N.E. 02/2024 – “La poesia amorosa di Borges”, saggio di Dante Maffia

Circa una ventina di anni fa pubblicai un elzeviro su “La Nación” di Buenos Aires intitolato Borges, ricordando ai lettori di quel quotidiano la leggenda di un Borges mai esistito, pura creazione della stampa e dei mass media, entità spirituale inventata per mettere in risalto una certa Argentina popolata di fantasmi, di antenati nobili dal passato aristocratico e colto in cui specchiarsi. Per anni durante i suoi lunghi viaggi il poeta ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, perché, come ha confessato in una conversazione informale, non si rendeva conto se quella leggenda era nata per seppellirlo o comunque per toglierlo dalla circolazione. Ci fu perfino chi disse che assegnargli il Premio Nobel sarebbe stato assegnarlo al vento.

Naturalmente si è pensato anche che sia stato lui stesso a mettere in giro voci del genere e che la persona chiamata Borges fosse soltanto un prestanome pagato lautamente dalla Casa editrice Losada di Buenos Aires e dal Governo argentino. Chiacchiere infinite, che hanno contribuito a formare attorno alla sua vita un cumulo di voci, la maggior parte delle quali sono assurde dicerie, affermazioni gratuite e prive di senso.

Io ho conosciuto il poeta, in più d’una occasione, e anche se non mi ha mostrato la sua carta d’identità, ho avuto modo di ascoltare dalla sua voce aneddoti illuminanti per la comprensione della poesia, aforismi taglienti, giudizi lapidari. È l’atteggiamento “arrogante” che spesso hanno i geni, anzi è l’atteggiamento semplice e diretto che mostrano senza veli, convinti che basti affermare, senza spiegare, senza soffermarsi a “giustificare” criticamente il frutto delle loro argomentazioni.

Insomma, di Borges si è detto di tutto; attorno a lui s’è creata una scia di considerazioni e di illazioni che sempre più si allarga, soprattutto perché, come sostiene Luigi Baldacci, a forza di non essere letto è diventato un classico.

Se contiamo il numero delle pagine pubblicate (sono circa tremila), ci rendiamo conto che la sua produzione non è immensa, ma se diamo uno sguardo alle tematiche affrontate si resta stupefatti: i suoi sconfinamenti sono sterminati, le sue indagini vaste. Dalla letteratura latina a quella americana, da quella tedesca a quella inglese, da quella spagnola a quella italiana. Molto acuti e preziosi i suoi scritti su Dante.

In questa vastità di interessi Borges ha avuto anche il tempo per l’amore, per scrivere poesie d’amore. Poche, in verità, che non cantano le lodi della donna se non per rapidi lampi, ma quasi sempre mettono l’accento sulla sua assenza, su ciò che ormai è avvenuto. Tutto perciò vive nel ricordo, con lucidità e precisione. Chi si aspettasse una poesia d’amore che sospira, che rincorre il mai o il sempre degli innamorati, non trova che la pienezza di un perenne presente. Si può dire, a un primo impatto, che l’amore per lui sia atto di assenza, perdita a cui pensare dopo, recupero della memoria di un tempo che forse non è felicità, ma sicuramente incanto vissuto nella normalità, momento magico di un tratto di strada compiuto e chiuso, e rimasto a significare una certa cosa di cui però si ha contezza dopo, soltanto dopo.

Questa è la prima impressione, l’impatto. Anche grazie all’insistenza di ocaso e di ausencia che pare vogliano siglare la condizione umana in genere dell’amore.

È come se Borges non potesse e non volesse parlare dei suoi rapporti con la donna, tenerli soltanto per sé. A volte, all’interno di testi che parlano di Buenos Aires o d’altri luoghi e d’altri argomenti, c’è un accenno, una indicazione, ma si tratta di momenti in cui sembra “costretto” a farlo per evitare che la composizione perda la sua circolarità.

Che cosa abbia contribuito a questa sua “riservatezza” è difficile dirlo, è certo che egli pone l’amore oltre i confini della quotidianità, come una luce che inonda e fugge lasciando poi un luogo incontaminato a cui fare riferimento soltanto in poche occasioni.

Nella raccolta d’esordio, Fervore di Buenos Aires, la prima lirica d’amore che incontriamo si intitola proprio Assenza. Sono diciotto versi che vale la pena di leggere per rendersi subito conto di come egli vede la donna, come la sente, come la vive o l’ha vissuta:

“Dovrò rialzare la vasta vita

che ancora adesso è il tuo specchio:

ogni mattina dovrò ricostruirla.

Da quando ti allontanasti,

quanti luoghi sono diventati vani

e senza senso, uguali

a lumi nel giorno.

Sere che furono nicchie della tua immagine,

musiche in cui sempre mi attendevi,

parole di quel tempo,

io dovrò formularle con le mie mani.

In quale profondità nasconderò la mia anima

perché non veda la tua assenza

che come un sole terribile, senza occaso,

brilla definitiva e spietata?

La tua assenza mi circonda

come la corda la gola

il mare chi sprofonda”.

Cominciamo col dire che non abbiamo indicazione di nomi, né di sembianze e che non c’è il minimo cenno al desiderio, alla sensualità, al vortice che ingorga di solito l’anima e il corpo e fa disperare “l’amore nel cuor dell’uomo”. Tutto è detto con la massima semplicità e con la massima oggettività. Sembra che egli parli di un uomo qualsiasi, non di se stesso, eppure dentro le parole si sente il gorgogliare di una ferita insanabile, mai minimamente rimarginata, tanto è vero che l’assenza è “come un sole terribile”, senza tramonto, che brilla crudele e malvagio. Anche la dolcezza degli incontri è figurata con una immagine indiretta efficace e davvero alta: “musiche in cui sempre mi attendevi”.

Più o meno negli stessi anni Vincenzo Cardarelli in Italia scriveva una poesia intitolata Attesa, ma in questa l’assenza è riferita a un appuntamento mancato. In Borges invece l’assenza diventa un fiorire attivo di ricordi che si materializzano e fanno male. E nonostante che egli non amasse troppo la poesia spagnola, qui ne troviamo echi che poi saranno soprattutto di Pedro Salinas, oltre che di Aleixandre.

Nella stessa raccolta troviamo una poesia intitolata Sabati, con la dedica a C. G. Non sappiamo chi sia, ma le quattro parti che compongono la lirica sono scandite con accenti direi musicali, ritmati con forza, siglati inizialmente sempre dall’occaso (“Fuori c’è un occaso, gioiello oscuro / incastonato nel tempo”) e conclusi con una immagine che investe le corde più sottili dell’uomo e una coralità che scaturisce da lontane nostalgie di assoluto: “Sempre, la moltitudine della tua bellezza”; “In te sta la delizia / come sta la crudeltà nelle spade”; “Nel nostro amore c’è una pena / che somiglia all’anima”; “Tu / che ieri soltanto eri tutta la bellezza / sei anche tutto l’amore, adesso”. A differenza però della precedente poesia, qui troviamo una indicazione precisa del corpo: “il biancore glorioso della tua carne” e troviamo quindi un Borges che fa una deroga alla sua pudicizia, al rispetto assoluto che ha della donna, perché “biancore” è una immagine solare priva di qualsiasi tentazione, del minimo riflesso di sensualità.

Il poeta e scrittore argentino Jorge Luis Borges

Ho cercato di individuare in tutta la produzione elementi che mi suggerissero dati illuminanti della sua poesia amorosa, ma Borges non è disposto mai a denudarsi, a mettere in piazza le sue illusioni e i suoi languori, le sue accensioni e il suo essersi perduto nelle braccia di una donna. Parsimonioso sempre, oculato nella scelta dei vocaboli, con un rigore che ci riporta all’essenzialità dei classici greci e latini. Infatti in Trofeo, in cui si racconta di un giorno intero trascorso con una lei possiamo soltanto apprendere questo dato: “io fui lo spettatore della tua bellezza”, informandoci che dopo sarebbe subentrata, in un modo molto particolare, ancora e sempre l’assenza. Insomma, spettatore della bellezza come lo si può essere di una cascata, di un prato fiorito, di una tela importante al museo.

La poesia d’amore successiva che incontriamo, sempre in Fervore di Buenos Aires, è Congedo. Anche in questa riappare la parola assenza: “Definitiva come un marmo / rattristerà la tua assenza altre sere”. Ecco, la donna nel ricordo è diventata come un marmo definito e ineluttabilmente fermo, chiuso nel rigore di una struttura immutabile, quindi, ancora una volta, immagine di un repertorio conservato nel suo fulgore oggettivo.

Due anni dopo, il 1925, Borges pubblica Luna di fronte, che con poche modifiche viene ristampato nel 1969. Borges ricorda che “Verso il 1905, Hermann Bahr decise: ‘L’unico dovere, essere moderno’. Più di vent’anni dopo, mi imposi anch’io questo obbligo del tutto superfluo. Essere moderno è essere contemporaneo, essere attuale; tutti fatalmente lo siamo. Nessuno…ha scoperto l’arte di vivere nel futuro o nel passato”. A volte il poeta sembra tautologico, ma bisogna stare attenti, perché egli in questo modo apparentemente innocuo, piano ed elementare, cerca di sbrogliare la matassa di eterni enigmi che diversamente si alzerebbero come un muro dinanzi alla nostra comprensione. Insomma, egli afferma e affermando nega e negando sposta l’asse della verità in direzione di una logica che da sé entra nel gioco oscillante del possibile e svela, per similitudine o per improvviso rigetto dell’ossimoro, tutta la sapienza del dettato. In Amorosa anticipazione vediamo infatti che Borges apre i primi tre versi con una negazione (finora in poesia si aveva soltanto l’esempio di A Zacinto di Ugo Foscolo inciso con una simile determinazione forte e perentoria – “Né più mai toccherò le sacre sponde”) che vuole mettere in risalto il “come guardare il tuo sonno implicato / nella veglia delle mie braccia”. Adesso abbiamo, finalmente una “fronte chiara come una festa” – simile a un verso bellissimo di Alfonso Gatto: “Ti perderò come si perde un giorno chiaro di festa”, e abbiamo “l’abitudine del tuo corpo”, ma la donna diventa proprio per questo “Vergine miracolosamente un’altra volta per la virtù assolutoria del sonno”. E così si ritorna a immagini scultoree, poste a guardia della memoria e il poeta si pone come un cenobita che contempla e lo fa “come Dio deve vederti, / sbaragliata la finzione del Tempo, / senza l’amore, senza di me”. Dunque più che una poesia d’amore si tratta di una poesia religiosa, la cui spiritualità, ancora una volta è nell’assenza dell’amore, addirittura di se stesso, in modo che la donna diventi puro spirito distaccato dagli elementi terrestri, dalla umanità calda e dalla quotidianità.

Che cosa può significare tutto ciò? Come mai Borges ha questo atteggiamento rigido che porta inesorabilmente alla negazione o al vagheggiamento del bene che nella memoria diventa perfino atto straordinario e però privo di un significato legato al rapporto uomo donna, amore e morte? Che cosa significa questo suo sterilizzare sentimento ed emozione, corpo e anima in un flusso di sottile e imprendibile proiezione figurativa? Siamo al di là di qualsiasi romanticismo, di qualsiasi nota decadente, passionale, accesa, carica di sogno o di possibilità, al di fuori di qualsiasi regola canonica, fuori dalla portata degli stereotipi, ma anche al di fuori di connotazioni che abbiano agganci e diramazioni di carattere storico inteso in direzione della tradizione,  e proprio grazie all’utilizzo della memoria poetica e letteraria che si corrobora di assonanze e di verità più di carattere filosofico anziché strettamente poetico, con una punta di intellettualismo, che egli riesce a rendere lievitato, coinvolgente, come se fosse frutto di una emozione che investe la totalità della persona umana, come se la donna non fosse corpo e calore, ma segno intoccabile di una astrazione onirica.

Subito dopo troviamo un’altra composizione intitolata Un congedo. Perché prima Congedo e adesso Un congedo? Borges non adopera le parole mai casualmente e anche un articolo indetermonativo ha il suo peso nell’economia di una interpretazione. Un congedo perché ci sono infiniti modi di dirsi addio, e infinite maniere di leggere la realtà che sempre si presenta per sineddoche e pretende tuttavia di diventare verità assoluta, unica.

L’amore è concepito come un rapporto che scava l’addio. Anche qui per tre volte, come in una giaculatoria, abbiamo la sera, e addirittura abbiamo un riferimento a “le nostre labbra nella nuda intimità dei baci”, ma pare che niente serva a protrarre la meraviglia degli incontri già deteriorati dalla presenza costante della sera e poi dalle lacrime di lei.

“Sera che dura vivida come un sogno

tra le altre sere.

Dopo io raggiunsi e superai

notti e navigazioni”.

Mai una promessa, mai una parola di passione, un abbandono, una esaltazione, un pensiero torbido, accecante, irrazionale e anche quando ci racconta, in La mia vita intera, il percorso e la dimensione del suo credo, hanno una sola espressione nei confronti della donna: “Ho amato una ragazza altera e bianca e di una ispanica quiete”.

A parte l’incomprensibile “ispanica quiete” (sappiamo tutti quanto focose e appassionate, sensuali e calde siano le donne spagnole) devo confessare che leggendo per la seconda volta l’aggettivo bianco, riferito alla donna, ho avuto un momento di perplessità. Il bianco è l’assillo della follia, l’illibatezza, la grazia, ma soprattutto l’assenza (!) o la somma dei colori. Secondo la simbologia si colloca all’inizio o alla fine della vita diurna e del mondo manifestato, il che gli conferisce un valore ideale, asintotico, tendente cioè ad avvicinarsi a qualcosa senza mai raggiungerla. Ma, come dicevo, mi ha lasciato perplesso anche la “ispanica quiete” della ragazza non solo per la connotazione che esula da qualsiasi riferimento se uno pensa alla donna spagnola roteante in una frenetica danza di flamenco, ma anche per l’avvertimento a voler ribaltare i luoghi comuni a tutti i costi.

Dunque, che cosa pone Borges in questa posizione asettica che lo fa concludere così: “Credo che le mie giornate e le mie notti eguaglino in povertà e in ricchezza quelle di Dio e quelle di tutti gli uomini”. Una maniera sibillina di appiattire la presenza della donna, di porla al di là del bene e del male e renderla una creatura che in qualche modo è appena una ruota di scorta dell’uomo, anche quando ama, anche quando diventa lontananza e ricordo che ci accompagna, cioè ancora e sempre assenza?

Che Borges sia stato misogino e nessuno se n’è mai accorto? Certo è che per trovare un’altra poesia d’amore bisogna arrivare a L’altro, lo stesso del 1964. E proprio in una delle liriche intitolate 1964 troviamo ancora una volta, però, il perenne motivo del suo mondo amoroso, le stesse note dolenti dell’addio e dell’assenza:

“Addio alle mutue mani, addio alle tempie

Che amore avvicinava. Non hai più

Che il fedele ricordo e i vuoti giorni”.

E proseguendo leggiamo, più oltre:

“Un oscuro miracolo si cela:

La morte, un altro mare, un’altra freccia

Che ci fa liberi da sole e luna

E dell’amore. Il bene che mi desti

E mi togliesti devo cancellarlo;

Ciò ch’era tutto dev’essere niente.

Solo mi resta il gusto d’esser triste,

L’abitudine vana che m’inclina

Al Sud, a quella porta, a quel cantone”.

Quattro anni dopo, 1969, esce Elogio dell’ombra. Qui avvertiamo una ulteriore rarefazione del tema, starei per dire l’assenza se non fosse per accenni come “… e tra le pagine appassita / la viola, monumento d’una sera / di certo inobliabile e obliata”; oppure, quaranta pagine dopo: “È il giorno in cui lasciammo una donna e il giorno in cui una donna ci lasciò” e altre venti pagine dopo: “le donne son quello che furono in anni lontani”.

Poesia misteriosa quella di Borges, ma che pone molte domande al lettore avido di conoscere che cosa si cela nella sua anima sempre avida e così poco propensa a parlare d’amore. Anche L’oro delle tigri è privo di poesie che trattino l’argomento amoroso. Sì, ci sono sei “Tanka” che fanno pensare alla parvenza, all’idea di donna e niente altro. Poi bisognerà arrivare a La moneta di ferro, del 1976, per avvertire un altro piccolo cenno:

“Che cosa non darei per il ricordo

Di te che m’avessi detto che mi amavi,

E di non aver dormito fino all’aurora,

Straziato e felice”.

o per leggere la breve poesia dedicata a Maria Kodama, l’ultima sua compagna di vita. Ma anche questi versi non sono allegri o passionali:

“C’è tanta solitudine in quell’oro.

La luna delle notti non è luna

Che il primo Adamo vide. I lunghi secoli

Dell’umano vegliare l’han colmata

D’antico pianto. Guardala. È il tuo specchio”.

Poi, ne La moneta di ferro si legge, proprio nella poesia eponima: “Perché è necessario a un uomo che una donna lo ami?”.  Niente altro. E nella successiva raccolta, Storia della notte, del 1977, Endimione a Latmo è un confronto letterario perché non possiamo non sentire il peso della letterarietà di versi come: “Oh le pure guance che si cercano, / Oh fiumi dell’amore e della notte, / Oh bacio umano e tensione dell’arco”. Anche La felicità, che fa parte de La cifra, del 1981, non trascina, non fa sentire il fiato caldo né le accensioni che portano a considerare l’amore nelle forme a cui siamo abituati, negli eccessi e negli incanti che conosciamo:

“Sia lodato l’amore che non ha né possessore né posseduta, ma in cui entrambi si donano.

Sia lodato l’incubo che ci rivela che possiamo creare l’inferno”.

Lo stesso si dica de L’inferno che ripercorre la storia dantesca di Paolo e Francesca e di qualcuno degli haiku, molto felici e luminosi, ma privi di quel fulgore acceso e demente che dovrebbe accompagnare la poesia amorosa.

Qualcosa gli sfugge ne I doni, del 1984, e qualcosa ne Il labirinto (“Maria Kodama e io ci perdemmo quel mattino e seguitiamo a perderci nel tempo, quest’altro labirinto”), ma non sentiamo una voce che rincorre sogni, che li proietta, che li codifica, li dilata, li accende, li uccide, li spande a piene mani. Come abbiamo visto, tutto è chiuso all’interno di quell’assenza di cui parla all’inizio; il resto è un esercizio altamente letterario, che fa pensare a un uomo desolato, con l’anima posta in equazione con la mente, e tutto preso dai problemi del tempo, dello spazio, della morte, della vita, degli specchi, della cecità. Quello della cecità è stato un argomento vissuto sulla sua pelle, che forse sentiva dentro, tra l’altro, perché da giovane studiò Milton, Il paradiso perduto, al quale, secondo me, deve moltissimo, molto più di quanto si pensi, e che amò anche per la medesima condizione umana, per la precoce cecità. Ma questo è un altro argomento.

La poesia amorosa di Borges sembra priva di vita, perfino di effettivo dolore, anche quando egli si trova nella condizione dell’assenza e dell’addio, quando ripercorre i lontani momenti dei suoi innamoramenti, del suo matrimonio con Elsa. Sentite che cosa risponde a Giuseppe Centore in una intervista pubblicata nel 1984 su L’amanuense di Borges: “D: È vero che una delle ragioni per cui il suo breve e tardivo matrimonio fallì fu il fatto che sua moglie Elsa non sognava?” – R.: “O forse, chissà, si vantava di non sognare. Veniva da una famiglia in cui era proibito il nonsense, il fantasticare. Comunque mi son detto: se lei non sogna sono perduto”. E più avanti: D: “C’è chi sostiene che nella sua vita non c’è amore” – R: “Si sbaglia. Non sa che io scrivo per distrarmi dall’amore”. Due risposte che ci illuminano sul suo atteggiamento nei confronti della donna. Del resto uno dei libri che Borges ha maggiormente amato, e per il quale ha scritto una magistrale e dotta introduzione, è stato Micromegas di Voltaire, che così comincia: “Memnon concepì un giorno il progetto insensato d’essere perfettamente saggio. Non c’è uomo al quale questa follia non sia passata qualche volta per la testa, Memnon si disse: ‘Per essere saggissimi, e di conseguenza felicissimi, basta non avere passioni; e nulla è più agevole, come si sa. In primo luogo, non amerò mai una donna, poiché, vedendo una bellezza perfetta, dirò a me stesso: quelle guance un giorno diventeranno rugose; quei begl’occhi saranno orlati di rosso; quella bella testa diventerà calva. Ora non devo far altro che vederla fin da questo momento con gli stessi occhi con i quali la vedrò allora, e sicuramente quella testa non farà girare la mia”.  Mi pare evidente che non ha voluto e non è riuscito a imparare, come ha scritto Mandel‘stam, “la scienza degli addii”, e nemmeno quella dell’assenza, visto che la canta come una reliquia, come avvenimento estraneo, e visto che nella bellezza intravede subito il disfacimento. Forse la colpa è del suo eccesso di intellettualismo che in questo caso non è riuscito a diventare lievito essenziale di stupore e allora mi viene spontaneo ripetermi la domanda: “che Borges sia stato davvero un misogino?”.  Magari dopo la delusione di Elsa che si è portato appresso per tutta la vita come una condanna e una ferita che non gli ha permesso di uscire dal suo “rancore”?

Non lo sapremo mai, anche perché poi altre donne lo hanno amato e Maria Esther Vasquez e Maria Kodama lo hanno adorato e servito fino alla morte.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

Intervista a Franco Pastore. A cura di Lorenzo Spurio

Intervista a Franco Pastore
A cura di Lorenzo Spurio 
 
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LS: Quando cominciò a scrivere i primi versi? La sua prima produzione era influenzata da poeti e scrittori che ha letto durante l’adolescenza? Quali?

FP: Cominciai a scrivere versi alle scuole medie, ma erano più satire che poesie. Ne ricordo, infatti, una sul mio paese, che evidenziava l’assenza di strutture e la scarsa igiene delle salumerie. Dopo una pausa piuttosto lunga, iniziai a scrivere versi al liceo, ispirato dai classici greci e latini. Ricordo che  polarizzarono la mia attenzione le traduzioni delle brevi poesie di Saffo ed Alcmane: «εδουσιδʼρέωνκορυφαίτεκαὶφάραγγες dormono le cime dei mon-ti, le vette e le valli…»; per non parlare di Pindaro: « luomo è lombra di un sogno ». La poesia latina invece faceva riflettere, ma comunque impazzivo, dell’Eneide, per i magnifici versi sulle nozze di Didone ed Enea. E che dire dei canti di Catullo, dove esterna il suo amore per Lesbia: «Dà mi bàsia mìlle, dèinde cèntum,… dammi mille baci, poi ancora cento…».  Fu  molto più tardi che fui attratto dalla poesia di Montale, dopo che avevo dedicato circa un quinquennio  al Leopardi. Verso i ventisei anni, mi dedicai alla letteratura russa, che abbandonai poco dopo il servizio militare, il mio preferito era Puskin. A trent’anni iniziai ad avvertire il fascino della poesia dialettale, soprattutto per i versi in romanesco ed in napoletano: Trilussa, Guglielmo Somma ed Antonio De Curtis. Oggi mi piace molto anche il dialetto siciliano, tanto che molti amici mi inviano le loro composizioni.

 

LS: Oggigiorno sono in molti a definirsi “poeta” per il semplice motivo di scrivere in versi o di spezzare frasi con gli “a capo”. Qual è un suo giudizio qualitativo sulla grande produzione poetica che si è sviluppata negli ultimi anni e quale tendenze/espressioni preferisce di più?

FP: Tutti oggi scrivono poesia, un po’ è una moda, ma forse è un escamotage per non essere annullati come persone umane. Il valore poetico? è rapportato alla superficialità della cultura e ad un “lavoro scolastico” sempre più povero di contenuti. Ma non mancano intuizioni liriche notevoli, magari espresse con mezzi espressivi inadeguati, ma pur sempre notevoli. Là dove è presente la cultura, anche la poesia si tracima in atmosfere ricche di toni e di pispigli. Tuttavia, non ho molta simpatia per i fraseggi e  gli assembramenti di fonemi ritmati e non, che chiamano in modi diversi, ma sono sciocchezze assurde alcuni, altri pura follia.

 

LS:  Uno degli esponenti di spicco della celebre “generazione del ‘27” assieme a Rafael Alberti, Luis Cernuda e Federico García Lorca, fu Pedro Salinas (1891-1951), importante anche per il suo impegno sociale. Salinas viene ricordato come uno dei maggiori “poetas amorosos” grazie a una serie di sillogi di importante levatura quale La voz a te debida (1933), Razón de amor (1936) e Largo lamento (1938). Le propongo la lettura di “Per vivere non voglio” (“Para vivir no quiero”) tratta dalla silloge La voz a te  debida:

Per vivere non voglio

isole, palazzi, torri.
Che grandissima allegria:
vivere nei pronomi!
Ora togliti i vestiti,
i connotati, i ritratti;
io non ti voglio così,
travestita da altra,
figlia sempre di qualcosa.
Ti voglio pura, libera,
irriducibile: tu.
So che quando ti chiamerò
in mezzo a tutte le genti
del mondo,
solo tu sarai tu.
E quando mi chiederai
chi è colui che ti chiama,
colui che ti vuole sua,
seppellirò i nomi,
le etichette, la storia.
Strapperò tutto ciò
che mi gettarono addosso
prima ancora che io nascessi.
Poi, tornando all’eterno
anonimo del nudo,
della pietra, del mondo,
ti dirò:
“Io ti voglio, sono io”.

 

FP: Se fosse possibile liberarsi di ogni preconcetto, di ogni ipocrisia, se fosse possibile liberarsi di mode, aggettivazioni che allontanano e distinguono, che grande cosa sarebbe l’uomo, nel suo relazionarsi con l’altro, con se stesso e con il mondo! E’ un po’ il concetto del nosce te ipsum, quella conoscenza del sé, nudata di ogni struttura fuorviante, di quello che è stato imposto da subculture e dottrine finalizzate, o da ignoranze ataviche, inculcate per tradizione, un γίγνωσκε σαυτὸν, alla maniera degli esoterici. Ecco come i poeti sognano e proiettano sull’anima i propri sogni.

LS: L’idea di questa intervista è quella di poter diffondere le varie interpretazioni sulla Poesia e in questo percorso ho ritenuto interessante proporre a ciascun poeta alcune liriche di poeti contemporanei viventi, per richiedere un proprio commento-interpretazione. La prima poesia che Le propongo è “Rami di mirto”[1] di Antonio Spagnuolo[2] 

 

Nel triste regno dei fantasmi il tuo fantasma

è straniero, quale fantasia che cambia colori,

sorpreso a beffare la vecchiaia,

che intorpidita sospende i miei segreti.

Qualche rimorso mi sollecita ancora:

ripiombare nel tempo abbandonato…

Come il nero che in verticale

a fatica ingombra il precipizio,

che per caso è ferita di una verità,

Basta il bagliore di un rapido tramonto,

il riflesso che abbandona lì orizzonte

per ricostruire il lamento delle manchevolezze.

Ormai poche parole inutilmente

percorrono il vermiglio sgranato,

per il sangue che ricuce i frammenti

io ho soltanto del mirto.

 

FP: E’ la liricità che preferisco: infatti, scaturisce dall’animo, come acqua pura di sorgente e ti entra dentro recando una malinconia soffusa, che lentamente si apre, come un fiore sotto il sole di maggio ed espande il profumo tipico del canto, che, dal tramonto rapido, esonda nel rimpianto e nel vivere di … poesia. Alla fine, solo il rimorso per qualcosa che non hai fatto, o che non dovevi fare, ti costringe al ricordo, ma non più di tanto, tutto scompare con il tramonto e le ombre divengono una lunga notte, ricca di silenzio essenziale.

 

LS: Di seguito, invece, Le propongo una poesia della poetessa Elisabetta Bagli[3] intitolata “Tortura”[4], di stile e contenuto molto diverso dalla precedente e sulla quale sono a chiederLe un suo commento:

Nuda, umiliata,

martoriata,
supina sull’asfalto
del mio tunnel,
aspetto.
La sua oscurità mi avvolge,
voglio liberare
la mia esistenza
con pneumatici pietosi
oscillanti sul mio corpo,
macellare la mia carne,
polverizzare le mie ossa.
Speranza incompiuta.
Sei arrivato tu.
Suadente voce
non mi hai permesso
di andare.
Mi hai preso per mano,
portandomi dentro te
nel tunnel buio
della tua anima
costellata di stelle velate
che vuoi scoprire con me.
Pizzichi la mia fantasia
come le corde di quel violino
che non vibrano senza te.
I tuoi ritmi sono dolci e irruenti
come le tue parole,
leggeri aliti di vento sul mio collo,
come il tuo vegliare su di me
mentre annusi la mia essenza.
Mia lenta,
inesorabile tortura.

 

FP: E’ sempre l’amore che vince sul buio della più nera malinconia. Chi ti ama ha il potere di tracimarti oltre ogni incomprensione di te ed oltre quell’abbandono che si fa muro tra noi ed il mondo. Ma non un amore semplice, fatto di profumi e di musica, come quello di una margherita sui fili verdi del prato, bensì un sentimento più forte, generoso ed intimo, dolce ed irruente, che parla con la musica delle parole e l’armonia del respiro, un amore che diviene eco, nel silenzio notte. Un amore fisico ed intellettuale, che ti entra dentro e, concretizzando i sogni, si impone “ come tortura inesorabile” alla mente, togliendo pace all’anima.

 

LS: Quali sono secondo lei le condizioni migliori per dedicarsi alla scrittura di una poesia? C’è un momento della giornata che predilige per “confessarsi” e trasmettere agli altri le sue considerazioni, pensieri o paure?

FP: Non vi è un momento particolare, né penso che la poesia sia una confessione. Ogni momento è fertile per esternare quell’idea che nasce improvvisa e che nemmeno tu sai dove vuole andare a parare. Spesso, può accaderti anche nel dormiveglia della notte, ma sei troppo pigro per alzarti e ti riprometti di realizzarla più tardi, quando si accenderanno le luci del mattino, ma non ricordi più nulla e stai male tutto il giorno. Che strana condizione quella che ti porta a scrivere versi, anche nei momenti di malat-tia, o dopo gravi accadimenti, a volte anche funesti! Basta un lampo nel diverticolo della memoria ed ecco che  una vecchia sensazione, un ricordo si fa presente.

Un presente misterioso, che emerge dalle ombre del mistero, dopo che tutti i frastagli del contorno reale si sono mitigati; un ricordo nudo che ti parla dentro e, con l’animo, muove la mano, mentre la poesia si concretizza. Successivamente interviene il cervel-lo, che va a verificare la musica delle parole e l’efficacia della trasmissione.

  

LS: C’è una sua silloge poetica alla quale si sente più legato? Se sì, quale è e perché ne è particolarmente legato?

FP: Non posso rispondere a questa domanda, perché una sorta di maledizione mi fa amare in modo irrazionale, sempre l’ultima silloge che vado a realizzare, togliendomi persino il ricordo delle precedenti e l’ultima è quella che s’intitola OLTRE LE STELLE e verrà pubblicata nel 2014. E’ dedicata al paese dell’amore S. Valentino Torio, in provincia di Salerno, dove sono nato 69 anni fa. Questa è la dedica: Ricordi Incessanti, / come  pispiglianti aneliti,/ l’animo catturano /ed il cuore. / Rarefatte dal tempo, / emozioni riemerse / rinnovano la mia storia. / Come ombre di memoria / sovviene l’infanzia / con l’umido delle strade / di basalto e, più in alto, / i balconi di rose, / dove m’attendeva / mamma mia … / Era l’amor di casa / e della terra mia, / che contornava / tutto di poesia. / Torna il passato / nel canto del silenzio, / ma i morti / non hanno più voce!

  

LS: Secondo lei per poter carpire al meglio il messaggio e la musicalità della poesia straniera è bene leggerla in lingua originale laddove si comprenda la lingua oppure è sempre opportuno ricorrere alla traduzione in italiano. Perché?

FP: Certamente, se si conosce la lingua, è opportuno leggere la poesia nella lingua in cui è stata composta. In caso contrario, ci si dovrà accontentare della traduzione, che non potrà mai offrire tutte quelle emozioni e sfumature, a volte così evanescenti, che sicuramente coglieremmo nella lingua di scrittura, ma spesso, la nostra limitatezza non ci permette un connubio più proficuo con l’opera.

  

LS: Il poeta galiziano Mario Villar (1965) in una sua poesia riflette sulla condizione del poeta e osserva:

Il poeta è un fingitore

ma lo fa di nascosto

quando si tratta d’Amore

per rimanere come una tortora

nell’attimo del distacco.[5]

 

Che cosa ne pensa di questa interpretazione del poeta e in che modo, invece, intende lei la figura del poeta nella nostra contemporaneità?

FP: Il poeta, oggi come ieri, è colui che vede al di là di ogni impostura, guidato si, quale esteta, a cogliere il bello, ma nel suo contorno di giustizia e di vero universale. Per questo, “fare poesia” non si può racchiudere in un assioma, né in un schema razionale; fare poesia è della persona umana, che si interessa dell’uomo, perché vive tra gli uomini in modo fertile (homo sum et nihil humani a me alienum puto), guidato da una sensibilità che lo porta a guardare gli eventi, super partes, facendo sentire la propria voce, chiara come l’acqua di una fonte, penetrante come il pianto di un bambino, forte, più di quella del demonio che è in ogni uomo della terra.

 

LS: Cosa si sente di dire ai giovani poeti che seriamente si impegnano nella letteratura cercando di trovare attenzione da parte di un pubblico sempre maggiore, rischiando il più delle volte di non trovare voce e rimanere un’ esperienza di nicchia?

FP: Bisognerebbe dire ai giovani che la poesia è una cosa seria. Non è una moda, né una sorta di scrittura a rigo stretto. Bisognerebbe pure dire che la scuola, oggi, è solo una occasione di impegno, ma che spetta ad essi formarsi, attraverso una volontà personale ed un duro lavoro di tavolino. Oggi, scrivono milioni di giovani e meno giovani, per un pubblico già refrattario alla lettura; quando poi si offrono stoltezze e masturbazioni di pensiero, allora viene a scadere ancora di più l’interesse per la poesia, tanto che oggi se ne è smarrito il senso. Allora, come si fa ad offrire agli altri i nostri “versi”, quando noi medesimi ignoriamo i grandi della poesia: i lirici greci, le tragedie di Euripide, Dante, Foscolo, Leopardi, Carducci ed ancora Jaques Prévert, Montale, Gatto e così via? Alla fine, penso che quando il messaggio della nostra anima è valido, prima o poi verrà comunque recepito da chi ama leggere poesia.

 

 Salerno, 3 gennaio 2014                                                                               

 

[1] Antonio Spagnuolo, Misure del timore – Antologia poetica 1985-2010, Napoli, Kairós, 2011, p. 170.

[2] Per maggiori informazioni sul poeta si legga la sua biografia nel capitolo-intervista a lui dedicato.

[3] Elisabetta Bagliè nata a Roma nel 1970. Vive a Madrid dal 2002. Ha pubblicato le raccolte poetiche Voce (ilmiolibro, 2011) e Dietro lo sguardo (ArteMuse Editrice, 2013). Si è occupata, inoltre, di narrativa per l’infanzia e ha pubblicato Mina, la fatina del Lago di Cristallo (Edizioni Il Villaggio Ribelle, 2013). Molte sue poesie sono, inoltre, presenti in varie opere antologiche.

[4] Elisabetta Bagli, Dietro lo sguardo, Gruppo Editoriale D & M, 2013, p. 106.

[5] cit. in traduzione italiana in Hebenon, Rivista internazionale di letteratura, anno XIX, quarta serie nn. 3-4, speciale Aprile-Novembre 2009, p. 45. In lingua originale in Miro Villar, 42 décimas de febre, A Coruña, Toxosoutos, 1994, p. 27.

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