“Solo un salto. E la ragione diventa follia” di Stefania Laurora, Recensione di Lorenzo Spurio

Solo un salto. E la ragione diventa follia di Stefania Laurora

Books & Company, Livorno, 2015

Recensione di Lorenzo Spurio

 

La malattia mentale affonda le radici nel disagio esistenziale. (54)

downloadIl libro di Stefania Laurora, Solo un salto. E la ragione diventa follia pone il lettore dinanzi alla fruizione di una sorta di diario della protagonista. Diario nel quale la Nostra non appunta solamente episodi e momenti centrali della sua vita (il matrimonio e la nascita della figlia, per citare i più rilevanti) ma anche la carica emotiva che la investe in ogni circostanza (come avviene nella attenzione che mostra nel dipingere un tiepido rapporto con la figura materna causa, forse, di alcuni problemi psicologici che poi sorgeranno in lei) e le avvisaglie, i prodromi o le reazioni sintomatiche del deterioramento del suo stato di salute psichica.

Perché il romanzo tratta proprio di ciò: del labile e mai indovinabile confine che separa la razionalità dalla follia ossia dalla comunità ritenuta normale e alla quale abbiamo sempre creduto di far parte, da quella compagine emarginata della società, perché attrice di comportamenti insani o assurdi.

La prima parte del romanzo, che porta il sottotitolo di “La diaspora dei pezzi”, ben apre al tema della corruttibilità della ragione e dei limiti della coscienza nel momento in cui nella narrazione diaristica e a presa diretta della Nostra ben recepiamo il messaggio che intende darci: il pezzo, la partizione è un elemento minuscolo o un aspetto minuzioso delle realtà dalle caratteristiche talmente minute e ridotte da poter sembrare insignificante ma che ha un suo significato solo e soltanto nel momento in cui è riferito e, dunque, collegato alla parte, un po’ come avviene nel primo capitolo, denso di spirito gotico che, fugacemente, ci ricorda dell’assassinio del Presidente Kennedy soffermandosi non tanto sull’elemento contingente dell’agguato ma proprio su quel “pezzo di calotta cranica”, quel “frammento di testa” (13) dell’assassinato. Entriamo così a piedi pari nella fenomenologia di questo libro, che potrà sembrare perversa o priva di una logica contenutistica o narratoriale, se facciamo l’errore di non dare il giusto peso a questa narrazione inserita a mo’ di prologo. La frantumazione della materia cerebrale va, dunque, percepita per ciò che è: una frammentazione, una partizione dovuta a un evento traumatico della massa cognitiva, dunque razionale, deputata al ragionamento e all’invio degli impulsi ad ogni settore del corpo.  Stefania Laurora con questo romanzo ci parla proprio di una vicenda in cui una donna, apparentemente debole e dall’atteggiamento fiero e contrastante, subisce una frammentazione dell’apparato neuronale: ciò ovviamente in termini simbolici. È lei stessa, dopo il racconto surreale dell’amicizia instaurata con un piccione morto, che ci chiarifica meglio lo status da cui muove l’intera narrazione: “De-composizione come alterazione disarmonica delle reciproche posizioni delle parti” (17).

Questa “disarmonia” (17), de-strutturazione e dunque anomalia nella normale fisionomia di intendere il complesso razionale come entità in sé autonoma e compatta avviene nella nostra protagonista per mezzo di una profonda crisi della consapevolezza: a partire da uno stato spossante di alienazione che produce disturbo e a tratti investe anche le capacità relazionali, la Nostra ci narrerà dello sviluppo di una vita non in una evoluzione edenica di crescita, idilliaca costruzione familiare, maturità e vecchiaia ma per mezzo dell’insorgenza di debolezze croniche, incongruenze della psiche, veri e propri stati ansiogeni, atteggiamenti bipolari e forme autolesionistiche sino alle più preoccupanti manifestazioni di delirio.

È questo, allora, il diario di una mente pazzoide, ma ciò che va detto con attenzione è che osserviamo la protagonista nello sviluppo della malattia e nel peggioramento, fatti che cerchiamo in un certo senso di poter spiegare o legare a determinati eventi traumatici nella prima fase della sua vita, episodi spiacevoli o tendenze aggressive connaturate alla sua persona. Per chi ama la psiche, e ancor meglio la psichiatria come scienza che eziologicamente cerca di costruire schemi di disturbi e patologie per cercare di individuare cause, forme tipiche ed atipiche e possibili rimedi, questo romanzo può essere un buon punto di indagine. Questo soprattutto perché l’autrice, con la sua prosa semplice e spigliata improntata alla resa di immagini centrali in ciò che narra con una predisposizione sintetica e quasi a frammenti, ben fa risaltare il fatto che soggetti di questo tipo possono convivere con dati disturbi in maniera latente, tra fasi di angoscia e ripresa, depressione e quiete emotiva.

Dall’iniziale discorso sulla partizione assistiamo a una vera e propria fascinazione feticista nella nostra protagonista sempre interessata alla partizione/particolarità piuttosto che all’oggetto/persona in senso completo: si tratta di un procedimento a sineddoche dove la parte, più che definire il tutto, lo annuncia o lo richiama, con la strenua convinzione che è sempre meglio guardare il mondo sezionandolo che con uno sguardo totalizzante che non può che essere utopico e spesso ipocrita.

Il dramma esistenziale della protagonista la porterà all’assunzione di atteggiamenti autolesionistici assai gravi, come quello di spegnersi le sigarette addosso e, quasi contemporaneamente, anche la sfera alimentare si vedrà investita di cattivi attitudini quali il picacismo ossia l’attitudine di ingerire piccoli pezzetti di un materiale solitamente non commestibile (terra, gomma, gesso, etc.). Da un punto di vista psicodinamico entrambe le forme deviate potrebbero essere dei meccanismi indotti di risposta a un dato problema personale, dunque degli automatismi che, se si radicalizzassero, diventerebbero assai nocivi e pericolosi.

L’inserzione in un gruppo allargato di quelli che potremmo definire in maniera grossolana “gruppi di recupero” non sembra aiutare di molto la nostra anche se allo stesso tempo la protagonista, che probabilmente è quella meno malata degli altri, è sempre in grado di descrivere con parsimonioso realismo i casi umani che la circondano in quel dato ambiente. Entrano così in gioco parole come ‘depressione’, ‘TSO’, ‘maniacale’, ‘psicofarmaci’, ‘ricoveri’, ‘Centro di Salute Mentale’ e via discorrendo a far capire che il percorso che d’ora in poi interesserà la Nostra sarà fatto di una condizione esistenziale frammentata e lancinante dove abulia, autolesionismo, picacismo, segnali di fissazione, automatismi ed altro motiveranno una più ravvicinata esigenza di uno psichiatra che possa occuparsi di lei. Ciò si rende necessario soprattutto nel momento in cui intervengono anche le allucinazioni uditive (le voci) e visive (le presenze) che la porteranno ad affermare di vedere, ad esempio, Eva Peron aggirarsi per le stanze della sua casa. Parimenti l’atteggiamento di vittima, di colui che è oggetto di una attitudine ossessiva-pedinatoria, se non proprio stalking, contribuirà ad accrescere il problema tanto che il lettore non saprà più se restare fedele alla protagonista e credere ai suoi barlumi di razionalità di tanto in tanto o se classificarla già, e a ragione, come una pazza furiosa che necessita l’internamento. Non è possibile infatti accettare per vero tutto ciò che lei ci racconta sia perché a volte ciò che narra sembra architettato e dunque prodotto di un ragionamento fantasioso, sia perché si è già compresa la sua propensione alla divagazione, al dettaglio, all’astrusità e, di contro, la poca adesione a una visione pratica e spontaneamente organica.

La nascita della bambina potrebbe esser vista come un fatto rilevante nell’allontanare la donna dallo sprofondamento nelle sue turbe nervose sempre più preoccupanti per occuparsi con amore e devozione al nascituro, ma così non avviene. La figlia viene da subito percepita con invidia e con un sentimento pregno d’acredine (“un’altra femmina, mia complice e mia rivale”, 39), come una estranea alla quale fa difficoltà ad avvicinarsi come dovrebbe decretando all’interno della sua psiche già dissestata un’ulteriore crepa nella coscienza dovuta proprio alla crisi post-partum. Una crisi che non è solo dovuta dal senso di inadeguatezza della donna di essere madre in termini concreti ma, come si è detto, motivata anche da una malcelata assenza di sentimento che la porta a vivere la nuova condizione venuta a crearsi come una vera e propria sfida.

È intuitivo credere, allora, che la possibilità del suicidio, quale mezzo estremo ma risolutivo, venga ponderata varie volte dalla donna: “chiedo se valga la pena di vivere così […] o se piuttosto non sia il caso di congedarsi, ammettendo una buona volta che tutto ciò, per quanto seducente […] non è per me” (46). In tale circostanza matura l’esigenza del diario, di un confidente silente ma fedele al quale poter confessare le tribolazioni, il tormento e il senso di svuotamento che la donna vive sulla sua pelle combattuta tra angosce e farneticazioni della mente che non le danno scampo. Per questo non le resta che far passare come tendenzialmente normale il sentire le voci sostenendo: “Credo, in verità, che ciascuno di noi abbia un privatissimo coro che gli sussurra nelle orecchie, e che lo assiste nei pensieri e nelle azioni” (51). Come sappiamo, infatti, il sentire le voci non è un fatto che appartiene alla normalità propriamente detta o un qualcosa che appartenga a persone, pure normali, dotate di una maggiore sensibilità o propensione creativa: mi viene in mente Virginia Woolf (citata anche nel romanzo) che nel suo diario più volte annotò di sentire queste voci. Ben sappiamo che la donna era pazza e che quelle voci alla fine, nell’eco indistinto della sua mente vessata, la portarono a trovare la morte affogandosi in un fiume.

Le terminologie che la Nostra impiega per meglio descrivere le condizioni psichiche della protagonista sono precise e fanno riferimento al mondo della bipolarità, della crisi e al piano terapeutico fatto di psicofarmaci, sostanze che hanno la capacità di agire in maniera attiva o inibendo certi meccanismi a livello cognitivo. Ed è proprio negli ipotetici stati di salute o di alleggerimento della crisi che matura nella protagonista, come in molti affetti da problematiche psichiche di questo tipo, la volontà di abbandonare i farmaci. Quando la persona riconosce un lieve miglioramento della salute, allora crede di essere guarito e, non amando la classificazione come ‘malato’ o ‘pazzo’, prende subito le distanze dicendo che degli psicofarmaci può farne a meno non intuendo che quel lieve stato di miglioramento (o meglio, di stazionarietà) è dovuto proprio all’assunzione dei farmaci che, se venissero di colpo sospesi, provocherebbero danni ben più gravi come uno psichiatra non manca di farle osservare: “Senza le medicine lei rischia la vita” (54).

Importante la nota che viene fatta nel momento in cui si parla della correlazione che può esistere tra creatività e follia ad intendere, come spesso viene fatto in campo culturale, quel collegamento tra la pazzia di un artista (Van Gogh, Alda Merini, Dino Campana, Sylvia Plath o la stessa Anne Sexton citata dalla Nostra) e la manifestazione di genialità. Il dottore, che interviene su queste considerazioni, sostiene che nel caso del pazzo, questo può essere caratterizzato da una genialità o dallo sviluppo di particolari doti artistico/comunicative ma che, in quel caso, si tratterebbe di “folgorazioni” piuttosto che di vero genio. Discorso assai interessante che meriterebbe una trattazione a parte più approfondita.

Il delirio visivo di cui si parlava ad un certo punto si fa massiccio e la stessa percezione di dati colori, forme, oggetti viene a descrivere una deformazione della realtà: chi guarda vede a suo modo, in maniera distorta e sghemba e non secondo un normale procedimento visivo (vengono in mente, allora, anche gli orologi che si liquefanno di Dalì, segno di una distorsione della realtà percepita). L’epilogo di questa allucinazione che conduce alla percezione viziata del mondo che diviene uno scenario psicotico e stordito si ha nel momento in cui la nostra è convinta di vedere oggetti che prendono vita o uomini nelle sembianze di macchine, in un delirio percettivo assordante e pericoloso alla sopravvivenza nella società. In questo clima ansiogeno ritorna, così, e non poteva essere diversamente, l’ossessione di essere perseguitata, la psicosi di uno stalking che in effetti non esiste, condizioni che rendono ormai difficile l’autonomia e la gestione della sua persona tanto da necessitare il ricovero. Il tempo a partire da questo momento sarà segnato da periodi di ricovero, nei quali è tenuta sotto controllo, monitorata ed inserita in una compagine di pazzi a vario titolo, momenti in cui le viene concesso il ritorno a casa. Chiaramente –ciò non viene detto dato che la narrazione avviene in prima persona- intuiamo che lo psichiatra abbia nel frattempo instaurato un rapporto con il marito della donna non solo per renderlo consapevole dell’effettivo stato della donna ma anche per capire se l’uomo, la sua famiglia e la sua casa rispondano alle esigenze di supervisione continua, tutela della donna, sorveglianza e custodia. Pur tuttavia non è la presenza di una famiglia amorosa e vicina che può consentire il recupero (anzi, a volte può addirittura osteggiarlo) e i periodi di crisi della donna vanno infittendosi e si fanno sempre più preoccupanti come quando viene sottoposta a un TSO (“varie volte mi legarono”, 74) dopo aver tentato, nuovamente, di uccidersi, questa volta con tentativi di asfissia. Il risultato della sedazione è quello di avere una donna più pacata (non più lucida) ma al contempo maggiormente stordita, che vive in un torpore comunicativo e in una angoscia che la rendono una sorta di alieno privo degli sconvolgimenti intellettivi che prima la interessavano. Assieme ai farmaci vengono attuate la musicoterapia, la psicoterapia di gruppo mentre sembrano ravvisarsi nella donna accenni a una scatologia comunicativa abbastanza comune in alcuni folli.

Si diceva di quanto la famiglia possa essere importante nella gestione di un caso come questo ma va anche detto che la supervisione continua e il trattamento di un paziente con simili disturbi diventano un compito assai arduo e impegnativo che, se venisse assunto con completa dovizia ed impegno, potrebbe assorbire l’intero tempo ed energie di una altra persona. Ed è un po’ per questo motivo, ossia dell’inefficacia nel sorvegliare continuativamente un malato del genere, che la protagonista finirà per abusare delle pasticche tanto da rischiare la morte per intossicazione. Il lettore non dovrebbe mostrare a questo punto troppo stupore perché, in fin dei conti, sarebbe l’epilogo più intuitivo a una storia tormentata come questa.

A partire da questo momento si apre la parte finale del libro dal titolo “Il salto” che si caratterizza per essere maggiormente disorganica, fatta di frammenti, note appuntate sul diario in maniera veloce, senza un ragionamento né considerazioni aggiuntive che permettano di contestualizzarle. La protagonista parla di “distacco dalla realtà” e sembra di vederla ormai concreta nell’attuare un gesto estremo dopo i tanti trascorsi che hanno svilito la sua autocoscienza riducendola a una persona svuotata di attività cerebrali. È questo il momento in cui il mondo delle ombre, delle voci intricate e roboanti nella testa, sembra aver vinto in maniera indissolubile. Non ci sono farmaci talmente potenti da poter sovvertire la lotta con la ragione, da poter instillare il bene in un sistema cognitivo dove la disorganicità, l’impulso e l’automatismo hanno fatto irruenza.

Credo di osservare che sia trascorso un ampio periodo di tempo tra la parte finale del libro e la stesura della postfazione, fatta dalla protagonista in un età nella quale, se non può dirsi per certo di aver sconfitto la malattia, senz’altro l’ha recuperata abbastanza bene. Manca, dunque, anche dal punto meramente narrativo questa parte intermedia vertente sul racconto delle sue giornate del suo periodo più buio: è ragionevole credere che la donna in quel periodo non abbia scritto nulla o che, facendo una cernita dei materiali nel momento in cui ha organizzato l’intera storia, ha preferito fare una operazione di ellissi.

Nel finale, infatti, veniamo a conoscenza di una donna maggiormente critica e consapevole di se stessa (“ho capito che al mondo posseggo tutto quel che desidero”, 115) che sembra aver riallacciato il giusto rapporto con la società (“godo della compagnia delle persone”, 116), normalizzato la sua alimentazione (“godo del cibo”, 116) sebbene non abbia risolto quello che, forse, era stato uno dei motivi a decretare il suo dramma esistenziale (“Il mio rapporto con le donne rimase irrisolto”, 114).

Un salto solo rimandato, allora, o perennemente scongiurato?

Lorenzo Spurio

22-10-2015

“Il fuoco di Lorenzo” di Annalisa Soddu, recensione di Lorenzo Spurio

Il fuoco di Lorenzo
di Annalisa Soddu
Ilmiolibro, 2011
ISBN: 978-88-91003-24-9
Pagine: 46
 
Recensione di Lorenzo Spurio

Il fuoco di Lorenzo definAnnalisa Soddu è medico-psichiatra e scrittrice. Entrambe le due componenti a cui dedica ampio spazio nella sua vita sono racchiuse nel suo primo libro, “Il fuoco di Lorenzo” pubblicato nel 2011 con ilmiolibro.

Quello che il lettore si appresta a leggere aprendo questo libricino (le pagine non sono molte, ma di contro i contenuti sono ampi) è una fotografia sul mondo che ne rivela dettagli fastidiosi, a tratti sconvenienti e in via generale dolorosi. Si parla di patologie, ma più che di malattie concrete e riscontrabili all’occhio, di malattie insidiose, invisibili perché della mente umana. Nella silloge di racconti si spazia tra comportamenti problematici (l’anoressia, l’alcolismo, la perversione sessuale) che possono dar vita a episodi ulteriormente allarmanti e che sono sanzionati dalla Legge.

L’esperienza letteraria di Annalisa Soddu è interessante perché questi racconti, privati di toponomastiche e di riferimenti precisi, sono frutto della sua esperienza diretta di psichiatra con persone deboli, sofferenti o apparentemente sane ma che secernono i semi della follia.

Non c’è spazio per il giudizio e la morale: la Soddu presenta la realtà per come è, senza mitigarla, inserendosi in quelle lacune delle mente, negli inceppamenti del normale raziocinio, per vedere come gli affetti dalla patologia reagiscono se sottoposti a cure, i motivi dell’insorgenza del problema –nel caso sia possibile indagarne- e il clima familiare/sociale che circonda il malato.

Nella gran parte delle storie qui contenute, infatti, si osserva una struttura tripartita dei personaggi, di coloro che intervengono attivamente sulla scena:

  1. il malato (a volte consapevole del suo morbo, della      sua pazzia, altre volte inconsapevole; più spesso normale agli occhi di      tutti, ma profondamente tormentato internamente);
  2. il gruppo familiare (si parla spesso della figura      materna, ma anche di quella del padre e, invece, in altri casi di assenza      dei genitori. Alcuni dei disturbi, delle fissazioni che poi alcuni      personaggi avranno da adulti sarà motivato come conseguenza di un trauma      vissuto durante l’infanzia). Se decidiamo di allargare questo gruppo      possiamo, inoltre, inserire anche gli amici;
  3. lo psichiatra (che corrisponde alla stessa autrice      che interviene per colloquiare con i malati, capirli, fare la diagnosi e      prescrivere i medicinali da prendere per controllare la situazione).

Annalisa Soddu conduce il lettore mano nella mano nelle pieghe tortuose della psiche, tra gli sbalzi d’umore, le azioni violente e sconsiderate, l’indifferenza che spesso la società (il mondo esterno) ha nei confronti del ‘diverso’, tra intervalli di euforia e depressione che arrivano a manifestarsi come un vero e proprio annichilimento dell’anima e del corpo.

Annalisa-Soddu-Small-200x300La convinzione che il lettore si va facendo leggendo questa raccolta è che se una patologia esiste, se un personaggio ha una certa condotta, al di là dell’eziologia della patologia, ha di certo a che vedere con una realtà pregressa dove, pure, può trovarsi annidato un trauma, un episodio sconcertante che l’individuo non ha mai superato da solo e che lo ha portato poi a una sorta di autodifesa, adottando gesti/comportamenti sbagliati. Ma come si legge nel primo racconto, la Soddu sembra andare oltre le motivazioni di carattere prettamente psicologico, scienza che pure spesso non riesce con accuratezza a svelare le ragioni di siffatte anomalie della mente (“le cause di queste malattie maledette non si conoscono”, p. 11)  per osservare invece quasi sull’onda di un convincimento popolare che “Quando si nasce con la sfortuna addosso, è difficile scollarsela” (p. 9). Dunque intervengono anche delle ragioni che rispondono a un pensiero di tipo fatalista, idea che ritorna anche nel secondo racconto in cui nell’incipit viene nominata la “malasorte” (p. 13).

Il tormento può essere la conseguenza di uno stato di una condizione di solitudine dovuta a lutti e all’isolamento dominato da stati d’alternanza tra depressione ed euforia  come avviene nella seconda storia narrata; la pazzia, l’incontrollabilità delle azioni, può essere motivo di preoccupazione ulteriore quando si è madre e si deve supervisionare la crescita dei propri figli e proprio per questo la donna de “La signora G.” finirà per essere allontanata dalla sua famiglia con un TSO. Quello che si configura come un gravissimo disturbo alimentare può essere spiegato a livello psicologico ricorrendo a un episodio di violenza sessuale subito in tenera età. Episodi clinici quali l’incesto e la pedofilia sono spesso i più difficili da trattare all’interno dell’ampio panorama delle deviazioni sessuali, perché frequentemente la vittima si sente colpevole di quanto successo e si rifiuta quindi di denunciare l’uomo o di raccontare l’accaduto (“Si divertiva a farla sentire una puttana, per tenerla in pugno e indurla a stare zitta; ecco perché in lei c’è la più totale confusione, perché lei ha attribuito a se stessa la colpa di tutto, quando invece era una bambina, e lui un porco”, p. 25).

Il mondo che circonda chi ha subito un grave danno psichico o fisico (la famiglia, le amicizie, la società) può apparire spesso insensibile nel sondare un malessere nell’aria che consenta la confessione del malato, più spesso si denota una difficoltà da parte della società –anche nei familiari- nel “diagnosticare”, ossia nell’individuare dei segnali che andrebbero colti. In altre circostanze è la stessa società, per mezzo delle sue istituzioni e strutture, che sembra essere incapace di dare giusta accoglienza a chi ne avrebbe bisogno perché il sistema sanitario è debole: “Il Comune non ha soldi per trovargli una casa popolare; il servizio psichiatrico non lo può tenere che per pochi giorni, le case di cura qualche giorno in più, ma poi lo devono mandare via” (p. 35). C’è una velata polemica nei confronti dello Stato, che è tanto più dura per il fatto che l’autrice, psichiatra, conosce in prima linea tutto ciò che concerne il sistema d’accoglienza di menti pericolose.

Ma in queste fasi di blackout della mente, di sinapsi interrotte, di atteggiamenti deviati e condannabili, ciò che preme sottolineare è la sperimentazione da parte del malato di una realtà altra da quella odierna, a volte onirica, altre volte utopica. In tutti i casi il paziente malato si eclissa dalla realtà sana per costruire un suo mondo dove, però, finisce per essere lui/lei l’unico abitante. In simili circostanze la malattia, oltre a portare al deperimento del corpo (come nel caso dell’anoressia), conduce alla sperimentazione di una realtà finta, surrogata, ricreata, di quel microcosmo indotto dal trauma e dalla patologia stessa.

Doloroso il racconto “La moglie di Pietro” in cui la voce narrante è quella della povera Luisa uccisa dal marito perché geloso in maniera ossessiva e violento che in un raptus di follia arriverà ad uccidere la sua donna. La storia riecheggia i tanti casi di femminicidio che la Cronaca riporta e per i quali sembra che la legislazione italiana si stia finalmente movendo –sebbene con gravoso ritardo- ai fini di una maggiore salvaguardia della libertà della donna nei casi in cui l’ex marito o fidanzato dimostri atteggiamenti ossessivi e denigratori.

Annalisa Soddu con una prosa spigliata ed essenziale, senza ridondanze né descrizioni pedanti, riesce a cogliere l’essenza di ciascuna storia e lo fa in maniera sorprendentemente vivida perché l’autrice osserva il mondo del disagio psichico in almeno quattro modi diversi:

1)      quello dello psichiatra, del medico curante, di colui che deve intravedere terapie e un sistema di controllo della patologia;

2)      quello della cittadina italiana che si indigna nei confronti di episodi di emarginazione o che denuncia senza peli sulla lingua l’insoddisfacente legislazione e organizzazione nel gestire fasce della popolazione con patologie psichiche che necessitano di assistenza e monitoraggio continuo;

3)      quello della donna sensibile che non rimane impermeabile alle sofferenze degli altri, ai disturbi e al clima di desolazione che aleggia intorno a queste persone; ed infatti la psichiatra nei vari racconti fa quasi difficoltà a scindere il privato dal pubblico, il suo coinvolgimento emotivo dalla sua professione tanto che lei stessa in “Aveva la SLA” ricorda un simpatico invito di un dottore sotto il quale aveva fatto il tirocinio: “Giovincella, devi dominare le emozioni, i pazienti si spaventano!” (p. 40);

4)      quello della scrittrice che utilizza le vicende da lei sperimentate nella realtà per trasporle sulla carta cercando le giuste parole per far arrivare con schiettezza e senza tanti formalismi il suo pensiero su quanto narra.

Il risultato è sconvolgente: drammi, patologie, deliri, ossessioni, violenze subite e perpetuate, allucinazioni auditive e fenomeni di perdita d’identità campeggiano tra queste pagine. Il lettore dovrebbe tenere a mente, come si diceva all’inizio di questa recensione, che questi racconti sono anche e soprattutto delle cronache fedelissime di quanto avviene ogni secondo in ogni parte del mondo.

Tu che ne sai/ […] / Di un certo tipo di vita/ Tu che ne sai./ Della vita del cuore. Che ne sai”, conclude la scrittrice nella lirica dal titolo “Dedicata a loro”.

  

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 28 Agosto 2013

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