Dialetto particolare, diventato lingua: alcune considerazioni sulla questione linguistica siciliana

Articolo di ROSARIO LORIA

I nove dialetti delle nove province siciliane, non esistono. Ogni provincia ha tanti dialetti, quanti sono i paesi che la compongono e la loro omogeneità non può esistere, se non incanalandoli in una Lingua. Con tutti i complicatissimi corredi, ad iniziare dai testi di formazione.

La problematica drammatica e orgogliosamente felice, è che nessuno di loro, come nessuno di tutte le regioni d’Italia, ha un rapporto stretto con la Lingua italiana… Sembra una brutta favola, ma è la realtà. Poi c’è un colpo di fortuna straordinaria. O per altri, un miracolo. Dove oggi c’è un gruppetto di paesini, prima del Trecento, – oggi in Sicilia ci sono 2400 parole italiane, inserite nella Lingua siciliana. Per esempio: – Scarpa, pasta, acqua, ossa, mula, tubi, giacca, lenza, panna, Luna, aria, occhi, testa e così via… – ove i paesini vennero su popolati da ovunque, e la gente adottò la parlata che trovò e la conservò, in parte conservando quegli idiomi latinizzanti.

Nel Trecento era già diffusa come ‘linguaggio’ di commercio, a Firenze, a Venezia e nelle Puglie… Le parole citate prima, esistevano da noi prima del Trecento… Questo linguaggio che poi i paesotti che vennero su nei tre lembi delle province di Palermo, Trapani e Agrigento lo adottarono e lo conservarono, coi suoi latinismi.

– Mè Matri, ja a la Missa… – Che poi nell’Italiano viene distorta in Messa… Ma da noi resta ‘Missa,’ in dialetto… Ma già nel Trecento, Dante aveva capito tutto, e nella Divina, accettando il volgare, non esiste nulla della Sicilia, se non quel dialetto latinizzato, di cui Dante andò fiero, dicendo che tutto quello che è ‘siciliano, è poesia’.

Io sono nato in uno di quei paesini… Paesini che in due guerre e varie carestie non hanno avuto un morto, una bomba… Scansati perché poveri, non offrendo agli invasori, alcuna garanzia economica… Per secoli il mio paesino tenne costante una popolazione di 3500 abitanti… Oggi manco 1500… Infatti le parlate, e nella Divina, la Lingua siciliana trova se stessa, al punto di insinuare che la Lingua italiana, nasce dalla Lingua siciliana…

C’è uno sparpaglio di confronti con le critiche di Giovanni Teresi, e le mie traduzioni in Lingua siciliana. Nell’ottanta per cento dei casi le parole sono uguali, nelle traduzioni del Purgatorio… Uguali, non somiglianti… Quindi questo è un miracolo unico per tutta la nazione… La Lingua poi si perfeziona con Federico II, Pier delle Vigne, Francesco D’Assisi… – Ludato si tu, me Signuri… Sora Luna… Frate sole… – Da noi non esistono ‘fratelli’, ma ‘li frati…’ Cu’ ‘Nninu semu comu li frati… ‘Nni spartèmu lu sonnu di la notti… –

A continuazione i vv. 99-126 del C. 1V del Purgatorio della Commedia e, a seguire, la traduzione in dialetto di Loria nella parlata della nativa Poggioreale (TP) con evidenti e inevitabili influssi e contaminazioni della parlata autoctona di Menfi (AG) dove da decenni vive ed è umanamente e culturalmente legato:

E com’elli ebbe sua parola detta,

una voce di presso sonò: «Forse

che di sedere in pria avrai distretta !

E ‘ccom’iddu happi, la so palora ditta,

‘nna vuci ‘ddà vicinu sunàu; – Forsi

chi ‘ddi sèdiri primu, avirrài la stritta !

Al suon di lei ciascun di noi si torse,

e vedemmo a mancina un gran petrone,

del qual né io né ei prima s’accorse. 

A lu sònu d’idda, ognùnu di nùi si turcìu,

e ‘bbittim’a ‘mmancina u’ ‘rràn ‘mpitrùni,

di lu quali, né iu, né iddu prima, s’àccurgiu.

Là ci traemmo; e ivi eran persone

che si stavano a l’ombra dietro al sasso

come l’uom per negghienza a star si pone.

‘Ddà ‘nni’ ‘nni jèmu, e ‘ddà ‘cc’eranu pirsuni

chi si ‘nni stàvanu all’ùmmira, darrè lu màssu,

comu l’òmu, pi ‘gnurànza, stari s’impùni.

E un di lor, che mi sembiava lasso,

sedeva e abbracciava le ginocchia,

tenendo ‘l viso giù tra esse basso.

E unu d’iddi chi mi paria stancu,

sidia e abbrazzava li dinocchia,

tinènnu lu facciùzzu, jùsu, tra iddi, biancu.

«O dolce segnor mio», diss’io, «adocchia

colui che mostra sé più negligente

che se pigrizia fosse sua serocchia ».

– Oh, duci signùri mèu, – diss’iu, – talia

a ‘cchiddu chi ‘ppàri chidd’è ‘gnuràntùni,

chi ‘ssi l’annùiazia, fùssi sò surùzza Lia. –

Allor si volse a noi e puose mente,

movendo ‘l viso pur su per la coscia,

e disse: «Or va tu sù, che se’ valente !».

Allura si vutàu a ‘nnùi, e ‘ppòsi mènti,

muvènnu la facci, puru sùsu, pi la coscia

E dissi; – Ora và tù sùsu, chi ‘ssì ‘bbalènti ! –

Conobbi allor chi era, e quella angoscia

che m’avacciava un poco ancor la lena,

non m’impedì l’andare a lui; e poscia

Canusciv’allùra cu’ era, e ‘cchiddu ròppu

chi m’affucava u’ ‘mpòcu, ancòra la lena,

u’ ‘mmi ‘mpidì d’abbicinallu: e ‘ddòppu,

ch’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena,

dicendo: «Hai ben veduto come ‘l sole

da l’omero sinistro il carro mena ? ». 

ch’a iddu fu ‘gghiùntu, aisàu la tèsta appèna,

dicènnu; – Ha beni vistu comu lu suli,

di l’omèru màncu, lu carru arrèna ? – 

Li atti suoi pigri e le corte parole

mosser le labbra mie un poco a riso;

poi cominciai: «Belacqua, a me non dole 

L’azioni sòi lenti, e li curti paròli,

muvèru li labbra mèi u’ ‘mpoc’a risu,

poi, ‘cuminciavi; – Belacqua, a ‘mmia u’ ‘ndoli, 

di te omai; ma dimmi: perché assiso

quiritto se’? attendi tu iscorta,

o pur lo modo usato t’ha’ ripriso ? ».

di tia ormai: ma dicimi: picchì assisu

dirilittu si ? Aspetti tu la scorta,

o puru lu mod’usatu, t’ha risprisu ? – 

Ed elli: “O frate, andar in sù che porta ?

ché non mi lascerebbe ire a’ martìri

l’angel di Dio che siede in su la porta.

E iddu: – O frati, iri sùsu, chi ‘ppòrta ?

C’u’ ‘mmi lassirria iri ch’a li martiri,

l’angilu di Diu, chi ‘ssedi ‘ncàpu la porta. 

Approfondimento critico di Vittorio Sartarelli su “La lingua Koinè – Appunti di scrittura e parlata siciliana” di Nino Barone

A continuazione, per volontà dell’autore, si riporta l’intervento critico di Vittorio Sartarelli esposto durante la presentazione del libro “La lingua Koine’” di Nino Barone organizzata dal Coordinamento responsabile del settore culturale dell’Associazione di Lettere, Arti e Sport JO’ con il Patrocinio del Comune di Buseto Palizzolo che si è tenuta presso l’Aula Magna della Biblioteca Comunale.

 

Buona Sera, mi chiamo Vittorio Sartarelli, sono uno scrittore trapanese e ho il gradito compito di presentare questa ultima fatica letteraria dell’amico Nino Barone: “La Lingua di KOINE’” Appunti di scrittura e parlata siciliana – in effetti si tratta di un Saggio Linguistico.

Intanto spieghiamo cosa vuol dire KOINE’ che ai più sembrerà quanto meno misterioso, in effetti si tratta di un aggettivo della lingua greca che tradotto vuol dire: “comune”. Quindi la Lingua comune, cioè la lingua di tutti ma anche di ciascuno appartenente alla stessa regione, ma chi sono le persone deputate a scegliere ed utilizzare al meglio la lingua, proprio i poeti, gli scrittori e gli attori, del teatro e del cinema. Non è la prima volta che mi accingo a parlare e scrivere di questo brillante e talentuoso poeta trapanese, apprezzato e ben noto autore di liriche in dialetto siciliano. Conosciamo da tempo Barone che consideriamo come esponente di spicco della nostra tradizione letteraria popolare; tempo fa ho recensito una sua pubblicazione dal titolo: “Petri senza tempu” e questa opera con la sua recensione verrà pubblicata in una Antologia dei poeti siciliani che uscirà a breve, curata dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi che si è interessata del nostro poeta per le sue qualità liriche e capacità espressive artistiche.

La lingua di KOINE'.jpgStasera però non parleremo di poesia, in quanto quest’ultima pubblicazione non è un’opera lirica bensì un’opera di studio e di ricerca sulla lingua siciliana attraverso le sue viscere, la sua morfosintassi, le sue espressioni tipiche. Ampie, infatti, sono le riflessioni dell’autore sull’oralità della nostra lingua, nonché sull’ortografia e il parlato del quale scrive: “è inconfutabilmente, la sua vera ricchezza, quella che abbiamo appreso in modo naturale dai nostri genitori che sono stati i primi ad insegnarci a parlare.”

La lingua è lo strumento di comunicazione che rende possibile la reciproca comprensione tra i membri di una stessa comunità. È quindi un’Istituzione sociale che suppone da una parte l’attività del parlante che traduce in simboli fonici il concetto che vuole esprimere e dall’altra l’attività di chi ascolta che dalla percezione acustica ricrea il concetto trasmesso. Accingendoci a recensire questo interessante e quasi esaustivo saggio di Nino Barone sulla lingua siciliana, anzitutto siamo rimasti sorpresi, positivamente dalla quantità, qualità e puntualità della ricerca che questo autore, un eccellente poeta, dimostra di avere eseguito uno studio accurato e quasi completo sulla lingua siciliana. E questo non lo affermiamo solo noi perché è chiaramente espresso anche nella dotta e precisa prefazione al volume firmata dall’emerito professore Federico Guastella.

La lingua di un popolo è anche la storia di quel popolo. E la storia ricca e varia del popolo siciliano non poteva far altro che produrre un lessico altrettanto ricco e vario. La base lessicale del Siciliano è, molto probabilmente, derivata dal latino, tuttavia, in effetti, nel lessico della lingua siciliana è possibile trovare eredità o retaggi del greco, dell’arabo, del normanno, del catalano, del francese, dello spagnolo e, andando molto indietro nel tempo, del sanscrito, come ha ampiamente dimostrato l’eminente glottologo siciliano Enrico Caltagirone nel suo volume “Origine e lingua dei Siculi” Queste eredità rappresentano le impronte della storia dell’Isola, fatta da invasioni, dominazioni e guerre, nonché da innumerevoli contatti con le genti indo-europee e mediterranee in genere. Questi eventi, millenari, hanno determinato in quello che era l’idioma originario dei Siculi, una serie innumerevole e continua di contaminazioni, intrusioni e commistioni che tuttora, anche se in misura ridotta, continuano, con la lingua ufficiale Italiana e con termini stranieri, di uso comune che finiscono con l’essere assimilati dalla lingua nella quale penetrano, rimanendovi. E allora, ecco il greco-siculo, il latino siculo- l’arabo-siculo, il franco –siculo, l’ispano-siculo, l’italo-siculo. Ma, sostanzialmente, sempre una lingua, una sola: il Siciliano.

Il siciliano che, dopo il disfacimento del Latino, divenne la prima lingua letteraria italiana (Dante, nel De Vulgari Eloquentia: “tutto ciò che gli italiani poeticamente compongono si chiama siciliano”; e il Devoto: “la Sicilia a partire dal XII secolo, nel periodo delle due grandi monarchie, la normanna e la sveva, ha elaborato la prima lingua letteraria italiana”).

Studiando e facendo ricerche su una lingua non si può dimenticare che bisogna distinguere la lingua parlata da quella scritta che sono foneticamente e sintatticamente diverse e questo concetto appare come assolutamente precipuo nella lingua siciliana, infatti, nelle diverse zone della Sicilia o, addirittura, nella stessa provincia anche a distanza di pochi chilometri, certi termini e certe parole sono diverse nella loro espressione, parlata e scritta.

La parola, infatti, ha un suo compito preciso, è parte di questa verità del linguaggio che nulla concede ad uno sperimentalismo inconcludente di alcuni pseudo poeti di oggi. La lingua di KOINE’ di Barone è un’autentica provocazione, il poeta, dunque diventa quasi un glottologo perché vorrebbe che si realizzasse un nuovo codice linguistico ufficiale, costituito da un corpus di regole grammaticali, morfologiche, sintattiche, ortografiche e fonologiche che trasformasse il vernacolo in lingua letteraria, cioè la lingua comune, pan siciliana, con cui scrivono i poeti che vogliono esprimersi in lingua siciliana.

E questo intento Barone lo ha quasi del tutto raggiunto grazie appunto ai suoi studi e alla sua ricerca sulla lingua, infatti, le sue poesie non sono una espressione tipica del vernacolo trapanese, come potrebbe essere una poesia di un poeta catanese o messinese, interprete ciascuno del proprio idioma locale, ma una espressione in lingua siciliana.

In definitiva, questa ricerca e questi studi sulla lingua siciliana che il poeta Nino Barone ha voluto fare non si può giustificare con una volontà di volere strafare e ben figurare nell’agone poetico e culturale, insomma non lo si può considerare una sorta di esibizionismo culturale, bensì è un amore per la sua terra e le sue tradizioni; il suo talento lirico è ormai noto ed affermato ormai da tempo. Barone per completare le sue conoscenze linguistiche pure essendo un rappresentante affermato della poesia in vernacolo siciliano, ha voluto dimostrare il suo talento lirico e artistico pubblicando anche un libro di sonetti in lingua italiana: “Amor ti tocco” anche questo da me recensito, con il quale ha riscosso un ampio e meritato successo.

Egli ha dimostrato che la classe, la cultura e l’arte, non sono acqua ma espressione di sentimenti elevati, colmati da esperienze di vita vissuta nella comprensione dei valori umani e civili di una persona che ha messo in opera il suo dono naturale di poeta con una sobria capacità artistica e culturale.

Grazie dell’attenzione e una buona serata a tutti!

VITTORIO SARTARELLI

 

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” L’Aquila me’ ” poesia in dialetto abruzzese di Lucia Bonanni con traduzione

L’AQUILA ME’

poesia di LUCIA BONANNI 

L'Aquila con alle spalle il Gran Sasso

L’Aquila con alle spalle il Gran Sasso

“A mà, appiccia poco la televisiò !

E tu statte fittu che tengo vedè.”

“Temè que è successo lloco jò !

 Uh Ggisù, Giuspp’e  Maria, è tuttu ‘na finanziò…

…se so spallate le case e pure ij titti delle chiese.”

“Ippure L’Aquila me’

era ccuscì bella  cheDiosololosa,

fatte cuntu que era la raice de j’Abbuzzu.

Quanno ji era ‘na quatranetta

se po’ ‘ice que de machine ce ne steeno poche

e a ll’appee la  putij girà come vulij

e pure iju Gran Sassu beju se vedea.

E po’ ci stea quela fabbrica  de Nunzia

que fecea certi torrò que ereno ‘na  puisia.!

Certo d’inverno le sparrozze se conteeno a mmjjara

e te fecea recrignià la bbfirina

ma l’istate  duùnque te putij assettà a ll’ppascina.

Me ve’ mmente que ‘nanzi a ‘nu bbargò

ci stea sempre ‘nu citulu  cchiu laju de ‘nu porcu

que la matina se magnea solo la pulenna

senza mancu ‘na ndicchia de sarciccia.”

« Mbe? Que te guardi?  Que ne vo’ ‘nu pocu ? » Me dicea.

“Sci fregatu, quatrà, de quesso ne tengo propriu ‘na gulìa !”

“Quijju capisciò de ju bbalìu volea sempre bbuscarà

‘nu poru caferchiu que da  Cese venea

a venne ‘npiazza certi fugni e ‘na poca lena.

‘Na òte unu de Prituru

cucinò la orpe invesce de ju lebbre e la fece magnà

a ‘na commare que co’ issu tenea ‘nu beju bùffu…

E la maestra della Forcella addò la mitti?

Quela sì que era ‘na  bbrava cristiana

e, se no me sbajo, venea dalla Toscana.

Certo se fecij  iju  cialoticu te  fecea pure ‘na bella refrescata

ma a noiatri ci volea  bbene assà a tutti quanti.

Ma mo’ l’Aquila me’

pe’ iju tarramutu s’è tutta sciricata

e ji è dammò que no ci vajo e la volesse propriu revetè.

Speremo que quijju calandòme

que tè ‘na freca de fèrchi e se vede sempre alla televisiò,

lèstu lèstu la po’ rabbiricà.

Ma se fa ju campanaru e no lo fa

ij demo ‘na callarella e ‘nu maleppeggiu

e tuttu incaucinatu assieme a’ iatri

iju mannemo a laorà.”

pduomo

L’AQUILA MIA

DI LUCIA BONANNI 

Mamma, per cortesia, accendi la televisione!

E tu stai fermo che voglio vedere!

“Guarda cosa è successo laggiù!

Oh mamma mia, è proprio una rovina…

… sono crollate le case ed anche i tetti delle chiese!”

Eppure l’Aquila mia

era di una bellezza che non ti dico.

Pensa che era il centro antico dell’Abruzzo.

Quando io ero bambina

di macchine ce n’erano assai poche

e in tutta tranquillità per le strade si poteva camminare

e nel suo splendore anche il Gran Sasso bello si poteva ammirare.

E poi c’era quella fabbrica di Nunzia

che faceva dei torroni che erano una delizia!

Certo d’inverno i ficchi di neve cadevano grandi e fitti

ed il vento gelido ti faceva rabbrividire,

ma in estate del piacevole frescolino potevi usufruire.

Mi ricordo che davanti ad un balcone

c’era sempre un bimbo sudicio e solo

che la mattina mangiava soltanto la polenta

senza neanche un pezzettino di salsiccia.

“Che hai da guardare. Ne vuoi un poco?” Mi diceva.

“Povero sciocco, di quella roba lì non ne ho certo voglia!”

Quel furbacchione di un banditore

voleva sempre imbrogliare un povero cafone

che da Cese veniva al mercato cittadino

per vendere pochi funghi ed un carico di legna.

Una volta uno di Preturo cucinò la volpe invece della lepre

e la fece mangiare ad una sua commare

che con lui aveva un bel debito di scommesse…

E la maestra che insegnava alla Forcella te la ricordi?

Quella sì che era una brava persona

e, se non sbaglio, veniva dalla Toscana.

Sicuro che se non ti comportavi bene

ti dava anche una bella punizione

però a tutti quanti noi era tanto affezionata.

Ma adesso L’Aquila mia

per il terremoto è tutta danneggiata

ed io è da tempo che non ci vado

e la vorrei proprio rivedere.

Ci auguriamo che quel galantuomo

che possiede una gran quantità di denaro

e si vede sempre in televisione

svelto-svelto la possa sistemare.

Ma se fa il tonto e non lo fa

gli diamo un secchio e una piccozza da muratore

e con gli indumenti tutti sporchi di calce

insieme agli altri lo mandiamo a lavorare.

Mariuccia Gattu Soddu, poetessa orunense con un testo-atto d’amore per la sua terra

COMUNICATO STAMPA

 

Mariuccia Gattu Soddu_coverTraccePerLaMeta Edizioni è felice di annoverare tra i suoi autori la poetessa sarda Mariuccia Gattu Soddu, nativa di Orune, città alla quale dedica l’intera opera dal titolo Ricordi di Sardegna: Orune nel cuore e nella storia. La donna traccia con attenzione e vividezza l’anima di Orune che nel tempo ha visto immancabili cambiamenti, tanto che il libro che si compone di una prima interessante parte saggistica, è anche un valido manuale di carattere antropologico per poter conoscere un territorio che vive nel cuore della donna generosamente donato con questa opera dal grande valore contenutistico e sociale.

Ad aprire un lavoro che è già ricco ed esaustivo di suo, è una nota critica del giornalista sardo Luciano Piras nella quale si legge: “Intere parti sono pensate e scritte tutte in orunese doc, patrimonio di una cultura, di una mentalità, di un mondo, agropastorale e arcaico, ricco di storia e tradizioni. È la cultura di un popolo di contadini, pastori, poeti, tenores ed emigranti. Orune era e resta il paese del vento, del vento che fischia, del vento che suona, del vento che carezza, vento che schiaffeggia. [Mariuccia Gattu Soddu] ha iniziato a “giocare” con la letteratura in lingua sarda “soltanto” nel 1993, così almeno dichiara lei stessa, anche se è chiaro che ha sempre avuto il vento in faccia, il vento della poesia, il vento del paese dei poeti”.

 

L’autrice:

Mariuccia Gattu Soddu (nome anagrafico Gattu Maria), insegnante in pensione, è nata a Orune nel 1936 e risiede a Nuoro. Dal 1993 si dedica alla letteratura in lingua sarda.

Ha partecipato ad alcuni concorsi letterari ottenendo premi per la prosa (Premio Montanaru a Desulo per tre edizioni consecutive: 1° premio; 2° premio; 1° premio) e segnalazioni per la

poesia (Premio Remundu Piras a Villanova Monteleone; Premio per l’Ambiente a Sarule; Premio Logudoro a Ozieri).

 

 

SCHEDA DEL LIBRO:

Titolo: Ricordi di Sardegna: Orune nel cuore e nella storia
Autrice: Mariuccia Gattu Soddu
Editore: TraccePerLaMeta Edizioni, 2014
Pagine: 112
Isbn: 978-88-98643-07-3
Costo: 10€
Link alla vendita
 

  

Info:

www.tracceperlameta.org –  info@tracceperlameta.org