INTERVISTA AD ANDREA GIGANTE
Le Perseidi, Odi e Poesie varie
Arduino Sacco Editore, Roma, 2011
Intervista a cura di Lorenzo Spurio
LS: Com’è nata l’idea di scrivere questo libro? Qual è stata la genesi?
AG: A un certo punto ho voluto scrivere qualcosa di simile a ciò che leggevo, così ho concepito dei componimenti di vario tipo che poi sarebbero confluiti nella seconda parte del libro, che va sotto il titolo di Poesie varie. Ho notato che l’esperimento era interessante e che era ancora possibile sfruttare quel grande serbatoio di motivi, temi, parole e forme che è la poesia del passato, per cercare possibilmente nuovi esiti. In un secondo momento è nata anche l’idea di scrivere delle ‘odi’ (che avrebbero costituito la prima parte del libro), in cui è ancora molto forte la componente letteraria, ma che ho inteso come uno spazio più mio, più personale. Così molte poesie della prima e della seconda parte sono state scritte da un certo momento in poi più o meno contemporaneamente, ma gli ultimi mesi di scrittura sono stati interamente assorbiti dalle Odi. In un certo senso, in questa successione cronologica che ti ho appena prospettato, è ravvisabile un movimento dal “poetico” al “prosaico”, pur limitato, dal momento che il libro ha in ogni sua parte una forte presenza del lessico letterario. Quanto al titolo, esso mi è “apparso” – per così dire – più o meno a metà della redazione, e seguendo quest’idea ho scritto l’altra metà del libro: mi piaceva la metafora delle poesie come delle meteore, come delle folgorazioni che a tratti illuminino il cielo del pensiero.
LS: Hai diviso le tue liriche in due sezioni: le Odi e le Poesie varie. Puoi spiegare qual è la differenza secondo la tradizione letteraria e la differenza che esiste secondo te? Perché questa divisione? Quelle che tu consideri ‘odi’ non avrebbero potuto trovarsi sotto la parte delle ‘poesie’ o viceversa?
AG: Beh, la divisione è semplicemente tra un genere poetico in particolare, quello delle odi, da me intese come componimenti di carattere “alto”, e altri generi, che hanno formato la seconda parte, quella appunto delle Poesie varie. Quanto ai contenuti, alcune di queste ultime avrebbero certo potuto essere inserite nella prima parte, ma dal punto di vista formale e stilistico no: nelle varie parti ho ricercato infatti anche una certa omogeneità formale.
LS: Come fai riferimento anche nella prefazione della tua silloge di poesie, hai fatto un attentissimo studio ed analisi metrico e stilistico. Hai utilizzato per lo più versi alessandrini ma anche l’endecasillabo, considerato il metro più alto per la poesia. Come mai questa attenzione alla sonorità, al metro, alla cadenza? E’ stato difficile tener conto di questo aspetto?
AG: La poesia che mi ha appassionato di più è sempre stata quella in metrica e in rima. È come se l’emozione ne risultasse arricchita, o facilitata. L’aggiunta di uno strumento a un’orchestra non può che rappresentare una ricchezza per quell’orchestra e per la musica che questa eseguirà, se vi si accorda bene. D’altra parte la musicalità consente un’indubitabile facilità di memorizzazione, che non è certo da trascurare. Non dico affatto che non concepisco poesia senza metrica e rima, ma far vibrare le corde dell’emozione senza la musica è a mio avviso più difficile, è una sfida che pochi sono riusciti a vincere. I capolavori non mancano da quel versante, ma temo che sia difficile eguagliare o superare quanto fatto da Rimbaud nelle Illuminazioni, per esempio. Ma in fin dei conti questo è il discrimine tra arte brutta e arte bella: che quest’ultima è solitamente il risultato di un notevole sforzo o il frutto dell’esperienza scaltrita dell’artista. Questo mi riporta alla mente una massima di Giuseppe Baretti: «Io non posso non pensare un po’ all’inglese, e non disprezzar que’ letterati che non fanno degli sforzi d’intelletto quando scrivono». Il panorama editoriale risulterebbe molto meno confusionario e degradato se venissero pubblicate solo opere che mostrino palesemente di essere frutto di un impegnativo lavorio da parte dei loro autori. Invece oggi, siccome vanno per la maggiore gli editori a pagamento, si pubblica un po’ di tutto, purché si paghi. Per fortuna, io ho trovato nella Arduino Sacco Editore una casa editrice che non approfitta delle velleità letterarie di innumerevoli autori per chiedere loro un finanziamento.
LS: Nonostante alcuni temi contemporanei che affronti nelle tue liriche come ad esempio le odi celebrative per l’unità o la liberazione d’Italia, la raccolta si caratterizza per proporre una poesia classica, tradizionalista. Come mai questa decisione? Perché ti piace utilizzare parole desuete, strutture criptate?
AG: Sono attento a questi aspetti formali propri della tradizione perché oggi quasi nessuno lo fa più. La poesia si è omologata. È proprio questo che mi ha spinto a scegliere la metrica e la rima per “ingabbiare”, o per meglio dire “modellare” i miei sentimenti e i miei pensieri. Credo che se tutti oggi avessero scritto così, io avrei scelto il verso libero. Per me l’aspetto formale in poesia è essenziale, e non avrei mai accettato che la forma delle mie poesie (che, come è noto, è in rapporto diretto con il loro contenuto) potesse essere scambiata con quella di chiunque altro. In questo senso, i miei versi rappresentano tanto un recupero della tradizione quanto un’affermazione della mia identità, della mia individualità. Il recupero di parole desuete, poi, è stato quasi sempre fatto dai poeti, immagino perché questi ultimi hanno sempre amato in particolare, oltre che l’elevazione del proprio linguaggio (soprattutto per temi elevati), ciò che è misterioso e ciò che spinge allo sforzo e alla ricerca di significati. Lo stesso discorso vale per quelle che tu chiami “strutture criptate”. Non è comunque da trascurare l’aspetto ludico e sperimentale della cosa: usare strutture e parole particolari può essere divertente e permette di evitare la banalità del non avere regole da seguire. A tal proposito, la lezione degli scrittori dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle) è stata per me fondamentale.
LS: C’è una poesia intitolata “Ai Lumi” e che fa riferimento all’Illuminismo. Inoltre hai utilizzato varie citazioni di autori illuministi quali Voltaire o Kant. Quanto secondo te è importante questo movimento artistico-letterario? Perché?
AG: Trovo che la filosofia illuminista sia una corrente di pensiero ancora di attualità. Basti pensare alla sorprendente modernità di un autore come Voltaire, per l’appunto. Questo movimento è importante per noi oggi soprattutto per il portato rivoluzionario delle sue tesi. Vero è che molti dei nostri valori per noi oggi indiscutibili hanno in quel movimento la propria matrice, come le idee di progresso e di libertà e tutela degli individui, ma è vero anche che alcuni dati acquisiti, come la tolleranza, la laicità dello Stato e l’eliminazione di ogni genere di casta al potere, non sono presenti che come affermazioni teoriche: in pratica si disprezza il diverso, si lascia che il Vaticano continui bellamente a fare ingerenza nella cosa pubblica e ci si lascia governare da chi pensa prima ai propri interessi, e poi a quelli del paese. L’Italia non ha avuto una vera e propria rivoluzione nella propria storia. Ora, se si applicassero fino in fondo, pur mondati da ciò che risulta inaccettabile per noi moderni, i princìpi illuministi all’odierna realtà italiana, come ha detto Scalfari (che non a caso ho citato in epigrafe e parafrasato nell’ode), si avrebbe anche qui una rivoluzione. Senza ideologie: le ideologie accecano, le idee illuminano.
LS: Quali sono i tuoi autori preferiti, sia italiani che stranieri? Ami molto i classici? Se sì quali?
AG: Mi nutro di letture molto diverse tra loro. Leggere è come respirare, per me, è un’inspirazione, mentre scrivere è spesso un’espirazione. Se dovessi indicare degli autori che hanno ispirato la mia poesia, direi per esempio: tra gli antichi, Omero, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio, tra gli stranieri, Voltaire, Shelley, Keats, Hugo, Baudelaire, Rimbaud, e, tra gli italiani, Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, d’Annunzio. Due poeti italiani contemporanei che ammiro molto sono Patrizia Valduga e Valerio Magrelli.
LS: Perché presenti in questa silloge temi tanto vasti e diversi tra loro: storia, guerra, amore, solitudine, letteratura etc? In che maniera è possibile coniugare liriche tanto diverse sotto un’unica opera? Qual è il filo rosso che lega odi celebrative, poesie filosofiche, poesie impegnate e liriche d’amore?
AG: Per parafrasare una frase di Victor Hugo, contenuta nella prefazione alla raccolta poetica de Le Orientali, tutto ha diritto di cittadinanza nella poesia, perciò non vedo perché avrei dovuto restringere il suo campo d’azione. Trattando temi anche molto diversi tra loro ho voluto anche evitare il pericolo della monotonia. Detto questo, le liriche presenti nella raccolta sono collegate tra loro, oltre che dalla forma e dallo stile, da un medesimo sguardo sul mondo, che da una parte può essere descritto dal motto di Voltaire «Moi, j’écris pour agir» (Io, scrivo per agire), e dall’altra dal paragone tra pittura e poesia, sempre gravido di conseguenze.
LS: Quanto di autobiografico c’è in queste poesie? In che momenti le hai scritte?
AG: Ovviamente c’è molto di autobiografico, anche se ho voluto evitare in una certa misura di sottostare troppo a quella che viene spesso chiamata “dittatura dell’io”, e dunque di trattare solo temi autobiografici. Ho scritto queste poesie quando ho avuto del tempo libero, generalmente in estate.
LS: E’ evidente da alcune liriche, “Al lago Trasimeno”, “Le fonti del Clitunno”, il tuo amore verso la verdeggiante Umbria. E’ così? Ti sei sentito particolarmente ispirato da un ambiente tanto naturale?
AG: Amo molto quella regione. Alcuni suoi posti, come quelli da te citati, hanno le caratteristiche del locus amœnus. Peraltro devo dire che alle fonti del Clitunno si respira molta letteratura…
LS: Hai qualche altro progetto in cantiere? Stai scrivendo una nuova opera? Se sì, puoi anticiparci qualcosa?
AG: In cantiere ho una raccolta di prose poetiche. Inoltre mi piacerebbe continuare a scrivere altre odi, magari portando a compimento quel passaggio dal “poetico” al “prosaico” cui accennavo all’inizio di quest’intervista, vale a dire facendo sì che la mia poesia diventi più “poesia di cose” che “poesia di parole”, senza per questo rinunciare alla musica, alla metrica, alla rima. Dovrei fare mio il concetto espresso dal Berni nel suo capitolo in lode della poesia di Michelangelo: «Tacete unquanco, pallide viole / e liquidi cristalli e fere snelle: / ei dice cose, voi dite parole». Finora ci ho provato, ma ho appena ventiquattro anni, e ho ancora molto lavoro da fare.
Ringrazio Andrea Gigante per avermi concesso questa intervista.
LORENZO SPURIO
17 Luglio 2011
E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO-INTERVISTA SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE