“Stati d’amnesia” di Lella De Marchi, recensione di Lorenzo Spurio
Sono sempre la bambina che non mi hanno detto (la terza madre di me stessa), sopra quei panni stesi su di un filo, ad asciugare, ho costruito il mio altare di parole. (63)
Il percorso che il lettore può fare con questo libro è multiforme e variegato e non è un caso che nell’analizzare l’opera si possa parlare di ‘percorso’: nella lirica che apre la raccolta si parla di un senso di cambiamento cercato-temuto in cui centrale è il tema dello spazio, della de-localizzazione e dello spiazzamento (“itinerare”, “transitare”, “vagando”, “inseguendo”, 14), poesia che incontra la sua acme espressiva nei versi “non avere paura/ di non tornare/ non avere paura di ritornare”, 14.
La poetessa pesarese Lella De Marchi, che ha esordito nel 2011 con la silloge La Spugna, ha espressamente strutturato questa nuova raccolta in vari “stati” che in realtà possono essere considerati come delle stanze, degli ambiti in sé definiti e caratterizzati che però, paradossalmente, mostrano anche delle sembianze contrastive. Questi stati assurgono alla dimensione mentale di luoghi-non luoghi, in sé non identificabili secondo un ordine toponomastico, né congetturabili sulla base di reperti realistici. E in realtà l’intera poetica di Lella De Marchi si realizza proprio in una zona liminare, di confine, uno spazio che è terra di nessuno, d’ombra, una “terra di risulta” per citare la poetessa Mia Lecomte. Fondamentale il ricorso all’ossimoro anche se mi pare di capire che la De Marchi si avvalga di immagini contrastive non in virtù di una chiara volontà di appropriazione del mezzo retorico, ma in quanto chiarificazione dei significanti che istituisce nelle sue liriche. Proprio per questo l’immateriale e l’astratto sono profondamente veri, concreti e tangibili nella sua poetica (“tu non dire/ che mi hai vista che so stare appesa al niente”, 15), a partire dalle liriche nelle quali ci si sofferma sul tempo e si squarcia quella falsa consapevolezza o delirio di volontà che vede l’uomo considerare il presente come summa organica del suo passato, come unicum di ricordi ed emozioni vissute. Esistono le discordanze, le zone buie, i black out, le intermittenze, le afasie, gli intervalli, i sentieri impraticabili. E sono queste espressioni di quello che la poetessa condensa sotto la categoria di “amnesie”, momenti dell’uomo che si caratterizzano per una dimenticanza significativa di qualcosa che concerne il suo passato ma che, come osserva la poetessa nella citazione in apertura al libro, non pregiudicano il sistema delle scelte e delle azioni nel suo vivere presente. L’oblio, dunque, ci dice la poetessa non è solo prodotto di una mente consapevole che fa revisionismo o negazionismo su qualcosa del suo passato personale, né è caratteristica del morbo di Alzheimer o comunque di patologie circoscrivibili all’interno della demenza senile, ma riguarda tutti, volenti o nolenti. La dimenticanza, il perduto, la memoria difficoltosa, traballante, impossibile. E la poetessa sintetizza il tutto con versi lapidari ma chiarificatori: “La vita è uno stato/ di continua amnesia/ una dimenticanza/ ripetuta”.
Il linguaggio, che in varie liriche sembrerebbe adottare una tendenza quasi narrativa per la chiara attenzione nella descrizione di quelli che potremmo definire fotogrammi, in altre invece si assottiglia completamente quasi a diventare filiforme e sfuggente; in questi casi la poetessa utilizza la tecnica della sintesi condensando un pensiero che, oltre che difficile a stendere sulla carta, finirebbe per risultarne de-naturalizzato se si aggiungesse una sola parola in più. Nelle liriche “confini”, “matrioske” e “prigioni” Lella De Marchi è come se utilizzasse con acume e perspicacia il dosatore di una boccia di un profumo e nebulizzasse immagini dai contorni levigati effondendo nell’aria un odore dolce e al contempo acre.
E le immagini che la poetessa evoca e sulle quali chiede un po’ di compartecipazione al lettore nella loro interpretazione a livelli più ampi da quello implicito-materiale, si centralizzano proprio su degli spazi-non spazi, su degli ambiti di intersezione e di rottura (la fessura) sino alla vera e propria apologia della distanziazione da sé (reale e metaforica) con un atto estremo, chiarificatore e necessario, quello della fuga.
Nelle poesie che compongono il sottogruppo “Stato di materia” la poetessa parte dalla fascinazione e dal rispetto nei confronti di Madre Terra evitando volutamente una poetica di encomio per arrovellarsi invece su questioni di carattere cosmologico, palingenetico e di carattere meramente ontologico. La poetessa parte dal concreto (“la massa magmatica rossa”, “il nucleo ad attrazione costante”, 25) per giungere alla componente intimistica, frustrata e annichilita dell’uomo in quanto singolo (quel “flusso delle coscienze” a cui si riferisce che, di certo, non è un flusso di coscienza della Terra, ma di chi la Terra la vive). A seguire gli “Stati di materia” sono gli “Stati animali” con particolari poesie ispirate ad alcuni animali (talpa, serpente, formichiere, ragno nero) descritti in momenti comuni del loro vivere quotidiano, ma dai quali trasuda inquietudine e un senso di minaccia al mezzo naturale per opera delle azioni degli uomini (il serpente sembra parlare in una supplica accorata all’uomo e dirgli “non foderarmi”, 38) sino all’attesa della morte del lombrico (“il lombrico aspetta il gesto/ sconosciuto il colpo/ che lo spezzi in due metà”, 41) che poi non è una vera morte ma quasi una sorta di ri-nascita per scissione binaria. Il ragno nero, invece, dopo un’attenta perlustrazione dei suoi spazi, in un rituale che è la sua convenzionalità, si renderà carnefice in questo mondo animalesco, trasfigurazione di quello umano dove i rapporti tra simili sono sempre più difficili e deviati.
Le poesie che compongono questa raccolta sono come tanti lapislazzuli di diversa fattura assemblati assieme con dovizia e rigore per regalare al fruitore un prodotto d’inestimabile caratura.
Jesi, 25 novembre 2013
Considerazioni sul tempo a cura di Rita Barbieri
TEMPO
A CURA DI RITA BARBIERI
Attendere. Come al telefono quando la linea è occupata.
Come in fila dal medico, in attesa del proprio turno per la visita.
Come al bancone del bar, mentre aspetti che il barista ti elargisca la tua prima dose di caffeina quotidiana, necessaria per affrontare la giornata.
Aspettare un tempo che sembra scorrere all’indietro: oasi perduta di miraggi e ricordi che, invece di essere dimenticati, riscopri presenti e attuali come una notizia appena uscita sul giornale.
Attendere segnali, decisioni, mosse e contrattacchi. Come nelle partite, nelle guerre, nelle sfide. In amore.
Sentirsi in balia dell’altro, di un destino che a volte è amico e molte altre è invece crudele avversario.
Alti e bassi, mareggiate e risacche. Distanze che si allungano e si accorciano come ombre, a seconda dei punti di vista. Si dilatano sotto l’effetto ottico di luci mutevoli e intermittenti.
Il tempo è denaro e, come tale, si guadagna, si investe, si spende, si spreca. E talvolta si perde. Come per i soldi, recuperarlo è difficile: finisce subito e lascia debiti e creditori che non saranno mai risarciti.
Ogni cosa a suo tempo. Un’affermazione che riempie di fiducia, di speranze, di illusioni… Aspettiamo che i tempi cambino, maturino come frutti su un albero. Che si adattino a noi, alle nostre volontà, ai nostri desideri.
Quasi mai succede.
E noi siamo ancora lì a aspettare che, invece di raccoglierli, i frutti cadano da soli.
Non ci sono tempi giusti o tempi sbagliati. Ci sono solo situazioni, realtà provvisorie e passeggere: il tempo scorre. Una clessidra che qualcuno ha già rovesciato per noi: ogni granellino che scivola via è un pezzo di vita che smette di essere un enigmatico mistero.
Il tempo, per fortuna, lascia segni e tracce. Cauterizza benevolo anche le peggiori ferite e riabilita dai danni più gravi. Regala un po’ di buonsenso a chi può permetterselo e agli altri lascia la sensazione di aver assistito a una lezione di cui non si è capito bene il senso. Forse qualcuno lo rispiegherà prima o poi.
Il tempo è un ben strano maestro di cui fidarsi. Non bisogna fargli troppe domande, né mettergli fretta: lui ha il suo programma da seguire e a noi, allievi inesperti, non resta che provare a seguirlo ciecamente tentando, nel mentre, di imparare il più possibile…
Rita Barbieri
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“Inghiottite” e “Accoglili nella tua pace, Signore”, dittico poetico di M. Fantaci e E. Marcuccio
Inghiottite
Dalla lavagna del presente
si legge un inconveniente,
errori umani,
errori tecnici,
che provocano dolore alla gente,
che provocano dolore all’ambiente,
ma anche morti e feriti…
e quanti i dispersi!
Errori ripetuti,
non si fa attenzione,
navi inghiottite dall’acqua…
…per dissetarle?
No, per affogarle!
… disastro ambientale,
disastro cercato,
tutti in allerta,
tutti preoccupati,
fino a quando non giace l’indifferenza
come sempre, come in ogni evento,
i fatti si ripetono e cadono
nell’oblio della mente,
ma non lo sa la gente
che così queste cose continueranno
a ripetersi negli abissi del mare
come negli abissi della psiche…
che ci vuole…
basta poco…
siamo in molti
e si cambia con poco.
Monica Fantaci, 15/1/2012

Accoglili nella tua pace, Signore!
Accoglili nella tua pace, Signore!
Dona loro un porto
e un sicuro rifugio:
povere anime di due poveri pescatori,
affogati in una notte di tempesta:
nel gorgo profondo,
nelle tremende onde,
nei rivolgenti rivoli burrascosi,
che si richiusero su di loro.
Accoglili nella tua pace, Signore!
Il padre, prevenendo la tempesta,
volle avvisare gl’ignari figli:
una telefonata arrivata troppo tardi,
i loro corpi inanimati
ormai giacevano
sul fondo del mare:
quel mare che fu la mia terra natia,
che sempre rallegra
i miei ricordi infantili,
da cui nascevano stelle,
che esplodevano in cielo:
adesso, sono certo, due stelle
sono nate dal mare
e s’innalzano verso il cielo.
Accoglile nella tua pace, Signore!
© Emanuele Marcuccio, 5/5/2000
(Emanuele Marcuccio, Per una strada, pag. 94, SBC Edizioni, 2009, pp. 100)
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“Fantasmi” di Matteo Dondi, recensione a cura di Lorenzo Spurio
Così sono gli uomini
E così sono i sogni
Se non son veri
Sono solo fantasmi.
(“Fantasmi”, p. 45)
Dopo una prima silloge dal titolo Naos, pubblicata dalla casa editrice romana Il Filo, Matteo Dondi torna con una nuova pubblicazione dal titolo Fantasmi. Il libro che andrete a leggere – libricino, in realtà dato che conta di appena cinquantotto pagine- contrariamente al titolo non ha niente di fantastico, gotico o di ectoplasmatico. Il significato e il senso dell’intera silloge va forse ritrovato in una delle liriche iniziali dal titolo “Déjà vu” dove Matteo Dondi descrive il genere umano attorniato da un velo inconsistente e indistinto, una pellicola di vapore, un’ombra che vive “nei paraggi delle nostre vite”. E’ in questa simbiosi di materia e di alone immateriale che si realizza l’esistenza umana tra il corporeo e l’aereo, tra il materiale e l’aldilà. “Nell’estasi eterna di un dèjà vu/ Nell’odore acre di desideri bruciati/ Ridendo a crepapelle/ Troviamo la nostra fine” (p.25), conclude Dondi.
Matteo Dondi sintetizza nelle liriche presenti in questa raccolta le sue vedute –principalmente di carattere filosofico e religioso- in una serie di poesie dall’andatura lenta, cadenzata e ritmata. L’intera raccolta si fonda su alcuni temi centrali che poi ritornano in maniere e forme diverse per tutto il libro: il tempo che scorre, il dubbio sull’aldilà, la morte. Non mancano, però, anche riferimenti più concreti al suo vissuto di uomo-scrittore, riscontrabile nei tanti ricordi, episodi di un passato lontano che però restano vividi nella mente del poeta come avviene in “Adolescenza” dove Matteo Dondi imprime: “Beata l’adolescenza/ che tutto accoglie/ e con la piega spavalda/ agli angoli della bocca/ ogni avversità affronta” (p. 46).
Come sottolinea Luca Milasi nella lunga nota introduttiva, la poetica di Matteo Dondi si basa su una pluralità di stili letterari ed è per questo corposa, plurimaterica, difficilmente catalogabile in un genere o in una corrente. Prevalgono i toni mesti e crepuscolari per l’esplicita volontà del poeta di richiamare quell’ “assente sempre presente” che è la Morte e che, dal giorno della nostra nascita, in qualche modo ci avvolge e ci riguarda. E’ forse compito del poeta, acuto esegeta del mondo che gli è toccato di vivere, domandarsi su di essa, forse per esorcizzarla o per tentare di conoscerla meglio e allontanarla da sé. Matteo Dondi utilizza metafore, analogie e costruzioni verbali per far continuo riferimento ad essa: a volte è un’ombra, a volte è l’imbrunire della sera, altre volte un fantasma, altre volte ancora il tutto si semplifica in versi come “In attesa del peggio” (p. 30). Il manifesto della “signora oscura” è forse presente nella lirica intitolata “Gravità= M2” dove quella “m” elevata alla seconda potenza ha una forza doppiamente maggiore. La “m” richiama la malattia, stato patologico dell’uomo che nei casi peggiori o insanabili conduce alla morte, l’altra parola a cui la “m” si riferisce. Ma la cosa più grave, sembra suggerire il poeta, non è la morte in se stessa, ma l’oblio che da essa deriva, la cancellazione dei ricordi, dei momenti, del passato, la dimenticanza, il fare tabula rasa di una persona, della sua esistenza. Nella lirica, infatti, conclude: “Morte, dolore, ancora morte/ Poi oblio” (p. 43).
La silloge, però, rifugge la morbosità e non condivide a pieno una prospettiva completamente pessimista o addirittura allarmista: segnali di positività, di speranza ci sono ed essi sono soprattutto presenti nelle invocazioni a Dio: “Dio fatti presente” (p. 28) o nei ringraziamenti: “Grazie a te o Dio” (p. 48).
Chi è l’autore?
Matteo Dondi è nato nel 1978. Si è laureato ad DAMS di Bologna con una tesi sul compositore Alessandro Peroni di cui ha curato il catalogo delle opere. Musicista e autore, ha pubblicato varie produzioni discografiche, fondato e militato in numerose band; nel 2003, con il videoclip “She’s still rockin’”, da lui scritto, suonato, diretto e interpretato è giunto in finale al “Premio Videoclip Italiano” (MEI, Faenza). Come critico e giornalista collabora con alcune riviste. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta di poesia Naos (Il Filo Editore, Roma). E’ presente come autore nella raccolta poetica DemoKratika (Limina Mentis Editore, Villasanta).
scrittore, critico-recensionista
Collaboratore di Limina Mentis Editore
E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

