Johann Wolfgang von Goethe (1742-1832) è stato uno dei più grandi scrittori, poeti e pensatori tedeschi di tutti i tempi, è considerato una delle figure fondamentali della letteratura mondiale, ha contribuito allo sviluppo del Romanticismo e del Classicismo tedesco.
Per Goethe, il concetto di Natura non è solo un insieme di elementi fisici o un semplice ambiente naturale, ma rappresenta un’unità viva e dinamica. La Natura è vista come un organismo in continua evoluzione, un processo di crescita e trasformazione; Goethe la considera anche come una fonte di saggezza e di bellezza, qualcosa di profondo e misterioso che va oltre la mera apparenza. In sostanza, per lui, la Natura è un’entità viva, intelligente e piena di significato, che merita di essere osservata e compresa con rispetto e sensibilità.
La sua opera più famosa è il poema epico Faust, ma ha scritto anche romanzi, poesie, drammi e saggi che hanno avuto un grande impatto culturale e filosofico.
Il Faust è un poema drammatico in due parti, opera complessa e ricca di significati, esplora temi profondi, come il desiderio di conoscenza, il senso della vita, il peccato, la redenzione e il conflitto tra il bene e il male. Nel suo dramma, Goethe esplora il desiderio dell’uomo di conoscere e di entrare in contatto con la Natura, che rappresenta anche il mistero e la perfezione. Faust stesso è un personaggio che cerca di superare i limiti umani e di comprendere il senso della vita, spesso attraverso un rapporto complesso con la Natura. Goethe vede la Natura come qualcosa di vivo, di dinamico e di sacro e nel suo lavoro questa connessione è molto importante, perché rappresenta anche la ricerca dell’armonia tra l’uomo e il mondo naturale. Il rapporto tra Faust e la natura è centrale nel pensiero di Goethe, che la considera un elemento fondamentale della vita e della conoscenza. L’opera è ispirata dalla leggenda del personaggio, il Dottor Faust della tradizione europea. Il poeta cominciò a scrivere il primo abbozzo nel 1772 e lo considerò terminato nel 1831, ma nel 1832 vi apportò ancora dei ritocchi. Le scene scritte tra il 1772 e il 1775 formano l’Urfaust (Primo Faust), che pubblicò solo nel 1887, influenzato dal Faust del poeta elisabettiano Cristopher Marlowe. La corrente letteraria di riferimento fu lo Sturm und Drang/ Impeto e Assalto.
Nel 1790 Goethe fece apparire un Frammento che comprendeva all’incirca la metà della prima parte, poi completò questo Frammento a partire dal 1797; nel 1808 pubblicò la prima parte del dramma, che non fu più modificata. Lo stile è quello del Classicismo. In questa prima parte, di gran lunga più accessibile, Goethe mescola ricordi personali ai dati leggendari. Il suo Faust si dà al demonio per desiderio di sapere e per sete di godimento.
Il fulcro dell’azione è una scommessa tra Mefistofele, il diavolo, che si impegna di sedurre il dottor Faust e il Signore, il quale sostiene che Faust sarà capace, con le sue sole forze di trionfare sulla tentazione. Faust, medico – scienziato, uomo rispettabilissimo, svolge la sua attività con un aiutante (Wagner) ed è insoddisfatto della sua vita e della sua conoscenza, così si rivolge alla magia, incarnata dalla diabolica figura di Mefistofele. Faust e Mefistofele siglano un patto: Faust si impegna a servire il diavolo e ottiene la giovinezza in cambio della propria anima. Ma nel corso degli eventi Faust si confronta con le sue scelte, le tentazioni e le conseguenze delle sue azioni e diventa il simbolo dell’umanità intera, che “erra in quanto agisce”, ma che deve agire per realizzare l’ideale sentito dalla propria coscienza.
Seduce l’innocente Margherita, che poi abbandona; l’infelice ridotta alla disperazione, uccide il suo figlioletto ed è condannata a morte. Spira tra le braccia di Faust, ma, una voce dal cielo fa sapere che sarà salvata grazie al suo pentimento. Margherita è una figura che simboleggia la fragilità e la vulnerabilità della donna nell’ambiente sociale del tempo. La storia di Margherita evidenzia il conflitto tra il sentimento amoroso e le conseguenze del peccato. Nonostante il suo destino tragico, Margherita ha la possibilità di scegliere la redenzione, dimostrando la sua forza interiore. La fede di Margherita è un elemento centrale nella sua storia, che la spinge a cercare la salvezza anche nelle circostanze più difficili. La tragedia di Margherita è un’importante parte del dramma di Faust e ha avuto un grande impatto sulla cultura e sull’arte. E’ una storia che continua a commuovere e a far riflettere sul potere dell’amore, sulla fragilità umana e sulla possibilità di redenzione.
Questo dramma della passione, a cui Goethe dà il nome di Tragedia di Margherita, non è che un semplice episodio. Due sono le grandi tematiche del Faust: il patto – scommessa e lo Streben (il cercare); Mefistofele sfida Dio, volendo dimostrare che Faust, pur affannato e alla ricerca di nuovi ed elevati saperi, in realtà è pur sempre disponibile ad un piacere che proviene dall’abbandono della sapienza. La parola Streben è la parola che caratterizza il protagonista, il suo continuo sforzo di superare i limiti, di non appagarsi mai in nessuna situazione; rappresenta anche lo spirito della borghesia, la sua forza innovativa e rivoluzionaria. Faust, nel primo prologo è disperato: il sapere non gli permette di conoscere l’intima essenza della Natura e decide dunque di darsi alla magia, evocando Mefistofele. Faust è salvato in extremis dal suicidio: sente le campane della Pasqua e la gioia che da esse deriva. In Faust convivono due anime in contrasto: la prima tende al potere – sapere, l’altra ad un legame con il mondo.
Il Faust è un’opera attuale perché affronta temi universali e senza tempocome il desiderio di conoscenza, il senso della vita, il conflitto tra bene e male e le conseguenze delle proprie scelte. Questi argomenti continuano a rispecchiare le sfide e le domande che affrontiamo ancora oggi, rendendo la sua storia e i suoi insegnamenti sempre rilevanti. Inoltre, il personaggio di Faust rappresenta la ricerca incessante di significato e di progresso, che sono temi molto presenti nel mondo moderno, per cui, anche se il testo è stato scritto secoli fa, le sue riflessioni sono ancora molto, molto attuali grazie alla sua profondità e alla sua capacità di parlare delle grandi domande dell’esistenza. L’opera affronta anche il desiderio di trascendenza e del senso più profondo della vita che alla fine si può interpretare come ricerca di redenzione e di salvezza, anche attraverso le proprie azioni e il proprio percorso di vita.
Goethe ha scritto il “Faust” perché voleva esplorare grandi temi come quello sulla condizione umana, sulla tensione tra aspirazioni spirituali e desideri materiali e quello sulla possibilità di redenzione anche dopo errori e tentazioni. Il Faust è spesso considerato un simbolo dell’umanità intera perché rappresenta l’aspirazione umana all’infinito, la ricerca di conoscenza e l’insofferenza per i limiti della condizione umana; è un uomo che si ribella ai confini della conoscenza, del potere e della vita stessa, cercando di raggiungere un’esistenza superiore attraverso un patto con il diavolo. La ricerca dell’infinito lo porta a desiderare la conoscenza assoluta, il potere e l’eterna giovinezza: fa il patto con il diavolo per soddisfare il suo desiderio di trascendere i limiti. E’ simbolo della condizione umana segnata da un’aspirazione all’infinito e da un costante desiderio di trascendere i propri limiti.
Faust, nel suo viaggio alla ricerca di conoscenza, sperimenta il tormento di non riuscire a raggiungere la serenità e la felicità eterna, anche con il potere del diavolo e nonostante il patto con il diavolo; non rinuncia alla sua aspirazione al divino, cercando di raggiungere un senso di appagamento che vada oltre le cose terrene.
TINA FERRERI TIBERIO
Bibliografia:
Johann Wolfgang Goethe, Faust edizione integrale, Rusconi libri, Santarcangelo di Romagna (TN), 2022
Aldo Carotenuto, La forza del male. Senso e valore del mito di Faust, Bompiani, Milano, 2004
Massimo Donà, Una sola visione. La filosofia di Goethe, Bompiani, Milano, 2022
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Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
L’Associazione di Promozione Sociale ‘Le Ragunanze’ con il patrocinio morale del Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, in collaborazione con FLIPNEWS, LATIUM, LEGGERE TUTTI, ACTAS, WIKIPOESIA, COORDINAMENTO DIFENDIAMO I PINI DI ROMA COMITATO VILLA GLORI, VIVERE D’ARTE LETTERATURA promuove la 10^ Ragunanza di “POESIA, NARRATIVA e PITTURA”.
La partecipazione è aperta a tutti coloro che, dai 16 anni in su – per i minorenni è necessaria l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci – senza distinzioni di sesso, provenienza, religione e cittadinanza, accettano i tredici (13) articoli qui di seguito specificati.
La frase sopra menzionata “per i minorenni è necessaria l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci”, vuol dire che chi non ha compiuto 16 anni può partecipare alla decima ragunanza, previa l’autorizzazione scritta e firmata da entrambi i genitori che dovranno allegare alla loro autorizzazione la fotocopia della loro carta d’identità.
I nostri GIURATI, i cui nomi saranno resi noti solo a conclusione della votazione, valuteranno gli scritti pervenuti e le opere pittoriche (in foto) spedite per e-mail, a loro insindacabile giudizio! Il REGOLAMENTO per la 10^ Ragunanza di POESIA, NARRATIVA & PITTURA, prevede quattro sezioni:
I sez.: POESIA INEDITA “NATURA-I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI”
II sez.: SILLOGE DI POESIA EDITA “A TEMA LIBERO”
III sez.: NARRATIVA LIBRO “A TEMA LIBERO”
IV sez.: PITTURA “A TEMA NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI O A TEMA LIBERO”
La tematica di tutte e quattro le sezioni, trattandosi di “ragunanza”, termine in uso nell’Arcadia di Christina di Svezia, dovrà almeno contenere dei riferimenti alla natura che ci accoglie.
Per la I sezione, la POESIA “NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI”, che sarà da Voi scritta, nel rispetto della sintesi poetica, dovrà ricordare i dettami dell’Arcadia, il valore della natura, filtrati dagli eventi attuali che coinvolgono, modificano, distruggono i quattro elementi della nostra madre Terra e lo spirito di tutti coloro che si prodigano per la salvezza ed il recupero dell’ambiente e in particolare dei pini di Roma e nelle altre latitudini.
Per la II sezione, la SILLOGE DI POESIA EDITA “A TEMA LIBERO”, che sarà da Voi già stata pubblicata (o da Casa Editrice o in proprio) e che decidete di far partecipare a questa X Ragunanza, si presenterà quindi come un libretto, potrà trattare qualsiasi tematica, essendo “A TEMA LIBERO”, e potrà spaziare su temi alti dell’esistenza, su temi universali, che abbraccino il genere umano.
Per la III sezione, NARRATIVA LIBRO “A TEMA LIBERO”, che sarà da Voi già stato pubblicato (o da Casa Editrice o in proprio) e si presenta quindi in forma di libro, potrà trattare qualsiasi tematica, essendo “A TEMA LIBERO”, e potrà spaziare su temi alti dell’esistenza, su temi universali e filosofici, che abbraccino il genere umano.
Per la IV sezione, PITTURA “A TEMA NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI O TEMA LIBERO” si tratta di un’opera pittorica, realizzata con qualsiasi tecnica e che verrà inviata per e-mail al giudizio, in formato jpg come fotografia; l’opera potrà trattare la tematica sui pini di Roma o libera, essendo “A TEMA NATURA – I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI O LIBERO”, e potrà spaziare su temi alti dell’esistenza, su temi universali e filosofici, che abbraccino il genere umano. Quell’opera pittorica scelta, qualora risultasse tra i vincitori, dovrà essere portata, se possibile, dall’autore in originale (non deve superare le dimensioni di 50 x 60) per essere esposta nelle tre ore della cerimonia di premiazione.
Art.1 Si richiede per la 10^ Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA, che il testo della poesia sia di massimo 36 versi e scritto in Times New Roman, a carattere 12 o 18 e che si rispettino in tutte le loro parti i 13 Articoli, i quali specificano le norme, i diritti, i requisiti e le leggi di questo regolamento.
Art.2 La POESIA della sezione “NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI” dovrà essere inedita e, per concorrere, andrà spedita via e-mail a apsleragunanze@gmail.com indicando e specificando la sezione da voi scelta in questo modo:
Decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA
Sezione I: POESIA INEDITA “NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI”
1.La POESIA sarà ammessa solo ed unicamente con il nome, cognome, contatto telefonico ed e-mail di rintracciabilità del partecipante al concorso. I dati del concorrente sopra indicati andranno scritti in un foglio “a parte” e spediti insieme al foglio dove sarà scritta la Vostra POESIA che concorrerà.
Ai nostri giurati sarà fatta pervenire la POESIA in forma anonima.
2.La “SILLOGE DI POESIA EDITA A TEMA LIBERO”, per concorrere, andrà spedita in pdf via e-mail a apsleragunanze@gmail.com indicando e specificando la sezione da voi scelta in questo modo:
Decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA
Sezione II: POESIA “SILLOGE DI POESIA EDITA A TEMA LIBERO”
La SILLOGE già pubblicata – o da Casa Editrice o in proprio – sarà ammessa solo ed unicamente con il nome, cognome, contatto telefonico ed e-mail di rintracciabilità del partecipante al concorso; questi dati saranno scritti su foglio a parte, che conterrà i dati ulteriori dell’Autore, nonostante appaia sul libro solo il nome ed il cognome dell’Autore della Silloge.
La Silloge di poesia, il libro, potrà essere spedita a scelta del partecipante, o con Raccomandata R/R o con piego di libri in una (1) unica copia a: A.P.S. “Le Ragunanze” c/o Michela Zanarella – Via Fabiola, 1 – 00152 Roma.
Congiuntamente (se possibile) dovrà comunque e pertanto arrivare, in pdf la Vostra silloge alla e-mail: apsleragunanze@gmail.com indicando nell’oggetto la sezione ovvero: sezione POESIA “SILLOGE DI POESIA EDITA A TEMA LIBERO”
Nel foglio inserito nella busta, che conterrà la silloge (il libretto), dovranno essere specificati i dati dell’autore: nome, cognome, contatto telefonico ed e-mail di rintracciabilità del partecipante al concorso.
3.Il LIBRO DI NARRATIVA “A TEMA LIBERO”, per concorrere, andrà spedito in pdf via e-mail a apsleragunanze@gmail.com indicando e specificando la sezione da voi scelta in questo modo:
Decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA
Sezione III: NARRATIVA LIBRO “A TEMA LIBERO”
ovvero, il Vostro romanzo, la Vs opera, potrà riguardare tematiche varie, essendo “A TEMA LIBERO” e potrà spaziare su temi alti dell’esistenza, su temi universali e filosofici che abbraccino il genere umano, i sentimenti, oltre alla fauna che regna nel nostro pianeta Terra. Il libro già pubblicato – o da Casa Editrice o in proprio – sarà ammesso solo ed unicamente con il nome, cognome, contatto telefonico ed e-mail di rintracciabilità del partecipante al concorso; questi dati saranno scritti su foglio a parte, che conterrà i dati ulteriori dell’Autore, nonostante appaia sul libro solo il nome ed il cognome dell’Autore del romanzo di narrativa a tema libero.
Il libro, potrà essere spedito, a scelta del partecipante, o con Raccomandata R/R o con piego di libri in una (1) unica copia a: A.P.S. “Le Ragunanze” c/o Michela Zanarella – Via Fabiola, 1 – 00152 Roma.
Il Vostro libro “a tema libero” sarà fatto pervenire ai Nostri giurati in pdf e sarà esposto nel giorno della Premiazione.
IV sezione: PITTURA “A TEMA NATURA – I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI O TEMA LIBERO”. Si partecipa con un’opera pittorica in qualsiasi tecnica a tema libero, a colori o in bianco e nero, da inviare in foto per posta elettronica all’indirizzo apsleragunanze@gmail.com in formato JPG, i file devono essere nominati con il titolo della foto.
Decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA
Sezione IV: PITTURA “A TEMA NATURA – I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI O A TEMA LIBERO”
Art.3 Le modalità espressive della POESIA, della SILLOGE, del LIBRO DI NARRATIVA, della PITTURA ripartite nelle due modalità, non dovranno essere offensive né ledere la sensibilità e/o la dignità del lettore, dell’ascoltatore, del visore e della persona chiamata in causa a “giudicare” e a leggere. Le opere che non ottemperano quanto specificato nell’articolo 3 saranno automaticamente escluse.
Art.4 La partecipazione è soggetta ad una quota di € 15,00, che sottintende la presenza dell’autore concorrente ed include le spese di segreteria; si può partecipare a due o più sezioni con una quota pari a € 20,00.
Art.5 La scadenza per l’inoltro dei materiali è fissata a domenica 30 GIUGNO 2024;
Art.6 Il giudizio della giuria è insindacabile;
Art.7 La partecipazione al concorso comporta l’accettazione di tutte le norme del presente regolamento ed il partecipante dovrà essere presente il giorno della ragunanza per la lettura delle POESIE e di alcuni stralci di brani tratti dal LIBRO di Narrativa, secondo la graduatoria di premiazione di fronte agli astanti e per la descrizione breve “a commento” della propria opera, la PITTURA, qualora ci fosse tempo ulteriore a disposizione.
Sono ammesse deleghe solo in presenza del delegato a ritirare il premio assegnato, il quale si dovrà mettere in contatto con la segreteria del PREMIO, confermando il nome del delegato alla mail: apsleragunanze@gmail.com ;
Art.8 Qualora il premiato o il suo delegato non fosse presente, il suo riconoscimento sarà recapitato solo previo inoltro tassa di spedizione ed accordi con la segreteria del premio.
Art.9 I partecipanti, le cui loro opere di poesie, sillogi, racconti brevi, romanzi e pitture nelle modalità specificate, siano state selezionate per la premiazione, la lettura e la visione in pubblico, saranno informati sui risultati delle selezioni mediante e-mail personale e segnalazione nel sito dell’Associazione di Promozione Sociale “Le Ragunanze”: http://www.leragunanze.it.
Art.10 La premiazione avverrà in data da definirsi secondo le disponibilità della struttura che ci ospita
Art.11 A tutti i selezionati sarà inviato, con largo anticipo, l’invito per partecipare alla cerimonia di premiazione.
Art.12 I PREMI saranno così suddivisi:
Decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA.
I sez.: POESIA INEDITA “NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI”
POESIA INEDITA sez. “NATURA- I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI”:
– primo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)
– secondo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)
– terzo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)
II sez.: SILLOGE DI POESIA EDITA “A TEMA LIBERO”
SILLOGE DI POESIA EDITA a “Tema Libero”
– primo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)
– secondo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)
– terzo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)
III sez.: NARRATIVA LIBRO “A TEMA LIBERO”
NARRATIVA LIBRO a “Tema Libero”
– primo classificato: (targa+ abbonamento per 1 anno al mensile LEGGERE TUTTI)
– secondo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)
– terzo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)
IV sez.: PITTURA “A TEMA NATURA – I PINI DI ROMA E NELLE ALTRE LATITUDINI O A TEMA LIBERO”
PITTURA in modalità “a Tema Natura – i pini di Roma e nelle altre latitudini o a Tema Libero”
– primo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)
– secondo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)
– terzo classificato: (cartiglio pergamenato con targa)
Saranno consegnate le Menzioni d’Onore (cartiglio pergamenato con medaglia)
L’assegnazione della TARGA del PRESIDENTE dell’A.P.S. “Le Ragunanze” è a discrezione del PRESIDENTE.
L’associazione ACTAS di Tuscania e l’associazione LATIUM di Madrid assegneranno una targa per le opere che riterranno più meritevoli.
* Nella sinergia tra l’A.P.S. “Le Ragunanze” e FLIPNEWS è contemplata l’assegnazione di una targa, che verrà consegnata a discrezione del presidente dell’omonima associazione.
Tutti i partecipanti presenti, e solo i presenti, riceveranno brevi manu l’attestazione di partecipazione alla decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA e PITTURA per aver concorso con l’opera, anche se questa non si è posizionata tra i vincitori.
Art.13 Nel file d’invio a apsleragunanze@gmail.com includere dati personali, indirizzo postale, indirizzo e-mail, telefono, breve nota biografica, (per i minorenni includere anche l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci con la fotocopia della loro carta d’identità) la dicitura “SARÒ PRESENTE”, fotocopia del versamento di € 15,00 per una sezione, si può partecipare a due o più sezioni con una quota pari a € 20,00, da effettuare tramite ricarica Postepay n° 5333 1711 2801 1620 intestato a Michela Zanarella, C.F.: ZNRMHL80L41C743L o con Paypal a miczanar@yahoo.it o in contanti nel plico di spedizione per i diritti di segreteria; in calce al testo, la seguente dichiarazione firmata:
“Dichiaro che i testi delle poesie, i libri, le pitture da me presentati a codesto concorso internazionale sono opere di mia creazione personale.
Sono consapevole che false attestazioni configurano un illecito perseguibile a norma di legge.
Autorizzo il trattamento dei miei dati personali ai sensi della disciplina generale di tutela della privacy (L. n. 675/1996; D. Lgs. n. 196/2003) e la lettura e la diffusione del testo per via telematica e nei siti di Cultura della Poesia, della Narrativa e dell’Arte, nel caso venga selezionato, dai giurati del concorso Decima Ragunanza di POESIA, NARRATIVA & PITTURA”
Per il sesto anno consecutivo, l’associazione di promozione sociale ‘Le Ragunanze’, nel X anno dell’omonimo Premio internazionale per la poesia, la narrativa e la pittura, consegnerà la Targa dedicata adAnastasia Sciuto, ad un giovane talento dell’Arte Drammatica, Cinematografica e Televisiva, nel plauso e nel ricordo dell’impegno artistico della giovane.
Referenti del concorso:
La Presidente dell’A.P.S. “Le Ragunanze”, Michela Zanarella
La vasta produzione poetica – in dialetto messinese (di Malvagna) e in lingua italiana – di Josè Russotti (31 marzo 1952 – Ramos Mejìa – Argentina) appare fortemente omogenea sul piano tematico ma assai diversificata sul piano stilistico-linguistico (per peculiarità che sono tutte da verificare) e come attraversata da una perenne, progressiva ricerca espressiva: opera, senza meno, in fieri di un poeta che mira sagacemente alla conquista dello stile.
Il poeta di Malvagna esordisce nell’arengo poetico con una vibrante, commossa raccolta di poesie dialettali (con traduzione italiana a piè di pagina), Fogghi mavvagnoti,[1] che dell’«opera prima» possiede tutti crismi (sviste e refusi compresi). Vi si percepisce, immediatamente, l’amore viscerale di Russotti per il paese della sua infanzia – vero e proprio leitmotiv – tuttavia frustrato dalla delusione per quella che pare un’irreversibile sparizione: «Urìa stari ‘ssittatu subbra un furrizzu ‘i ferra / a menzu â campagna ciuruta di Pìttiri. / […] Ma non c’è vessu e modu di nuddha manera / ‘i truvari u sint’ri chi carusu avìa scapicciatu» (Urìa stari);[2] e ancora: «Lucia di centu dottrini, / non vidi chi stu paìsi pinìa / e mòri senza na raggiuni?» (Donna Lucia Pantano).[3]È forte, invero, il disappunto dell’io poetante per l’attuale vita-non vita del paese «china di lazzi e ruppa» e il suo desiderio inappagato di «nnèsciri ô chianu» (Mi veni iàddita).[4] Trapela anche nettamente, nella raccolta, la sensibilità sociale di Russotti per le sofferenze degli ultimi (Canzuni pi un drogatu, Turi Cacotta, L’emigranti), accentuata dal suo tormento di figlio desolato dopo lamorte del padre (U scontru) e della madre (E jò chi n’ha vistu mòriri mai a nuddu, 7 febbraio ’99). Trascorre peraltro nei testi, per brevi cenni, tra immagini di crudo realismo, qualche lieve meditazione sui grandi temi del bene e del male, del tempo irrevocabile, della vita che fugge, della morte che incombe (Parori, Ora mi veni, Don Micu Scrofani, Acqua chi scenni e s’incanara, Comu attenti suddati). E ritorna sovente, per concreti, espliciti riferimenti, l’attaccamento carnale, sensuale del poeta all’amore (U nsonnu, Chi nostri cori, A surgiva, Quanti uòti, Niàutri dui).
Sul piano linguistico-stilistico, Fogghi mavvagnoti è, però, a tutti gli effetti, un’opera radicalmente intessuta di termini, locuzioni, stilemi popolari rimemorati agevolmente dal poeta di Malvagna e trasposti felicemente sulla pagina con i loro forti accenti realistici, senza particolari mediazioni autoriali che non siano quelle relative all’armonia, al ritmo, alla testura dei versi, che paiono, invero, «senza tempo tinti». Talché, parafrasando un titolo di Marcuse, questa prima raccolta di Russotti, parrebbe «a una dimensione»: quella realistico-referenziale della poesia dialettale tout court. Si rilegga, a conferma, la prima strofa di Spondi dill’Alcantara: «Uci di fìmmini si lèunu / ndê spondi dill’Alcantara. / Uci di matri patuti / che càntunu chini di prèjiu / vannu dritti e vagghiaddi / chî so’ cufini subbra a testa»,[5] dove la precisione dei dettagli non differisce punto da quella che si può ritrovare in un saggio di antropologia culturale o, meglio, nel quadro di un pittore realista, come Courbet.
La raccolta di poesie in lingua italiana, Spine di Euphorbia, pubblicata, quindici anni dopo[6], contiene liriche che si muovono nello stesso ambito tematico-contenutistico della precedente, ma appare del tutto nuova sotto il profilo stilistico. C’è, invero, un salto tra Fogghi mavvagnoti e Spine d’Euphorbia che non si spiega solo col cambiamento del codice linguistico (dal dialetto mavvagnotu alla lingua italiana) e con il lungo intervallo tra l’una e l’altra, ma presuppone una radicale svolta, se non una rivoluzione effettiva, nella maniera d’intendere e praticare la poesia, da parte di Josè Russotti, che sembra ora privilegiare la dimensione metaforico-simbolica dei testi, probabilmente mutuata dalla lettura dei poeti maggiori del Novecento (García Lorcain primis, già ricordato dallo stesso Russotti nella prima raccolta, i maudits francesi nonché gli italiani ermetici e post ermetici, conosciuti in occasioni non programmate),[7] ma fatta propria dal poeta nei modi entusiastici del neofita che idoleggia il tesoro di cui è venuto in possesso, cavandone impensate potenzialità espressive. Vale la pena di rileggere la prima lirica della raccolta, Madre sola, dove il flusso continuo di metafore, similitudini e simboli, senza annullare la realtà e conservando un altissimo grado di leggibilità, concorre a un canto-pianto che riesce a sfiorare le vette del sublime: «Madre di nulla vestita! // Vestita del tuo dolore che è pianto / del tuo lamento che è canto / Madre senza neppure aspettare / e quasi alla fine dei miei passi / ti riscopro brace per l’inverno inoltrato […] All’ombra dei tuoi capelli argentati / diventavo quieto come un agnello / e ambivo le carezze della notte […] Madre di nulla vestita. Madre da sempre sola / adesso ti rincorro nei rimpianti della sera».[8]
Non mancano, invero, nella raccolta, casi di iperfigurativismo (da neofita), in cui le metafore si susseguono di verso in verso, senza riuscire a essere illuminanti: «Dentro un fuoco di lava / appaio sconfitto e detestabile/ e tale perduro // Gli occhi in lutto / bagnano l’ossario aperto / di filo spinato // Si taglia a fette / questa piaga immensa / dentro un sogno di latta / che non trova nei ricordi / un qualsivoglia riscontro // I morti / giacciono in me» (I morti giacciono in me).[9] Ma bisogna riconoscere che il poeta, in Spine di Euphorbia, riesce, perlopiù, a combinare in un’armonica cifra stilistica, il piano realistico (degli affetti familiari, della vocazione sociale, dell’amore-disamore per il paese di origine), e il piano simbolico-metaforico della poesia novecentesca, conseguendo altissimi livelli poetici. Basti ricordare A Very, All’alba di un giorno qualsiasi, A-sintonie instabili, Con l’attesa ferma nel cuore, Disomogenie malvagnesi, Graffio l’angolo di vetro, I negri invisibili, L’ultimo passo (a Sebastiano, mio padre), Mai t’amai così teneramente, Noi chiedevamo solo amore, Non piangere per me Malvagna, Se vuoi infrangere, Sul filo amaro della vita, Vegeto in una crepa di luna, Vòlto a scavare. La scoperta della dimensione metaforica della poesia produce peraltro un altro notevole scatto, rispetto alle raccolte precedenti, in Spine d’Euphorbia, dove l’amore della donna amata, si traduce in immagini della natura circostante che, a loro volta, prefigurano modi pensosi, drammatici dell’Essere all’insegna della precarietà, della provvisorietà, se non della insignificanza del mondo. (Avvinto, Ci sorridemmo, Del tuo tenue sapido effluvio, Eri qui, Nudo amore, Spine d’Euphorbia, Steli di Tamaro fra le dita, Ti lascio una crepa di vita). In questo ambito si coglie, peraltro, qualche timido riflesso del cristianesimo sofferto di Russotti (Sotto il sole d’agosto).
La rivoluzione stilistica evidenziatasi in Spine d’Euphorbia si riflette nelle liriche in dialetto della raccolta Arrèri ô scuru, pubblicata due anni dopo, presso Controluna (Roma 2019).[10] Vi si ritrova, profondamente ramificata, la forte, abituale materia sentimentale (l’amore della madre – Matri sura -, del padre – Unn’eri, E campu ‘i tia -, della moglie – Ciatu c’appoj diventa aria e si sciàmina, U to’ ciàuru di sempri, della figlia – Figghia chi resti ntô cori pi sempri), insieme con la vocazione etico – sociale (Di russu virgogna ora è u ma’ duluri, ‘Nfin’a quannu, Nino Bongiovanni, u putaturi, Ntâ sta terra di Sicilia) e con un’accentuata tensione introspettiva (Si tesci di dumanni a tira, Intra un vacanti ‘i nenti) dell’io poetante. Ma – quel che più conta -pullulano sulla pagina le figure retoriche (similitudini, metafore, simboli) tipiche della poesia in lingua del Novecento, già ampiamente sperimentate in Spine d’Euphorbia, qui utilizzate, però, con maggiore discernimento, senza alcuna perdita di senso. Si rilegga la prima poesia (che dà il nome alla raccolta), Arrèri ô scuru, dove, in pochi versi, mirabilmente fioriscono luminose metafore, atte a rendere nuovo il motivo eterno dell’amore: «[…] Ma ‘a notti è fatta suru di sirènzi, / unni mi peddu e mi cunfunnu / sutta na cutra di ‘nganni e llammìchi. / Femma u passu e vèstiti d’amuri, / picchì si’ timpesta subbra i puntara, / simenza d’addauru ‘i chiantari».[11] La documentazione di tale miracolo di armonia espressiva, per via di limpide metafore, potrebbe essere, invero, sterminata: ricorderemo, per sommi capi, «A puisia è simenza chi scava ntâ terra, / ràrica chi nun canusci cunfini», in A pusìa è …;[12] «Urìssi pi sempri a to’ bucca di meri», in Ciatu c’appoj diventa …;[13] «Si non si’ ccà a mmenzu a nuiàtri / a cantari a to’ gioia e a to’ alligria» in E campu ‘i tia;[14] «I campani sònunu a luttu subbra / i cappotti ‘ncurvati d’u friddu», in Figghia chi resti ntô cori …;[15] «Mu sentu d’incoddu / u to’ ciauru di fimmina e matri», in U to’ ciauru di sempri;[16] «Matri di nenti vistuta, / vistuta d’u to’ duluri chi è chiantu», in Matri sura;[17] «Ntâ sta terra di Sicilia / […] lorda / di mafia e bucchi ‘ntuppati», in Ntà sta terra di Sicilia, p. 78; «sutta a ràrica d’u rimpiantu» («sotto la radice del pianto») in Ntô mari lavu tutti i ma’ peni.[18] Su questa via, vòlta a una sempre maggiore limpidezza espressiva, procede invero, come vedremo, il poeta di Malvagna nelle raccolte successive, in cui si va perfezionando la sua travagliata conquista dello stile.
Il processo avviato nelle poesie dialettali di Arrèri ô scuru s’intensifica nelle liriche della seconda raccolta poetica in lingua, Brezza ai margini[19], di Josè Russotti, il quale continua a privilegiare la curvatura metaforica, novecentesca dei testi, ma mira, nel contempo, con maggiore convincimento, alla comunicazione, alla leggibilità, alla poesia «corale», per dirla con Quasimodo.
Le prime cinque liriche della prima delle due sezioni di cui l’opera si compone, Amare è vita, sono stabilmente imperniate sulle volizioni, i pensieri, le angosce di un io poetante tuttavia speranzoso, che avverte nel «silenzio dell’erba» il grido di dolore di chi nei «vicoli stretti del […] presente» non trova più «la porta di casa»,[20] o soffre per «il vuoto degli assenti»,[21] o rievoca, nella «bolgia infinita della sera», le «intrepide illusioni mancate»,[22] o si conforta sapendo che, «come per incanto / sorgerà il sole del mattino»,[23] o cerca un conforto frugando «nei vicoli / carichi di remoti silenzi».[24] Seguono tre liriche (VI, VII, VIII) imperniate sulla tecnica allocutiva dell’io/tu, che costituiscono autentiche invocazioni d’amore alla moglie: accolga lei, «nelle pieghe del suo dolore»,[25] le lacrime del suo uomo; la sua mano non si stanchi di dare al poeta «un senso di raro sollievo» (degno di attenzione l’intenso distico: «Me lo sento addosso / il tuo odore di femmina e madre»,[26] versione italiana del verso sopra citato di Arrèriô scuru); se l’amore dovesse affievolirsi («Se dovessi frugare nel vano / del tuo ventre acceso»), lei sicuramente saprà «aprirgli il cuore».[27] La tensione erotico-espressionistica si prolunga nella lirica successiva, in cui il poeta si prefigura che «Brandelli di lusinghe» e «bocche sconosciute e intrepide /accenderanno il suo cuore / nella bolgia della sera».[28] La decima lirica della raccolta è una dolorosa, ma stilisticamente compiuta, rievocazione della madre morta: il poeta cerca in casa ma «non trova più niente di lei»; il suo cuore «cade a pezzi», ma egli aggiunge «una goccia all’origano nel vaso di suo madre» (il verso è davvero sublime) sperando che ritorni.[29]
La seconda sezione, Angoli bui nel silenzio, della raccolta si apre con una lirica, la XI, in cui l’io poetante canta mestamente la morte del padre scomparso quando egli era in tenera età: «L’assenza / è un suono molteplice di arpe sulla riva / […]».[30] Al padre è anche ispirata la lirica XVII che forma con la XI un singolare dittico filiale. Il dodicesimo componimento è quello più gonfio di crudo, corposo realismo, prossimo – parrebbe – ai moduli espressionistici della poesia di Cattafi: «la grandine sui tetti», il «sangue dalla croce», la «fame che divora le budella», il «gesto inconsulto / di chi disperde il seme», il «vento tra la gramigna», «lo sputo sui vetri», il «vino rosso […] nello stipo»:[31] brandelli, invero, di una vita vissuta tra stenti, lontano dagli agi, e tradotti in una tormentata musicalità. Segue quella che si definirebbe «una trilogia della gente»: tre ampie liriche «corali», in cui il poeta, messo da parte il suo io dolente e risentito, guarda attorno a sé, divenendo quasimodianamente partecipe del dolore degli emarginati che sono vessati dagli uomini e dalla sorte: gli emigranti, extracomunitari, in ispecie, vittime della brutalità della storia e i morti di Covid. In essi il poeta emigrante si identifica, a tal punto che, nella prima strofa, della XIII poesia, presta loro la sua voce e diventa di fatto uno di loro: «Ci ha lasciato la madre che ci nutrì / col latte del seno e sedano crudo» (un distico sublime, invero).[32] Nella lirica successiva, la «gente» (forse, i parenti dei morti per Covid) «piange e stringe le ossa / dentro un fazzoletto intriso di memoria»,[33] e nella quindicesima il poeta «corale» registra accorato il «greve allinearsi delle bare».[34] Della stessa temperie stilistica sono i componimenti XX e XXI, in cui lo stesso acceso espressionismo presiede alla visione dei corpi dei migranti che «emergono e poi affondano […], / gonfi di sterile salgemma»;[35] mentre «le barche approdano vuote»: il poeta porge «alla faccia stupita degli stolti / un piatto ben condito di sapienza».[36] Nella lirica XVI, domina, tra illusioni e delusioni dell’io poetante, «la noia di certe giornate disadorne», mentre lo sguardo cade «sulla lumiera di carni putrefatte e scheletro» (di cattafiana memoria).[37] Seguono tre liriche (XVII-XIX) in cui ritorna la voce disillusa del poeta, che rifiuta ogni ipotesi consolatoria dell’aldilà («la morte è solo un gelido varco interiore / nella vanità dissoluta del transito finale»)[38] e ridimensiona il ricordo, più o meno affettuoso, che di lui avranno i compaesani, agognando semmai l’infinità che solo l’arte può dare («vivere ancora e poi ancora / e ancora, nel fertile cuore / dei fragili»),[39] e guardando in faccia la morte «che scivola sul destino delle cose».[40] La paura del disamore o meglio della fine dell’amore ritorna nella mesta lirica XXIII, che sembra costituire il pendant pessimistico («un ristagno di silenzi / innanzi alla fisica estraneità di mia moglie»)[41] del trittico alla moglie (della prima parte). Vi si collegano, per l’intonazione elegiaca, i due ultimi componimenti soffusi dalla malinconia del tramonto: «ogni gemito diviene / un tormento di rondini in pena».[42]
L’autore di Brezza ai margini è, in effetti, un poeta che patisce (o ha patito) sulla sua pelle il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia del mondo, approdando a una visione amara (ma non sconfitta), leopardiana se vogliamo, della vita e dell’arte: un uomo dimidiato, ad ogni modo, come un poeta medioevale, tra il sogno o il rimpianto del paradiso e l’amara certezza dell’inferno.
Nello stesso anno, qualche mese prima – precisamente nel gennaio del 2022 –, Josè Russotti dà alle stampeuna sorprendente raccolta di trentanove liriche in dialetto malvagnese,[43] con traduzione a fronte in italiano, distribuite in sette sezioni: I) Pî mapatri; II) A Mariacatina, ma’ matri; III) A mia moglie; IV) A Elyza, mia figlia; V) Nei giorni chiusi; VI) A Malvagna, il paese della memoria ritrovata; VII) Sulla vita e sulla morte. Quanto dire che Chiantulongu racchiude, come le altre raccolte e forse più compiutamente – alla stregua di un organico canzoniere d’antan – la vita e la storia personale dell’autore, talché, a lettura ultimata, sapremmo tutto di lui anche se non lo conoscessimo affatto: il legame fortissimo con la sua famiglia di umili origini (padre, madre, moglie, figlia); l’amore per Malvagna, il paese nativo (da cui il Russotti padre, indomito contadino in cerca di lavoro e di fortuna era emigrato per trasferirsi in Argentina, insieme con la moglie, e a cui, come tanti, era ritornato nel 1959, con moglie e figli); la sensibilità sociale, esplicita nella quinta sezione, Nei giorni chiusi, dedicata ai tragici effetti del Covid 19; il suo profondo, insanabile dissidio esistenziale, nella sezione finale Sulla vita e sulla morte. Ma quel che più colpisce è non solo il perfetto recupero, che vi si registra, di termini e locuzioni dialettali forti, efficaci, del tutto inedite (epperò pregne di un ancestrale nitore primigenio), ma anche l’attitudine del poeta a coniugare, sullo stesso asse linguistico, i colori antichi della poesia dialettale e le più ardite forme della poesia contemporanea, senza sbilanciamenti di sorta verso nessuno dei due poli espressivi. Donde, in altri termini, la coesistenza (come in Arrèri ô scuru, ma con maggiore pregnanza), in uno stesso componimento, del registro realistico, tipico della poesia popolare, col registro meditativo, introspettivo, allusivo, tipico della poesia novecentesca. Si veda come nella lirica finale (Davanzi a sti petri) della sezione dedicata all’indimenticabile padre (morto giovanissimo, dopo il ritorno in Sicilia), alla sequenza dialettale «mutu, restu ora, / davanzi ô to’ ricoddu / ‘ngudduriatu e suru» («silente, rimango adesso, / dinanzi al tuo ricordo / avvolto e solo») segua, senza soluzione di continuità, un verso allusivo di chiara matrice ermetica: «ndâ frèvi d’u sirènziu» (nella febbre del silenzio).[44] Allo stesso modo, nella lirica finale (Cu ddu sapuri di …) della sessione dedicata alla madre, morta dopo lunga e penosa malattia, sono perfettamente associate locuzioni contadinesche («ô brisciri d’u matinu») e forme di levatura novecentesca: «E di ora â fini / nniàvi u to’ coppi / ndô ballàriari mutu / d’u tempu!» («E da ora alla fine / annegavi il tuo corpo / nella muta sospensione / del tempo!»).[45] Ma le citazioni di questo che pare essere lo stemma esemplare della poesia di Josè Russotti sono numerosissime, nella raccolta. Ci si limita a evidenziarne qualche altra particolarmente pregnante.
Nella sezione dedicata alla cara moglie, la lirica Dumannu a tia dipinge la moglie con un dittico «muta ti nni stai ‘i canzàta / intra un faddari chinu ‘i pinzèri» («muta te ne stai in disparte / dentro un grembiule colmo di pensieri»),[46] dove il primo verso («muta ti nn stai ‘i canzàta») è desunto tale quale, dalla parlata locale mentre il secondo («intra un faddari chinu ‘i pinzèri») è immagine di raffinata caratura stilistica. Eppure, l’accostamento non stride affatto. Allo stesso modo, in Rìnnina d’amuri, la dolce figlia Elyza, prematuramente scomparsa, giunge «lorda ‘i brizzi» («sporca di sorrisi») – il di specificativo dopo l’aggettivo è usuale nelle poesie degli Ermetici –, ma la similitudine del verso successivo («commu na rìnnina ô giuccu» – «come una rondine al nido») è normale nel linguaggio popolare.[47] La stessa armonica associazione di stilemi popolari e figure retoriche ultramoderne si coglie agevolmente nelle liriche della sesta sessione, dedicata a Malvagna, dove l’amore del paese natio fa tutt’uno col dolore per «la sua sventura» di «paese che muore»: «Chiossai d’u ‘nvernu iratu / disìu a nivi janca di latti, / quannu u cantu d’i cicari fa a junnata. / Nivi fina di farina cinnuta / a cummigghiari i tènniri chiantimmi. / Mentri, / tutt’attornu ô paisi / matura u tempu, / avanza a motti» («Più dell’inverno gelato / bramo la neve bianca di latte, / quando il canto delle cicale fa la giornata. / Neve fina di farina setacciata / a coprire i teneri boccioli. / Mentre, / tutt’attorno al paese, / matura il tempo, / avanza la morte»).[48] Ugualmente intessuti di forme lessicali tratte dall’immaginario popolare di Malvagna e di stilemi postermetici sono i componimenti dell’ultima sezione, in cui si squaderna l’amara condizione esistenziale del poeta che cerca e non trova un senso della vita: «Non viddu nudda differenza / tra chiddu chi fu aieri / e chiddu chi sarà dumani: / suru a motti mmisca e sracancia i catti / subbra a tuàgghia d’a vita» («Non vedo nessuna differenza / tra quel che accadde ieri / e quel che accadrà domani: / solo la morte sconvolge e muta le carte / sulla tovaglia della vita».[49] Unico conforto la poesia, che va custodita come un tesoro: «Si campa d’amuri e di nenti, / di llammìchi e sustintamenti / ma non livàtivi a puisia d’u cori!» («Si vive d’amore e di nulla, / di stenti e sostentamenti / ma non toglietevi la poesia dal cuore!»).[50]
Il bifrontismo tematico e stilistico (tra la dimensione lirica, introspettiva, memoriale e la vocazione sociale), in composizioni magistralmente metaforiche ma viepiù schiarite in direzione della leggibilità assoluta, appare, con nuovi intendimenti, nella terza raccolta poetica in lingua di Josè Russotti,[51] che chiude, all’insegna del sublime, il portentoso biennio 2022-2023.
Delle quattro sezioni di cui il libro si compone, la prima (Pieghe all’ombra della sera) è imperniata sull’io dolente e tuttavia indomito del poeta, consapevole del sua solitudine e del suo disagio esistenziale in un mondo incapace di amare e di capire: «Ramingo e solitario nell’anima, orfano di padre e di madre assente, / stretto nell’angolo buio, spegnevo le mie paure / cantando tristi canzone d’amore / […] Un batuffolo indifeso / attorno al lordume dei grandi, / teso a implorare carezze / che nessuno mai seppe donare»;[52] «Con le mani impazienti / sul pomo della notte, / erro per l’infinito / come un bimbo col suo veliero : / cosmonauta vagabondo / nelle costellazioni dell’Io / per scoprire ciò che la vita / non ti permette di scoprire »;[53] «Smarrito nelle pieghe della vita, / vivo la duplice angoscia / sui ponti di rive opposte»;[54] «Io amo il mio vitigno e i figli d’allevare, / il vino nel bicchiere e il grano da mietere. / […] lontanissimo / dalla vanità dei colti / come un rozzo guascone, / prenoto ancora un posto / per nuovi sogni / da raccontare».[55] Donde, l’avvertenza dei limiti personali («Sono / figlio della Poesia e mi nutro di parole, / vivo nella lusinga dei miei errori / e solo nei versi la mia morte desiste dal morire»;[56] «Parea una piccola screziatura / nei riflessi dell’alba policroma, / […] Parea la fine del suo tenero silenzio / […] È la mia fragile ombra, / che mi segue ancora […]»,[57] [il corsivo è mio]), ma anche l’orgoglio dei valori coltivati: «In un urlo feroce di bandonéon argentino / cantai al cielo / lo sdegno per le futili apparenze / e il falso moralismo, / fino a far tremare i polsi / degli astanti».[58] Anche se lo sdegno per la malevolenza dei potenti sconfina talora negli eccessi della paranoia: «Li avevo tutti addosso / l’aculeo piantato sulla lingua, / la stizza del prete dietro la schiena, / gli occhi degli altri fissi su di me»;[59] «Non mi turba il vostro stupore / né l’infamia delle parole».[60] Quanto dire che, in Ponti di rive opposte, Russotti fa un passo avanti: non indulge all’elegia del paradiso perduto dell’infanzia, come in Brezza ai margini, ma oppone più decisamente la sua alterità di «rozzo guascone» alla cultura dominante. E, su questa stessa lunghezza d’onda, la polemica esplicita contro critici e poeti mediocri ma acclamati dai più: «[…] mi ritrovai fra le mani / esempi di poesia macellata / da finti poeti, svigoriti di parole / e vuoti endecasillabi rimati»;[61] «Ma se la vivida poetica degli avi non traspare / nei monitor accesi della sera / l’indicibile oltraggio cova / nella stupidità degli accoliti. / Nei predicatori del nulla / e nella fragorosa autocelebrazione / di chi non conosce la decenza. / Non è il male che insinua le menti /ma l’estremo dilagare dell’insanabile / mediocrità».[62] Dove sono esplicite le isotopie disforiche di «finti poeti», «vuoti endecasillabi», «stupidità degli accoliti» ecc., sull’asse semico della «mediocrità» come vero «male». Né manca, in questa prima sezione, del libro la testimonianza della religiosità (quasi francescana) del poeta, tuttavia immune da ogni forma di clericalismo: «ho imparato a domare l’orgoglio / e ho camminato al fianco degli scartati»;[63] «Ogni Pasqua che arriva non lenisce il mio dolore / è solo un giorno come tanti: / il rito della resurrezione è una parte / che non mi si addice».[64]
Anche da questa sintetica documentazione, si possono cogliere alcuni aspetti precipui dello stile poetico di Josè Russotti, il quale a) predilige un lessico chiaro fino ai limiti dell’oltranza («lordume dei grandi», «futili apparenze», «il falso moralismo», «poesia macellata», «predicatori del nulla», «l’insanabile / mediocrità»), b) adotta talora un’inedita, raffinata associazione di nome e aggettivo («alba policroma», «tenero silenzio», «fragile ombra»[65] e costrutti metaforici («sul pomo della notte»,[66] «provo a scavare con le unghie strappate / tracce del mio passato»;[67] «Lo strazio / è sale che sa di abitudini»[68]) nonché similitudini («danzano i pensieri / come l’erba fra i sassi»),[69] e immagini («Io amo il mio vitigno e i figli d’allevare, / il vino nel bicchiere e il grano da mietere»)[70]molto personali, desunti chiaramente dalla cultura contadina e magistralmente innestati in contesti verbali e stilistici di diversa caratura.
La seconda sezione del libro, Naufragio, contiene poesie intessute intorno all’amore coniugale, non privo di forti accensioni erotiche, corporali. Si alternano, difatti, liriche tenerissime che cantano – o recuperano dai flussi della memoria – momenti di assoluta tenerezza («[…] la tua mano sul viso / mi dà un senso / di raro sollievo»),[71] a cui non difetta mai, però, l’inevitabile legame carnale del vero amore: «Nell’approssimarsi incerto del mattino, / quel poco o molto che rimane / del tuo splendido sorriso / ha il verso di certe nenie infantili. E […] riparto / per nuove galassie inesplorate / annegandomi, da ora alla fine, nell’insenatura del tuo / florido petto».[72] Il poeta esprime, invero, sentimenti antichi, universali, forse imperituri, con un linguaggio forte, inusuale, pregno di fremente, non dissimulata carica erotica: «Linfa e sudore coprono / la tua pelle di sposa fedele, /mentre l’intrepida mano / affonda nella verticale ambìta / della tua calda ferita. Le dita la sfiorano appena / per non fermare / l’estasi sublime / del ritrovato desiderio».[73] Non casualmente, le isotopie erotiche – «sudore», «pelle», «intrepida mano», «calda ferita», «estasi», «desiderio» – convivono armonicamente, nei contesti citati, con quelle della castità coniugale: «raro sollievo», «splendido sorriso», «sposa fedele». E vale, a stento, la pena di sottolineare come tali isotopie siano, di norma, antitetiche, in gran parte della cultura e della poesia moderna, dove permane la scissione antica, forse di origine cattolica (più che cristiana), della donna nelle due ipostasi di angelo (madre, moglie, sorella) e demonio (amante, prostituta). Certo, poetesse come Alda Merini, Patrizia Valduga e la messinese Iolanda Insana hanno ampiamente ricomposto, nelle loro opere, quella orrenda scissione, consegnando al lettore un’immagine unitaria della donna, ricca di luci e ombre, di carnalità e di spiritualità (come in tutti gli esseri viventi). E tuttavia la poesia di Russotti assume, anche in questo ambito, un rilievo non marginale.
La terza sezione, Il Lavacro, ritesse, con accenti di assoluta purezza espressiva, l’amore del poeta per la madre scomparsa: «Solo nell’approssimarsi dei giorni / quel poco o molto / che mi è rimasto di te e di me, oh madre mia, / assumerà il verso / di certe nenie infantili»;[74] «La rivedo ancora, in un sogno di sempre, / quando prima della scuola / mi sistemava i bordi del bavero bianco».[75] Se non manca, invero, in alcuni componimenti di questa e nelle altre sezioni, così come nella precedente silloge, qualche oscurità superflua (di matrice ermetica), bisogna riconoscere che sfiora i vertici del sublime la suddetta lirica III di p. 77, in cui è ridotto al minimo l’armamentario poetico e il dettato, pur conservando il ritmo inconfondibile della poesia, si accosta molto alla prosa: «Le braccia incrociate sul petto / davano il senso compiuto dell’atto finale: / crudele da vedere. Duro da scordare. / Eppure, alla fine, a guardarla sul volto / pare che ci sorridesse ancora» (p.78).[76] Negli ultimi due componimenti del Lavacro, il poeta-figlio rimpiange, con la stessa composta premura la scomparsa del padre: «Piansero i tuoi figli indifesi / […] aspettando ancora e per sempre / il vano ritorno!».[77]
La vocazione sociale del poeta è presente, infine, insieme con qualche, allusiva lirica di congedo («avverto il lento declinare dell’ombra»),[78] nell’ultima sezione del libro, In Memoria. Josè Russotti, sensibile, in ispecie, al dramma dell’emigrazione, rievoca lo scempio del corpicino del piccolo Aylan, «curvo sul muto arenile di Bodrun», dove «al duro infrangersi dell’onda / si estinsero i tuoi sogni»,[79] o leva un inno solidale in ricordo di un eroe siciliano, militante di Democrazia proletaria, noto per le sue denunce contro Cosa Nostra, da cui fu assassinato il 9 maggio 1978: «la mia anima impura /non rinuncerà al tuo canto possente / dell’ultima volta: grido superbo / di agile armonie» (A Peppino Impastato),[80] o leva un canto per Mimmo Asaro, il poeta contadino, pressoché dimenticato, che ha rubato «parole alla terra / e le lasciò andare al vento» (Un canto per Mimmo Asaro, il poeta contadino).[81]
Una strana sezione, interna alla sezione In Memoria, è costituita da una sola lirica, Per Amalia, dedicata alla poetessa Amalia De Luca, amica e sodale di Russotti, peraltro presente nella raccolta con quattro sue liriche che aprono ciascuna delle quattro sezioni della raccolta stessa. Della poetessa palermitana, versata ai ritmi lievi, armoniosi, sincopati di una poesia luminosa, ricca di cieli, venti, mari, fiori, uccelli, con aperture improvvise all’assoluto, Russotti rimemora, con profonda simpatia, «il tocco lieve delle fragili ali», le «ciglia di teneri turioni», le parole «di rara bellezza», il corpo che resiste al «tempo delle stagioni», la «voce scavata dal profondo dell’anima», ma soprattutto la serena cordialità di chi lo chiama «nel cuore del silenzio per dirgli che l’ibiscus / non fiorisce più nel suo terrazzo».[82]
Quanto dire, in conclusione, che il poeta siciliano di Malvagna si autentica, senza meno, come una delle voci più originali e autentiche della poesia contemporanea. E vien fatto di pensare che quella saldatura tra passato e presente, perseguita invano dal poeta Russotti nella vita, si realizzi perfettamente sulla pagina, nei suoi componimenti poetici in dialetto e lingua.
[1] Josè RUSSOTTI, Fogghi mavvagnoti, Edizione libera, Malvagna (ME), 2002.
[6] J. RUSSOTTI, Spine d’Euphorbia, Il Convio Editore, Castiglione di Sicilia (CT), 2017.
[7] Ne ha detto, con dovizia di particolari, lo stesso Russotti, in una esaustiva pagina (Come sono diventato un poeta) redatta dopo la presentazione, presso la Biblioteca Regionale Universitaria di Messina, di Brezza ai margini (ved. infra) nel 2022.
[82] Ivi, pp. 99-100. Della poetessa palermitana è stata pubblicata, nel 2021, dalla Fondazione Thule Cultura di Palermo, la raccolta completa di Poesie 2002-2021, preceduta, invero, da una vasta raccolta di saggi critici sulla produzione poetica della stessa (AA.VV., Il problema dell’essere e il richiamo spirituale nella poesia di Amalia De Luca, a cura di Tommaso Romano e Giovanni Azzaretto, Thule, Palermo 2020), che ne ratifica la levatura europea.
Questi testi vengono pubblicati nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionati dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
La sua ricerca, partendo da Armide e andando a ritroso attraversando le ultime sillogi Garten e Sonetti fosforescenti entra nelle stanze dell’Humanitas e del Logos, in un incontro con l’inestinguibile rapporto tra Essere ed Essenza e con la provvisorietà dell’Esistenza. Anche in quest’ultima raccolta, Armide,si può scorgere la metafora del reale nelle numerose figurazioni immaginifiche rappresentate dalle presenze femminili e dalla Natura che vanta sempre un posto privilegiato, non propriamente ornamentale o accessorio, ma armoniosamente partecipe, familiare. Cosa rappresenta per lei il luogo delle «presenze misteriose e profumiere»?
Per come la intendo, la natura è il male, e in me si restringe ai giardini, specialmente quelli delle ville lacustri, e agli orti botanici: i luoghi selvaggi, se non si tratta delle Alpi, mi sconfortano. I “miei” giardini hanno sì qualcosa di familiare, ma anche di lontano, tanto è vero, che nel visitarli mi accade di avvertire nostalgia di loro, come fossi altrove. Nelle mie composizioni, costellate da viali notturni e ventosi, non trovo vi sia molto di umano. Certo, ho presente la realtà di quei luoghi eleganti e delle loro visitatrici, che vorrei tanto rivedere, ma in Armide, più che in termini immaginifici, si rivelano parvenze, nel senso per cui delle loro immagini concrete rimane una sorta di “profumo immaginale”. Non sono un realista. Non m’interesso delle poetiche: scrivo poesie come se in me fossero solo flussi transitori.
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La sua Poesia, raffinata, colta, pervasa di grazia derivante dalla qualità della reminiscenza, della forza immaginifica, della fascinazione dell’evanescenza e dell’incanto, del je–ne–sais–quoi, segno costante della sua scrittura, sembra abitare uno spazio classico che immette al sublime. In relazione a ciò, qual è il suo rapporto con la classicità; quali sono gli autori italiani o stranieri che hanno avuto un ascendente, o sono prossimi al suo modo di vedere la vita, l’arte?
Sì, è vero, nella mia poesia è presente il je-ne-sais-quoi, la grazia e l’evanescenza, perché questi tratti mi pertengono. A dir la verità, eccezion fatta per il gotico, non mi attrae nulla, se non si offre in modo fugace e suggestivo, ad esempio in certe condizioni atmosferiche e di luce, che preferisco sempre obliqua: di diretto, nel mio lavoro non vi è forse nulla. Guardo spesso le opere di due pittori che immagino fra loro inconciliabili: Caspar Friedrich e il Claudio di Lorena delle sue scene portuali, dove il sole appena sorto sfiora le cose tracciandone i profili. Nello spazio fra l’aurora e il tramonto sento solo l’oppressione delle cose stabili. Avverto un forte interesse per i polittici gotici, le opere di scuola senese e le miniature. Oltre a certi nomi sulla bocca di ogni manuale, mi attraggono opere considerate minori, o di cui nessuno parla, quando si fanno portatrici di aspetti imponderabili. La Grecia non mi ha mai attirato. Per le letture, mi perderei in una vera galassia, e solo per questioni di affinità potrei isolare Proust. Rileggo spesso il misterioso Gerard de Nerval, e attualmente le poesie Renè Vivien.
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Il poeta Silvio Aman
Lei mostra grande attenzione alla lingua: emerge evidente la necessità che la parola sia intensa, direi assoluta, ed è la rivelazione che essa contiene un elemento che oltrepassa il dominio comunicativo e la stessa ricercatezza. Possiamo dire che nel verbum lei individua l’ineludibile forza creatrice che, insieme alla materia ispiratrice, pone in essere il suo cosmo poetico?
Certo, la lingua in poesia oltrepassa il dominio comunicativo, anche se mi è capitato di sentire poesia e mistero nel tono con cui una ragazza stava acquistando il pane. La lingua, nel mio lavoro, è intrisa di musicalità. Più che ricercato, mi trovo diverso rispetto alla vigente Koiné, e non mi è mai venuto in mente di pensare alla forza creatrice, poi non so se possiedo un cosmo poetico: a me pare di non possedere nulla. L’ispirazione è davvero qualcosa di misterioso: non si sa quando e da dove viene, per cui potrebbe anche non giungere più… ma se viene, per noi lo fa nel verbo, anzi con i significanti cui pertengono del resto gli aspetti immaginari. Non ho mai creduto nella parola assoluta: la “mia” lingua presenta un’intensità fluente, fatta di voci ondose e pronte a ritrarsi.
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In lei, quali sono le circostanze privilegiate al sorgere della parola di poesia? Attribuisce importanza alla componente autobiografica e al rapporto con i luoghi dove è nato o in cui vive, e quanto “entrano” nell’opera?
Non saprei individuare queste circostanze, sicuramente molteplici, e non è detto che dopo aver ammirato un giardino nasca qualche poesia – però è vero, che in alcune parti dei miei libri i giardini sono presenti, e certo anche per questioni autobiografiche: sono nato in un luogo celebre per il suo lago, le ville, i giardini e i grandi Hôtel. Non invento nulla: declino solo gli aspetti della mia biografia, che include anche i tratti di alcune amiche.
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Lei è poeta, scrittore, ma anche saggista. In un tempo come il nostro dominato dalla tecnica e dall’apparenza, da un evidente crollo del senso critico, il poeta può ancora indicare la via, suggerire, come in Elevazione di Baudelaire «Fuggi lontano da questi miasmi /ammorbanti, e nell’aria superiore / vola a purificarti…»?
La saggistica l’ho intrapresa solo quando ho trovato l’autore che m’interessava. Come lei sa, Baudelaire non è mai fuggito, inoltre, in una sua poesia nominò la perdita dell’aureola, finita nel fango, e oggi mi pare non ci sia nemmeno più bisogno di perderla. Il poeta può indicare la via solo a chi è a un passo da imboccarla a sua volta. Le parole di Hölderlin, che poeticamente vive l’uomo sulla terra, rimangano solo per pochi… un gruppo sparuto nella notte del tempo. In quanto alla tecnica, ci accompagna da sempre in modo benigno e maligno. Del resto, anche il cuore del poeta è tecnico.
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E ancora: quale valore ha per lei la poesia, oggi che sembra orfana di maestri e, per le numerose voci, informe e frammentata, tanto che taluni la ritengono in grave crisi esistenziale?
Lo dice già lei molto bene, nominando l’informe. In quanto ai “maestri” se non ve ne sono di attuali, quelli di ieri non mancano. Certo, oggi le voci si moltiplicano, forse per l’errato presupposto, che per scrivere poesie basti esprimere il sentimento… il quale spesso mente. In quanto alla crisi, essa non è della poesia, bensì di chi ama la Musa senza esserne ricambiato… pur sempre meglio di chi la ingaggia per ragioni strategiche.
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Sappiamo quanto la copertina e il titolo rappresentino, in certo senso, la soglia del libro: come sono nati per Armide quegli elementi così carichi di suggestione?
Ah, sì, è vero, la copertina fa spesso da soglia al libro, e per questa (anche se la notevole riduzione fotografica non lo evidenzia) avevo “stregato” un piccolo giardino mettendo degli anelli d’oro ai rami e attaccandogli orecchini a goccia di zaffiri e rubini.
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Quali sono i progetti letterari futuri? Sta già lavorando a una nuova opera e di che tratta? Può rivelarci qualcosa?
Non ho mai avuto progetti letterari futuri, semmai quello di dedicarmi ai fiori. Ho scritto un lungo romanzo, e sono certo di non scriverne altri.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore/l’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Alcuni mesi fa il poeta e scrittore lombardo Maurizio Noris mi ha gioiosamente coinvolto nel lavoro della pubblicazione del suo libro contenente una scelta di opere poetiche di Federico García Lorca tradotte da Noris nel suo dialetto bergamasco della media Valle Seriana, per la stesura di un commento critico sull’opera (intitolato “Comincia il pianto della chitarra!”).
Il libro, dal titolo Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico Garcia Lorca – edito da Tera Mata Edizioni (Bergamo) – si apre con il testo della mia presentazione (che viene proposto, a continuazione, sulle pagine di questo sito) e contiene opere di Sara Oberhauser. Traduzione e voce a cura di Maurizio Noris.
Le letture sono state trasposte in registrazioni audio-video in cui è Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti. Il libro si chiude con una postfazione di Vincenzo Guercio.
BIOGRAFIA DELL’AUTORE
Maurizio Noris (Comenduno di Albino, BG, 1957). Scrive poesie in lingua prima del dialetto bergamasco della media Valle Seriana. Ha pubblicato Santì (2001, libro artigiano di poesie con l’artista grafico Ivano Castelli e presentazione di Ivo Lizzola), Dialèt De Nòcc D’amùr (2008, vincitore del prestigioso Premio “Città di Ischitella”), Us de ruch (2009, plaquette con introduzione di Alberto Belotti), Us de ruch (2010, con introduzione di Franco), Àngei? e Zögadùr (2012, con la presentazione di Piero Marelli e Silvio Bordoni), In del nòm del pàder (2014, con postfazione di Giulio Fèro), Resistènse (2016, introduzione di Franca Grisoni), A cüre socane (2022, installazione organico-poetica con un catalogo di 20 poesie inedite presentato da Gabrio Vitali), Santìd’Andalöséa. Omaggio a Federico García Lorca (2023, presentazione di Lorenzo Spurio, con opere di Sara Oberhauser, traduzione e voce a cura di Maurizio Noris, registrazioni audio-video di Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti, postfazione di Vincenzo Guercio). Ha curato Guardando per terra, voci della poesia contemporanea in dialetto (2011, co-curatore Piero Marelli). È presente con suoi testi in L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto (2014), in Dialetto lingua della poesia (2016) a cura di Ombretta Ciurnelli e in diverse antologie e riviste. Per tutto il 2019 ha curato la rubrica settimanale SÖ L’ÖS del -santalessandro.org- settimanale della Diocesi di Bergamo, con la presentazione anche sonora e commento delle sue poesie.
PRESENTAZIONE AL LIBRO
“Comincia il pianto della chitarra!”
Di LORENZO SPURIO
Molti dei letterati della nostra età, oltre a perseguire con necessità primaria la propria vocazione di autori che li vede poeti o scrittori che sia, non hanno mancato d’interfacciarsi con il non complicato mondo della traduzione. Il fenomeno di comprensione di una lingua d’altri, d’interpretazione e di lettura profonda (e d’immedesimazione, spesso) per poter generare la medesima opera con un vestito leggermente diverso (mai diremmo se migliore o peggiore del suo originale) coinvolge in maniera correlata e intensa una serie di meccanismi mnemonici-sensoriali, evocativi e reminiscenziali ma anche psicologici, più profondamente intimi e innati nel singolo.
La grandezza di un autore non è data né dal numero di copie dei suoi libri che vende nel corso del tempo né dal numero di lingue (diremmo meglio gli idiomi, a voler intendere anche parlate più ridotte o che non hanno, a differenza di quanto avviene con la lingua, un più diretto richiamo o correlazione a un determinato stato nazionale) in cui la sua opera viene versata. Sta, al contrario, nella capacità delle genti, di età, luoghi e da identikit sociali differenti, a riuscire a farsi ascoltare. A trasmettere una percezione unica e indescrivibile. Un gigante della letteratura internazionale come Federico García Lorca nel corso delle decadi che si sono succedute dalla sua prematura morte ha avuto (e contribuito ad alimentare) un lascito umano di lettori, critici, studiosi e affezionati, di anime in sintonia col suo dire, di persone più o meno altolocate, cattedratici e popolani, ingente, in logaritmica e irrefrenabile ascesa.
I componimenti che Maurizio Noris ha scelto dell’ampia produzione lirica del celebre “poeta con il fuoco nelle mani”, rimontano a quell’esigenza di calarsi in una natura primigenia e inalterata dall’introduzione del dato antropico. In appena una ventina di testi scorre davanti agli occhi del lettore una sorta di sintesi perfetta dei temi, delle immagini care, dei colori, dei rimandi e degli echi che hanno contraddistinto la poesia del Granadino rendendolo universalmente celebre e ineguagliabile. Una leggenda, per alcuni, un martire per altri. Sicuramente una presenza inesauribile e imprescindibile per tutti.
Le vicende che nel tempo hanno visto il prediligere di alcune traduzioni di Lorca nel nostro italiano piuttosto che altre (ricordiamo qui, per mero inciso, che non solo i tanto “celebrati” Bo, Bodini, Rendina e Macrì tradussero Lorca in italiano come spesso, facilisticamente, vien dato da intendere) sono tortuose e rimangono per lo più difficili da tracciare (ammesso che in esse si possa riscontrare un vero interesse di fondo) dettate spesso anche da logiche di mera diffusione editoriale o, al contrario, di veti espressi (o malcelati) all’interno di congreghe accademiche. Sta di fatto che, nel nostro Paese, Lorca ha visto non solo tante traduzioni (più o meno ricordate, più o meno affidabili) nella nostra lingua, ma anche in alcuni dialetti. Penso al torinese nel quale lo versò Luigi Armando Olivero, al friulano di Pier Paolo Pasolini, al siciliano di Salvatore Camilleri, al romagnolo di Tolmino Baldassari, solo per citare alcuni nomi ma la lista potrebbe essere infinita e sempre – purtroppo – clamorosamente incompleta a causa della difficoltà di una ricerca che, pur mirata, spesso non riesce a fornire apprezzabili risultati (ricordiamo che molti tentativi di traduzione non vennero alla luce, altri solo in ciclostile, la gran parte di essi non pubblicati con un editore, né registrati in biblioteche nazionali).
L’operazione di Noris – poeta sopraffino e amante del suo dialetto nativo, il bergamasco della Val Seriana – s’inserisce, dunque, in una tradizione (non sempre scritta) che sappiamo essere fluentissima (per nulla studiata, purtroppo) che nasce da quella volontà intima di far parlare l’opera di un Grande come l’autore di Nozze di sangue con l’autenticità della propria lingua personale, del proprio dettato ancestrale e familiare.
Riconducendo il discorso alla scelta delle liriche effettuata da Noris, ritroviamo nel volume poesie selezionate dalle Canciones, opera della fase giovanile, dall’arcinoto Poema del cante jondo, sino ad arrivare all’ampio campionario dei Poemas Sueltos e alle raffinatissime composizioni delle casidas che, insieme alle gacelas, fanno parte del Diván del Tamarit, opera la cui prima pubblicazione avvenne nel 1940 ovvero quattro anni dopo l’assassinio dell’Autore come pure Poeta en Nueva York, l’opera surrealista del Nostro che Noris ha deciso di non compendiare (crediamo per la forte lontananza alla poesia della Spagna arcadica e neo-popolare del primo Lorca). La scelta di testi ci fa immergere completamente nella Spagna autentica e rurale di Lorca, quella della campagna arsa dal sole e sollevata spesso da qualche vento inaspettato, quella delle case di calce bianca dei pueblos, gli antichi (e conservatissimi) agglomerati cittadini che si snodano in vicoli e vicoletti, piazzette e stradine ancor più piccole.
La tradizione andalusa è percorsa in lungo e in largo da Noris per mezzo di liriche che ben risaltano le peculiarità del tessuto abitativo e sociale di quella regione con particolare attenzione a quel mondo ritmico-sonoro così importante (il flamenco, il lamento della pena negra, le danze dei tablaos, il clarinonelle corride, etc.) richiamato anche nelle saetas della Semana Santa con la processione del Cristo, il zorongo, che assieme al jaleo è uno dei più celebri canti e balli della tradizione andalusa riconducibili alla grande famiglia della flamenqueria, finanche la nenia giocosa e fiabesca delle ninnenanne (famosa la sua conferenza sulle ninnenanne, Las nanas infantiles, tradotta anche dal veronese Arnaldo Ederle).
L’universo simbolico-oggettuale di Lorca (non solo poeta ma anche drammaturgo) diluito nei versi qui raccolti ben si condensa nel corso della lettura: il predominio della luna a volte imperscrutata altre volte che ammicca in senso fatalistico (sempre, comunque, collegata a un’idea di morte o di un nefasto presentimento) si lega alle immagini dello specchio (ricerca d’espressione e al contempo caducità dell’immagine) e a quelle degli arnesi del mondo contadino (il pugnale, la falce) che se hanno un uso pratico nel proprio lavoro a volte vengono impiegati, in un clima d’odio e vendetta, anche come minaccia o per dar la morte (ricordiamo la struggente e drammatica “Reyerta” tradotta da Rendina e Clementelli con “Zuffa”). Ci sono bambini, si odono lamenti, invocazioni alla luna, cavalli e farfalle, l’osservazione attenta e panica dello scorrere delle acque, lo sfolgorio dei colori e la densità dell’argento. Su ogni poesia, data la ricchezza contenutistica e gli squarci di alta intensità lirica (nei testi selezionati l’Autore ha preferito non inserire poesie che, più direttamente, potessero essere analizzate in relazione alla loro tensione etico-civile, pure presente in buona produzione del Nostro), l’inspiegabile suggestione trasmessa, la capacità pareidolitica e la potenza empatica sul lettore, si potrebbero dire molte cose, riflettere, ampliare, senza riuscire mai a compendiare in forma totale quella massa sconfinata d’energia e magma interiore.
Maurizio Noris in quest’opera avvolgente, frutto di un lavoro condiviso con altri autori e artisti (in quel sodalizio ampio che tanto amava Federico e lo portava a collaborare con molte persone, si ricordi la gloriosa esperienza corale de “La Barraca”), fonde due circostanze importanti della sua realtà presente – non tangenziali né improvvise – ovvero l’amore per l’universo lorchiano, che ne fa di lui interprete, seguitore e convinto confidente, e quello per il dialetto personale, radicato nella provincia lombarda. Distanze, quelle tra la Val Seriana e l’Andalusia, che ci appaiono di colpo annullate o mai esistite. Nel flusso inalterabile di un fuoco creativo ed energico che arde imperituro e s’espande, inondando mente e cuore al di là di categorie umane.
LORENZO SPURIO
Jesi, 13/01/2023
La pubblicazione del presente testo, in formato integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.
Il 22 agosto, ad Assisi, la Sala della Conciliazione del Palazzo dei Priori ha ospitato la presentazione di Il canto vuole essere luce, volume miscellaneo curato da Lorenzo Spurio e dedicato a Federico Garcia Lorca (Bertoni editore, 2021). Coordinato dallo stesso Spurio, il quale ha tenuto una breve conferenza sul soggiorno del poeta a New York, l’incontro è stato introdotto dal saluto dell’editore Jean Luc Bertoni, accompagnato dalla chitarra del M° Massimo Agostinelli su partiture lorchiane, arricchito dal reading di Annalena Cimino, infine corredato dagli interventi critici di Lucia Bonanni e della sottoscritta. La mia relazione, trascritta qui di seguito, è stata dedicata a un aspetto particolare della poetica dell’autore andaluso. (ci.ba.)
Uno scatto della conferenza tenutasi ad Assisi (PG) il 22/08/2021. Da sinistra: Lorenzo Spurio, Cinzia Baldazzi e Claudio Camerini
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Anche nel campo della critica vige la consuetudine di lasciare nel lavoro compiuto un’impronta veritiera dei dati sensibili o razionali coltivati sulle tracce autobiografiche del critico stesso, o di quanto sia accaduto o sperimentato dalle persone incontrate.
Perciò questi brevi appunti su Lorca prendono avvìo con il pensiero rivolto al lontano 1967, quando, appena dodicenne, nel secondo anno delle medie inferiori, la professoressa di lettere Anna Maria Perrone Pecchia scoprì per noi l’incanto e la magia dei versi del poeta con il celebre esordio di Los alamos de plata:
I gattici d’argento si piegano sull’acqua:
tutto essi sanno, giammai parleranno.
Il giglio della fonte non urla la sua tristezza.
Tutto è più degno che l’umanità!
All’epoca, il lettore italiano disponeva di poche versioni dal castigliano: a parte qualche tentativo sporadico prima della guerra, si dovrà aspettare il ’52 per le traduzioni del teatro a cura di Vittorio Bodini. Poi, a metà degli anni ’70, a breve distanza, ecco il volume di Carlo Bo con le poesie e quello di Claudio Rendina con gli inediti.
La mia insegnante traduceva in proprio: “los alamos”, ovvero i “pioppi”, diventavano i “gattici”, e il “nunca” venne reso con “giammai”. Più tardi ho creduto di aver compreso la ragione dell’uso di tale termine lessicale, segno denotativo del pioppo bianco, i cui fiori alle estremità dei rami hanno riflessi argentei. Nella raccolta Myricae, pubblicata agli inizi del Novecento, Giovanni Pascoli apre così un famoso componimento:
E vi rivedo, o gattici d’argento,
brulli in questa giornata sementina.
Ho voluto rendere omaggio alla mia insegnante, con la quale sono tuttora in contatto. A lei, all’epoca giovanissima, debbo la prima conoscenza del poeta spagnolo in un periodo della scuola italiana in cui, per le caratteristiche personali e politiche del “personaggio” Lorca, difficilmente se ne parlava ad alunni di dodici anni. Sempre con lei leggemmo alcuni brani della morte di Ignacio.
Perché condivido l’episodio? Poiché la natura antropomorfa risulta centrale nella poësis di Lorca. Gli alberi potrebbero parlare, ma non lo fanno, quasi fossero anziani saggi persuasi di quanto sia inutile comunicare realtà tanto essenziali da non implicare una banalizzazione comunicativa. Da parte sua il giglio – simbolo della forza dell’innocenza – sceglie di tacere, di non violare l’universo urlando ansia, paura, dolore.
Ecco, io credo che l’ars poetica del grande andaluso si possa interpretare, comprendere anche senza aver prima amato e conosciuto la poesia in generale. Però non si può fare a meno di prediligere, di conoscere l’onnipresente Natura, la Φύσις dei nostri fratelli greci: i versi non trasmetterebbero forza, struggimento, impeto, se non presupponessimo un legame saldo e inscindibile dell’autore con il mondo inteso come ordine strutturale, finalistico delle cose.
La Natura sovrana, sia pure sofferente, occupa il terreno utopico preminente del repertorio di Lorca: qui entrano, a pieno diritto, le figure maggiori della produzione teatrale, le protagoniste e i protagonisti di Yerma, La casa di Bernarda Alba, Nozze di sangue.
Il teatro di Lorca è un’immensa area di significati dominata dalla Natura Madre, dal corso degli eventi, dove si celebra – e qui utilizziamo le parole di Lorenzo Spurio – «la frustrazione, la solitudine, l’onore e il sentimento tragico della vita». Lo studioso canadese Northrop Frye scriveva: «Noi pensiamo alla natura come qualcosa di femminile e, in effetti, essa lo è. La natura, in termini più semplici, è Madre Natura».
Un nuovo salto nel passato. Nel 1982, nel pieno dell’attività di cronista teatrale su un quotidiano romano, seguivo soprattutto gli artisti impegnati nell’avanguardia e nell’area sperimentale. Ogni tanto, però, ero incaricata di recensire i teatri stabili. Al Quirino ebbi la fortuna, nonché l’onore, di assistere alla messa in scena de La casa di Bernarda Alba con la grandissima Lilla Brignone, diretta da Giancarlo Sepe.
Quella sera, dinanzi alla tragedia delle donne vestite di nero, riuscìi a capire come a Lorca io fossi legata dal complesso totale dell’amore. Ma non quello vicino allo stupore di un sogno a occhi aperti. L’arte lorchiana mi rendeva felice, consentendo di intervenire nell’angoscia tipica di solitudini, nel tormento di passioni disgregate, tradite, ripudiate.
Era nata così, nell’indole di ragazza, la figura di un “poeta come eroe”, paladino di itinerari di lotta nemica acerrima del male, non in chiave astratta, generica, cioè impersonale: piuttosto, coglievo affascinata l’esito di una personalità pragmatica, fattuale, convincente. García Lorca si rivolge sempre agli interlocutori credendo in tutti noi, uomini, donne, bambini, giovani, anziani, nella scelta di accompagnarli con commovente riserbo e non “trascinarli” in una cerchia intimissima di reazione alle vicende dell’esistenza.
Se molti di noi, dunque, accusano un’umiliante sensazione di impotenza nell’operare su questa terra, altrettanti reputano la ποίησις un’occasione di intervento di ripiego, da gestirsi poiché è l’unica disponibile: essa, del resto si rivelò terribilmente impotente a salvare il poeta dalla morte.
Eppure, ascoltate Yerma, nella tragedia omonima, ammonire il marito Juan:
No, non venirmi a ripetere ciò che dice la gente. Io vedo con i miei occhi che non può essere… Tanto cade la pioggia sulle pietre che le fa ammorbidire e vi fa nascere la ruchetta, che la gente dice che non serve a niente. “La ruchetta non serve a niente”, ma intanto io la vedo agitare nell’aria i suoi fiori gialli.
Nell’immaginario di Federico, la ruchetta costituisce una metafora della poesia: non serve a niente, predilige le circostanze difficili, le idee più improbabili, però rimane lì ad agitare nell’aria i suoi versi.
Uno scatto fatto a Madrid nel giugno 1934 che ritrae Federico Garcia Lorca (primo a sinistra) insieme all’attrice Lola Membrives, che portò sulla scena in Sud America i maggiori successi teatrali dell’autore, e il drammaturgo Eduardo Marquina del quale Lorca si auto-dichiarò il “figlio putativo”
Yerma coincide con l’esempio di testo teatrale lorchiano da me preferito. Ricordate? Lei non riesce a concepire, il marito Juan, da parte sua, non vuole avere figli.
Il dramma ha origine nel vigoroso ambito interiore di un autore omosessuale, dunque lontano dal poter vivere uno stato di gestazione e filiazione naturale del microcosmo della sfera paterna: ebbene, pur non condividendone l’esperienza reale, Federico riesce a colmare le pagine con l’altissimo appello alla ποιητική τέχνη del fenomeno opposto: la sterilità. Il poeta di Fuente Vaqueros personifica con il suo contrario una fecondità partecipata in un delicato spazio da “spettatore”: coinvolto, addolorato nell’animo, non avendo però mai potuto abbracciare un bambino concepito come sangue del suo sangue.
Sono sempre stata accompagnata da un interrogativo: quale tecnica semantica, quale ispirazione artistica può essere all’altezza di rendere uno scrittore capace di incarnare eventi sconosciuti al suo divenire quotidiano? Come può Lorca parlare così crudamente, con precisione, dell’essere padre, dell’essere madre?
La domanda diventa però un’altra. Perché mai i poeti dovrebbero mentire? Cioè affermare di percepire ciò che non sentono, di amare contesti a loro indifferenti?
Mentre a dodici anni leggevo Lorca, più o meno a quell’età, insieme all’amica Dina Tron, scoprivo i primi dischi di Bob Dylan distribuiti in Italia. Da allora, Dylan non l’ho abbandonato e, modestamente, nel tempo sono divenuta una dylanologa doc. Ora, Dylan – soprattutto da giovane – ha scritto e interpretato numerose canzoni tristi, lamentose, di amori impossibili, di solitudini, di vite sprecate. Nel passato ho tentato di identificare l’aura che gli permetteva di rappresentare così efficacemente le vette dello sconforto e gli abissi del dolore, avendo lui condotto, invece – e per sua fortuna – una vita di tutt’altro genere.
È questo lo scatto semantico-semiotico tipico delle menti eccelse: Lorca, come Dylan, è riuscito a superare, nell’utopica concretezza, il valore del messaggio rispetto al manifestarsi nel reale, perché lo ha avvertito reale, anzi realissimo, nonostante non rispondesse alla legge ferrea, quotidiana, della verosimiglianza.
Così, per il poeta andaluso, la donna appare figura dalla struttura sociale-ideologica composita e variegata, coincidente con un modello di rivolta a soprusi, male, bassi impeti malvagi, ipocrisia, limitatezza nella ragione, tendenze immorali.
Ho iniziato con un breve accenno all’elemento dell’acqua su cui si piegano i gattici dello splendido componimento. Allo stesso modo vorrei concluderlo.
Il mio viaggio lorchiano, l’ho accennato, ha preso il via, da giovanissima, nella sfera volitiva di un Io Conscio sollecitato dalla tensione alla maternità: nell’adolescenza, l’Inconscio registra in atto una sorta di preparazione ad essa, con ansie, desideri, timore di esserne o meno all’altezza, chissà, non volerla affatto.
In una scena di Yerma, la protagonista chiede a una vecchia come si possa combattere la sterilità. L’anziana contadina risponde:
Io? Io non so niente!
Io mi son messa a pancia all’aria e ho cominciato a cantare.
I figli arrivano come l’acqua.
A scuola, in classe, leggemmo uno stralcio del Pianto per Ignacio Sánchez Mejías, in particolare le righe conclusive del Corpo presente:
Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti
perché s’abitui alla morte che porta.
Va’, Ignacio. Non sentire il caldo bramito.
Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!
Due immagini che non dimenticherò mai: l’acqua trasporta i figli, il mare smette di esistere.
Da ragazza ingenua, non sapevo spiegare come mai, di fronte all’illimitato dolore di Federico per la fine dell’amato amico Ignacio, ne sortisse, affascinante e impagabile, l’input di connetterlo a concreti, coinvolgenti flash di maternità realizzata e non: dall’immagine funerea delle “madri terribili” associate allo scontro con il toro, alla figura pallida e lunare della bimba dolente, al bambino che porta il lenzuolo bianco, fino ai versi finali allusivi della improbabile nuova nascita di un uomo come Ignacio.
Adesso, invece, lo comprendo, con l’aiuto dell’anziana amica di Yerma: per esprimere l’immensità della sofferenza provata per la scomparsa dell’innamorato, il poeta ha giudicato fosse indispensabile avvicinarlo alla visceralità, al quid esclusivo del liquido primordiale, del vincolo, del contatto definitivo mamma-figlio, vissuto in absentia, misurandone la mancanza.
Il nostro poeta non accetta di vedere il torero senza vita, addirittura non vuole gli coprano il volto con delle bende perché si abitui al buio assoluto. Infatti, è come se Ignacio volasse oltre la prevaricazione della τύχη, della cattiva sorte, mentre l’autore auspica, anzi stabilisce, che muoia, all’istante, persino il mare. A noi madri, se perdessimo un figlio, la croce, lo sgomento apparirebbero tanto smisurati da essere in grado di stravolgere non la morte – sarebbe poco – ma il θάνατος e insieme il principio medesimo di esistere-sopravvivere nell’elemento simbolico delle distese d’acqua fluviali, oceaniche, la cui presenza rigeneratrice si annullerebbe.
Magari è accaduto a ognuno di voi di conoscere persone colpite da enormi tragedie: può succedere diventino meno sensibili alle pene, ai lutti altrui, poiché inconsciamente, avendo subito il male estremo, per loro è comprensibile che esso abbia annientato ovunque ogni bene. Dunque, anche per gli altri.
Ma, in conclusione, cosa dire? Lontana da noi l’idea di smentire, ma anche solo di correggere, il pensiero di Federico. Nonostante tutto, speriamo che i fiumi continuino a scorrere impetuosi, in eterno si susseguano le onde di mari e oceani, per poter continuare a vivere e a leggerlo.
Cinzia Baldazzi
Roma, 22 agosto 2021
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Dopo avere trattato del fuoco, della terra e dell’aria (le tre sezioni della raccolta Semi. G. Laterza, 2015), Pietro Manzellarivolge la sua attenzione all’acqua, simbolo di vita e di rinnovamento, nella raccolta Acqua, pubblicata nel 2020 da Spazio Cultura edizioni. Con Acqua Manzella compie la sua riflessione sui quattro elementi primordiali e affina la consapevolezza di ciò che è essenziale e nobile nella vita. Riunendo le poesie scritte dagli esordi nel 1964 al 2019 il poeta mette in risalto il valore del suo orizzonte emozionale ed espressivo che si svela sull’asse del tempo, come nota Nicola Romano nella quarta di copertina: “E, come a voler ripercorrere una personale storia emozionale, Pietro Manzella sembra qui creareun’occasione di ulteriore confronto con un arco temporale pieno di alterne vicende che, come acqua, sono ormai fluite via”. L’epigrafe eraclitea “nulla perdura se non il mutamento”, rimanda alla vita, all’esperienza del suo mutare, al mescolarsi degli opposti, valori e non valori individuati nelle poesie, che esprimono il senso più proprio del pensiero del filosofo di Efeso e che Manzella vuol fare suo.
La sua poesia si assume il compito di “svegliare gli uomini”, invitandoli a cogliere il senso profondo delle cose. Risalta chiaro il suo paradigma di valori. Il mutamento continuo e disordinato che il poeta avverte intorno a sé potrebbe trovare un argine soltanto nell’amore nelle sue varie forme, se diventasse forza trainante della vita: “Perché tutte le Nazioni / non distribuiscono / canne da pesca/ ai loro uomini/ anziché fucili?”. Soltanto la capacità di provare emozioni e sentimenti può salvare l’uomo, dissetarne l’arsura di valori e di senso e nel contesto l’acqua appare elemento salvifico: “campi di girasoli / inondati/ da grandine di polvere… / si dissolveranno in rivoli risorti / tornati a scorrere / limpidi e gioiosi (Acqua)”. Su questo tema di fondo si costruisce la trama della raccolta fatta di risentita coscienza, ferma volontà d’indagine e di denuncia, ricerca di Dio. L’ispirazione viene al poeta sempre dalla quotidianità rappresentata nei suoi frammenti, che si rivelano correlativi oggettivi, nodi d’emozioni. Leggendo le poesie di Acqua si percepisce il riflesso di un’attenzione fervida alla realtà, mediata dallo specchio del linguaggio. L’ispirazione di Pietro Manzella non ha nulla del “coup de foudre” e la sua originalità sta nella convinzione che la dignità della poesia consiste nell’essere in rapporto diretto con la vita. Referenziale, coerente alla quotidianità è la lingua poetica di Pietro Manzella che non cede all’invenzione linguistica o alla trovata rara, ma resta ancorata alla lingua di tutti e alla diretta comprensibilità. Manzella è tra i poeti contemporanei uno dei pochi che riesce nei suoi versi a esprimere qualche barlume di felicità: “gioire di tanta bellezza / insieme a colei / da cui tutto nasce (Bellezza)”; “Apro le palpebre / e vedo / il tuo rossetto / sorridente / e mi avvio al mondo (Acqua)”; “Ho percepito / l’ebbrezza / della tua mano / che carezzava la mia (Soffioni)”.
Acqua, dedicata alla nipote Elisa, è una ideale prosecuzione di Semi, immediatamente precedente, dedicata ai figli, Laura e Giuseppe. In Acqua quei “semi per la rinascita della vita” della poesia conclusiva, sbocciano per la nipote, per il suo sorriso gioioso che sazia diserenità, mentre comincia a gustare la vita e i suoi sapori per mezzo dei frutti della terra che lui, il nonno poeta religiosamente coltiva.
La dialettica intima dei temi affrontati, personali, sociali, religiosi costituisce una mappa tematica su cui sono segnate tre direzioni fondamentali: io lirico, società /natura, donna /musa. Su queste si esercita l’umana richiesta di senso di Pietro Manzella e si manifesta la sua originalità, la sua cifra stilistica. I versi liberi misurati sulla ripetizione di sintagmi e la comparazione col “come” s’accordano con l’emozione del poeta e si fondono in un ritmo armonioso e in un timbro pacato.
GABRIELLA MAGGIO
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Lo scorso 17 maggio a Roma, presso l’Università “Guglielmo Marconi”, è stata discussa una tesi di laurea, a firma di Elisa Roselli, interamente dedicata alla celebre opera letteraria (con numerosi sviluppi anche nella cinematografia) Il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett dal titolo “Quando la realtà si fa “magia”: Il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett”. Ringrazio la studiosa per aver voluto citare più volte, nel corso della sua dissertazione e in bibliografia, il mio libro La metafora del giardino in letteratura (Faligi, Aosta, 2011, scritto insieme a M. Acciai) che affronta lo studio di un vasto repertorio di giardini nella letteratura italiana e straniera, compreso quello della celebre opera della Burnett. Mi complimento con lei per il grande risultato ottenuto in sede di discussione.
La vita umana è breve e fuggitiva dice Giuseppe Pappalardo in questa sua recentissima operaI versi e le parole, edita da Edizioni Thule di Palermo. Versi raffinati, ricchi di echi della tradizione latina e italiana, Orazio (Eheu fugaces , Postume, Postume,/labuntur anni- Odi II,14) e Petrarca (La vita fugge e non s’arresta un’ora, Canzoniere, CCLXXII) fra tutti. Ma anche denso di altre risonanze come quella della lunga tradizione poetica intorno alla rosa, rielaborata da Pappalardo in simbolo della caducità di ogni cosa umana (Schiusa si è / da qualche settimana, presto sarà dei petali spogliata…è l’inclemente legge primordiale / che spegne le illusioni degli umani, / è la crudele vita e dolorosa).
L’usuale registro dialettale che sino ad oggi ha connotato la produzione poetica di Giuseppe Pappalardo cede in questa raccolta all’uso della lingua italiana, quella della tradizione poetica fatta di endecasillabi e settenari. Il poeta esprime nel mutato linguaggio la volontà d’innalzare il canto dall’intimo colloquio dei sentimenti privati a quello più universale e impegnativo che aspira a fare il bilancio di una vita e di tutte le vite umane nello stesso tempo.
Accanto ai temi propriamente lirici si affiancano quello della natura, come sfondo e paesaggio che suscita la poesia e della religione che acquieta e dà speranza, anche se il poeta teme l’orrendo vuoto del silenzio di Dio. I versi e le parole contengono tanta nostalgia della giovinezza trascorsa, della pienezza della vita che nel tempo si perde: Scrivimi, amore dolce, quando canti/ ed accompagni la tua voce al piano, / lega la busta all’ala di un gabbiano / che voli tra le nuvole e i rimpianti….Libererò il cuore prigioniero / dai miei silenzi vuoti di poesia; / risponderò, struggente nostalgia, / e il vento sarà il nostro messaggero. Ma accanto alla nostalgia c’è una punta di speranza: Apparirà l’azzurro / dopo l’arcobaleno. / Tornerà la ghiandaia / e nel cuore il sereno. E nel cuore sereno rinasce la poesia consolatrice anche nel momento del commiato dalla vita che il poeta sente avvicinarsi: Mi hai fatto compagnia / nell’angusta prigione della vita, / hai messo l’ali della fantasia / all’anima che si era ammutolita… Indugia Giuseppe Pappalardo sulla poesia in apertura e in chiusura della raccolta. Sia I versi e le parole, da cui il titolo, sia Alla poesia, testo conclusivo della prima sezione, rivelano la centralità della riflessione sul poetare, ragione di vita, canto, melodia che precede e cerca la parola che vi si armonizzi. Sincero è il sentimento di Giuseppe Pappalardo e sicuri i suoi mezzi espressivi e stilistici anche nella seconda parte della raccolta Versi brevi che ha un marcato accento gnomico, nato dall’esperienza. Non manca anche in questa sezione un accenno alla poesia: È d’oro il Paradiso / e leggiadria / di fiori e di candore, / la poesia. Davvero alma poësis.
GABRIELLA MAGGIO
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Esce domani, 16 giugno 2020, per i tipi di Mondadori, nella serie “Lo Specchio”, il nuovo libro della nota poetessa brasiliana Márcia Theóphilo. Poetessa, scrittrice e antropologa tanto in portoghese, sua lingua d’origine, che in italiano, nel corso degli anni ha visto le sue opere poetiche venire tradotte in varie lingue straniere, dall’inglese allo svedese, dal francese allo spagnolo. Particolare attenzione va riposta verso la sua fluente produzione poetica e letteraria, interamente incentrata sull’impegno per la difesa ambientale dell’Amazzonia. La Theóphilo ha ottenuto numerosi premi letterari, alla cultura e alla carriera, com’è il caso del prestigioso Premio Letterario “Città di Vercelli”, in seno al Festival della Poesia Civile (premio che, negli anni precedenti, è andato, tra gli altri, ad Adonis, Lawrence Ferlinghetti e Eugenij Evthushenko), il Lerici-Pea e, recentemente, il Premio alla Carriera in seno all’ottava edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” di Jesi, presieduto dal sottoscritto e con Michela Zanarella quale presidente di Giuria. L’articolo di tale conferimento, congiuntamente alla motivazione critica, possono essere letti cliccando qui.
Márcia Theóphilo è nata nella città brasiliana di Fortaleza nel 1941. Vive da vari anni a Roma. La sua ingente opere letteraria si dispiega nei vari generi anche se sembra essere la poesia il suo vero canto d’anima. Influenzata dai canti oriundi e dalla sapienza popolare della nonna, la Theóphilo ha fatto dell’Amazzonia, oltre che il suo destinatario principale d’amore, il suo maggiore contesto di studio e approfondimento, dedicandogli tutto il tempo e la sua energia. L’Amazzonia viene dalla Theóphilo studiata in termini naturalistici, con un tuffo completo nella fauna e flora così tipiche di quello spazio, dai lessemi spesso intraducibili nella nostra lingua, ma anche in termini mitico–simbolici in quella ritualità di sapienza misterica ed esoterica delle popolazioni indigene, in chiave sociologica, antropologica e tanto altro ancora. Celebre, tra le altri, la sua lirica “Boto”, al delfino rosa. Tra le opere poetiche in italiano vanno ricordate (varie di essi con note di presentazioni del fiorentino Mario Luzi del quale fu grande amica) Siamo pensiero (1972), Basta! Che parlino le voci (1974), Catuetê Curupira (1983), Il fiume l’uccello le nuvole (1987), Io canto l’Amazzonia (1992), I bambini giaguaro (1996), Kupahúba. Albero dello Spirito Santo (2000), Foresta mio dizionario (2003), Amazzonia respiro delmondo (2005), Amazzonia madre d’acqua (2007), Amazzonia. L’ultima Arca (2013), Nel nido dell’Amazzonia (2015), Ogni parola un essere (2017) e Amazzonia è poesia (2018).
Il nuovo volume, Amazzonia verde d’acqua, della Theóphilo, che è stata amica e frequentatrice di Dario Bellezza, Amelia Rosselli e Rafael Alberti (solo per citarne alcuni) vanta una nota critica di prefazione stilata dal poeta Maurizio Cucchi. Nelle note di accompagnamento e di presentazione del volume che compaiono in rete sui siti che rendono l’opera acquistabile, è possibile leggere questo: “Nel vortice e nell’incanto di queste pagine si realizza al livello più alto il grande canto dell’Amazzonia di Márcia Theóphilo, che nei decenni ha composto un disegno epico articolatissimo, una narrazione in versi che è poesia di fantasmagorica atmosfera. Con strenua vitalità, ci parla di un mondo dove la natura – di cui gli umani sono semplice parte – «lavora senza posa», e dove agisce un’energia diffusa e inarrestabile, nel movimento di un continuo rinascere. La poesia di Márcia Theóphilo, nota fin dagli esordi in ambito internazionale, si impone per una rara ampiezza di respiro, che le consente di convocare sulla pagina umani personaggi e figure mitologiche, in un vorticare prodigioso degli elementi, dove «non solo gli animali ma tutto in natura ha un’anima», o dove operano senza sosta «memorie di verdi immensità». In questa esoticissima realtà troviamo la dea Giaguaro, che «si trasforma in tutte le cose / che vivono sulla terra / piante e animali / fiumi e piogge», mentre anche «gli alberi raccontano la loro storia». Ma è l’io stesso dell’autrice a mescolarsi alle molteplici presenze di un reale magico e immenso, fatto di «impensate foreste senza fine / di fiori e frutti tropicali / e cuori di antichi animali», su cui la nostra ormai plurisecolare “civiltà” opera con colpevole indifferenza o ottuso disprezzo. Ed ecco, allora, il suggestivo spargersi di Márcia Theóphilo nei suoi versi e il continuo rigenerarsi della sua opera, in simbiosi intatta con l’habitat delle sue radici, con l’orizzonte naturale in cui da sempre si esprime e ci comunica la sua inconfondibile, preziosissima, testimoniale presenza poetica”[1].
Un approfondito e avvincente articolo-recensione di Roberto Galaverni uscito sulle pagine de Il Corriere della Sera di oggi anticipa la fortunata uscita del volume. Nell’appropriato occhiello introduttivo si legge: “Il canto della brasiliana Márcia Theóphilo è colmo di onomatopee: lascia parlare impetuosamente la natura in due lingue (portoghese e italiano) e rilancia il legame imprescindibile tra cose e parola. Lì c’è l’anima di tutto e di tutti”. Per riferirsi alla nuova opera poetica Galaverni parla di “specialissima lirica corale” ad intendere questo linguaggio allargato e condiviso, partecipe, tra io poetico e natura, nelle sue molteplici e variegate manifestazioni.
La poesia della Theóphilo, così ben capace a dipingere nelle sue venature e speziate fragranze una realtà a noi lontana, quella appunto della foresta dell’Amazzonia, il più grande “polmone verde” del Pianeta, immancabilmente chiama nella mente dell’attento lettore le notizie amare di qualche mese fa relative ai gravi casi di incendio che hanno colpito vari parti di quel territorio naturalistico decretando inquinamento, sottrazione di terreni boschivi e seria minaccia per le popolazioni indigene che lì vivono. Ha, al contempo, permesso di farci ragionare sull’importanza della biodiversità e la salvaguardia del Pianeta, tematiche imprescindibili dalla poetica della Nostra e sempre così ben individuabili nelle sue opere. Vale a dire sulla minaccia che riguarda tutti e non solo i brasiliani e gli amerindi: quella della battaglia ecologica che va combattuta con serietà e impegno per consentire la custodia e la preservazione dell’ecosistema in cui viviamo, unico per tutti: la Terra. Ecco perché le poesie dell’Amazzonia e sull’Amazzonia della Nostra, al di là dell’accentuato colorismo locale, dell’esotismo frizzantino della natura variegata e beata di quelle terre, della fertilità del Río grande che fluisce impetuoso, vanno lette in tal senso: come un’invocazione all’impegno, a darsi da fare, a comprometirse– per dirla in spagnolo (altra lingua in cui la sua opera è tradotta) – in una questione che è di tutti.
La salvaguardia del boto, il delfino rosa, come pure di specie arboricole particolarissime e di canti e formule orali della tradizione amerinda autoctona debbono essere conservati perché sono patrimonio comune di cui il primo ambientale e culturale al contempo e il secondo immateriale e, pertanto, forse ancor più esposto alle intemperie della contemporaneità e del generale disinteresse. Márcia Theóphilo anche in questo senso fornisce un contributo molto importante, degno di osservazione e di una più ampia conoscenza.
LORENZO SPURIO
Jesi, 15/06/2020
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