Intervista a Eliza Macadan, a cura di Lorenzo Spurio

Intervista a Eliza Macadan

Autore di “Paradiso Riassunto”

(Edizioni Joker, Novi Ligure, 2012)

Isbn: 9788875363024

 

a cura di Lorenzo Spurio

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LS: Come dobbiamo interpretare il titolo che hai scelto per la tua ultima opera pubblicata?

EM: Il titolo è una trovata dell’ultimo momento ed è forse per questo che lo trovo molto ispirato – mi capita, fortunatamente di rado, di fermarmi su un sintagma ma non si tratta quasi mai di un testo poetico. Qui, le parole vengono da sole, io devo essere solo aperta, preparata ad accoglierle. Capita che io non sia del tutto sintonizzata con l’emettitore ed è allora che devo fare qualche sforzo per cogliere il senso appena percepito. Può, invece, capitarmi di essere visitata da parole o espressioni che non riesco a togliermi dalla mente finché non do loro lo spazio che richiedono in maniera imperiosa, finché non creo una costruzione per loro – sono delle ossessioni lessicali, mi piace chiamarle così. Prima di “Paradiso riassunto” avevo scelto “Terra in affitto”, per quasi un anno  il volume si è chiamato così, ma quando la casa editrice mi ha suggerito che potevo pensare anche ad altro, si è presentato da solo questo titolo. Non trovo opportuno da parte di un autore spiegare oppure offrire un’interpretazione del titolo della sua opera. Non è un capriccio il mio, è un principio che mi obbliga di lasciare agli altri la libertà di trovare sensi, di scoprire i miei significati ma anche i loro. Il lettore può trovare significati nuovi che l’autore non ha  nemmeno immaginato. E non vorrei essere io a condizionarli nel trovare una chiave di lettura. Credo fortemente nell’intelligenza dei lettori.

LS: Un autore negherà quasi sempre che quanto ha riportato nel suo testo ha un riferimento diretto alla sua esistenza ma, in realtà, la verità è l’opposto. C’è sempre molto di autobiografico in un testo ma, al di la di ciò, il recensionista non deve soffermarsi troppo su un’analisi di questo tipo perché risulterebbe per finire fuorviante e semplicistica. Quanto c’è di autobiografico nel tuo libro? Sei dell’idea che la letteratura sia un modo semplice ed efficace per raccontare storie degli altri e storie di sé stessi?

E.M. Ogni creazione ha in modo implicito una dimensione biografica, una componente che è legata in modo indistruttibile alla vita. E’ stato detto che l’essere umano, attraverso l’atto creativo sta imitando la divinità, che ogni creazione è un inno infinito alla vita. Secondo me, è l’unica modalità che ci è stata concessa per aspirare all’immortalità. Ed è, in qualche misura, un modo di giocare a Dio. Perché un autore ha questo privilegio unico di creare vite, mondi, migliori o peggiori, a suo piacimento, di correggere errori e quant’altro. Nel suo testo letterario, l’autore ha, inoltre, la chance unica di dire tutto quello che gli passa per la mente senza il timore che si potrebbe avere nel dire le stesse cose nella vita reale. Con la poesia, il discorso è ancor più ampio, la libertà è maggiore:  qui, nel testo poetico, possiamo  nascondere (mettere sotto il lucchetto) veri tesori o veleni o bombe… sofferenze, dolori, bisogni, gioie, urla, di tutto. Possiamo mettere tutto ciò e altro ancora sapendo che questo potrà essere percepito solo da chi è un po’ come noi, capace di vedere il mondo con i nostri occhi. Il poeta sa che non saranno molti a visitare i suoi versi. Non di questi tempi. E’ un dato di fatto. Ma sa ugualmente che quei pochi che vengono sono quelli che contano. E se fosse un solo lettore, basterebbe. Parafrasando il Vangelo, se esiste un solo lettore di poesia, il Mondo ha una chance di essere salvato. Di autobiografico, dunque, c’è tanto: è la quotidianità, il mondo circostante con il suo spettacolo pauroso offerto dai politici che sembrano trovarsi per la prima volta nella storia dell’umanità in un vicolo cieco. Sembra che non ci siano più soluzioni per rimanere dentro la storia, sembra addirittura che esistano delle forze capaci di buttare nel cestino della storia tutto quello che gli ultimi secoli ci hanno portato in termini  di convivenza sul nostro pianeta. O forse siamo noi degli eredi indegni… perché non potrebbe essere anche così? La mia poesia è un segnale d’allarme, così credo. E’ l’allarme che ha preso possesso dalla mia anima, dalla mia mente e che mi guida nella scrittura. Non cerco mai formule, non rimango a lungo a limare i testi, non sto a lungo a riflettere sull’uso di una parola al posto di un’altra. Semplicemente lascio che esca fuori di me, attraverso la mia mano, un certo messaggio. Quasi sempre è un messaggio breve, ma carico di intensità, credo. Così sono le mie poesie, brevi. Così brevi da non sopportare titoli. In fatti, nessuna delle mie poesie, da quando ho cominciato a scrivere, non ha avuto titoli – una scomodità per la critica che deve indicare la pagina, cioè il numero del “messaggio”.

LS: Quali sono i tuoi autori preferiti? Quali sono le tendenze, le correnti italiane e straniere e i generi letterari che più ti affascinano? Perché?

E.M. E’ la domanda-tipo che mi fa più paura. Pur sapendo che si fa quasi sempre, mi trovo impreparata. Durante la nostra esistenza siamo più persone – non nello stesso momento perché sarebbe patologico, ma una alla volta; nell’infanzia amiamo leggere cose che nell’adolescenza leggiamo solo di nascosto; nella prima giovinezza lo spazio dato alla lettura è immenso, come regola si legge un po’ di tutto e poi, nella maturità si fa una selezione molto rigida. Si diventa molto attenti nello spendere il tempo – con le letture come con le persone. Dunque, come fare a elencarle tutti i nomi che nei secoli, in varie parti del mondo e varie lingue e culture sono stati punti di riferimento sul cammino della mia formazione letteraria in genere e poetica in particolare? Tanti, fra piccoli e grandi, tra vicini e lontani, tra conosciuti solo nella città dove studiavo oppure tra i Nobel. Le varie correnti letterarie mi hanno interessata solo nell’ambiente scolastico: forse suona squalificante per uno che scrive, ma credo che questa parte dovrebbe essere lasciata ai critici e ai teorici della letteratura. Loro sono proprio bravi, almeno lo sono stati – adesso con il postmodernismo il problema sembra risolto per sempre, è uno spazio dove entrano tutti.

LS: So che rispondere a questa domanda sarà molto difficile. Qual è il libro che di più ami in assoluto? Perché? Quali sono gli aspetti che ti affascinano?

EM: Per me è stato e lo è tuttora Il piccolo principe di A. de Saint-Exupéry. In modo sbagliato, la critica di cui parlavamo prima, ha catalogato quest’opera come letteratura per i ragazzi. E’ un inno alla vita, all’amore, all’amicizia, alla Poesia! E’ stata per molti una lettura scolastica obbligatoria, ma col passare del tempo, siamo tentati a tornare su questo libro con uno spirito nuovo. Per me è una sorte di bibbia.

LS: Quali autori hanno contribuito maggiormente a formare il tuo stile? Quali autori ami di più?

EM: In qualche modo le ho già risposto a questa domanda. Non potrei parlare di contributo di uno più dell’altro. Mi risulta difficile. Eppure c’è un fatto che mi viene in mente e lo trovo determinante per la mia esistenza come poeta: nella mia adolescenza ho letto tanta poesia. Poesia contemporanea romena. Leggevo tutto quello che usciva e che trovavo nelle librerie dell’epoca. Il regime comunista di Bucarest ha giovato alla poesia. Si scriveva tanto. Io vivevo in una città della Moldavia romena, dove la vita culturale era effervescente perché il partito-unico-padre-padrino aveva soldi da spendere per tenere buoni e muti i letterati, gli artisti. Così, la loro produzione letteraria, le loro opere oltre ad essere pubblicate a spese del ministero della cultura, avevano diritti d’autore ingenti. Si scriveva sotto censura. E c’era bisogno di tanta intelligenza e abilità, di tanta strategia per disporre nel testo le idee, per dare un messaggio, che era per forza criptato. Tutti quei poeti, locali o nazionali, hanno, in una certa misura, fatto di me quella che sono adesso. E’ stata un’età della poesia. Era l’unico rifugio esistente in un  mondo kafkiano i cui riflessi giungono fin qua… Poi letture dai poeti italiani, francesi e anglosassoni che si traducevano a quell’epoca, di certo non i contemporanei. Dagli anni novanta in poi, anche quell’angolo di mondo si è aperto, nel bene e nel male.

LS: Quali libri hai pubblicato? Puoi parlarcene brevemente?

EM: Dall’esordio in volume, nel 1994, ho pubblicato sei libri di poesia – quattro in romeno e due in italiano. Ho la chance che hanno pochi di avere altre due lingue di espressione, oltre al romeno: l’italiano e il francese. Ho scritto anche in francese senza essermi preoccupata dalla pubblicazione, non ancora. Per i lettori italiani, perché a loro mi rivolgo qui, posso parlare del mio tragitto in questa lingua che amo e che è parte di me. Esordio italiano, dunque, nel 2001 con Frammenti di spazio austero, ricevuta bene dal pubblico romano di poesia e adesso Paradiso riassunto che è stato al Salone del Libro di Torino. Ho avuto, questa volta, la fortuna di avere un prefatore di grande sensibilità poetica, un poeta lui stesso, ma tanto generoso come pochi autori lo sono di questi tempi. Parlo di Marco Conti, un biellese di grande cultura letteraria e non solo. Lui è stato incaricato dalla casa editrice di curare il mio libro e lo ha fatto con professionalità e con generosità, con pazienza e con sapere. Auguro a ogni autore di avere un’esperienza simile alla mia. Non so quale sarà il destino di Paradiso riassunto, perché ogni libro ne ha il suo di destino. Ma so che mi ha già dato tanto.

LS: Collabori o hai collaborato con qualche persona nel processo di scrittura? Che cosa ne pensi delle scritture a quattro mani?

EM: Non mi è mai successo, anzi… mi è capitato ma nella scrittura giornalistica. Non penso sia una cosa dannosa. Solo che si deve trovare il partner giusto, come nella vita, d’altronde. Si possono, credo fare cose magnifiche a quattro mani… per me la scrittura è stata finora un atto solitario e quasi intimo. Scrivere poesia non è una scelta. E’ un destino. Non scegliamo noi di scrivere poesia, siamo stati scelti. Se il poeta non vive vere e proprie epifanie, allora è meglio che taccia.

LS: A che tipo di lettori credi sia principalmente adatta la tua opera?

EM: Spero che sia adatta a tutti. A tutti quelli che guardano ancora il cielo di giorno e di notte provando a decifrare i disegni delle nuvole, delle montagne sulla luna; a quelli che credono nel potere della parola, a quelli che pensano sempre agli altri, vicini o lontani che siano, a quelli che credono che il mondo non si ferma qui e che non dobbiamo scendere, che il viaggio per la Terra sarà lungo millenni e millenni ancora. Ma anche a quelli che hanno perso la speranza, la motivazione o si sono allontanati dal senso dell’esistenza. Credo molto che sia adatta ai giovani lettori di oggi e di domani. Ma forse questo è solo un desiderio, non lo so.

LS: Cosa pensi dell’odierno universo dell’editoria italiana? Come ti sei trovato/a con la casa editrice che ha pubblicato il tuo lavoro?

EM: Avevo già parlato prima, ma aggiungerei volentieri che mi sono trovata molto bene, è una squadra di professionisti, fanno il loro lavoro con passione. Un autore è una creatura piena di stranezze, è uno che agisce su impulso, che oggi vuole una cosa per non volerla più l’indomani, che cambia umore, è una persona difficile da gestire. L’editore dev’essere un po’ di tutto: confidente, psicologo, commercialista, pr e naturalmente un conoscitore della letteratura. Mi fido molto dei piccoli editori. Tutti i grandi scrittori sono sempre passati da lì.

LS: Pensi che i premi, concorsi letterari e corsi di scrittura creativa siano importanti per la formazione dello scrittore contemporaneo?

EM: Ai miei tempi e nel posto dove vivevo io non ho avuto questa possibilità, ma penso che in nessun modo possono nuocere. Con un’osservazione: i titolari di questi corsi, parlo dei corsi di scrittura creativa, debbono essere attenti a capire fin dove possono intervenire nel forgiare un allievo, soprattutto se si tratta di giovani. Credo, inoltre, che debbano essere molto sinceri rischiando di rimanere senza allievi il prossimo anno; è preferibile non illudere nessuno. I miglior corsi sono gratuiti, si fanno a cielo aperto nella prima infanzia quando la magia del mondo è ancora intatta, quando non ci siamo allontanati dalla fonte, quando un fiore che teniamo fra le dita è un intero universo, quando guardare le stelle è il più bel regalo. Quelli sono i veri corsi di poesia.

LS: Quanto è importante il rapporto e il confronto con gli altri autori?

EM: Molto e poco. Non saprei. Solo che, come ho già accennato, quello degli autori è un mondo fatto di altre regole. Ci sono gelosie, invidie, egoismi e tantissimo narcisismo. Mi chiedo se ci sono rimaste, da qualche parte, grandi amicizie… Le cose cambiano un po’ quando si tratta di amori, ma solo un po’ e solo in superficie. L’ego del creatore è sovradimensionato, sembra una cosa legata al DNA.

LS: Il processo di scrittura, oltre a inglobare, quasi inconsciamente, motivi autobiografici, si configura come la ripresa di temi e tecniche già utilizzate precedentemente da altri scrittori. C’è spesso, dietro certe scene o certe immagini che vengono evocate, riferimenti alla letteratura colta quasi da far pensare che l’autore abbia impiegato il pastiche riprendendo una materia nota e celebre, rivisitandola, adattandola e riscrivendola secondo la propria prospettiva e i propri intendimenti. Che cosa ne pensi di questa componente intertestuale caratteristica del testo letterario?

EM: Non è una mia abitudine. Mai fatto se non per giocare e per leggere la produzione al mio primo lettore, quello che vive con me. Quando la tecnica di cui parli non si limita ad un esperimento, ci troviamo, credo, fuori dall’atto creatore. Io credo che la poesia sia una istanza grave, così ho imparato molto tempo fa da Ionesco. E non dimenticherò mai questa lezione.

 

 

 

Lorenzo Spurio

scrittore, critico-recensionista

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Jesi, 16/07/2012

E’ SEVERAMENTE VIETATO PUBBLICARE E DIFFONDERE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

Intervista a Lorella Fanotti, autrice di “Racconti dietro l’angolo”, a cura di Lorenzo Spurio

 Intervista a LORELLA FANOTTI
Autore di RACCONTI DIETRO L’ANGOLO
EDITRICE DONCHISCIOTTE , SIENA, 2011
Isbn:978-88-88889-37-5

 

a cura di Lorenzo Spurio

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LS: Come dobbiamo interpretare il titolo che hai scelto per la tua ultima opera pubblicata?

LF: Ho scelto il titolo Racconti dietro l’angolo per anticipare velatamente al lettore le mie intenzioni. Le storie che narro sono semplici, quotidiane; ho cercato di raccontare con l’occhio di chi osserva oltre l’apparenza, che va oltre l’angolo per capire quello che si cela dietro l’evidenza e che sfugge all’osservatore distratto.

LS: Un autore negherà quasi sempre che quanto ha riportato nel suo testo ha un riferimento diretto alla sua esistenza ma, in realtà, la verità è l’opposto. C’è sempre molto di autobiografico in un testo ma, al di la di ciò, il recensionista non deve soffermarsi troppo su un’analisi di questo tipo perché risulterebbe per finire fuorviante e semplicistica. Quanto c’è di autobiografico nel tuo libro? Sei dell’idea che la letteratura sia un modo semplice ed efficace per raccontare storie degli altri e storie di sé stessi?

LF: Nel mio libro ci sono storie completamente autobiografiche e storie completamente inventate. Di sicuro in tutti i racconti ci sono io, c’è la mia sensibilità, il mio modo di rapportarmi con la  vita, con i sentimenti, con gli altri. Credo che la letteratura sia un modo non semplice ma efficace di mandare dei messaggi, raccontando quelle che possono sembrare semplici novelle hai la possibilità di far riflettere il lettore su un tema che ti sta a cuore. Spero di essere riuscita a dare ai miei lettori degli input di riflessione. Quello che spero di non aver fatto è “salire in cattedra”.

LS: Quali sono i tuoi autori preferiti? Quali sono le tendenze, le correnti italiane e straniere e i generi letterari che più ti affascinano? Perché?

LF:Non ho fatto studi umanistici e questo credo che sia un  limite importante. Però sono curiosa e se sento parlare positivamente di un autore che non conosco cerco di rimediare. Non ho autori preferiti, mi piace leggere chi parla della gente e lo fa con il cuore. Non mi piace il fantasy, trovo che la vita di tutti i giorni abbia così tanto da raccontare che non vedo la necessità di andare “oltre”. Ho appena terminato Il piccolo naviglio di Tabucchi  e credo che riassuma quello che mi fa apprezzare un libro. Storie di gente comune dentro la Storia, un pizzico di follia e di fantasia, una scrittura particolare. Per la letteratura straniera mi sono imbattuta in alcune scrittrici albanesi contemporanee: Elvira Dones, Ornela Vorpsi, Anilda Ibrahimi che mi hanno conquistato. Scritture asciutte e dirette, storie che con l’incanto narrativo ci raccontano un mondo vicino e sconosciuto. Un’altra autrice straniera che mi piace  è Irene Nemirosky, un’ebrea russa morta molto giovane in un campo di concentramento.

LS: So che rispondere a questa domanda sarà molto difficile. Qual è il libro che di più ami in assoluto? Perché? Quali sono gli aspetti che ti affascinano?

LF: Invece è facile, l’ho appena tirato fuori dallo scaffale per cercare di farlo leggere a mia figlia. La Storia di Elsa Morante.  Per tutto quello che ho detto prima.

LS: Quali autori hanno contribuito maggiormente a formare il tuo stile? Quali autori ami di più?

LF: Posso solo rispondere che ho sempre letto molto, non so dirti chi mi ha influenzato di più. Posso raccontarti che ho cominciato a scrivere per avere un pretesto per conoscere una scrittrice, Elena Gianini Belotti, di cui avevo letto da ragazzina Dalla parte delle bambine. Quando nel 2001 seppi che avrebbe tenuto un corso di scrittura creativa nel mio paese mi sono iscritta per conoscerla. Ho conosciuto Elena, ho frequentato il corso, e non ho più smesso di scrivere.

LS: Quali libri hai pubblicato? Puoi parlarcene brevemente?

LF: Ho pubblicato solo la raccolta Racconti dietro l’angolo. In Italia il racconto non è molto apprezzato, ma è invece un genere che si  adatta al mio modo di narrare e ai miei tempi accelerati. A volte mi capita di leggere dei romanzi che potrebbero stare benissimo in un racconto, dove le frasi vengono tirate come elastici, pur di arrivare a quel tot di battute. I miei racconti sono storie quotidiane a volte autobiografiche, a volte racconti che mi hanno fatto amici, addirittura un paio  sono nati dopo aver letto articoli di cronaca. La prima lezione del corso la Belotti ci disse che quando abbiamo vicino i nonni che potrebbero raccontarci storie incredibili, non ci interessano, siamo troppo giovani per apprezzare. Quando vorremmo  scoprire quelle storie e le nostre radici, non abbiamo più chi ci racconta.

LS: Collabori o hai collaborato con qualche persona nel processo di scrittura? Che cosa ne pensi delle scritture a quattro mani?

LF: Ho partecipato a un racconto a sei mani,  dove ogni partecipante scriveva il  punto di vista del suo personaggio. Devo dire che è stato divertente e stimolante, certamente occorre un buon feeling e capacità di accettare un confronto costruttivo.

LS: A che tipo di lettori credi sia principalmente adatta la tua opera?

LF: Credo che sia adatta a tutti, anche a chi non è abituato a leggere. So che conoscenti non lettori si sono avvicinati al mio libro per curiosità e qualcuno poi mi ha detto “Sono come le ciliegie, ne leggi uno e non puoi fare a meno di leggerne un altro”.  Riuscire  a far leggere chi non ha mai comprato un libro è un bel successo no?

LS: Cosa pensi dell’odierno universo dell’editoria italiana? Come ti sei trovato/a con la casa editrice che ha pubblicato il tuo lavoro?

LF: Bella domanda! Penso che sia una giungla dove ti dibatti per trovare la strada più semplice e meno pericolosa.  Le grandi case editrici non ti leggono, le piccole ti chiedono soldi, e l’ingenuo esordiente non sa quasi mai se il suo libro vale la carta su cui è stampato. Quando ho deciso di pubblicare il libro non l’ho fatto  perché ero convinta di aver scritto un capolavoro, è rimasto quasi dieci anni  nel pc. L’ho fatto perché volevo che restasse qualcosa di tangibile ai miei  figli, un modo per lasciare qualcosa di me, quindi non ho pensato che una buona distribuzione fosse importante.  La casa editrice è stata estremamente onesta nel dirmi cosa avrebbe o non avrebbe fatto. Ora, con il senno del poi, punterei di più nella distribuzione.

LS: Pensi che i premi, concorsi letterari e corsi di scrittura creativa siano importanti per la formazione dello scrittore contemporaneo?

LF: Anche i premi sono un po’ un business, sinceramente non mi sembra molto corretto dover pagare decine di euro per partecipare a un concorso. Certo sono una maniera per misurarsi, uno stimolo anche alla scrittura, ma per ora ho preferito non entrare in questo meccanismo. Ho partecipato a un solo concorso e il risultato devo dire che è stato positivo. Lo stesso per i corsi di scrittura, ho letto di corsi  con quote di partecipazione molto elevate e che non prevedevano una selezione iniziale. Si può imparare a scrivere se non c’è una dote naturale?

LS: Quanto è importante il rapporto e il confronto con gli altri autori?

LF: A me piace molto confrontarmi con gli altri, anche se ho notato che non è molto apprezzata la sincerità. Sovente ci si nasconde dietro manierismi e recensioni che sono riassunti.

LS: Il processo di scrittura, oltre a inglobare, quasi inconsciamente, motivi autobiografici, si configura come la ripresa di temi e tecniche già utilizzate precedentemente da altri scrittori. C’è spesso, dietro certe scene o certe immagini che vengono evocate, riferimenti alla letteratura colta quasi da far pensare che l’autore abbia impiegato il pastiche riprendendo una materia nota e celebre, rivisitandola, adattandola e riscrivendola secondo la propria prospettiva e i propri intendimenti. Che cosa ne pensi di questa componente intertestuale caratteristica del testo letterario?

LF: Posso comprenderlo se si tratta di satira, se l’intenzione è palesemente dichiarata, altrimenti non credo che sia utile alla letteratura. Certamente chi scrive deve documentarsi e leggerà testi che parlano di quell’argomento. Per esempio quando ho scritto il racconto “Il professore”, dove c’era un accenno alla guerra di Russia, ho letto Il sergente nella neve di Rigoni Stern, ma il lettore non deve accorgersene, altrimenti si chiama copiatura.

 

Lorenzo Spurio

scrittore, critico-recensionista

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Jesi, 16/07/2012

“Racconti dietro l’angolo” di Lorella Fanotti, recensione a cura di Lorenzo Spurio

Racconti dietro l’angolo
di Lorella Fanotti                               
con prefazione di Marco Montori
Editrice Don Chisciotte, 2012   –  http://donchi.com/
ISBN: 978-88-88889-37-5
Numero di pagine: 118
Costo: 10,00 €
 
Recensione a cura di Lorenzo Spurio
 Aveva preteso di continuare a dividere lo stesso letto
e la notte mi prendeva con cattiveria,
ero una cosa sua da usare e ci teneva a farmelo capire (p. 24).
 
L’hanno messa in un buco sottoterra,
il prete dice che poi l’anima si stacca e va in paradiso, con gli Angeli,
ma intanto l’hanno lasciata in quel buco buio.
Che farà ora la maestra Clelia? (p. 41).

E’ un’assodata realtà che la narrativa breve, nella forma del racconto, in Italia non sia mai stata considerata alla pari della poesia o del romanzo. Una sorta di pregiudizio tutto nostrano (della critica e, forse, dei letterati stessi) che considerano quello che gli americani chiamano short story come una produzione breve, leggera e che vede nella sua concisione proprio la mancanza d’invenzione, di sperimentazione. Una letteratura che almeno in Italia è sempre stata considerata come “seconda” alle altre forme di espressione letterarie. Completamente diversa la situazione in Inghilterra, basti pensare ad autrici come Virginia Woolf, Katherine Mansfield o alle americane Patricia Highsmith o Flannery O’Connor. Unica eccezione nel panorama italiano, forse, solamente Calvino.

Questo libro di Lorella Fanotti è uno dei tanti chiari esempi nella nostra contemporaneità che la supposta “inferiorità del racconto breve” sia un mero pregiudizio, una sorta di leggenda metropolitana che non risponde a verità. Inoltrandoci nella lettura di Racconti dietro l’angolo, l’autrice accompagna il lettore a braccetto in numerosi spaccati quotidiani, episodi del tutto normali ed estremamente variegati. Non c’è niente di fantastico, né di surreale. La scrittura completamente piana, per nulla “accademica” dell’autrice consente al lettore di assaporare le pagine del libro e le varie storie in maniera compulsiva. Concluso un racconto, il lettore è subito pronto ad inaugurane un altro e, quando è consapevole che è giunto all’ultimo, prova un leggero dispiacere.

Questo genere si mostra congeniale a una scrittrice come Lorella Fanotti che fa della sua scrittura un’attenta analisi della realtà umana, con problemi, vicissitudini poco felici, ansie, ripensamenti, dolori. L’autrice si mostra in questo libro come narratrice del quotidiano; lo sguardo, infatti, è sempre posato su quello che accade attorno a lei. L’autrice non dà molta rilevanza a quella che è la Storia ufficiale, fatta di date, episodi, guerre o momenti politici – tranne che in “Incontro a Garibaldi”- proprio per l’espressa volontà di dipingere delle storie che sono private, che appartengono al popolo.

La raccolta affronta molti temi, ma il tutto è sempre finalizzato a sottolineare l’importanza della famiglia intesa come nucleo originario d’amore e di stabilità e soprattutto la difficoltà che ha l’uomo contemporaneo di riconoscerci completamente tale (mariti ossessivi, uomini convinti dalla validità di una “pseudo-setta” religiosa per altro non riconosciuta dalla Chiesa ufficiale, un anziano professore cieco che deve sottostare ai diktat prepotenti della società, una lesbica prostituta).

Pur utilizzando un linguaggio che ha molto del parlato, come in “Il culo delle donne”, questo non risulta mai essere volgare ed anzi, in alcuni punti finisce per rubare al lettore un sorriso in questo cocktail incalzante di cronaca d’oggi che sottolinea debolezze, mancanze, vizi e degenerazioni a più livelli.

E’ una scrittura completamente attuale quella di Lorella Fanotti come lo è il suo frequente riferirsi a Internet che, come sappiamo, può essere un ottimo strumento se utilizzato bene e anche il mezzo d’incontro fortuito di due persone, ma che allo stesso tempo può rivelarsi in una famelica trappola per vittime deboli, inermi, giovani, confuse. E’ ciò che accade ad esempio in “Una mano per chi?”, racconto thriller dagli risvolti agrodolci ma nella dinamica del serial killer quanto mai verosimile e specchio di tragici avvenimenti che spesso sentiamo al telegiornale. Il sesso ne sta alla base. E’ un sesso malato che provoca perversione, stalking, minacce compulsive; un sesso che si realizza attraverso l’abbordaggio in internet e poi l’abbindolamento nella convinzione che  “la chat ogni tanto poteva essere un palliativo per esaudire quei desideri che nessuno avrebbe condiviso in un letto” (p. 78).

Se da una parte la silloge di racconti si manifesta come uno spaccato della società d’oggi, non mancano racconti d’impostazione verista che si riferiscono, invece, a un mondo andato, a una società prevalentemente agricola, a famiglie di campagna dedite al lavoro. Contadini, orfani, poveri, tessitrici, campi da lavoro, matrimoni contadineschi che ricordano quasi alcuni personaggi verghiani.

Complimenti a Lorella Fanotti per questa ricca e variegata silloge nella quale i toni e i temi crepuscolari (malattia, dolore, morte) non riescono a dominare del tutto perché osteggiati da elementi positivi che richiamano il ricordo, la memoria, il passato andato di un’età migliore. In questo percorso, però, la scrittrice mette in scena anche crimini, manie, devianze e stravaganze, perché il mondo è anche questo tanto che in un racconto osserva: “Il giornale era troppo tetro, voleva una rivista, un settimanale” (p.88). Meglio distrarsi e dimenticarsi per un attimo che il mondo è tanto crudele.

 

Chi è l’autrice?

Lorella Fanotti ha sempre trovato piacere nel leggere. La scrittura l’ha coinvolta invece in un secondo momento quando, a partire dal 2001, ha cominciato a partecipare a un laboratorio di scrittura tenuto da Elena Gianini Belotti. In quell’occasione sono nati i suoi primi racconti. Ha continuato poi a scrivere e, negli anni, i racconti si sono accumulati nel cassetto. Sono piccole storie a volte prese dall’esperienza quotidiana, altri esercizi di scrittura partendo da un incipit o da un titolo. Da questa raccolta è nato “Racconti dietro l‘angolo”.

Lorenzo Spurio

scrittore, critico-recensionista

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E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

“Ritorno ad Ancona e altre storie” di Lorenzo Spurio e Sandra Carresi, recensione a cura di Cinzia Tianetti

Ritorno ad Ancona e altre storie

di Lorenzo Spurio e Sandra Carresi

Lettere Animate Editore, 2012

 

Recensione a cura di Cinzia Tianetti

 

 

Viaggiare è sempre percorrere e ripercorrere, attraverso i panorami, se stessi. E allora in “Ritorno ad Ancona e altre storie” il senso della parola ritorno, sembrerebbe possibile potere esclamare con certezza, è un viaggio, perché un ritorno non è semplice ricalcare l’orme già tracciate ma un “percorso altro” rispetto a qualunque cammino intrapreso fino a quel momento; non sovrapponibile, non totalmente e completamente riconoscibile, non determinabile.

In definitiva il messaggio del ritorno racchiude un viaggio in cui non ci sta assolutezza alcuna, né un’epigonale mummificata storia, ma alterità che genera, nei protagonisti principali, come Giada e la madre Clara, Rebecca ed Eva, stupore; non lasciandosi sopraffare dagli eventi con atteggiamenti passivi e subordinati ma, in una nietzscheana “chimica” delle idee e dei sentimenti… come pure di tutte le emozioni che sperimentiamo in noi stessi… anche nella solitudine”, capovolgendo il risultato in un suo opposto (un telefonata anonima in un sentimento non immediatamente espresso, un episodio delittuoso in un incontro, una conoscenza deludente in una consapevolezza della ricchezza e fortuna posseduta, una mancanza in forza e capacità di accoglimento, un divorzio sofferto in voglia di ricominciare, la solitudine in opportunità di aprirsi all’altro, un monumento ai caduti di guerra ad inno del primo amore, un matrimonio fallito in impegno d’amore verso due creature bisognose d’affetto e d’attenzioni) così come nelle intenzioni degli autori.

E allora si comprende insieme a Giada, in “Telefonate anonime”, come la libertà e la tranquillità dell’animo indipendente dipenda da un ritorno a casa: Ulisse e Penelope al contempo del proprio destino.

Tessere le fitte trame della propria esistenza; “immaginare, sognare” insieme a Giada è il nostro compito nel recuperare noi stessi all’oscuro buco nero dell’inconscio per non “collezionare amori a senso unico e delusioni”, per vivere la vita senza che ci sfugga nell’incomprensione. Figurativamente un ritorno a casa, perché, come Giada in fondo, “non vediamo l’ora di respirare l’aria di casa nostra” viaggiatori “soli in compagnia dei nostri pensieri e dei propri propositi”, con un senso tra le mani nuovo. Proprio come Giada che infine riesce a incamminarsi “pensierosa ma sicura verso la sua villetta a San Casciano”. Moderna Penelope che, accettando il suo passato, nell’attesa calma e speranzosa per quel che si ha e non più per quel che si è perso o non si è mai avuto, finisce di stessere il faticoso lavoro dei giorni di una donna in ogni donna che ha amore, fedele al suo cuore. 

E siccome con un buon libro è sempre necessaria almeno una domanda chiediamoci necessariamente di cosa aveva fame Giada e forse ancor più necessario, perché complementare, di cosa si nutriva Giada per alimentare la fame:

“Una volta in cucina aprì la dispensa, ma la chiuse in maniera altrettanto veloce, tanto era insoddisfatta e indecisa su cosa avrebbe voluto mangiare.”

L’insoddisfazione è la cifra, non tanto lo stato di sazietà, che spinge a tendere a quel senso di appagamento psico-fisico irraggiungibile o quanto meno non durevole; ed è intorno a questa mancanza che si muove, insieme al mondo di Giada, il mondo, e queste storie di ritorno.

E, ancora, risalendo, insieme a lei “lo stretto corridoio i cui muri erano ricoperti di foto sbiadite che raccontavano il passato della famiglia” stringendo delicatamente la mano alla radice familiare per nutrirsi di un’identità in definitiva rassicurante dall’intima paura dell’ignoto (“in quel luogo sempre profumato e poi … il cibo … Certi aromi ti rimangono addosso come un vestito leggero bagnato e basta niente per proiettarti in altri tempi, con altri affetti.”), protettivo codice interpretativo del mondo, vera saggezza introspettiva, non si può negare l’altro dei due elementi della radice, rappresentato dalla rigogliosa vegetazione che la stordiva, simbolo dell’istinto all’ aprirsi ai sensi e alle sensazioni, a ciò che avrebbe creato la personale storia (“…Il gelsomino che saliva lungo il muro la stordiva, come lalbero di magnolia, mentre dalla finestra opposta il glicine sembrava quasi voler entrare in casa, tanto era salito.”)

Nelle difficoltà della vita, simbolicamente identificabile nell’anoressico rapporto di padre e figlia, Giada riscopre l’attesa fertile dei sentimenti, costruiti non nell’attendere immobile e dubbioso di un ritorno di un padre, di un amore, ma nel viaggio personale della riscoperta, dell’affermazione di se stessa, nel riscoprire la forza delle proprie radici: “Sapere che il silenzio oltre il telefono era dovuto a dei sentimenti, a delle emozioni” che non appartengono solo all’altro ma proiezioni dei propri timori per un ignoto che si è deciso di abbracciare come si potrebbe abbracciare un fratello in un incontro reciproco all’altro, non per forza minaccioso. Auspicabile per ogni Giada dentro di noi.

E così, foss’anche nell’intervallo di un sospiro, la ricerca, alla “fioca luce delle candele” (non per caso rosse natalizie), quando “fuori il cielo” è “in subbuglio”, e  tutto intorno è buio, termina; il mistero diviene epifania della ragione, e improvvisamente “come se ne era andata, la luce tornò”.

O comprendere insieme con Rebecca, in “Ritorno ad Ancona”, quei “ma” o “oppure”, quell’incomprensibile all’improvviso che, qual “fulmine a ciel sereno”, spezza ogni apparenza e il vero quadro prende forma, la sua vita esce fuori dai colori convenzionali dell’agiatezza eppur della solitudine per ricomprendere la rassegnazione e farne orizzonte per l’albeggiare “della mente che veste con gli occhi dell’anima, della sua bellezza e del suo respiro”.

E Rebecca ritorna in una luce nuova al suo passato per un cuore nuovo; ritorna, in Vincenzo, a casa.

In “quel mare così esteso, verde-azzurro d’estate, scuro e oleoso d’inverno”, che è la vita, “le piaceva particolarmente quando veniva solcato, in lontananza, da qualche imbarcazione partita o diretta al porto”, del proprio esistere; perché anche Rebecca sa partire, come Giada sotto cieli sereni o tempestosi, col mare disteso e azzurro o scuro e minaccioso, per “ritornare” a porti sicuri. Col coraggio che la contraddistingue. E credo che non sia lasciato al caso che la seconda storia si sussegua alla prima come due facce della stessa medaglia: nell’abbandono due vite si ritrovano continuando, nell’incerto passo che non potrà mai dirsi certo per nessuno, la loro vita con coraggio.

Interessante è, infine, costatare come una delle mancanze di Rebecca diventi luogo del terzo racconto: “Un cammino difficile”.

Lì dove, nella terza storia, sembrava che si uscisse dall’impasse del travaglio per entrare nel “ricominciare a vivere”, nel quale terminano le altre due storie, si demarca, invece, la condicio sine qua non incomprensibile diverrebbe la forza e la fermezza del personaggio Eva.

Adán y Eva. / La serpiente / partió el espejo / en mil pedazos, y la manzana / fue la piedra[1].

E del felice inizio, che sembrava aprisse orizzonti nuovi, insospettabili per l’esordio e l’età dei protagonisti, non resta che la potenza del messaggio ribattezzato nel nome del coraggio, non certo ottuso, ma acuto, riflessivo, ponderato, che sa cosa vuole, e cosa è bene; che sa lottare con la pazienza e l’intelligenza che frantuma il muro infantile ed egoistico, come sembrerebbe farebbero sottendere gli autori, in un fil rouge dalle varie, nonché profonde, sfumature: la vita come l’amore e il volere sono un enigma e non può che esserci una soluzione, lo stupore curioso per un futuro prossimo che non potrà mai dirsi.

Così, come fa Eva (e prima di lei Giada e Rebecca), tutto bisogna nell’interpretazione vivere superando la dicotomia che paralizza. Chiarificatrice, in questo senso, è l’ambivalenza (nel primo racconto, chiave d’apertura per tutti e tre i racconti) tra l’azione e il ripensamento, che mette bene in luce le perplessità tra l’agire la vita e subirla, dandosene una ragione plausibile e accettabile. Mette bene in luce la complessità del moto emozionale psico-umano in un rispecchiamento, tra estroversione e introversione, continuo. “Oímos por espejos”[2] dice, García Lorca. Superato dal dramma che, per sua intima natura, inscena un’azione.

Quando qualcosa di inaspettato succede, “in quel momento allora si ripensa a tutto. Si dà importanza anche alla cosa più piccola”.

 

Nel turbinio descrittivo delle parole racchiuse in una frase, li senti le due voci femmìnea e maschile, nonché il morbido e preciso, fluido e pausale, al contempo, ritmo, in una dinamica economica efficace. Che ben si compenetra divenendo una voce che intona un canto di vite in cui è facile identificarsi, nell’andirivieni dei giorni nei giorni che scandisco un tempo d’armonia diatonica.

Vite ordinarie, che vivono, si diceva, un quotidiano riconoscibile. La Rebecca, la Giada, l’Eva che c’è in ognuno di noi si riconosce, riscoprendosi, in loro, capaci di riscatto, per cui niente è più scontato, nemmeno quando tutto sembra deciso da un destino non benevolo.

I protagonisti di questi racconti son tutti positivi, perché sullo sfondo restano la paura, l’infantilismo, l’assenza di sentimenti e intelligenze, il brancolar nel buio, incarnato in marionette manovrate da un burattinaio fatale.

“Ci sono persone che per la loro arroganza e superbia mangerebbero il mondo, pensando di essere immortali o credendo che gli eventi negativi non riguardino mai la propria persona, ma poi, quando qualcosa li tocca veramente, diventano come bambini soli al mondo”. Incapaci di ricominciare. 

Attraverso i protagonisti ci si sporge a veder il senso reale del vivere, che non sta nelle grandi imprese ma nell’essere se stessi svelandosi in nuove prospettive di vita, in nuove passioni, al meglio delle proprie forze, scuotendo l’animo per trasformare le emozioni interiori in ragioni d’amore.

E poi l’evidenza. Perché in fondo cos’è l’uomo se non la somma di singole parti in un conto che non torna mai?

Note:

[1] Adamo ed Eva. / Il serpente / ruppe lo specchio / in mille pezzi, / e la mela / fu la pietra.

“INITUM” di García Lorca.

[2] Un pájaro tan solo / canta. / El aire multiplica. / Oímos por espejos.

Un uccello solitario / canta. / Moltiplica l’aria. / Udiamo attraverso gli specchi.

“REPLICA” di García Lorca

a cura di Cinzia Tianetti

09/05/2012

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