“Profumo di fascismo e sali del Mar Morto” di Vittorio Pavoncello, recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Profumo di fascismo e Sali del Mar Morto è il titolo del nuovo romanzo dello scrittore e artista romano Vittorio Pavoncello, pubblicato da poco per i tipi di All Around edizioni nella collana Flipper. Un titolo che di certo non passa inosservato, tanto per la presenza della parola ingombrante di “fascismo” che richiama cupe pagine della Storia nazionale, quanto per l’ambigua congiunzione di piani sensoriali diversi (quello olfattivo, nella parola di “profumo” e quello del gusto dalla parola “Sali”) oltre che un’iterazione curiosissima dal punto di vista meramente geografico: dal contesto italiano, embrione e culla del fascismo stricto sensu, all’esotismo, invece, del medio Oriente nel riferimento al Mar Morto.

Va subito detto che è un romanzo sui generis, senz’altro molto particolare, non tanto nei contenuti – che traggono dalla storia e dall’esigenza della memoria il motivo trainante dell’opera – ma proprio nella diversificazione di stili impiegati. È lo stesso autore ad avvertirci, sin dalle prime pagine, che quel che il lettore ha tra le mani “non è un romanzo” poiché, chiarisce poco dopo, “sono parole costrette a farsi narrazione per esistere”. Vi sono piani temporali diversi che vengono richiamati, in un dialogo serrato e continuo tra la storia – tanto quella familiare che collettiva – e l’attualità. L’autore, infatti, ha dedicato le pagine di questo libro a suo nonno, Vittorio Emanuele Pavoncello, uomo che a causa dei deliri del regime totalitario, mai poté conoscere. Vittorio Emanuele Pavoncello era nato a Roma il 30 giugno 1893, venne arrestato nel 1944 e, dopo un periodo di detenzione in un carcere romano, venne smistato nel campo di Fossoli. Fu deportato in uno dei lager dell’infamia più noti, Auschwitz, dove giunse nel giugno del 1944 dopo quattro giorni di viaggio su un convoglio ferroviario. Morì, come ricorda la puntuale scheda biografica presente nel volume, appena tre mesi dopo. Vengono tracciate con linee sicure, cariche di mesto affetto verso una figura che si percepisce cara, pur non avendola mai potuta avvicinare fisicamente, alcuni degli aspetti cruciali della vita dell’uomo e della sua famiglia.

La narrazione si focalizza e si esplica dal di dentro e non dall’esterno come molta critica indifferenziatamente nel corso del tempo ha fatto, per narrare le tristi vicende di una famiglia ebrea, nel contesto della capitale italiana, nel periodo della firma delle schizofreniche e pericolose Leggi razziali. La narrazione si fa ora storia, ora canto, soprattutto ha la forma della denuncia convinta verso un mondo vetusto e illiberale che ha condotto a uno dei bagni di sangue più spaventosi di sempre e che ha tentato di relegare nel ghetto la popolazione e la cultura ebraica.

Un volume che è lucido testamento, ma anche ricerca storica tra i documenti dell’epoca, attento nelle descrizioni e al contempo mai pesante per il fruitore. Con l’espediente di un dialogo ultracorporeo, quasi in un rapporto medianico che non conosce limiti di spazio né tempo, l’autore intrattiene una fitta conversazione con suo nonno. Lo sente parlare, gli pone domande, c’è un confronto continuo che è, in altri termini, quello che l’autore forse avrebbe condotto se ne avesse avuto le possibilità. Il tutto è cadenzato da risposte che non sono mai evasive ma, al contrario, ricche di riferimenti, citazioni a opere, richiami di persone, tante dell’universo familiare che sociale, precetti e rituali tipici della cultura ebraica. Utilissimo risulta il glossario-lista dei nomi nella parte centrale del libro rivolto ad ambiti, costumi, pratiche e personalità del mondo ebraico, che aiutano la comprensione di alcune vicende e terminologie.

È un romanzo perché della fiction ha questa impalcatura espressamente ricercata e voluta dall’autore che gli consente di rapportarsi all’augusto progenitore, eppure è anche un’agile e mai semplicistica dissertazione storica, finanche un’analisi lucidissima su quanto l’impegno dell’uomo, il suo senso di consapevolezza e il suo monito di responsabilità siano delle piante vulnerabili, che la collettività deve curare, nutrire e far crescere e prosperare. Difatti viene chiarito sin dalle prime pagine l’intento del volume, che non è tanto meramente personale quanto corale o, ancor meglio, sociale: “Le pagine che seguono sono una vicenda di famiglia, la mia, e non solo la mia”.

La narrazione – e l’idea stessa del libro – parte da un episodio quanto mai preoccupante accaduto nel 2019 quando l’immagine della ministra alla Giustizia di Israele, Ayelet Shaked, venne diffusa in uno spot pubblicitario (quanto elettorale) mentre si spruzzava addosso il profumo “Fascism”; episodio, questo, che oltre a campeggiare sulla stampa mondiale, aprendo a commenti indignati, polemiche e originando prese di posizione durissime, ha esasperato lo stesso autore. Ed è il profumo di quella stessa ministra che Pavoncello richiama nel titolo del libro, dove pure può essere letto nei termini di uno spauracchio, di una presenza latente di quell’ideologia che spesso riaffiora con rigurgiti spaventosi e inaccettabili.

Il negazionismo – che è la peggiore forma di un revisionismo storico, sempre e comunque insostenibile perché fazioso – è il punto nodale di questa opera di Pavoncello nel corso della quale ben si percepisce l’animo mesto del Nostro, la riprovazione, lo sdegno, finanche la sfiducia verso una società tendenzialmente disattenta, improntata più a un lassismo diffuso (si veda il riferimento alla manifestazione di convinti assertori no-Covid) e alla facile persuasione per leader apparentemente carismatici. Tutto ciò che, nel secolo scorso, ha condotto il nostro Paese a vivere un ventennio di privazioni, violenze, negazioni della persona, che avrebbe condotto la Nazione a una grande ecatombe e rovina. “Profumo”, quello fascista, a suo modo assimilabile agli “olezzi” nazisti e agli “aromi” ingloriosi di ogni altra dittatura che la vecchia Europa ha vissuto, esportato anche quale supporto in guerre civili, come fu il caso della guerra in Spagna.

In questo percorso di recupero della memoria in relazione alla comunità ebrea Pavoncello richiama nomi importanti quali, ad esempio, Taché Gaje Stefano, il bambino di appena due anni che rimase vittima dell’attentato alla Sinagoga di Roma nel 1982 (ricordato recentemente in un discorso anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella), il rabbino capo della Sinagoga di Roma Elio Toaff e la scrittrice Lia Levi, autrice della Trilogia della memoria (2008) che raccoglie tre narrazioni che si dipanano nel contesto della promulgazione delle tristemente note leggi razziali.

Pavoncello con questo libro non solo tenta di ricostruire pagine fosche (e incancellabili) del passato della sua famiglia, attorno soprattutto alla figura del nonno, suo omonimo (con l’aggiunta del nome Emanuele; erano tempi, quelli di onomastiche sabaude) ma si spinge ben oltre. Difatti dà al suo avo voce. Gli consegna, pur se attraverso la parola scritta, una seconda vita. Lo fa parlare, ce lo narra in prima persona, tra sue tribolazioni e perplessità per il momento storico che visse, ne rintraccia comportamenti, dialogici, pensieri. “Molti sopravvissuti ai campi sono tornati e hanno parlato. Tu sei fra quelli che taceranno per sempre. Ho deciso, però, che questo leggero vento che agita le foglie sarà la tua voce. Io so tradurre il vento in voce e la voce in parole”. Ed è così che la narrazione s’adagia sulle forme invisibili di un passaggio – quello del vento – invisibile all’occhio, ma in grado di mutare l’ambiente in cui s’insinua. Piante che pendono, foglie che vibrano, passaggi d’aria che portano polvere, sono il filo conduttore di un colloquio intimo e amoroso con il proprio avo, sull’onda di un’aria che circola misteriosa, ma che può essere tradotta come l’autore ha fatto mirabilmente.

LORENZO SPURIO

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“Ritrovarsi a Parigi” di Marta Lock, recensione di Lorenzo Spurio

Ritrovarsi a Parigi
di Marta Lock
Albatros – Il Filo, Roma, 2013
Pagine: 408
Isbn: 978-88-567-6238-9
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

Ritrovarsi a Parigi - Copertina singolaIl nuovo romanzo di Marta Lock si apre in maniera spigliata con una coppia di giovani che, per caso, hanno la fortuna di provare quel famoso “colpo di fulmine” che sembra essere un momento molto filmico e poco reale, ma che pure accade. E così la veloce conoscenza dei due giovani porterà, forse troppo velocemente, all’inaugurazione di una nuova quotidianità in cui Lizzy dovrà imparare ad adeguarsi  («È che sono abituata ad avere i miei spazi e a non doverli dividere con nessuno, e poi non c’è posto nel mio arma­dio per i vestiti di un altro!», 12). Cambio di sentimenti (o piuttosto bisognerebbe dire “scoperta”) e di casa. Sono gli aspetti principali che dominano nelle pagine iniziali del romanzo in questione che si legge molto bene, un po’ per l’aspetto consuetudinario –e direi quasi rituale- di due modeste esistenze, con la complicità della scrittrice che ha predisposto una scrittura tendenzialmente piana, senza particolare formalismi e ricerche lessicografiche: semplice, ma chiara, la sintassi rifugge la mania del neologismo, ingrediente della narrativa postmoderna, come pure l’atemporalità degli accadimenti, per iscriversi, invece, in uno stile prevalentemente di fattura “classica”.

Una nuova vita che s’inaugura senza una pretesa di un futuro saldo e che, paradossalmente, si fortifica sulla necessità che il tutto conservi un alone di provvisorietà: niente di definito, nessuna certezza. La nuova relazione viene presentata al lettore come veloce, quasi illogica, voluta-ma-temuta. Da un primo piano su Lizzy e Robert, la luce si sposta a un grandangolo per poi sintonizzarsi su una panoramica della sua storia familiare della quale ci viene tratteggiato l’abbandono del genitore paterno al momento dell’annuncio di Hèléne, la futura madre, di essere incinta. Di rilievo il tema antiabortista inserito nel variegato e complesso mondo della società libertaria e ribelle dell’Inghilterra degli anni ’60. Il padre, gravato dalle responsabilità e impreparato a quella grande novità, preferirà abbandonarle entrambe. Ma, si badi bene, non è che questo fatto sia di poca importanza nel proseguo della storia in quanto all’apertura del secondo capitolo viene subito sottolineato che «In realtà la mancanza di un padre aveva causato a Lizzy non pochi problemi nelle relazioni con i ragazzi» (22). Freud, parlando dei sistemi comportamentali del soggetto nelle prime fasi della crescita, non poteva mancare di osservare che per il complesso di Elettra (più o meno il corrispettivo nel maschile del complesso di Edipo), la bambina, soffrendo del complesso di castrazione, si attacca ossessivamente alla figura paterna, ricercando in essa protezione e arrivando al desiderio di conquista del genitore –entrando in una logica di conflitto con la madre. E’ studiato che nei casi in cui venga a mancare la figura genitoriale maschile, la bambina potrà sviluppare uno dei seguenti comportamenti: 1. Fiducia e attaccamento ad altri uomini nei quali cercherà di vedere/vivere la figura del padre –avendo vissuto la privazione del padre come evento in sé doloroso, ma accidentale-; 2. Repulsione nei confronti della schiera maschile –avendo vissuto la privazione del padre come scelta arbitraria e sconsiderata del genitore. Che cosa succede a Lizzy, invece?: «Lizzy si sentiva attratta da uomini in apparenza sfuggenti, di­sinteressati a una relazione, molto presi dai loro impegni e dalla loro libertà; questo la portava a desiderare con tutte le forze di conquistarli completamente, come se volesse dimostrare al mondo di essere capace di farsi amare, ma poi quando otteneva il suo scopo perdeva interesse perché la paura di legarsi e di rinunciare alla propria libertà erano troppo forti» (24). Ancora una volta la provvisorietà, l’attimo, la fugacità del momento: il saper cogliere l’attimo e saperselo godere ma nei tempi giusti, mai troppo lunghi e fuori da ogni terapia di accanimento per far durare un qualcosa. Ed è proprio per questo che quando la routine s’impone, che la problematica Lizzy comincia a sentirsi meno libera: «Dopo un anno di convivenza però Lizzy iniziò a sentire il bisogno di prendere aria» (28) e che addirittura lui «la soffocava» (39).

Dai primi capitoli s’insinua subito l’idea che quell’amore, pure vissuto per un periodo in senso autentico e con convinzione, stia diventando malato con viva preoccupazione della protagonista che si sente privata della libertà o ossessivamente tallonata (“avevo paura fosse Robert”, 50) tanto da costringerla alla decisione di andarsene via per un anno, cambiar aria, allontanarsi dal suo passato e crearsi una nuova vita. Se ne andrà così a Parigi ad abitare in una casa del suggestivo quartiere latino.

Parigi apre a un ampio ventaglio di nuove possibilità: incontri, amicizie, uscite serali, tentativi d’approccio e quant’altro, ma la capitale francese sarà anche il luogo del recupero della memoria in quanto visiterà il nonno, a lei tanto simile per temperamento, che a tratti racconterà della sua storia, della sua difficile infanzia vissuta nell’abbandono e nell’indifferenza del padre e del suo approdo in territorio francese (“sentiva che attraverso quel racconto avrebbe trovato se stessa”, p. 87). La Parigi descritta è quella della capitale bohemien, ma anche la Parigi notturna di locali, discoteche e delle luminarie della Torre Eiffel che stemperano l’aria donandole un effluvio armonico e chiaramente romantico. La multietnica Parigi infonde un aroma di coloniale (si cita la Martinica e un suo ballo tipico, lo zouk) nella figura di Yannik, il ragazzo nero che in un locale, prima molto gentilmente, poi prepotentemente si relaziona con Lizzy facendo nascere in lei un misto d’attrazione e incomprensione: “Mentre saliva le scale non riusciva a cancellare dalla propria mente il sorriso di Yannik, il suo sguardo pene­trante e le sue spalle larghe, domandandosi come fosse possibi­le che tanta bellezza si accompagnasse ad altrettanta antipatia!” (86).

E la storia di Bruno, suo nonno, di come anni prima avesse avuto un vero e proprio colpo di fulmine per una donna che sarebbe poi diventata sua moglie, serve a Lizzy per meditare sul fatto che l’amore, inteso in senso romantico, può esistere e che esso non è solo un prodotto di tempi ormai andati, basta solo trovare la persona giusta. Nel frattempo, alla festa di compleanno di Etienne, c’è un riavvicinamento tra Lizzy e Yannik, ma esso è brevissimo e ancora una volta viene vissuto da Lizzy come tentativo di oppressione alle sue libertà. L’incontro tra i due finirà pressappoco come il precedente: una sorta di attrazione-repulsione, amore-odio difficile da spiegare completamente se non attraverso la sfacciata prepotenza di Yannik e forse, il taboo dell’uomo di colore in Lizzy, come pure la sua amica non manca di farle osservare. La narratrice a questo punto della storia osserva: “Yannik diventava sempre più un enigma, e più si infittiva il mistero intorno alla sua personalità, più le veniva voglia di af­frontarlo, non con le aggressioni verbali, come era abituato a fare lui, bensì attraverso il dialogo” (122).

Ma questo è un libro che scoperchia quel vaso di Pandora che si nutre della cattiveria e dell’insensibilità dell’uomo, delle convinzioni errate dalle quali nascono sempre le sopraffazioni e del pregiudizio: l’emarginazione e il vero e proprio razzismo che il nonno sperimenta sulla sua pelle, in quanto italiano da parte dei francesi (“i france­si che erano così pieni di pregiudizi da catalogare una persona come buona o cattiva a seconda del paese nel quale era nata”, 146) e nella storia di Lizzy la sua iniziale diffidenza verso Yannik perché uomo di colore. Nelle pagine di questo libro si respira un sentimento di noia e di oppressione nei confronti di idee reazionarie, come pure nei confronti di chi è osservatore o portatore di differenze all’interno della società. Ma poi, grazie ad una serie di altre circostanze –neppure troppo fortuite- i due ragazzi hanno la possibilità di interagire e di rapportarsi sul loro passato, sulle loro professioni e proprio dal parlare, dal conoscersi, Lizzy si scoprirà innamorata dell’uomo. Seguiranno scene di cene in locali esclusivi descritte con maniacale attenzione, passeggiate romantiche, dialoghi idilliaci inframmezzati alle continue visite del nonno con il quale, di pari passo, la narratrice porta avanti l’altra storia contenuta nel romanzo: quella della storia d’amore non semplice del nonno con la nonna e della loro famiglia, le loro gioie e i loro momenti di difficoltà sino ad arrivare al momento in cui è il nonno a far luce sulla vicenda dell’abbandono del padre avvenuta sulla nascita. L’anziano, nel suo parlare saggio e concreto, mette subito in luce che per avvicinarci alla realtà di un fatto è sempre necessario ascoltare più voci e non affidarsi solo a una faccia della medaglia. Così le convinzioni su suo padre, irrobustite in lei dalle parole della madre, vengono ben presto minate alla base e si sgretolano. Sentendosi tradita dalla madre, Lizzy romperà con lei i rapporti e sarà investita da un misto di sensazioni contrastanti che la animeranno a ricercare suo padre.

Il tempo incombe sempre impetuoso in ogni colloquio con l’anziano e questa tecnica narrativa a singhiozzi, volutamente basata su briciole di analessi e poi rallentamenti improvvisi, è caratteristica dell’intero romanzo.

E quell’amore prima allontanato, quasi snobbato e nel quale non aveva creduto molto, si trasforma ben presto per Lizzy in uno dei punti fermi della sua permanenza a Parigi attaccandosi ad esso in maniera addirittura ossessiva: l’assenza di messaggi sul cellulare da parte di Yannik è in grado di far dubitare la donna, creare apprensione e smaniare. (“Doveva smetterla di spremersi le meningi in quel modo, altrimenti sarebbe impaz­zita”, 239).

E’ chiaramente nelle ultime quaranta pagine che la storia conosce continui colpi di scena e che la trama si attorciglia su se stessa in maniera impressionante: la scrittrice  si trasforma in equilibrista e destabilizza il lettore con una serie di singolarissime coincidenze, agnizioni, scoperte e veri e propri ribaltamenti di fortuna. Il finale che il lettore anticipa tingersi di sentimenti cupi e mesti darà alla fine l’occasione di risollevarsi, passando attraverso momenti ed episodi focali e addirittura epifanici che, oltre a mettere in chiaro una volta per tutte il vero temperamento di Lizzy, danno manifestazione e concretezza della validità degli insegnamenti del nonno.

Si può trarre una morale da questo libro, o addirittura se ne possono trarre diverse ed è proprio compito del lettore a cui Marta Lock consegna questo romanzo quello di rintracciarle, scorgerle e farle sue affinché anche nella sua vita non si cada in errore, fraintendimento o non ci si lasci condizionare dalla diceria o dalle false convinzioni che, innalzate al valore di tabù, rendono l’uomo schiavo di se stesso e cieco della genuinità dei rapporti con gli altri.

Un romanzo d’impostazione classica in cui molte donne potranno ritrovarsi con facilità nell’ampio spettro delle emozioni, convinzioni, angosce ed ambizioni e che molto fa riflettere sui concetti di multi-culturalità, rispetto nei confronti della tradizione, amore ed orgoglio nei confronti della famiglia, intraprendenza nell’ambito professionale e grande amore per la vita.

Una parabola sui buoni sentimenti che, pur macchiati da un passato di disagio e di privazioni, debbono avere la forza di risplendere con una luce continua, proprio come accade all’amore di Lizzy verso gli altri (la madre, il padre, Yannik, il nonno, gli amici, il bistrot, la città di Parigi, etc). Ci possono essere tentennamenti, difficoltà e momenti di dolore, ci dice Marta Lock, ma bisogna avere la forza di elaborarli con spirito di analisi e voglia di migliorare e soprattutto essere propensi a rivalutare e riconsiderare i fatti accaduti da una nuova prospettiva.

Un affascinante romanzo sull’importanza delle possibilità e sulla frenetica ricerca di se stessi dal felice connubio di relazioni con gli altri.

 

Lorenzo Spurio