo utilizzi una metafora molto intensa e penetrante: il malato come guerriero ormai condannato e l’esercito della salvezza al suo fianco. E’ un’immagine molto bella e che rende magistralmente l’idea di questo clima solidale e comprensivo nei confronti del personaggio di Ettore. La guerra che il guerriero e l’esercito combattono ovviamente è la malattia. In che modo si è originata nella tua mente questa metafora che poi hai utilizzato sapientemente nel corso del romanzo?
MRP: L’etimo del nome Ettore deriva dal greco e significa colui che tiene saldo, che protegge. Identifica il difensore valoroso, che lotta per la sua gente, la sua famiglia, così nell’Iliade, ci viene raccontato Ettore, principe di Troia, guerriero nobile ben diverso da Achille l’eroe suo antagonista che, invece, combatte per la gloria, per l’affermazione di stesso. Rileggendo il poema omerico scoprii alcune analogie tra Ettore, guerriero troiano e il mio protagonista. Innanzitutto entrambi difendono a spada tratta i valori in cui credono fermamente. Poi, la solitudine del guerriero. La solitudine del malato. Ettore, eroe epico, sarà solo sotto le mura di Troia, e dovrà cavarsela senza l’aiuto divino, perché non è protetto dagli dei. Egli è mortale, a differenza di Achille, che è invulnerabile. Anche il malato è solo di fronte alla malattia nonostante la vicinanza affettiva dei parenti e degli amici. L’epilogo, poi, è lo stesso per entrambi i personaggi: dopo aver combattuto da leoni, soccombono al loro destino.
LS: Nella prima parte dell’opera c’è una lunga descrizione che rievoca il prezioso momento dell’allestimento del presepe. E’ una descrizione suggestiva e quanto mai affascinante. Il pensiero di Ettore, che torna a casa proprio pochi giorni prima del Natale, è quello che dovrà fare in fretta a metter su il presepe, come ha fatto ogni anno. E’ un dato di fatto che nella tradizione napoletana il presepe ricopra un gran valore. Quanto è importante per te personalmente? Credi che la mania presepiale dei napoletani derivi da un ferma credenza nella religione o piuttosto nell’abilità partenopea di creazione di maschere, travestimenti e riproduzioni in scala di altrettante identità?
MRP: Non parlerei di “mania” presepiale, piuttosto di passione. Una passione complessa, e difficile da spiegare: nel presepe c’è la tradizione, il mito, l’arte, il folklore, la simbologia – ogni personaggio deve essere perfino collocato in un posto ben preciso. Il presepe popolare, come diceva Matilde Serao, è Napoli, la glorificazione di Napoli, della sua antica quotidianità, della sua esuberanza, della sua schiettezza, anche delle sue contraddizioni. Il presepe o lo si ama oppure no, non esistono mezze misure. A questo punto, Lorenzo, avrai capito che sono Presepista, per dirla alla De Crescenzo che divide i napoletani in Presepisti e Alberisti. Anche Ettore era Presepista.
LS: Sono interessantissimi i riferimenti alla cultura (dialetto, arte) napoletana ed è affascinante questo stretto legame che tu evochi tra la famiglia, la terra e il passato. Ci sono autori napoletani che ti piacciono in maniera particolare? E quali scrittori italiani e stranieri ti piacciono di più?
MRP: Nel mio romanzo numerosi sono i termini dialettali e le espressioni gergali, tradotti o spiegati, poi, con note a piè di pagina. Credo sia stato più efficace e funzionale alla narrazione, riportarli senza italianizzarli o sostituirli con sinonimi, anche perché la storia che racconto è ambientata in un determinato contesto e geografico e storico. Negli anni 50/60 a Napoli si diceva la bella mbriana, non la fata buona della casa. Nessun dubbio riguardo i miei autori preferiti: Marquez e la Allende, di cui ho letto tutto. E poi tutta la letteratura di matrice ispanica. Tra gli italiani mi piacciono molto Alessandro Baricco, Marco Lodoli e Stefano Benni.
LS: Nel romanzo, ad eccezione di Ettore, non ci sono personaggi maschili tratteggiati con attenzione. E’ un universo di donne di età e sensibilità diverse a dispiegarsi all’interno del romanzo. L’idea che ci facciamo è che si tratti di un romanzo quasi “matriarcale”. E’ sbagliata questa interpretazione?
MRP: In Pazienti smarriti la presenza femminile è sicuramente forte, la si tocca con mano. Già l’Esercito della Salvezza, la milizia nella quale idealmente la moglie, le figlie, la sorella di Ettore, si arruolano volontarie per la salvezza del loro uomo rende l’idea di quanto le donne siano combattive, risolute, pronte, se necessario, perfino ad impugnare le armi per contrastare il nemico subdolo che si accanisce contro il loro caro. In situazioni estreme, come una grave malattia, oppure durante terribili emergenze, quali la guerra, si tira fuori una grinta, un’energia, che forse neppure si sa di avere. L’abbondanza di figure femminili poi, nel romanzo, è dovuta al fatto che ci sono esperienze devolute storicamente più alle donne che agli uomini, appunto l’assistenza degli ammalati, ed anche alla circostanza che numericamente vi sono più donne che uomini, come nella mia famiglia. Tra i personaggi maschili, vorrei sottolineare Genny, il giovane parrucchiere che viveva alla giornata e che ebbe un destino simile. La storia di quel ragazzo scanzonato e poetico mi emozionò al punto che decisi di ricordarlo nel romanzo.
LS: Di pari passo alle varie operazioni e all’aggravarsi delle condizioni di salute di Ettore nel romanzo sottolinei in più punti una certa deferenza, una freddezza e distanza di rapporti tra il personale medico ed i parenti. I dottori e i chirurghi operano e danno responsi solo perché quello è il loro lavoro. Manca, sotto questo punto di vista, il lato umano che una professione come questa dovrebbe manifestarsi in maniera di supporto emotivo non solo per l’ammalato ma anche per i suoi parenti. Ci sono delle suore che un po’ si dedicano a questo aspetto. Perché hai voluto sottolineare questo elemento?
MRP: Come ho detto all’inizio di quest’intervista e come sempre ripeto nelle presentazioni, Pazienti smarriti non è un libro sulla malasanità, ma una storia di sentimenti. La malattia di Ettore è stata un percorso durante il quale si è avuto l’incontro con operatori sanitari capaci e disponibili ed altri venali o boriosi, con persone meravigliose – buoni samaritani, – e con chi, invece, non si sarebbe mai voluto incontrare. Si è sperimentata la solidarietà, autentica, commovente, tra gli ammalati, tra le famiglie degli ammalati. Abbiamo percepito, nel momento più critico della malattia, nel passaggio alle cure palliative, un distacco, da parte dei medici proprio quando vi era maggiore necessità della loro presenza. Un atteggiamento difensivo, un “ritirarsi” forse dovuto all’idea dell’impotenza, della sconfitta, personale e della medicina. A mio parere, la malasanità, non è solo l’ inadeguatezza dei servizi, ma soprattutto la scarsa attenzione al paziente, l’incapacità di rispondere anche al bisogno d’umanità di chi vive l’esperienza della malattia.
LS: E’ singolare che entrambi i sogni-visioni che la protagonista fa ricalcano una serie di elementi che la concernono nella realtà: la frequentazione dell’ospedale, la malattia del fratello, l’unione con gli altri membri della famiglia. Nel secondo sogno mentre i parenti stanno aspettando Ettore che esca dalla sala Tac, si rendono conto che è scomparso e tutti si mettono a cercarlo. Siamo nel sogno. Si fa riferimento così ai “pazienti smarriti” da cui deriva il titolo del romanzo. In che senso i pazienti sono smarriti? E’ la malattia a privarli di sicurezze e del riconoscimento degli spazi? Perché la protagonista fa questo sogno?
MRP: Il titolo del romanzo deriva proprio dall’episodio dello smarrimento del paziente in ospedale. Dopo una Tac, Ettore fu “realmente” smarrito. Come una valigia. E l’Esercito della Salvezza a cercarlo dappertutto… Non fu un sogno. Tutt’altro! In quale chiave dovevo riportare un fatto del genere? Sono ricorsa all’espediente onirico, calcandovi la mano, arrivando al surreale. Solo nei sogni-incubo dovrebbero verificarsi certi fatti. Il titolo potrebbe essere letto anche come metafora dello smarrimento, dello spaesamento che prende chi, all’improvviso, si trova sradicato dal proprio ambiente, in un contesto sconosciuto, e con l’incognita della malattia. Naturalmente lo smarrimento è una richiesta d’aiuto.
LS: Hai altri lavori in cantiere? Stai scrivendo qualcosa o hai in mente un nuovo progetto? Se sì, puoi anticiparci qualcosa?
MRP: La lettura e la scrittura fanno parte del mio quotidiano. Sono napoletana e quindi superstiziosa per cui preferisco non aggiungere altro. Però, Lorenzo, di sicuro c’è una storia che mi piacerebbe moltissimo scrivere, una storia che avesse questo incipit: c’era una volta, c’era una volta, una bruttissima malattia e adesso non c’è più.
Ringrazio Maria Rosaria Pugliese per avermi concesso questa intervista.
LORENZO SPURIO
11 Luglio2011
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