Come oltrepassare lo specchio nella contemporaneità: “Laura y Julio” di J.J. Millás. Un commento di Lorenzo Spurio

Laura y Julio
romanzo di JUAN JOSE’ MILLAS
Recensione di Lorenzo Spurio
Il destino sembrava scritto nei fatti banali, nei dettagli periferici, nei sobborghi dei fatti[1]
 

imagesIl romanzo Laura y Julio di Juan José Millás presenta delle caratteristiche tipiche della narrativa dell’autore: il partire da episodi quotidiani e domestici, l’attenzione per il dialogo e lo scambio d’opinione, la mancanza d’affiatamento coniugale e di un rapporto amoroso autentico e sentito, la fragilità interiore, la perdita d’identità e l’acquisizione di una nuova identità dopo una fase di transizione, o meglio di metamorfosi. Quest’ultimo aspetto ben richiama il processo di cambiamento di Elena Rincón, madrilena quarantenne protagonista del romanzo La soledad era esto, vincitore del Premio Nadal nel 1990. Il processo di cambiamento, di metamorfosi, è la base del romanzo stesso e più in generale della ricerca e dello studio che Millás fa attentamente sui suoi personaggi.

La storia che viene narrata in Laura y Julio in apparenza sembra essere quella di una comune coppia sposata da diversi anni dopo molti anni di fidanzamento. In realtà non è così, la coppia è solo una struttura apparentemente valida ed efficace per loro due. La coppia sembra essere priva d’amore (per lo meno in questo momento della loro vita, dato che riferimenti alla loro gioventù non vengono forniti) e per di più non ha figli. L’immagine di un rapporto coniugale strano, sghembo e d’indifferenza è spesso al centro della narrativa di Millás (presente ad esempio nei romanzi precedenti La soledad era esto, Volver a casa). Tutta la loro vita è pero impostata sulla presenza di una terza persona, Manuel, loro vicino di casa. La presenza del vicino è per entrambi (in maniere diverse) costante tanto che non riuscirebbero a  vivere senza di lui, né tantomeno lui senza di loro. Al momento in cui Manuel ha un grave incidente stradale e viene condotto in ospedale in fin di vita, Laura e Julio iniziano, individualmente, a sviluppare un movimento di pensiero e un loro fare impostato a partire dalla persona di Manuel: Julio si introdurrà in casa di Manuel di nascosto e vivrà lì alcuni giorni, impadronendosi dei i suoi abiti e assumendo le sue tendenze; Laura invierà una serie di mail al computer di Manuel in cui gli parlerà a cuore aperto del suo amore per lui, dell’inettitudine di suo marito (Julio) e del fatto che sta aspettando un figlio da lui. Le mail verranno lette da Julio che oramai, nelle vesti di Manuel e calatosi nella sua personalità, deciderà alla fine (quando oramai Manuel in ospedale è morto) di inviarle una mail di addio molto significante appunto nelle vesti di Manuel.

Come si è precedentemente accennato, Julio si introduce nella casa di Manuel e comincia a vivere la sua vita, cominciando a vestire come Manuel (anzi, i panni di Manuel) ed a mangiare ciò che mangiava Manuel; tutto questo lo porta ad avere l’idea che per un attimo sia riuscito a raggiungere l’altra parte dello specchio. Quando ancora viveva con Laura dal suo appartamento aveva sempre visto Manuel dalla sua parte, dal suo punto quotidiano, ora lui si trova dall’altra parte, al posto di Manuel. La presenza di Julio nelle vesti e nell’identità di Manuel non è, però, quella di un semplice scambio d’identità, egli infatti è come se fosse un morto o un’ombra. E’ un altro o forse è semplicemente l’ombra di un altro che oramai non c’è più, perché agonizza in ospedale. Alla stessa maniera <<pensò che il suo fantasma, o il suo riflesso (forse la sua ombra) si trovava nella casa al lato, vicino a Laura>>[2]. Abitare l’altro lato dello specchio significa abitare un’altra porzione di sé stesso. Non si tratta di un processo semplice e l’autore, oltre a sottolineare che Julio si era ormai impossessato di tutto ciò che c’era di Manuel (la casa, i vestiti, il cibo, il profumo, gli abiti), <<cercò di pensare ai suoi problemi con la testa di Manuel>>[3].  Da questa nuova prospettiva Julio, ormai impadronitosi completamente degli interessi e delle peculiarità di Manuel, osserva quello che ora è l’altro lato (e che prima era stata la sua parte): osserva Laura.

JJMILLASQuando Laura chiama il marito per chiedergli di recarsi a casa a prendere tutte le sue cose Julio, entrando, si sente quasi male e non riesce a riconoscere la casa, si sente spaesato e disorientato: è il chiaro segno che oramai la sua vecchia identità si è disintegrata e lì, nella vecchia casa, per lui non c’è più niente di familiare e, l’autore ci dice che  <<notò che già era uno straniero [in quella casa]. Si muoveva per la casa come un intruso e si affacciava alle camere come un vagabondo>>[4]. Non solo, il profumo di sua moglie diffuso per la stanza, che negli anni precedenti sempre aveva sentito e riconosciuto ora gli era sconosciuto ed era come se appartenesse ad un’altra donna. Nel raccogliere la sua vecchia roba la paragona con quella di Manuel notando che la sua era è di scarsa fattura (oramai non le piace più) e gli sembra qualcosa di inclemente, di troppo austero, <<le sembrò gli abiti di un morto>>[5].

Il senso di cambiamento d’identità (e di vita) di Julio che si sviluppa dal momento dell’annuncio dell’incidente di Manuel ai giorni che seguono la morte dell’amico in ospedale viene chiaramente definito come metamorfosi e Millás con la sua tecnica attenta riferendosi a lui dice <<Camminava come se fosse un altro, o come se fosse abitato da un altro che governava i movimenti del suo corpo con la destrezza di un pilota esperto>>[6]. Alcune pagine più avanti, ci rendiamo però conto che questa metamorfosi non si è ancora compiuta nella sua interezza giacchè viene detto che Julio <<dedicò i giorni seguenti a perfezionare le sue abitudini>>[7]. Sue nel senso le abitudini che erano proprie di Manuel, abbandonando nello stesso tempo quelle che erano state autentiche di sé come l’amore per la moto. Più avanti viene detto che <<aveva acquisito alcune abitudini gastronomiche di Manuel>>[8], si capisce che il percorso di metamorfosi da uno ad un altro non è facile ma necessita di tempo e soprattutto di analisi dell’altro e delle sue tendenze.

Verso la seconda parte dell’opera Julio ha come delle visioni e si vede in un’altra epoca, in altre situazioni e contesti a lavorare in una lavanderia. Pensa che gli abiti portati sporchi in lavanderia in fondo sono pregni di vita e d’identità mentre l’atto del lavaggio è solo un <<processo di spersonalizzazione>>[9]. Con questo processo l’abito torna, sì, pulito come nuovo, ma è come se non appartenga a nessuno, o possa appartenere a chiunque.

Quando oramai Manuel si sta spegnendo in ospedale, corrisponde in Julio uno stesso momento di perdita di vitalità, si dimagrisce diversi kili e sembra che il suo corpo non contenga più istinti vitali tanto che <<Chi teneva la febbre ora era la realtà>>[10]. Lui non aveva febbre, non aveva più temperatura, era ormai come morto, cosi come era deceduto fisicamente l’amico Manuel. <<Tutto aveva la febbre, tutto era malato, perché tutto –anche oggetti semplici come il rasoio elettrico- era vivo>>[11]. Tutto, tranne lui.

Nel momento in cui Julio oramai sta compiendo la sua metamorfosi per divenire Manuel, legge le mail che sua moglie Laura aveva spedito clandestinamente a Manuel con il quale aveva avuto una relazione amorosa clandestina e Julio giunge a chiedersi il perché nelle mail di risposta a Laura Manuel parlava tanto di Julio e l’autore conclude dicendo <<intuì che entrambi, Manuel e lui, erano oscuramente uniti per dei vincoli che erano più forti rispetto a quelli dell’amore e dell’odio>>[12]. Nella parte finale dell’opera, Laura avverte una certa presenza in casa di Manuel (il suo odore nel pianerottolo delle scale), in realtà è Julio che ha assunto le caratterizzazioni di Manuel. La metamorfosi è compiuta interamente quando Julio, oramai Manuel, decide di rispondere alla mail della moglie dicendo <<Cara Laura, non è cosi strano che hai sentito nell’ambiente alcuni segnali miei. Avevi ragione: esiste un’energia indipendente dal corpo. Grazie ad essa ho viaggiato durante gli ultimi giorni il mondo al quale sono appartenuto per congedarmi da lui dato che sapevo che la mia fine era vicina. […]. Mi sono convertito, come tu supponevi che accade ai morti, in una forza invisibile ma reale obbligata a partire per un lungo viaggio>>[13]. Al termine della lettera Julio (oramai di forma Manuel) dice alla moglie, che lo crede essere davvero Manuel <<credo che il padre [del bambino] debba esser Julio. […]. Julio ed io, nonostante tutto eravamo uniti da un legame di complementarietà. […]. In un certo modo, questa creatura che tieni nel grembo è figlia di tutti e tre>>[14].  Più avanti, nelle pagine finali segue però l’avocazione quasi gloriosa a sé del figlio (quando in realtà era stato concepito, materialmente da Laura e Manuel), l’autore ci dice, riferendosi a Julio <<sentì […] che il figlio era suo e di Manuel, che Laura non era altro che lo strumento necessario affinchè loro due –l’unione dell’astratto e del concreto- potessero procreare>>[15]. Infine, Julio decide di abbandonare gli abiti e le abitudini di Manuel, <<si lavò il collo e la faccia per eliminare il profumo dell’odore di Manuel e si cambiò i vestiti indossando degli abiti propri>>[16], ritorna a casa da Laura (la quale convinta che la mail ultima era stata scritta da Manuel e rappresentasse una sorta di suo testamento) riprende con sé suo marito Julio con il quale, come aveva voluto Manuel (ossia Julio) crescerà il nascituro, al quale per volontà, desiderio, ricordo, amore ed elogio viene messo il nome di Manuel.

Millas è attento al termine della storia a spiegare il gioco minuzioso e abile di realtà e finzione di cui è un grande artefice della postmodrnità dicendo <<Solo Julio  avrebbe conosciuto la differenza tra la storia reale ed il mito perché c’è sempre qualcuno  […] che per sua sfortuna conosce di più dell’altro. Forse, con gli anni, Laura sarebbe caduta nella tentazione d raccontare a suo figlio, in segreto, chi era stato veramente suo padre […] e che modo misterioso avrebbe adottato affinchè a lui continuasse ad ingannare Julio. In questa maniera, la leggenda si trasmetterebbe di generazione in generazione, durante secoli, come un racconto familiare>>[17].

LORENZO SPURIO

 


[1] Gli stralci di testo riportati qui nel saggio sono una mia traduzione dal testo in lingua spagnola  Laura y Julio di Juan José Millas (2006), Booket, Seix Barral, Barcelona. Pag. 149, righe 11-13

[2] Ibidem, pag. 40, righe 9-10

[3] Ibidem, pag. 54, righe 1-2

[4] Ibidem, pag. 97, righe 23-26

[5] Ibidem, pag. 98, righe 9-10

[6] Ibidem, pag. 99, righe 23-26

[7] Ibidem, pag. 107, righe 1-2

[8] Ibidem, pag. 99, righe 23-26

[9] Ibidem, pag. 150, riga 27

[10] Ibidem, pag. 153, righe 19-20

[11] Ibidem, pag. 153, righe 23-26

[12] Ibidem, pag. 144, righe 24-27

[13] Ibidem, pag. 184, righe 11-21

[14] Ibidem, pag. 184-185, righe 25-37

[15] Ibidem, pag. 185-186, righe 57-61

[16] Ibidem, pag. 186, righe 6-8

[17] Ibidem, pag. 187, righe 10-20

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“Racconti dietro l’angolo” di Lorella Fanotti, recensione a cura di Lorenzo Spurio

Racconti dietro l’angolo
di Lorella Fanotti                               
con prefazione di Marco Montori
Editrice Don Chisciotte, 2012   –  http://donchi.com/
ISBN: 978-88-88889-37-5
Numero di pagine: 118
Costo: 10,00 €
 
Recensione a cura di Lorenzo Spurio
 Aveva preteso di continuare a dividere lo stesso letto
e la notte mi prendeva con cattiveria,
ero una cosa sua da usare e ci teneva a farmelo capire (p. 24).
 
L’hanno messa in un buco sottoterra,
il prete dice che poi l’anima si stacca e va in paradiso, con gli Angeli,
ma intanto l’hanno lasciata in quel buco buio.
Che farà ora la maestra Clelia? (p. 41).

E’ un’assodata realtà che la narrativa breve, nella forma del racconto, in Italia non sia mai stata considerata alla pari della poesia o del romanzo. Una sorta di pregiudizio tutto nostrano (della critica e, forse, dei letterati stessi) che considerano quello che gli americani chiamano short story come una produzione breve, leggera e che vede nella sua concisione proprio la mancanza d’invenzione, di sperimentazione. Una letteratura che almeno in Italia è sempre stata considerata come “seconda” alle altre forme di espressione letterarie. Completamente diversa la situazione in Inghilterra, basti pensare ad autrici come Virginia Woolf, Katherine Mansfield o alle americane Patricia Highsmith o Flannery O’Connor. Unica eccezione nel panorama italiano, forse, solamente Calvino.

Questo libro di Lorella Fanotti è uno dei tanti chiari esempi nella nostra contemporaneità che la supposta “inferiorità del racconto breve” sia un mero pregiudizio, una sorta di leggenda metropolitana che non risponde a verità. Inoltrandoci nella lettura di Racconti dietro l’angolo, l’autrice accompagna il lettore a braccetto in numerosi spaccati quotidiani, episodi del tutto normali ed estremamente variegati. Non c’è niente di fantastico, né di surreale. La scrittura completamente piana, per nulla “accademica” dell’autrice consente al lettore di assaporare le pagine del libro e le varie storie in maniera compulsiva. Concluso un racconto, il lettore è subito pronto ad inaugurane un altro e, quando è consapevole che è giunto all’ultimo, prova un leggero dispiacere.

Questo genere si mostra congeniale a una scrittrice come Lorella Fanotti che fa della sua scrittura un’attenta analisi della realtà umana, con problemi, vicissitudini poco felici, ansie, ripensamenti, dolori. L’autrice si mostra in questo libro come narratrice del quotidiano; lo sguardo, infatti, è sempre posato su quello che accade attorno a lei. L’autrice non dà molta rilevanza a quella che è la Storia ufficiale, fatta di date, episodi, guerre o momenti politici – tranne che in “Incontro a Garibaldi”- proprio per l’espressa volontà di dipingere delle storie che sono private, che appartengono al popolo.

La raccolta affronta molti temi, ma il tutto è sempre finalizzato a sottolineare l’importanza della famiglia intesa come nucleo originario d’amore e di stabilità e soprattutto la difficoltà che ha l’uomo contemporaneo di riconoscerci completamente tale (mariti ossessivi, uomini convinti dalla validità di una “pseudo-setta” religiosa per altro non riconosciuta dalla Chiesa ufficiale, un anziano professore cieco che deve sottostare ai diktat prepotenti della società, una lesbica prostituta).

Pur utilizzando un linguaggio che ha molto del parlato, come in “Il culo delle donne”, questo non risulta mai essere volgare ed anzi, in alcuni punti finisce per rubare al lettore un sorriso in questo cocktail incalzante di cronaca d’oggi che sottolinea debolezze, mancanze, vizi e degenerazioni a più livelli.

E’ una scrittura completamente attuale quella di Lorella Fanotti come lo è il suo frequente riferirsi a Internet che, come sappiamo, può essere un ottimo strumento se utilizzato bene e anche il mezzo d’incontro fortuito di due persone, ma che allo stesso tempo può rivelarsi in una famelica trappola per vittime deboli, inermi, giovani, confuse. E’ ciò che accade ad esempio in “Una mano per chi?”, racconto thriller dagli risvolti agrodolci ma nella dinamica del serial killer quanto mai verosimile e specchio di tragici avvenimenti che spesso sentiamo al telegiornale. Il sesso ne sta alla base. E’ un sesso malato che provoca perversione, stalking, minacce compulsive; un sesso che si realizza attraverso l’abbordaggio in internet e poi l’abbindolamento nella convinzione che  “la chat ogni tanto poteva essere un palliativo per esaudire quei desideri che nessuno avrebbe condiviso in un letto” (p. 78).

Se da una parte la silloge di racconti si manifesta come uno spaccato della società d’oggi, non mancano racconti d’impostazione verista che si riferiscono, invece, a un mondo andato, a una società prevalentemente agricola, a famiglie di campagna dedite al lavoro. Contadini, orfani, poveri, tessitrici, campi da lavoro, matrimoni contadineschi che ricordano quasi alcuni personaggi verghiani.

Complimenti a Lorella Fanotti per questa ricca e variegata silloge nella quale i toni e i temi crepuscolari (malattia, dolore, morte) non riescono a dominare del tutto perché osteggiati da elementi positivi che richiamano il ricordo, la memoria, il passato andato di un’età migliore. In questo percorso, però, la scrittrice mette in scena anche crimini, manie, devianze e stravaganze, perché il mondo è anche questo tanto che in un racconto osserva: “Il giornale era troppo tetro, voleva una rivista, un settimanale” (p.88). Meglio distrarsi e dimenticarsi per un attimo che il mondo è tanto crudele.

 

Chi è l’autrice?

Lorella Fanotti ha sempre trovato piacere nel leggere. La scrittura l’ha coinvolta invece in un secondo momento quando, a partire dal 2001, ha cominciato a partecipare a un laboratorio di scrittura tenuto da Elena Gianini Belotti. In quell’occasione sono nati i suoi primi racconti. Ha continuato poi a scrivere e, negli anni, i racconti si sono accumulati nel cassetto. Sono piccole storie a volte prese dall’esperienza quotidiana, altri esercizi di scrittura partendo da un incipit o da un titolo. Da questa raccolta è nato “Racconti dietro l‘angolo”.

Lorenzo Spurio

scrittore, critico-recensionista

Blog Letteratura e Cultura

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La realtà e la realtà raccontata. Dove termina la vita e inizia la letteratura. – Saggio di LORENZO SPURIO –

La realtà e la realtà raccontata. 

Dove termina la vita e inizia la letteratura.

saggio di Lorenzo Spurio

 

 

Vari studiosi e critici letterari hanno sempre sottolineato come esista una separazione tra la vita e l’arte, ossia tra la vita e la rappresentazione di essa, i due ambiti che in inglese vengono definiti con i termini reality e fiction.[1] Il romanzo, e più in generale ogni forma espressiva che provenga dall’intelletto umano, (una poesia, un componimento musicale, un quadro), non è altro che manifestazione del genio del suo creatore e il prodotto ultimo non è che un manufatto della ragione umana. Una persona che vediamo mangiare e una persona che ci viene  descritta mangiare in un romanzo, sono due cose diverse, sebbene evochino in noi lo stesso pensiero. In realtà sarebbe più opportuno parlare di una ulteriore contrapposizione di termini: quella tra persona e personaggio. Il primo siamo noi, e ogni nostro simile, che giorno dopo giorno portiamo avanti la nostra vita, il secondo, il personaggio, è invece una invenzione, una macchinizazzione della mente umana: può essere verosimile e quindi possiamo rispecchiarci in esso, ma può anche essere diabolico, fantastico, inverosimile e quindi rappresentare ambiti dell’immaginifico.

Nell’allarmante racconto che Stephen King fa dell’instabilità psichica di Annie Wilkies in Misery (1987), ci rendiamo conto di come la protagonista – causa la sua psiche malata, il suo isolamento dalla società e il suo amore-ossessione nei confronti dell’eroina di un ciclo di romanzi di Paul Sheldon – non sia in grado di distinguere la realtà dalla finzione, la vita vera da un personaggio inventato per diletto da un narratore esperto. L’incapacità di distinguere i due ambiti porta all’accentuarsi dei comportamenti maniacali della Wilkies nei confronti di Paul Sheldon che lei, dopo un incidente stradale abbastanza serio, è riuscita a portare a casa sua per tenere tutto per sé, come fosse un oggetto. Lo scrittore si renderà subito conto dell’instabilità e della pericolosità della donna ma, per evitare di animare ulteriormente la sua pazzia, cercherà di assecondarla nelle sue richieste. Quello che Paul Sheldon ha fatto – far morire il personaggio di Misery[2] nell’ultimo romanzo del ciclo è – per Annie Wilkies – uno sbaglio grandissimo, l’unica scelta che Sheldon come narratore non avrebbe dovuto fare. La stessa Wilkies ci tiene a far sapere allo scrittore: «Ma i personaggi di una storia non possono uscirsene di scena! Dio ci prende quando Lui stabilisce che l’ora è giunta e uno scrittore è Dio per i personaggi della sua storia, lui li crea come Dio ha creato noi e nessuno può chiamare Dio in giudizio perché si giustifichi, sicuro, si capisce, ma quanto a Misery ho qualcosa da dirti, sporca burba, ti dirò che si dà il caso che Dio abbia un paio di gambe rotte e Dio si trovi in casa mia a mangiare il mio cibo…e….»[3]. Grazie alle narrazioni di Sheldon, infatti, Misery è diventata per Annie una compagna di vita, una presenza costante, una persona a lei cara, sebbene Misery sia solamente un personaggio inventato, che esiste solo sulla carta, l’esatto opposto di quanto avviene in Alice nel paese delle meraviglie dove nelle ultime battute del primo libro l’eroina nega l’esistenza d’identità delle carte di gioco parlanti, sconfessando quel mondo irreale e impossibile arrivando a dire, dinanzi alla Regina Rossa, “Non siete altro che un mazzo di carte!”. La Wilkies obbligherà Sheldon a  bruciare il romanzo nel quale la sua beniamina finiva, invece, per morire (a causa di parto, una motivazione anche molto diffusa a quel tempo, come le fa notare lo scrittore) e a scriverne uno nuovo in cui Misery, invece, segue nuove avventure, contravvenendo anche alla libera ispirazione dello scrittore che in queste condizioni, oltre che su commissione, è chiamato a scrivere sotto coercizione.

L’idea che il narratore di una storia sia una sorta di Dio, che crea, plasma i personaggi, ne decide la vita o come stroncarli è un’idea comune e che si applica alle narrazioni che hanno un narratore di III persona, esterno, che osserva e descrive tutto, che conosce tutto ciò che racconta e che proprio per questo motivo è onnipresente, onnipotente e stabilisce ogni cosa. Al termine di Espiazione, romanzo di Ian McEwan, veniamo a sapere che tutto quello che è stato raccontato sin lì è il romanzo scritto dalla protagonista stessa della storia che, consapevole di essersi comportata come un unreliable narrator e ormai anziana, decide di dire la verità. Così Briony autrice-Briony personaggio-McEwan narratore sono un’unica persona. L’anziana scrittrice conclude nelle ultime pagine con alcune asserzioni interessanti all’oggetto di questo saggio: «Come può una scrittrice espiare le proprie colpe quando il suo potere assoluto di decidere dei destini altrui la rende simile a Dio? Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui possa fare appello, per riconciliarsi, per ottenere il perdono. Non c’è nulla al di fuori di lei. E’ la sua fantasia a sancire i limiti e i termini della storia. Non c’è espiazione per Dio, né per il romanziere; nemmeno se fossero atei. E’ sempre stato un compito impossibile, ed è proprio questo il punto».[4]

Il resto della storia di Misery – che non ho intenzione di svelare – è molto avvincente e perfettamente in linea con le tematiche care a Stephen King; il riferimento al romanzo era necessario per sottolineare come la confusione tra realtà e rappresentazione della realtà in un soggetto psicologicamente instabile origina una serie di avventure cariche di suspense che allettano il lettore, coinvolgendolo completamente. Quasi che l’autore abbia voluto dire, silenziosamente, che chi confonde il personaggio di un romanzo con il mondo reale è molto probabile che finisca per mettersi nei guai o lo fa perché è pazzo.

Forse la combinazione più riuscita di persona-personaggio si ha in un testo autobiografico in cui l’autore, che è anche il personaggio della storia che racconta, narra della sua vita. Si tratta di una cronistoria fedele alla sua esistenza e aggiornata fino a quel momento che, tuttavia, non può sostituire né uguagliare il suo reale e materiale percorso di vita. E’ però un esempio lampante di come l’autore sia anche protagonista della storia. Il narratore onnisciente che racconta extradiegieticamente la storia dall’esterno ha la capacità di creare un personaggio, un’entità, che, in fondo, non è altro che se stesso. E’ evidente in questo caso come la vita e la scrittura si fondano in un tutt’uno e tale discorso rimanda direttamente alla questione dell’autobiografismo. Esulando una biografia, i critici sostengono che è innegabile che in un qualsiasi testo che viene scritto ci sia qualcosa di proprio, di personale, di affettivo legato all’autore, anche se questi lo negherà. Si conclude, dunque, che uno scritto qualsiasi, sia esso biografia o non, è intessuto a partire da una serie di motivi che appartengono all’animo, all’esperienza o al comune sentire dello scrivente. Si tratta – a rigor di logica – di un procedimento passivo, che ricade cioè sullo scrittore in maniera volente o nolente. Chi racconta qualcosa (una storia, un avvenimento, una barzelletta) mette indeliberatamente qualcosa che gli appartiene (il modo, la tecnica, l’enfasi, la struttura,..) consegnando così all’ascoltatore un messaggio finale che è la somma del corpo verbale di comunicazione con l’apporto personale del parlante:

messaggio finale = corpo verbale di comunicazione + apporto personale del parlante

 

E’ su queste considerazioni che si sono sviluppati i prolifici studi su alcuni aspetti delle culture subalterne, sul loro folklore e su come la cultura popolare, legata principalmente alla forma orale di comunicazione, ha modificato nel tempo storie, leggende, racconti, sostituendo termini, inserendo dialettalismi, modificando la struttura, le desinenze, l’andamento o addirittura il significato di un componimento tanto da portare nei giorni nostri alla presenza di numerose varianti di una ballata a seconda dei dialetti regionali, locali e dei gerghi più definiti e marcati delle aree provinciali. Ad esempio si prenda in considerazione la grande quantità di varianti (non solo dialettali, ma anche tematiche) della celebre ballata di “Donna Lombarda”,  che racconta di una donna tradita che tenta di avvelenare il marito assieme all’aiuto dell’amante. La presenza e la testimonianza di varietà differenti nate per filiazione da un testo unico è esemplare di quanto l’attività orale delle classi popolari fosse potente nel rimodellare, ricreare, aggiornare e creare nuove storie. Il discorso, ovviamente, è ampio e rimanda alla nota e certificata teoria che vede nel tempo (diacronie) e nello spazio (diatopie) le categorie fondanti alla base del cambiamento di stili di vita, linguaggi (o addirittura lingue), comportamenti etc.

Riprendendo però la formula esposta sopra e tenendo in considerazione gli studi sull’intertestualità[5] e la comparativistica, è doveroso aggiungere nella formula almeno un altro elemento importantissimo, sebbene a volte sottointeso e celato, che è quello della intertestualità e della citazione. I critici e gli studiosi della letteratura postmoderna (Fredric Jameson negli Stati Uniti, Remo Ceserani in Italia, solo per citarne alcuni) hanno studiato attentamente i vari aspetti dell’intertestualità: la citazione, la parodia, l’umorismo, la satira, la riscrittura[6] mettendo in evidenza come un nuovo testo è sempre la scrittura di un qualcosa originale assieme alla presenza di temi o riferimenti noti, colti o di rimando. Il poemetto metafisico The Waste Land di T.S. Eliot, pietra miliare della poesia modernista inglese, è ad esempio un’opera complessa e che ha nella completezza delle varie sezioni un senso e un significato proprio (per il quale è uno dei testi più studiati nei settori accademici di Anglistica) ma è allo stesso tempo una elaborata cascata di citazioni e riferimenti ad altri testi letterari: a volte rimandi espliciti, altre volte un po’ più velati, compito del lettore riscontrarli. Il procedimento intertestuale, metaletterario, è spesso un fenomeno involontario e spontaneo mentre altre volte ha il chiaro motivo di voler celebrare un grande del passato. Nel mio saggio “L’edenico e il demoniaco”[7] ho accennato al fatto che ad esempio il romanzo The Lord of the Flies (1945) di William Golding è sicuramente una delle fonti che stanno alla base del romanzo breve The Cement Garden (1978) di Ian McEwan, come pure ebbe modo di riconoscere l’autore in varie interviste. Si tratta, però, di un procedimento innocuo[8] e significativo con il quale leggendo un libro di X, leggiamo anche qualcosa di Y, Z,… Quindi, tenendo conto di questo aspetto, che non ha niente di irrilevante, la “formula” enunciata sopra diventa:

messaggio finale = corpo verbale di comunicazione + apporto personale del parlante + riferimenti intertestuali (espliciti o impliciti)

Dovendo spiegare la formula su una base che utilizza il concetto di tempo, potremmo riassumere:

messaggio finale = testo + Passato/ Presente dell’autore + Passato/ Presente di altri autori

cioè, detta in soldoni,

messaggio finale = nuovo + vecchio

e questo ci riporta, dunque, all’inizio di tutta la discussione qui proposta su come, in effetti, quando parliamo non diciamo mai niente di completamente nuovo, di inedito e originale ma ricopiamo qualcuno, ci rifacciamo ad altri, rivisitiamo una formula, utilizziamo un detto, ci appropriamo di un linguaggio che non è nostro. Il risultato, come si è visto, è però fatto dalla somma di più elementi che sono onnipresenti, necessari, ineliminabili e che assieme contribuiscono alla produzione del messaggio finale.


[1] Centrale è a questo riguardo il saggio “Modern Fiction” di Virginia Woolf contenuto in The Collected Essays of Virginia Woolf (Benediction Books, 2011, pp. 192).

[2] «Non può essere morta!» gli strillò in faccia Annie Wilkes. Stringeva e apriva i pugni sempre più concitatamente. «Misery Chastain non può essere morta!» in Stephen King, Misery, Sperling & Kupfer, 1991, p. 39.

[3] Ivi, p. 41.

[4] Ian McEwan, Espiazione, Torino, Einaudi, 2001, p. 380.

[5] Si analizzi l’opera di Julia Kristeva, linguista bulgara che coniò il termine di “intertextuality” spiegandolo come  “connessione tra testi diversi”. Consigliata la lettura del manuale The Portable Kristeva scritto da Oliver Kelly (Columbia University Press, 2002, pp. 512).

[6] Il procedimento della riscrittura (rewriting), più comunemente definito in inglese americano mash-up, è una tecnica molto impiegata negli ultimi venti anni dagli scrittori contemporanei. Questi ultimi partono da un testo noto al grande pubblico (spesso un classico di grandi dimensioni), per giungere a una rivisitazione, a un adattamento, a una riscrittura, a un ri-racconto da una nuova prospettiva (facendo parlare un nuovo personaggio), secondo una nuova sensibilità (la stessa storia ambientata nell’800 convertita in una storia ambientata nello spazio) o convertendola in un nuovo genere (una storia d’amore vittoriana convertita in un macabro horror-fantasy). In un mio saggio dal titolo Jane Eyre, una rilettura contemporanea (Lulu Edizioni, 2011, pp. 102) ho analizzato da vicino come alcuni scrittori, partendo dal mother text di Charlotte Brontë abbiano elaborato nuove storie, alcune originali, altre un po’ meno, producendo una grande filiazione di questo romanzo tra riscritture, parodie, prequels e sequels.

[7] “L’edenico e il demoniaco”, Sagarana, La Lavagna del Sabato, 21-03-2012.

[8] “Innocuo” nel senso che non dà origine a problemi di licenza di diritti personali nel caso in cui il rimando viene fatto in maniera originale o velato o nel caso in cui si riporta un estratto di un altro libro con indicata la fonte. Se, invece, tale procedimento viene utilizzato in maniera invasiva e sconsiderata si pongono problemi di plagio. Il plagio non è che l’abuso indiscriminato e illegale di un testo che appartiene ad un altro. Si tratta sempre di un processo intertestuale ma lesivo e giuridicamente condannato. Ad esempio nella mia tesi di Laurea Magistrale dal titolo “Comportamenti devianti e spazi claustrofobici nella scrittura di McEwan” ho riportato la cronaca che bollò l’autore inglese come plagiarist nell’occasione dell’uscita del suo romanzo Atonement nel 2001 che, nella seconda parte, presentava riconoscibili e allarmanti assonanze con l’autobiografia della scozzese Lucilla Andrews, No Time for Romance. In quel caso l’autore mostrò chiaramente che le accuse erano infondate e che negli Acknowledgment aveva citato direttamente l’opera della stessa scrittrice alla quale si era rifatto.

a cura di Lorenzo Spurio

 

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